martedì 28 aprile 2015

Hopfanatic Trance India Pale Ale

Per una volta posso saltare l’introduzione e passare direttamente alla sostanza; non sono riuscito a reperire nessuna informazione su Hopfanatic, un birrificio ungherese aperto nella primavera del 2013 a Kiskunhalas, 150 chilometri a sud di Budapest, affiancato poi da una seconda location nella capitale ungherese, ovvero un brewpub in piazza Hunyadi (Hunyadi Tér). 
Sito web in costruzione, pagina Facebook rigorosamente in ungherese così come i pochi articoli che ne parlano in internet.  Eppure, da quanto leggo con l’aiuto di Google Translator, chi beve al brewpub rimane piuttosto soddisfatto; il fondatore, e credo birraio, dovrebbe essere Kiss Tamas. 
Il nome (Hopfanatic) è un chiaro indirizzo sulle birre che vengono prodotte: luppolo, luppolo e ancora luppolo, con qualche Imperial Stout a rompere la monotonia. Una ventina le birre prodotte, tra le quali mi capita una bottiglia di Trance, una India Pale Ale dall’etichetta non particolarmente ben riuscita la cui ricetta prevede malti Pilsner, Crystal e Chocolate, e luppoli Centennial, Willamette e Chinook. Secondo Ratebeer ne esiste anche una versione analoga a bassa fermentazione, quindi una IPL - India Pale Lager.
Ambra opaco è il suo colore, con qualche riflesso arancio, velato: la cremosa schiuma color avorio è quasi indissolubile e molto compatta.
L'aroma è piuttosto dimesso e stanco: c'è un po' di marmellata d'agrumi, qualche ricordo di aghi di pino, sentori di erbe officinali ed erbacei (ricordo di marijuana).  Lascia un po' a desiderare la pulizia: un po' di metallo e un'accentuata mineralità. L'inizio è poco promettente e la birra non si risolleva certo al palato: ingresso di caramello e poi subito una botta amara piuttosto intensa e sgraziata, resinosa, vegetale e pepata, con il risultato di una birra immediatamente sbilanciata sull'amaro, che si beve a fatica e piuttosto lentamente. La chiusura prosegue in linea retta contribuendo ad affliggere il bevitore, aggiungendo altre componenti vegetali, erbacee e resinose, con un discreto warming etilico. Ne bevo un po' e verso buona parte della bottiglia del lavandino, davvero difficile continuare la bevuta di una IPA troppo amara, senza nessun equilibrio o per lo meno supporto all'abbondante luppolatura. A suo parziale discapito una data di scadenza non molto lontana (giugno) che però non mi dice molto su quanto è stata imbottigliata. Terza delusione su tre birre ungheresi: en plein
Formato: 33 cl., alc. 7%, scad. 18/06/2015, pagata 2.12 Euro (beershop, Ungheria).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 27 aprile 2015

Duvel Tripel Hop 2015 (Equinox)

Non è passato neppure un anno dall’assaggio della Duvel Tripel Hop 2014  che sono già a parlare della 2015. Questa volta sono riuscito a mettere le mani su di una bottiglia con un po’ di anticipo rispetto allo scorso anno, e a solo un paio di mesi dal suo lancio sul mercato avvenuto lo scorso marzo.  
La "storia" della Duvel, la più famosa se non l'archetipo delle Belgian Strong Ales l'avevo già riassunta in questa occasione; una birra nata negli anni 20 del secolo scorso per far concorrenza alle Scotch Ales inglesi che erano molto richieste dai bevitori belgi. Inizialmente ambrata, la Duvel cambia colore negli anni '70 - di nuovo - per andare incontro al mercato, che vedeva la birre ambrate in forte declino rispetto a quelle dorate, ormai preferite dai consumatori. Non sorprende affatto, negli ultimi anni, la nascita di una "sorella" più luppolata della Duvel, che l'affianca, per andare nuovamente incontro al gusto dei consumatori, che si sta lentamente spostando – come ammette il birraio   Hedwig Neven  - verso birre più amare e luppolate. 
La Duvel Tripel Hop nasce come "one-shot" bel 2007: ai due luppoli che vengono utilizzati per la Duvel normale (Saaz e Styrian Goldings) viene aggiunto l'americano Amarillo. Il risultato piace, ma alla Moortgat non intendono replicarlo; pare che ci siano volute una "campagna" su Facebook e 12.000 firme raccolte dagli appassionati belgi di “De Lambikstoempers" per convincere il birrificio a rimetterla in produzione. La Duvel Tripel Hop torna sugli scaffali nel 2012, ma al posto dell'Amarillo c'è il Citra, come terzo (luppolo) "incomodo". La birra trova una sua collocazione ben precisa; sarà prodotta una volta l'anno con un "terzo" luppolo diverso. Il 2013 è stato l’anno del Sorachi Ace, seguito nel 2014 dall’americano Mosaic.  La scelta 2015 è invece caduta sul luppolo Equinox, sviluppato dagli americani della Hop Breeding Company e un tempo noto con il nome sperimentale HBC 366. 
Di colore oro pallido velato, la Duvel Tripel Hop 2015 forma una generosa testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L’aroma è pulito ed ancora fresco e permette di cogliere alcune delle caratteristiche derivante dal dry-hopping di Equinox: abbondano gli agrumi (lime, limone, mapo e cedro), c’è una leggera speziatura di pepe verde che ben si sposa con quella del “nobile” Saaz, qualche sentore erbaceo ed una componente più dolce che ricorda il cedro candito. Nessuna sorpresa al palato:  le bollicine sono vivaci come in ogni Duvel, il corpo è medio con una scorrevolezza ed una facilità di bevuta tipicamente belga che lascia sorpresi, se si pensa alla gradazione alcolica dichiarata (9.5%).  Dopo l’ingresso di pane e di crackers il gusto vira deciso verso gli agrumi coprendo l’ampio spettro che comprende scorza, sciroppo e candito; il gusto è sempre ben bilanciato, la chiusura ha una buona secchezza ma soprattutto l’alcool è nascosto in modo incredibilmente subdolo. Il finale è discretamente amaro, un po’ erbaceo e un po’ zesty, ed è solo nel retrogusto che si avverte un lieve tepore etilico, unica amichevole avvisaglia alla moderazione necessaria perché quella che hai nel bicchiere non è esattamente una session beer. 
Duvel-Moortgat  fa grandi numeri che in questo caso non significano assolutamente rinuncia alla qualità: la Tripel Hop è uno dei pochi esempi di Belgian Strong Ale generosamente luppolata che funziona e che mi convince a pieno. Il prezzo, anche italiano, è poi una  manna e fa impallidire quello di molte concorrenti, incluse le nostre esose artigianali, e mi spiace un po' dirlo: è arrivata da qualche settimana nei supermercati, ha una shelf-life di un paio di anni ma non fatela aspettare se volete cogliere l’apporto del dry-hopping di Equinox, destinato a svanire molto prima del 2017.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, lotto 11205 202, scad. 01/2017, pagata 2.69 Euro (supermercato, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 26 aprile 2015

Evil Twin Yin


Chi è stato in Irlanda o di questa terra (e della sua birra) è appassionato sarà familiare con il termine "black and tan". Vi basta dire queste tre parole in un pub per ricevere una pinta nella quale convivono una parte di Guinness Stout e una parte di una birra "chiara", solitamente la Harp (ma altrettanto frequente è l'uso della Bass).
La tradizione è poi stata ripresa in pieno dai nuovi protagonisti della cosiddetta rivoluzione artigianale: solitamente si usa la parola "blend", che da quanto mi ricordo andavano un po' più di moda qualche anno fa.   Proprio da quel periodo nacque il "black and tan" della beerfirm ex-danese ed ora americana Evil Twin, ovvero il gemello cattivo di Mikkeller che all'anagrafe fa Jeppe Jarnit-Bjergsø.
Evil Twin prende a prestito la terminologia taoista e realizza due birre come le due forze primordiali opposte della religione: Yin e Yang.  La prima è una robusta (10%) Imperial Stout, mentre la seconda e un'altrettanto potente (10%) Imperial IPA.  Le birre uscirono nel 2011, e se non ricordo bene nel 2012 si trovavano in Italia abbastanza facilmente: le potevate bere anche singolarmente, ma chiaramente la loro massima espressione si raggiungeva mescolandole nel bicchiere. Per facilitare i bevitori più pigri, uscì poco dopo anche il Taiji, ovvero l'interazione tra le due forze contrapposte già pronta, a completare il famoso Taijitu: il blend già pronto, Yin & Yang, una Imperial Black IPA o una Imperial Stout superluppolata, a voi la scelta. 
Data la mia naturale avversione per una Double IPA della quale non conosco la data di nascita e che arriva dagli Stati Uniti attraversando l'oceano, lasciandone al di là la sua imprescindibile freschezza, mi sono accontentato della metà oscura, la Imperial Stout Yin. 
Realizzata presso la Two Roads Brewing Company (Stratford, Connecticut), si presenta sontuosa e completamente nera con un perfetto cappello di schiuma beige molto fine e compatta, cremosa, dalla lunga persistenza. All'aroma non vi è di certo quella ricchezza e quell'intensità che t'aspetteresti da una robusta Imperial Stout: poche emozioni, profumi un po' dimessi di caffè e tostature, mirtilli, liquirizia. Al palato il "gemello cattivo" nega un po' le sue radici scandinave per sposare la sua seconda patria a stelle e strisce: non c'è quella corposità e viscosità tipica delle imperial stout dell'estremità settentrionale dell'Europa. Il corpo è medio, con poche bollicine ed una consistenza quasi oleosa, più simile a quella di molte imperial stout americane: la scorrevolezza sacrifica un po' la morbidezza. Il gusto è amarissimo, anch'esso di colore nero: caffè, intense tostature, cioccolato amaro. L'alcool è abbastanza ben sotto controllo, ed è piuttosto il tasso d'amaro (e di noia) a rendere lenta l'evaporazione dal bicchiere; nel finale le amare note resinose della luppolatura accompagnano e braccetto le tostature, cercando di ripulire un po' il palato e di portare un po' di sollievo con l'acidità del caffè, ma non basta. La bevuta batte incessantemente sugli stessi tasti dell'amaro/tostato, senza tregua, senza equilibrio: i primi due sorsi sono anche gradevoli, ma il resto del bicchiere è una sfaticata. E' una Imperial Stout molto semplice alla quale manca una controparte dolce, almeno minima: in rete leggo delle descrizioni abbastanza diverse dalla mia, quindi è possibile che mi sia capitata una bottiglia poco rappresentativa della birra. O forse è davvero necessario "tagliarla" con la sua metà chiara, la Yang.
Formato: 35.5 cl., alc. 10%, lotto 195:14 14:39, scad. non riportata, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 25 aprile 2015

HOMEBREWED! Postino Brewery Materia Oscura

Eccoci arrivati all'appuntamento mensile con HOMEBREWED!, le vostre produzioni casalinghe; gradito ospite del mese è ancora una volta l'homebrewer Giancarlo Maccini, alias "Gianpostino", attualmente residente a Londra; Quattro anni di homebrewing alle spalle, socio MoBi e della London Amateurs Brewers, ha scelto per il "birrificio" casalingo il nome "Postino Brewery", con un logo semplice che richiama gli annunci pubblicitari degli anni '60. 
Dall'Inghilterra arriva finalmente una classica birra anglosassone, dopo che nello spazio dedicato all'homebrewing sono transitate soprattutto produzioni americaneggianti come (american) IPA e APA: si tratta di una Old Ale  al segale e miele chiamata Materia Oscura.
La sua ricetta prevede abbondante utilizzo di malti di segale (Crystal e Roasted), malto d'orzo Pale e Carafa 1, miele di castagno e un unico luppolo, il Pacific Gem. 
Materia Oscura tiene fede al suo nome arrivando nel bicchiere di colore ebano scurissimo, praticamente nero; la schiuma beige è generosa e quasi indissolubile, compatta, a trama fine, molto cremosa. Al naso c'è una netta predominanza del miele, che viene però accompagnato da sentori di caramello e mou, ciliegia sciroppata, pane nero tostato, mela verde e qualche suggestioni di frutti rossi di bosco. Intensità e pulizia ci sono, mentre volendo essere pignoli il miele ruba un po' troppo la scena agli altri compagni di viaggio.
La generosissima e irrequieta schiuma è preludio ad un'abbondante ed eccessiva carbonazione: peccato, perché per una volta che le bollicine si sono calmate c'è una birra dal corpo medio e morbida, molto gradevole al palato. Il gusto segue quanto anticipato dall'aroma, riproponendo pane tostato, caramella mou e miele, il cui dolce viene ben bilanciato dal finale amaro, terroso e leggermente tostato, con un'apparenza di caffè. In bocca miele è il meno invadente che nell'aroma con il risultato di una bella bevuta, intensa e pulita, senza difetti o off-flavors. L'alcool si mantiene sempre in sottofondo, riscaldando quanto basta solo a fine corsa e regalando quel morbido tepore che lascia un bel ed appagante ricordo di questa atipica interpretazione di una Old Ale.
Questa la mia (umile) "valutazione" secondo il BJCP Beer Scoresheet:  37/50 (aroma 8/12, aspetto 3/3, gusto 15/20, mouthfeel 3/5, impressione generale 8/10).  Ringrazio Giancarlo per avermi sfatto assaggiare la sua produzione; e ricordate che la rubrica HOMEBRWED! è aperta a tutti i volenterosi homebrewers!
Formato: 33 cl., alc. 7.9%, imbottigliata 01/05/2013.

venerdì 24 aprile 2015

To Øl Yeastus Christus


Ammetto  che mi sarebbe piaciuto assaggiarle tutte e tre assieme, queste birre della beerfirm danese To Øl, per fare un po’ il giochino del “trova la differenza”.  Tre Saison o Farmhouse Ales, come va un po’ di moda chiamarle adesso, tutte abbondantemente luppolate e tutte rifermentate in bottiglia con i Bretta(nomiceti) che vanno altrettanto di moda adesso: Snowball Saison 8%, Sans Frontière 7% e Yeastus Christus 7.4%. Il caso ha voluto che le assaggiassi a distanza di parecchio tempo, rendendo quindi impossibile un (malizioso) confronto: rimane solo in me il ricordo di tre birre “molto simili” tra di loro, assecondando le strategie di marketing di To Øl. Novità, novità e novità, poco importa se ciò significa solo leggere variazioni della stessa ricetta. 
Veniamo dunque alla novità, almeno per quel che mi riguarda, visto che questa Yeastus Christus ha in realtà debuttato nell’estate del 2013, vestita da un’etichetta (de gustibus) che racconta frammenti della vita di Cristo e realizzata come al solito da Kasper Ledet.  Il birrificio la descrive “farcita di luppoli e batteri lattici. E’ vivo Gesù? Non lo sappiamo. Ha avuto dei discendenti che oggi sono ancora vivi) Non lo sappiamo. Ma siccome Dio ha creato ogni cosa, potete chiamare questa birra una collaborazione on Dio.” Di questa creazione quasi divina ne esiste anche una versione “SuperSour”, che viene invecchiata 9 mesi in botti ex-Chardonnay. 
Il colore si trova tra l’arancio ed il ramato, opaco: la schiuma che si forma è generosa e compatta, a trama fine e cremosa, color avorio, molto persistente. Al naso di questa “Farmhouse IPA“ prevale nettamente la luppolatura, azzerando completamente l’espressività del lievito saison. C’è in evidenza l’ananas (questo potrebbe provenire dai Brettanomiceti), parte di una piaciona, ruffiana e ricca macedonia che comprende melone retato, fragola, pesca, albicocca. Il gusto si muove sugli stessi binari, con una base maltata (biscotto) a sorreggere la generosa impalcatura fruttata (di nuovo ananas e melone, pesca, arancio) che in questo caso risulta anche zuccherina. Il dolce è comunque ben bilanciato dall’acidità, c’à una vivace carbonazione a movimentare la bevuta, che però risulta forse un pelino più pesante del dovuto; insomma, Yeastus Christus non ha la bevibilità assassina di un’altra Belgian Ale brettata ed ben luppolata come ad esempio la Orval. Il carattere rustico o “farmhouse” che dir si voglia arriva un po’ troppo tardi, a fine corsa, nell’amaro che chiude il percorso: un po’ terroso e ruvido, ma subito ingentilito dalla scorza del limone e dall'erbaceo ed impreziosito dal pepe. Una birra pulita al naso ed in bocca ma che si perde un po' nell'anonimato, anche all'interno dello stesso sterminato portfolio di To ØL, senza regalare grosse emozioni: di quelle  che se te le trovi nel bicchiere le bevi con gusto, ma che poi non le torni a cercare
Formato: 33 cl., alc. 7.4%, lotto non riportato, scad. 23/06/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 23 aprile 2015

Oltrepó Castana

Con ormai oltre 900 soggetti operanti in Italia, secondo le cifre di Microbirrifici.org, sono sempre più frequenti i “debutti” sulle pagine del blog. 
Ecco quello del giovane Birrificio Oltrepò, attivo dalla primavera del 2014: il nome è una chiara indicazione della sua localizzazione (l'Oltrepò Pavese), anche se al momento si tratta ancora di una beerfirm. Il progetto è comunque di mettere in funzione un proprio impianto appena possibile, ed in questo senso sono già in atto i lavori di ristrutturazione di una vecchia officina meccanica nelle colline di Valverde. Un birrificio che non è ancora tale, ma che onestamente riporta in etichetta di produrre attualmente le birre presso il Birrificio Opera di Pavia. 
Titolare del progetto è Sergio Cristiani assieme a tre altri soci con l’aiuto, per quel che riguarda le ricette, dell’esperto birraio Maurizio Cancelli. In questo anno di vita sono state prodotte due birre:  “Oltre”, una Golden Ale “gateway beer” volutamente semplice e accessibile (soprattutto per chi non ha ancora incontrato la cosiddetta “birra artigianale”) e “Castana”, una birra al miele di castagno fornito da produttori locali dei boschi di Valverde. In arrivo c'è una saison al miele di tarassaco e pepe che sarà presentata in maggio.
La "Castana" ha ottenuto una sorprendente medaglia d’argento all'esordio nella categoria 25 (Birre al Miele) nell’ultima edizione di Birra dell’Anno, arrivando dietro all’Oasi del Birrificio Rurale e davanti alla Mielika di Baladin. Ed è proprio questa birra che il birrificio mi ha gentilmente invitato ad assaggiare. 
All’aspetto è di colore ambra scarico, tendente al ramato, opalescente, e forma un bel cappello di schiuma biancastra, compatta e cremosa, molto persistente. L’aroma è elegante e pulito, nettamente caratterizzato dal miele, accompagnato da sentori floreali e soprattutto da quelli di frutta tropicale e pesca nettarina portati dal dry-hopping di Galaxy. Al palato, almeno secondo il mio gusto, pecca un pochino di carbonazione ed una maggior quantità di bollicine le avrebbe dato maggior vivacità; la birra è scorrevole e facile da bere con una buona presenza al palato, morbida. Premetto di non essere un gran consumatore/amante di miele e raramente acquisto birre aromatizzate al miele: questa Castana però mi ha sorpreso per la sua freschezza, lontana da qualsiasi velleità dolciona ed appiccicosa che qualcuno potrebbe associare al miele.  Anzi, bevuta fresca (leggasi “a bassa temperatura“) si rivela dissetante e rinfrescante, con la base maltata di biscotto e lieve caramello a supporto del miele. Nonostante questo sia molto caratterizzante, la birra riesce comunque a mantenere un buon equilibrio con qualche richiamo di frutta tropicale, una lieve acidità che contribuisce a snellirla e un finale leggermente amaricante di frutta secca che si porta in dote anche una suggestione di castagna. Man mano che la birra s’avvicina alla temperatura ambiente si fa strada un morbido tepore etilico che ben si amalgama con il miele, regalando un retrogusto dolce che riscalda e soddisfa. La birra è pulita e ben fatta, con un accostamento molto riuscito tra miele e tropicale che, complice anche una bottiglia abbastanza giovane, funziona davvero bene. Una bella sorpresa e una medaglia d’argento a BdA 2015 meritata, per quel che valgono i concorsi nei quali spesso avvengono exploit estemporanei che poi non trovano seguito: al  Birrificio Oltrepò spetta quindi ora la parte più difficile, quella di confermarsi nel tempo. 
Un piccolo appunto devo però farlo: va bene che l'abito non fa il monaco, ma siamo nel 2015 e la grafica dell'etichetta mi ha riportato indietro nel tempo di un bel po' di anni. Un aspetto più curato e moderno sarebbe auspicabile: ammetto che non mi avrebbe mai convinto all'acquisto, vedendola sullo scaffale di un negozio, oltretutto con quel "birra doppio malto" in bella vista.  Ringrazio  il birrificio per avermi inviato la bottiglia da assaggiare.
 Formato: 75 cl., alc. 6.4%, lotto 149/2014, scad. 08/01/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 22 aprile 2015

Fóti Romanov Imperial Stout

Secondo appuntamento con  l’Ungheria, e di nuovo con il Birrificio Artigianale Foti (Fóti Kézműves Sörfőzde) di Fót, nei dintorni di Budapest. Viene fondata nel 1994 dal birraio Gyenge Zsolt, e dopo una quindicina d’anni passati a produrre birre “classicamente tedesche ” dal 2010 sono arrivate anche le prime “novità”. Tra le prime due produzioni del nuovo corso di Foti , prima delle IPA & Co., ci sono state due “gateway beer” che potrebbero essere un’accessibile via d’ingresso alla cosiddetta birra artigianale per chi viene da anni di lager industriali: una Zwickl e la Keserű Méz. La gamma produttiva “moderna” si è poi progressivamente ampliata e, nel 2014, è arrivata anche una imperial stout dal robusto contenuto alcolico (12%). 
Prodotta con sei diversi  tipi di malto e tre luppoli, viene dedicata alla dinastia dei Romanov ed in particolare a Nicola II, ultimo imperatore di Russia  il cui ritratto è rappresentato in etichetta. Nato nel 1868, Nikolaj Aleksandrovič Romanov viene incoronato nel 1896, alla morte di  Alessandro III, zar di tutte le Russie e Basileus della Chiesa Ortodossa russa. Il suo “mandato” non inizia nel migliore dei modi, visto che nel corso dei festeggiamenti muoiono 1400 persone schiacciate dal crollo di argini e impalcature.  Potete leggere la sua biografia ovviamente su Wikipedia;  dal punto di vista brassicolo, mi pare interessante sottolineare il legame tra Nicola II e Grigorij Efimovič Rasputin, prete e mistico russo, consigliere privato dei Romanov e figura molto influente su di lui.  Anche a  Rasputin sono infatti state dedicato due Imperial Stout, una dagli americani della North Coast e una da De Molen, quest’ultimo costretto a cambiare poi il nome almeno per le bottiglie commercializzate negli Stati Uniti. 
Romanov Imperial Stout di Fóti, dunque: vestita di nero, forma una bella testa di schiuma beige, compatta e cremosa, molto persistente. Il naso presenta ancora il lieve strascico di una generosa luppolatura (pino e resina), ma per il resto c‘è davvero poco, o almeno non quello che vorresti annusare quando apri una bottiglia di una birra che dovrebbe essere “importante” per struttura e gradazione alcolica: un pochino di frutti di bosco, orzo tostato e liquirizia. Quest’ultima diventa la vera protagonista del gusto, trasformando però una Imperial Stout in una specie di bomba di liquirizia: c’è poco spazio per le tostature e per qualche ricordo di prugna disidratata. Sorprende un po’ per la sua leggerezza al palato, considerando la gradazione alcolica (12%): l’alcool è ben nascosto facilitando la bevuta ma facendo anche desiderare un po’ di struttura, di calore etilico che non arriva quasi mai: poche le bollicine, medio il corpo. Ma il problema maggiore di questa Romanov non è questo: è la sua deriva di liquirizia, la sua discreta astringenza finale e una nota salmastra che sporca ulteriormente un gusto già non particolarmente elegante di suo. I cinquanta centilitri della bottiglia si trascinano piuttosto stancamente, e si riescono a finire solo con un po' d'impegno e con una tavoletta di cioccolato amaro a portata di mano.
Il secondo incontro con il birrificio Fóti si è rivelato piuttosto deludente, forse anche più del primo.
Formato: 50 cl., alc. 12%, scad. 14/07/2015, pagata 4,41 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 21 aprile 2015

Poretti 9 Luppoli Witbier & India Pale Ale

Mentre negli Stati Uniti la cosiddetta birra “artigianale” (o di qualità) in lattina si sta diffondendo sempre più, e anche in Inghilterra alcuni piccoli birrifici hanno iniziato a “inscatolare” la birra, nel nostro paese non c’è ancora nessuno che ha tentato questa strada; troppi alti i costi d’acquisto di una linea produttiva e troppo elevati i numeri che bisogna poi fare per renderla redditizia, senza considerare le maggiori difficoltà tecniche correlate alla procedura di “messa in lattina”. Lo scenario italiano si completa con un calo generale del consumo di birra all’interno del quale continua però a crescere la cosiddetta “birra artgianale”; le grandi multinazionali non possono certamente stare a guardare senza fare nulla, ed ecco che mettono in pista le prima contromisure per invertire il trend e riguadagnare quote di mercato. Tra le multinazionali operanti nel nostro paese c’è la Carlsberg che possiede il marchio Birrificio Angelo Poretti, quello che nel corso degli ultimi anni più si è avvicinato al mondo “artigianale” andando oltre le semplici definizioni “doppio malto”, “birra chiara/rossa” e iniziando ad utilizzare una terminologia più appropriata, con riferimento a precisi stili brassicoli e materie prime utilizzate. 
Oltre a chiamare le proprie birre “4, 5, 7, 8, 10 luppoli” (ricordo che il numero non coincide assolutamente con quelli poi utilizzati in realtà) si fa riferimento a “Saison” e,  da poco, a Witbier e India Pale Ale. Complice l’imminente Expò di Milano, del quale è  “birra ufficiale del Padiglione Italia”, la Poretti ha proprio in queste settimane lanciato due nuovi prodotti, disponibili solamente in lattina, un formato pratico e strategicamente funzionale vicina stagione estiva (spiaggia, pic nic, scampagnate..). Devo però dare una tirata d'orecchie all'ufficio marketing/comunicazione del birrificio:  le due birre si trovano già sugli scaffali dei supermercati ma sul sito ufficiale di Poretti non compaiono ancora. 
Partiamo dalla 9 Luppoli Witbier, uno stile che non è certamente noto per l’abbondante luppolatura,  ma che è una scelta produttiva non casuale in quanto (e me lo confermano alcuni gestori di beershop) è uno tra gli stili più richiesti dalla clientela: quasi ogni birrificio (artigianale) italiano ha nella sua gamma una “birra bianca” o una “blanche”; sulla lattina si fa però comunque riferimento ad un luppolo predominante (sic.) in particolare, il Sorachi Ace, reso “celebre” in Italia da Bruno Carilli (un ex Carlsberg!) con la Zona Cesarini di Toccalmatto. 
Perfetto il suo colore giallo paglierino opalescente, con un bianchissimo cappello di schiuma, cremosa e compatta, molto persistente. L’aroma (pulito e di discreta intensità) offre scorza d’arancio e banana, la freschezza acidula del frumento, una leggera speziatura di coriandolo, una suggestione di menta.  In bocca pecca un po’ di bollicine, che in numero maggiore le avrebbero senz’altro donato più vitalità: è leggera e scorrevolissima, con un’intensità non male per una birra industriale: ritornano la banana e l’arancio, qualche nota di cereali e il tutto sfuma veloce in un finale che è però  un po’ troppo acquoso e sfuggente, che stride un po' con il resto della bevuta nella quale questa Witbier aveva mantenuto una buona presenza palatale. Con una leggerissima nota amaricante erbacea nel retrogusto, è una blanche che svolge onestamente la sua missione di dissetare e rinfrescare, guadagnandosi (direi ampiamente) la sufficienza. Un po’ meno favorevole il discorso prezzo:  5,42 Euro al litro sono pochi rispetto ad una “artigianale italiana”, ma  con un po’ di fortuna ogni tanto si trovano nei supermercati delle blanche/witbier belghe ad un prezzo uguale o forse inferiore.
Il mio parere sulla 9 Luppoli India Pale Ale è invece abbastanza impietoso: ambrata, di una limpidezza un po’ inquietante, forma un bel cappello di schiuma ocra, compatta e cremosa, anch’esso dalla buona persistenza. Al naso c’è una fastidiosa nota metallica che va ad impreziosire un aroma già di suo abbastanza dimesso, sebbene sia in lattina soltanto dallo scorso marzo: il Cascade citato sulla lattina si sente a malapena, con qualche remoto profumo di agrumi e di pino; l’aroma predominante, se così si può dire, mi ricorda piuttosto il terriccio umido, il sottobosco. Il naufragio di questa nave diretta verso le indie (cito il falso mito sulla nascita delle IPA) si completa al palato dove c’è tanta, troppa acqua e poco, troppo poco gusto: si avverte un pochino di biscotto, forse di caramello, ancora un po’ di fastidioso metallo e un pochino di marmellata d’agrumi. Il corpo è medio-leggero, con una spiccata acquosità e poche bollicine: abbastanza sgraziato il finale amaro (il cui livello è ovviamente nei limiti della tollerabilità anche di un palato non abituato a tanti IBU), erbaceo e leggermente terroso che non si fa mancare una leggera astringenza.  Se la Saison bevuta qualche tempo fa e la Witbier di Poretti non mi erano tutto sommato dispiaciute, questa India Pale Ale è venuta davvero male e non m’invoglia certo al riacquisto, nonostante la lattina parli di una "personalità esplosiva grazie al bouquet speciale di luppoli (tra i quali è) predominante il Cascade, il luppolo più ricercato dai birrifici statunitensi".
Continua quindi la mia personale ricerca di una birra italiana “da battaglia” a basso prezzo, di buona qualità, da potersi portare in spiaggia, nello zaino, ovunque: al momento non sono ancora riuscito a trovare niente di soddisfacente.
Nel dettaglio:
Poretti 9 Luppoli Witbier, alc. 5,2%, lotto J15077W, scad. 01/03/2016, pagata 1,79 Euro (supermercato, Italia) 
Poretti 9 Luppoli India Pale Ale, alc. 5.9%, lotto J15077S, scad. 01/03/2016, pagata 1,79 Euro (supermercato, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 20 aprile 2015

Birrificio del Ducato La Luna Rossa Cuvée 2010

La Luna Rossa ha parte della linea produttiva che il  Birrificio del Ducato ha chiamato “il Tempo”, dedicata alle “lunghe attese” ed alle “rivelazioni acide”. Una complessa ed elaborata creazione che arriva sul mercato per la prima volta nel 2011 (Cuvée 2009): visto che nessuno meglio del suo creatore può descriverla, ecco le parole del birraio Giovanni Campari: “La Luna Rossa è una birra che si può in un qualche modo avvicinare ad una kriek su base Flemish red (…)   è la birra che impiega più tempo prima di uscire dal birrificio. Si parte da una base acida (la Chrysopolis, ndr.) che ha fatto almeno 2 anni di fermentazioni miste (condotta prevalentemente da batteri lattici, brettanomiceti e batteri acetici) su cui hanno macerato almeno 6 mesi amarene e marasche, tagliata con una piccola parte di L’Ultima Luna (a sua volte passata in botti di Amarone per due anni con aggiunte di marasche Morello, ndr.) e una parte di birra giovane; il blend viene messo in bottiglie numerate indicanti anche l’anno della cuvée, le quali affinano ulteriori 12 mesi prima di essere vendute.” 
La Luna Rossa nasce quindi da un complesso ed attento blend di più birre prodotte in modo diverso ed invecchiate in botti diversi, con una ulteriore maturazione di 12 mesi in bottiglia prima della messa in vendita. Qui trovate una breve video-intervista di Fermento Birra a Giovanni Campari nella quale si parla proprio de La Luna Rossa.  La tecnica produttiva ed il tempo necessario si riflettono purtroppo anche sul prezzo di questa Luna Rossa, che sul sito del birrificio viene venduta a 33 euro al litro al quale dovete anche aggiungere le spese di spedizione.
La bottiglia di oggi è millesimo 2010, messa in vendita a partire dal 2012; bottiglia numerata (4626, nel caso specifico) avvolta in una splendida etichetta che sembra quasi raccontare la storia di questa birra, a partire dal bambino che raccoglie i frutti (le amarene, le marasche) direttamente dall’albero per poi lasciare che sia il tempo (le botti) a fare la maggior parte del lavoro. 
E’ di colore ambrato, opalescente, con sfumature più chiare,  ramate, ed altre più scure che rimandano al rubino; quello che si forma in superficie non è esattamente schiuma, ma piuttosto un assieme di piccole bolle che svaniscono alquanto rapidamente. Al naso c’è un’interessante complessità sviluppata quasi completamente in territorio acido: aceto di mela, asprezza di amarene, marasche e ribes con in sottofondo lievi sentori di legno e quasi “dolci” di frutti di bosco, amarene caramellate e, ancora più nascosta, una lievissima ossidazione che suggerisce vini liquorosi. 
Mi è capitato di bere La Luna Rossa anche alla spina, di giovane età, e devo ammettere di averla trovata troppo spinta sull’acetico per i miei gusti; diverso è il discorso di questa bottiglia che ha passato qualche ulteriore anno in cantina e che si è un po’ ammorbidita: rimane sempre una birra che non consiglierei ad un palato poco abituato all’acido, perché la bevuta risulta comunque impegnativa, benché ampiamente soddisfacente. Il gusto ricalca in buona parte quanto promesso dall’aroma: accanto all’aspro di amarena e marasca, all’aceto di mela e al lieve lattico ci sono in secondo piano note legnose e soprattutto degli splendidi contrappunti dolci (le ossidazioni derivanti dal blend con L’Ultima Luna) di vino liquoroso, di Porto, che quasi per magia entrano ed escono di scena. La bevuta risulta molto più accessibile a temperatura ambiente, quando l’alcool diventa più evidente aiutando a contrastare l’asprezza e portando uno morbidissimo warming etilico; la bottiglia non ha praticamente scadenza (anno 2050) e sarebbe davvero interessante disporre della pazienza di lasciare qualche bottiglia in cantina per scoprire, magari tra un decennio, che cosa è cambiato. 
Per il resto, quanto vorrei aggiungere è stato già perfettamente scritto da Stefano Ricci un paio di anni fa, peraltro su di un esemplare della stessa annata che nel mio caso il tempo ha un po’ ammorbidito. E’ una birra dal costo impegnativo che crea grosse aspettative senza però risultare esente da qualche “vizio”: l’acetico al naso effettivamente sconfina occasionalmente nel silicone, così come in bocca fa ogni tanto capolino a fine corsa una nota sanguigna che rovina un po' la magia.
Formato: 33 cl., alc. 8%, bottiglia 4626 anno 2010, scad. 12/2050.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 19 aprile 2015

Stillwater Stateside Saison

Nuovo appuntamenti con Stillwater, la beerfirm americana che corrisponde al nome di Brian Strumke, la cui storia la trovate qui. Dopo la Why can't IBU, facciamo un passo indietro e ritorniamo alla birra con la quale il marchio ha debuttato, nel gennaio del 2010. La Stateside Saison veniva a quel tempo prodotta presso gli impianti della Dog Brewing a Westminster mentre oggi, grazie all'aumento dei volumi, si è spostato alla Two Roads Brewing Company di Baltimore, sempre nel Maryland. Ne sono anche state  realizzate due versioni alternative, disponibili solamente in cask; una affinata in botti di rovere che hanno ospitato vino Chardonnay e un altra affinata in botte con calendula e bacche di schisandra. 
Restiamo alla versione "base", una saison che si allontana un po' dalla tradizione europea per l'utilizzo di luppoli statunitensi e neozelandesi; la sua bella etichetta è - come molte altre Stillwater - opera di Lee Verzosa, amico di Strumke nonché graphic designer e tatuatore.
All'aspetto è di colore oro carico, quasi limpido: la schiuma, bianca e "croccante", è compatta e cremosa ed ha un'ottima persistenza. L'aroma  offre un benvenuto pulito e davvero invitante: prima le spezie (pepe e coriandolo), poi i fiori e la frutta (mandarino, banana, arancio, pesca, albicocca). In sottofondo ci sono anche i profumi della crosta del pane, qualche tocco di uva e di frutta tropicale; un naso che sprigiona una freschezza lievemente acidula ma anche una leggera rusticità data dalla presenza della paglia e di qualche nota terrosa.
In bocca il carattere rustico viene invece messo da parte per far spazio ad una maggiore eleganza, un po' piaciona, caratterizzata da tanta frutta (pesca, papaya, mango, arancio) che domina su tutto, pur non impedendo di cogliere il contributo dei malti (pane, miele) e la stessa speziatura dell'aroma (pepe e coriandolo). Il dolce fruttato è notevole e va a pregiudicare un po' la scorrevolezza della bevuta, ma è comunque ben bilanciato dall'acidità, da una vivace carbonazione che solletica e pulisce il palato e da un finale amaro abbastanza intenso composto da note erbacee, officinali (timo? alloro?) e scorza di agrumi. Una Saison intensa e molto ben fatta, con la giusta secchezza ed una ottima intensità: mi sembra una buona compagna da sorseggiare a tavola, piuttosto che da bere in quantità seriale, in quanto il suo potere dissetante e rinfrescante, come detto, è un po' limitato dal "fruttone dolce", godibile e gustoso ma un po' ingombrante. 
Formato: 35,5 cl., alc. 6.8%, lotto 301:14 09:29, pagata 5.40 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 17 aprile 2015

Fantôme Dark White

Aprire una Fantôme è sempre un’esperienza: l’estroso e imprevedibile  birraio Dany Prignon fa si che ogni birra, anche se porta lo stesso nome, può essere completamente diversa dall'altra. In teoria dovresti sapere cosa c’è nella bottiglia, ma quando la versi nel bicchiere ti potresti accorgere che è completamente diversa, magari anche nel colore, da quella che avevi bevuto poche settimane prima. Alcune bottiglie, soprattutto se le acquistate direttamente in Belgio, non riportano lotto di produzione, data di scadenza e neppure la gradazione alcolica:  la costanza produttiva non è certamente il punto forte di questo birrificio belga, le cui produzioni spesso oscillano tra il capolavoro ed il disastro. Ultimamente, devo riconoscerlo, i disastri sono pochi. 
Prendiamo ad esempio questa bottiglia di Dark White, che rappresenta in tutto e per tutto quanto ho appena scritto: nessuna informazione in etichetta su alcool, lotto e scadenza; mi affido a Ratebeer che mi conduce alla BBB Dark White, etichetta praticamente uguale non fosse per l’assenza delle tre consonanti. Ne dichiara un ABV del 4.5%, e subito mi pento di averla dimenticata in cantina per qualche mese, in quanto non sembra certamente una birra da invecchiamento. Approfitto allora di una di queste insolitamente calde giornate primaverili per aprirla e rimediare alla colpa: mi aspetto un birra leggera, rinfrescante, probabilmente acidula e più o meno bruttata. 
Il suo nome (Bianco Scuro) si  traduce in una birra che nel bicchiere appare intensamente ambrata ed opaca, con qualche riflesso ramato; la schiuma ocra è molto generosa e cremosa, compatta, molto persistente. L’aroma è dolce, fatta eccezione per una leggera punta di lattico, ed ha una buona intensità fatta di biscotto e toffee, zucchero caramellato e  quel “fragole con la panna” che è un po’ il marchio di fabbrica delle migliori Fantôme. Impossibile invece credere al palato che questa sia una “session beer”  dall’ABV del 4.5%:  ormai sono in ballo e me la gioco, accusando un po’ il colpo a fine bottiglia. A posteriori trovo su un sito di un importatore brasiliano che la Dark White avrebbe un ABV del 10%: ipotesi plausibile.  Il gusto offre caramello, uvetta,  prugna sotto spirito e zucchero candito per un inizio piuttosto dolce che viene poi miracolosamente bilanciato da una perfetta acidità e da una nota quasi impercettibile di mandorla amara. L’alcool non si avverte più del dovuto, e la bevuta procede con una velocità abbastanza pericolosa:  quando la birra si scalda emerge qualche nota vinosa, e nel retrogusto anche un lieve torrefatto che sia porta dietro una suggestione di cioccolato, il tutto accompagnato da un tiepido e morbido alcool warming, enfatizzato dal pepe, la cui presenza si era peraltro  già fatta sentire in modo meno evidente per tutta la bevuta. Questa Dark White risulta in verità un po’ più complessa da decifrare, benché piuttosto pulita in bocca: mi sono affidato a dei descrittori “familiari” che non le rendono completa giustizia e non coprono tutto il suo intricato percorso gustativo. Non è la migliore Fantome che ho bevuto, ma il risultato è comunque molto godibile.
Formato: 75 cl., alc. 10% ?, lotto e scadenza non riportati, pagata 7.60 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 16 aprile 2015

Fóti Keserű Méz

Oggi debutta sul blog non solo un nuovo birrificio, ma una nuova nazione: l’Ungheria. Una breve vacanza a Budapest mi ha dato l’occasione di entrare in contatto con i primi passi della “craft beer revolution” che anche in questo paese sta iniziando ad accelerare i propri passi. Non è facile trovare informazioni approfondite in internet, ma di microbirrifici in Ungheria ne sono sempre esistiti, anche se le loro produzioni hanno principalmente ricalcato gli stili proposti dalle industriali, ovvero basse fermentazioni d’ispirazione tedesca. E’ solo a partire dal 2010 che i microproduttori hanno iniziato a seguire la strada già intrapresa da altri paesi europei, cercando soprattutto di imitare le produzioni americane, che peraltro iniziano ad essere importate.
A partire dal  2011, all’interno della suggestiva cornice del castello di Buda, si tiene ogni anno il Főzdefeszt, un festival che riunisce molte realtà ungheresi, macro e micro: sono così arrivate le prime APA e IPA, le prime imperial stout , qualche tentativo di imitare la tradizione belga e tutto quello che abbiamo già visto in Spagna, Francia, Scandinavia e Germania, ad esempio. A Budapest (qui trovate un bel report di sul blog di Mobi) sono oggi attivi almeno un paio di brewpub e diversi pub o locali con una buona selezione di microbirrifici. 
Il poco tempo a disposizione non mi ha purtroppo consentito di esplorare le spine di locali  che per ovvi motivi di costo non si trovano troppo vicine alle attrazioni turistiche, ma sono comunque riuscito a mettere in valigia una decina di bottiglie per provare alcuni produttori locali. Devo ammettere che l’acquisto si è svolto un po’ alla cieca, visto che queste birre non vengono esportate e non sempre presentano informazioni comprensibili in etichetta per chi non parla ungherese: in assenza della dichiarazione di stile (IPA, Imperial Stout) diventa arduo capire che cosa ci sia nella bottiglia.  
La prima realtà ungherese di una piccola serie che incontrerò nelle prossime settimane è chiamata Fóti Kézműves Sörfőzde  (letteralmente “Foti Artigianale Birrificio”) con sede a Fót, località situata venti chilometri a nord-est di Budapest. Viene fondata nel 1994 dal birraio Gyenge Zsolt, e dopo una quindicina d’anni passati a produrre birre “classicamente tedesche ” dal 2010 sono arrivate anche le prime “novità”. Tra le prime due produzioni del nuovo corso di Foti , prima delle IPA & CO., ci sono state due “gateway beer” che potrebbero essere un’accessibile via d’ingresso alla cosiddetta birra artigianale per chi viene da anni di lager industriali: una Zwickl e la Keserű Méz, la birra di oggi.
Keserű Méz  (letteralmente “Miele amaro”, dove Méz  è il miele) è una strong lager abbondantemente luppolata con luppoli tedeschi (Spalter e Magnum): il suo nome s’ispira al suggestivo film di Roman Polanski “Luna  di fiele” e la birra debutta proprio al primo Craft Beer Festival ungherese Főzdefeszt del 2011 citato in precedenza e viene distribuita in bottiglia da maggio 2012.  Viene descritta come “la risposta ungherese alle American Pale Ale”, con una bellicosa etichetta dalla quale pallottole di luppolo escono dalla pistola impugnata da una bella ragazza: l’etichetta riporta anche scritta italiana “birra artigianale ungherese”, quindi non so se la birra in questione sia mai arrivata nel nostro paese in qualche modo. 
Bel colore oro velato, con qualche riflesso arancio: la schiuma è biancastra, compatta, cremosa e dalla trama fine, con un’ottima persistenza. Il naso però non è molto rappresentativo di quanto raffigurato in etichetta: luppolo zero (ma proprio zero), l’aroma è una bella versione (comunque fragrante)  di una classica lager industriale: cerali, mollica e crosta di pane, un accenno di miele e, rilevo, diacetile.  In bocca è morbida e mediamente carbonata, con una leggera cremosità che rallenta un po’ la bevuta ma, trattandosi di una strong lager, ci può stare. Neppure il gusto è molto amico dell’etichetta: di nuovo pane, leggero biscotto e miele,  con una buona fragranza ma anche una discreta presenza di diacetile che aumenta drammaticamente all’alzarsi della temperatura. Nonostante la chiusura discretamente secca, ed un finale erbaceo non proprio elegante (lievissima gomma bruciata) ma in qualche modo “ripulente”, questa Strong lager fallisce il suo intento di dissetare e rinfrescare. 
Noto una buona ed apprezzabile fragranza della parte maltata, mentre è abbastanza disastrosa la parte luppolata che, secondo le intenzioni dichiarate che leggo in rete, doveva tradursi in una Lager fruttata, un po’ agrumata e  - presumo -  un po’ ruffiana.  A sua parziale discolpa, una data di scadenza piuttosto prossima (luglio 2015) che però non mi dice molto sull’età di questa bottiglia: può darsi che il birrificio dia una scadenza breve, a sei mesi o meno (e in questo caso non ci sarebbero scuse) o può darsi che mi sia capitata una bottiglia in giro da troppo tempo con il conseguente deterioramento dell'aroma e del sapore del luppolo. In ogni caso, la mia prima bevuta ungherese non è andata esattamente bene, anzi.
Formato: 50 cl., alc. 6%, scad. 31/07/2015, pagata 3.16 Euro (beershop, Ungheria).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 15 aprile 2015

Mystic Table Beer

Altro debutto sul blog, quello del birrificio Mystic di Chelsea, periferia di Boston, Massachusetts. Viene fondato da Bryan Greenhagen e la moglie Emily nel 2011, ispirati da un viaggio di nozze in Belgio: Bryan si lascia alle spalle una quindicina d’anni di  (medagliato) homebrewing  e un dottorato in Agraria al Massachusetts Institute of Technology per mettere in piedi quello che non è esattamente un birrificio, ma che si potrebbe simpaticamente definire un “fermentificio o (fermentorium)”. 
Il mosto delle birre viene infatti prodotto altrove (soprattutto alla Pioneer Brewing di Sturbridge) e viene poi trasportato alla Mystic dove viene messo a fermentare: “ho preferito investire il tempo e soprattutto i soldi nello sviluppo di un ceppo di lievito e nell’acquisto di botti, piuttosto che su un impianto per fare la birra” ammette Bryan e “al tempo stesso abbiamo anche iniziato a coltivare lieviti spontanei, che crescono qui, si adattano nell’ambiente in cui lavorano e pian piano si stabilizzano”. 
In società entra da subito al 50% il birraio Adam Threlkeld, plurimedagliato ex-homebrewer  nonché giudice certificato BJCP;  l’ultimo arrivato a dare una mano è il birraio Alastair Hewitt, eletto nel 2008 homebrewer dell’anno del New England e nel 2009 Master Championship of Amateur Brewing
Visto l’amore per il Belgio, Mystic debutta a maggio 2011 omaggiandone la tradizione con la Mystic Saison. Proprio nelle scorse settimane Bryan Greenhagen ha annunciato un piano di espansione che porterà all’installazione di un vero e proprio impianto produttivo, operativo da maggio 2015, e nuovi spazi che permetteranno di quadruplicare le possibilità di affinamento i botte (si parla di un migliaio). 
“Figlia” in un certo senso minore della Mystic Saison del debutto è la Table Beer, se non erro prodotta da inizio 2013, e ispirata alla “birre da tavolo” a bassa gradazione alcolica che venivano consumate al posto della poco salubre acqua nei secoli scorsi. In verità la gradazione alcolica (4.3%) di questa Table Beer non è particolarmente “bassa”, se la confrontiamo con quella che era ad esempio la media nel secolo diciannovesimo, intorno al 3%. 
Si presenta di colore arancio pallido, opaco, ed una bella testa di cremosa schiuma bianca, fine e compatta, dall’ottima persistenza. Il naso è dominato dal lievito proprietario della casa (Renaud) e offre un bouquet abbastanza intenso e piuttosto pulito composto da spezie (pepe, coriandolo, un tocco di zenzero), scorza d’arancio, banana e miele, lieve crosta di pane. C’è anche una leggera e familiare nota acidula che, sebbene l’etichetta non riporti la lista degli ingredienti, mi sembra sia derivante dell’utilizzo di una buona parte di frumento. In bocca arriva vivacemente carbonata e molto leggera, con un’acquosità evidentemente ricercata che però si traduce alla fine nella sensazione di una birra po’ sfuggente; non è indicata la data di produzione, ma il lotto “003” indicato in etichetta mi riporta ad inizio del 2014, con qualche ricerca in internet. Bottiglia poco fresca quindi, con oltre 12 mesi di vita che non sono certamente l’ideale per una birra dalla gradazione alcolica (4.3%) contenuta. Il gusto è pulito ma non particolarmente intenso, con pane, crackers, arancio, banana e una lieve speziatura di coriandolo: la “debolezza” si avverte soprattutto a fine corsa, dove questa Table Beer scappa via troppo veloce, quasi scomparendo, con un finale molto corto e fiacco dove s’intravede giusto una punta di amaro (scorza d’arancio, erba). 
Grande facilità di bevuta, bene la scorrevolezza, c’è complessivamente eleganza ma onestamente quello che manca è l’intensità, anche se si tratta di una birra “sessionabile”: gli esempi di birre dalla bassa gradazione alcolica e dall’ottima intensità non mancano (vedi ad esempio qui, qui, qui e qui, tanto per restare in tema belga) e quindi la bevuta di questa Table Beer risulta solamente discreta, almeno dopo un anno di vita. 
Formato: 75 cl., alc. 4.3%, IBU 21, lotto 003, scad. non riportata, pagata 9.62 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 14 aprile 2015

Schönramer Pils

Fino ad ora a della Private Landbrauerei Schönram, fondata da Jacob Köllerer nella omonima cittadina (Schönram) della Baviera meridionale, ho passato in rassegna solamente alcune produzioni in stile anglosassone, un po’ atipiche per un birrificio tedesco; rimediamo allora con una più classica Pils tedesca, tra l’altro fresca di medaglia d’oro ottenuta alla World Beer Cup 2014 nella Categoria 31, German-Style Pilsner, in mezzo ad altre 71 contendenti. 
Perfettamente dorata e limpida, forma un altrettanto impeccabile cappello di schiuma bianca, fine e compatta, cremosissima e molto persistente. Al naso, abbastanza pulito ma non particolarmente fragrante, ci sono sentori di miele e di fiori (soprattutto camomilla), crosta e mollica di pane, crackers, qualche note erbacea e con la delicata speziatura dei luppoli “nobili” (Spalter e Hallertauer Mittlefrüh nello specifico). 
Perfetta corrispondenza in bocca, per una birra che deve essere (e lo è) scorrevole e facile da bere, dal corpo leggero: forse ci sono un po’ troppo poche bollicine, almeno per il mio gusto. Ritornano pane e crackers, il leggero dolce del miele ed un finale amaro erbaceo dalla buona intensità che pecca però un po' di eleganza. 
Peccato anche per la lieve ma percepibile nota metallica che ogni tanto fa capolino sia alle narici che al palato.  Una pils dalla buona intensità che non mostra nessun segno di timidezza, neppure quando si tratta di pronunciare la parola amaro: le uniche pecche di questa bottiglia sono la scarsa fragranza (che possiamo scusare con una bottiglia in scadenza tra tre mesi) e la poca eleganza/finezza, che a pensarci bene sono però due caratteristiche fondamentali di uno stile così apparentemente semplice e "nudo".
Formato: 33 cl., alc. 5%, IBU 24, lotto 09:05, scad. 14/07/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 13 aprile 2015

Westvleteren Extra 8 (2012) vs. Rochefort Trappistes 8 (2012)

Qualche tempo fa organizzai una piccola “orizzontale” di tre Belgian Strong Ale (o Quadrupel, se preferite): le due trappiste Westvleteren XII e Rochefort 10 ed una che ha avuto molto in comune con la prima delle due: la St. Bernardus 12.   Dopo la “sfida” tra quei pesi massimi,  eccone una simile tra  pesi “medi”, se così vogliamo chiamarle: Westvleteren e Rochefort 8, entrambe imbottigliate nel 2012;  questa volta rimane fuori l’ottima St. Bernardus Prior 8, parente strettissima della Westvleteren, che purtroppo non avevo in cantina. La potete comunque trovare qui.

Partiamo dalla Westvleteren 8, conosciuta anche come Westvleteren Extra e, un tempo, come  St. Sixtus Prior 8; nata negli anni 30 del diciannovesimo secolo (1834 o 1839, a seconda delle fonti), è stata in seguito prodotta per oltre trent’anni a Watou presso la St. Bernard Brouwerij quando, al termine della licenza concessa, nel 1992 la produzione rientrò dentro le mura del birrificio di St. Sixtus. Più o meno in questo periodo avvenne anche un importante cambiamento nel ceppo di lievito utilizzato, arrivato dall’abbazia di Westmalle: il vecchio lievito “originale o quasi” di St. Sixtus continua invece ad essere utilizzato dalla St. Bernardus per la sua Prior 8. La ricetta dovrebbe completarsi  con malti Pilsener e Pale, saccarosio, zucchero candito e una luppolatura di Northern Brewer, Hallertauer e Styrian Golding (la fonte è il libro: Brew Like A Monk). 
La trappista Rochefort 8 condivide a grandi linee la stessa base delle sorelle 6 e 12: malti Pilsner ed  Monaco, due tipi di zucchero candito, chiaro e scuro, due tipi di luppolo, Styrian Goldings e Hallertauer. La sua età anagrafica è un po’ inferiore, e risale al secondo dopoguerra: allora il birrificio trappista non navigava in buone acque, con un vistoso calo di fatturato: i monaci dell’Abbazia di Notre-Dame de Scourmont (Chimay) inviarono in loro aiuto Jean De Clerck, il quale lavorò per un paio di anni fianco a fianco con i frati di Rochefort per la realizzazione di tre nuove birre: nel 1953 vide la luce la Rochefort 6, seguita da  La Merveille (oggi Rochefort 10) e, nel 1955, dalla Spéciale poi divenuta Rochefort 8. 
Entrambi i birrifici trappisti chiamano la propria birra utilizzando un semplice numero, 8:  di solito si chiama in causa l’utilizzo della scala Baumé (misura la densità di una qualsiasi soluzione acquosa), ma le cose potrebbero non essere così semplici. Ad ogni modo se nella Westvleteren 8 c’è attualmente una perfetta corrispondenza con la sua gradazione alcolica in percentuale, la Rochefort 8 ha oggi un contenuto alcolico maggiore (9.2%) del suo "numero": probabile che un tempo avesse una gradazione alcolica leggermente inferiore. 
Versiamole nel bicchiere: classico “tonaca di frate” per la Westvleteren 8, con splendidi riflessi rosso borgogna; da “manuale” è la schiuma beige chiaro che si forma, fine, cremosissima e compatta, dall’ottima persistenza. Un po’ meno bella la Rochefort 8, che non ha mai fatto dell’aspetto il suo punto di forza: ambrato carico, qualche riflesso ramato, piccole particelle di lievito in sospensione; identica la schiuma nell’aspetto e nel colore a quella della WV, ma le dimensioni e la persistenza sono minori. Molto elegante e raffinato il “naso” della Westvleteren: pera e ciliegia sciroppata, frutti rossi, caramello, frutta secca (nocciole, forse arachidi), albicocca disidratata, amaretto ed una suggestione di vino liquoroso; c’è un bell’equilibrio tra i diversi elementi che entrano ed escono di scena al variare della temperatura nel bicchiere, senza che ci sia un aroma dominante. E’ un po’ diverso il bouquet olfattivo della Rochefort, dove svetta su tutto la pera, lasciando in sottofondo i sentori di banana matura, le spezie (coriandolo), la prugna ed il caramello; il suo aroma è meno complesso e meno intrigante, ugualmente pulito, senz’altro più intenso e potente, con l’alcool che si fa leggermente avvertire. 
Entrambe hanno un corpo medio, ma al palato la Rochefort si fa notare per la sua maggiore viscosità e presenza: è meno carbonata, meno secca e più dolce della Westvleteren, che invece sfodera una facilità di bevuta impressionante  e  prosegue il percorso iniziato dall’aroma; caratterizzata da un equilibrio e da una pulizia impeccabile. E’ meno dolce del previsto:  biscotto, caramello, prugna e uvetta, frutta secca (nocciola) sono sostenuti da una vivace carbonazione e bilanciati da un finale sorprendentemente attenuato e una chiusura amaricante di mandorla con qualche leggera tostatura.   L’alcool è forse fin troppo ben nascosto, facendo timidamente capolino solamente nel retrogusto di frutta sotto spirito.
La maggior gradazione alcolica (9.2% vs. 8%) della Rochefort 8 si fa indubbiamente sentire, con una bevuta più “calda” e potente che non è comunque troppo difficoltosa, ricca di pera, caramello, biscotto, prugna e uvetta sotto spirito, e qualche leggerissima nota di porto che dopo tre anni dall’imbottigliamento inizia ad avvertirsi.  Qui è l’alcool a stemperare il dolce a fine bevuta, “asciugando” il palato: l’amaro (anche qui mandorla) è davvero solo accennato. Decisamente più ricco e lungo il retrogusto rispetto alla Westvleteren, dolce, avvolgente, con un morbido warming etilico di uvetta e prugna sotto spirito.
Due grandi birre, entrambe pulitissime ed equilibrate: più bella da vedere, più piacevole da “annusare” e più elegante e facile da bere (e ribere) la Westvleteren, più potente e impegnativa la Rochefort, con una bottiglia che è sufficiente per concludere la serata. Se dovessi decretare ai punti un vincitore, la spunterebbe però al fotofinish la Rochefort 8, soprattutto per una bevuta da fine serata;  se guardiamo al fattore reperibilità/prezzo non c’è invece partita, visto che la Westvleteren 8  paga il  pegno di  essere “sorella” di quella che viene assurdamente definita la “birra migliore del mondo”, la Westvleteren 12. In teoria la potreste acquistare solo al monastero (previa prenotazione telefonica) o al café adiacente: in pratica la trovate in molti negozi, anche on-line, a prezzi assolutamente ingiustificati e speculativi. 
Nei dettagli:
Westvleteren Extra 8, alc. 8%, imbott.  21/08/2012, scad. 21/08/2017, pagata 7,84 Euro (beershop, Belgio)
Rochefort 8, alc. 9.2%, imbott. 21/03/2012  08:02, scad. 21/03/2017, pagata 2.99 Euro (supermercato, Italia)
 
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 12 aprile 2015

Buxton Tsar

Chi segue regolarmente il blog e ha letto il post riassuntivo sulle migliori birre bevute nel 2014 avrà senz'altro notato il nome di Buxton, birrificio dell'omonima cittadina del Derbyshire fondato nel 2009 da Geoff e Debbie Quinn  e da me incontrato per le prima volta nel 2011. Merito della crescita di Buxton è senz'altro da attribuire anche al birraio Colin Stronge che nel corso del 2013 ha rimpiazzato James Kemp, dopo aver passato nove anni alla Marble di Manchester e due alla Black Isle in Scozia.
Non tutte le ciambelle riescono con il buco, ed anche "i migliori" a volte sbagliano; mi tocca quindi registrare la prima delusione di Buxton, e proprio con una delle loro birre maggiormente rappresentative, la Imperial Stout chiamata Tsar. Prodotta dal 2011,  ne esistono anche un paio di versioni barricate: difficile reperire la Special Reserve No. One, ovvero la Tsar affinata sei mesi in botti di rovere e commercializzata in sole 112 bottiglie durante le Olimpiadi di Londra del 2012. Più interessante la Tsar Bomba, che non ho mai visto in Italia ma che mi piacerebbe provare: si tratta della Tsar che viene affinata per nove mesi in botti nelle quali viene inoculato lievito recuperato da fondi di vecchie bottiglie della Courage Imperial Russian Stout.
Ma veniamo alla sostanza della Tsar "normale", dall'aspetto tutt'altro che impeccabile: completamente nera, forma una piccola testa di schiuma marrone piuttosto grossolana, di modeste dimensioni e molto poco persistente.
Anche l'aroma è molto poco invitante e dall'intensità dimessa: ci sono orzo tostato e mirtilli, ma anche evidenti sentori salmastri e di salsa di soia che rendono poco gratificante avvicinare le narici al bordo del bicchiere. In bocca arriva oleosa, con poche bollicine ed un corpo medio: il gusto è leggermente migliore, avvicinandosi alla decenza. Orzo tostato, caffè, cioccolato amaro per una bevuta che tuttavia risulta molto slegata e caratterizzata da un'acidità del caffè fin troppo evidente e abbastanza fastidiosa. Non soddisfa neppure il finale, con tostature intense prive di eleganza ed un leggero warming etilico. 
Bottiglia con grossi problemi e bevuta ahimé insufficiente: al prossimo incontro, se e quando avverrà.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, imbott. 08/04/2014, scad. 08/04/2019, pagata 5.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 11 aprile 2015

Stillwater Why Can't IBU?

Dopo qualche anno ricompare sul blog la beerfirm statunitense Stillwater Artisanal, della quale sono disponibili in Italia in questo periodo diverse birre. La beerfirm corrisponde al nome di Brian Strumke,  uno "zingaro" quasi per natura, e non solo quando fa il birraio, incapace di restare per più di qualche giorno fermo a casa. Terminato il college nella nativa Baltimora, Strumke inizia una carriera come produttore di musica elettronica, passando una buona parte del tempo viaggiando nei locali europei facendo il DJ di musica techno. Nel 2004 interrompe i suoi impegni musicali che lo avevano annoiato e ritorna a Baltimora per lavorare nell'ambito dell'Information Technology, iniziando a sperimentare con l'homebrewing nella propria cucina, con il desiderio di replicare le meravigliose birre da lui scoperte nel corso della sua permanenza "musicale" in Belgio. Utilizza sopratutto lieviti Saison, a suo dire gli unici che gli permettevano di fare birra in casa anche quando le temperature estive erano abbastanza elevate: la sua prima produzione all-grain è una Belgian Dark Ale allo zenzero che iscrive alla Holiday Homebrew Competition organizzata da Samuel Adams, arrivando sul podio e vincendo un viaggio al Great American Beer Festival. Alla National Homebrewing Competition ottiene un primo con un  Cabernet Sauvignon Lambic prodotto in casa.
Le cose si fanno più interessanti quando riesce a far assaggiare una sua birra a Brian Ewing della 12 Percent Imports, che ne rimane impressionato: Brian lavora a stretto contatto con i fratelli Bjergsø (Mikkeller ed Evil Twin), e quindi perché non tentare anche con un birraio zingaro americano ? 
Il debutto di Stillwater avviene nel 2010, dopo sei anni di pentole casalinghe, con la Stateside Saison prodotta presso la Pub Dog Brewing Company di Westminster, Maryland e l'anno successo Ratebeer lo annovera già tra i "Migliori nuovi birrifici nati nel 2010". Impressionante il numero di birre prodotte in soli cinque anni, a cavallo tra Stati Uniti ed Europa, inclusa una collaborazione in Italia con Extraomnes. Strumke è sempre in viaggio, mentre a Baltimora rimane la sorella Brenda ad aiutarlo e ad occuparsi della burocrazia e della parte amministrativa; le bellissime etichetta sono quasi tutte realizzate dall'amico Lee Verzosa, tatuatore e graphic designer. 
In assenza di impianti produttivi, l'attuale ed unica "casa" di Strumke è il pub/ristorante Of Love and Regret di Baltimora, dove potere bere un ampio numero di birre Stillwater e qualche ospite. Tra le 23 tap a disposizione non troverete volutamente nessuna IPA: la cosa più simile che potrete bere è una Belgian Ale abbondantemente luppolata chiamata Why Can't IBU? e realizzata negli impianti della Two Roads Brewing Company a Stratford, Connecticut. Il nome scelto potrebbe un riferimento con un gioco di parola alla omonima canzone dei Cure (Why Can't I Be You?), mentre per apprezzare completamente l'etichetta in 3D avrete bisogno di prendere a prestito gli occhialini del cinema.
Il suo vestito è tra il giallo paglierino e l'arancio pallido, velato: la bianca schiuma è piuttosto generosa, compatta, pannosa, molto persistente. L'aroma presenta un mix pulito e molto ben assemblato di note rustiche e frutta (limone, lime, scorza di mandarino, ananas acerbo), con in sottofondo sentori di fiori bianchi, paglia, cereali e una delicata speziatura donata dal lievito. Ottima intensità, profumi molto invitanti che trovano una degna corrispondenza al palato: corpo medio e vivacemente carbonata, questa Why Can't IBU? scorre con grande velocità senza scendere a compromessi con l'intensità. Su una base semplice di pane e crackers il gusto si sviluppa principalmente in territorio zesty, con abbondanza di scorza di agrumi (lime, limone, mandarino) e qualche nota più dolce di polpa d'arancio ed ananas, spezie (pepe). Pulitissima e molto attenuata, risulta piacevolmente spigolosa e un po' rustica/ruvida/ruspante grazie anche ad un azzeccata carbonazione che ben interagisce con i sapori, diffondendoli ed amplificandoli, risultando così una perfetta birra (estiva e non) rinfrescante e dissetante. Chiude perfettamente secca, lasciando un'elegante scia amara ricca di scorza d'agrumi e qualche sfumatura erbacea: Belgian Ale molto ben fatta, godibilissima e dall'impressionante bevibilità, ricorda molto alcune produzioni Extraomnes, giusto per darvi un punto di riferimento: per la prossima estate non dimenticatevi di lei, sarebbe un vero peccato.
Formato: 35.5 cl., alc. 5.7%, IBU 23, lotto 234:14 14:39, scad. non riportata, pagata 5.40 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.