sabato 31 ottobre 2015

Wild Beer Modus Operandi

La storia di Wild Beer Co. che avevo riassunto qui un paio di anni fa inizia a giugno del 2012, quando gli impianti del birrificio non erano ancora pronti e Brett Ellis ed Andrew Cooper fanno la loro prima cotta presso la Arbor Ales. L'idea di questa birra era venuta loro dopo aver assaggiato, al Great British Beer Festival, La Roja degli americani di Jolly Pumpkin, e qualche giorno dopo una bottiglia di Gales Prize Old Ale. Per un birrificio che sceglie di chiamarsi "Wild", la birra di debutto chiamata "Modus Operandi" simboleggia quello che sarà il loro principale processo produttivo: lieviti selvaggi, affinamenti in botte, blend di birra invecchiata e birra fresca.
Nello specifico, per realizzare questa Modus Operandi viene prodotta una Old Ale che inizialmente viene messa ad invecchiare in botti di bourbon. Il risultato finale non soddisfa completamente i birrai, che decidono allora di utilizzare anche botti ex-vino. Al momento della messa in bottiglia viene realizzato il blend che comprende birra fresca, birra invecchiata in botti ex-bourbon e birra affinata per 90 giorni in botti ex-vino, in compagnia dei batteri naturalmente presenti nel legno. 
Si presenta piuttosto torbida e di colore ambrato con qualche venatura rossastra; la schiuma è fine e cremosa ma la sua persistenza non è molto prolungata nel tempo. L'aroma è piuttosto invitante e molto ben assortito, ed è proprio la schiuma ad emanare i profumi migliori. Ci sono sentori di ciliegie, fragole e lamponi, frutti di bosco maturi, legno, vaniglia ed aceto balsamico, che vengono affiancati da quelli più aspri di visciole, aceto di mela e mela rossa. L'aroma è elegante e pulito, ma purtroppo svanisce quasi completamente assieme alla schiuma.  
Le aspettative (alte) si sono comunque ormai create ma il primo sorso di questa bottiglia mi riporta subito con i piedi per terra; il gusto è molto meno ricco ed intenso dell'aroma, rivelandosi piuttosto confuso ed incomprensibile. Mi riesce persino difficile descriverlo, e quando chi beve non riesce a parlare facilmente di quello che ha nel bicchiere le cose non vanno molto bene. C'è una sottile base dolce (caramello, ciliegia?) ma soprattutto una componente più aspra (aceto di mela) con qualche sconfinamento nel lattico. La bevuta si trascina in assenza d'intensità e di pulizia, in un qualcosa indefinito e slavato, quasi evanescente, fin troppo leggero per l'alcool dichiarato (7%); per una volta mi trovo davvero in difficoltà a parlare di quello che sto bevendo e che mi lascia molto deluso. 
Facendo il conto alla sesta bottiglia di Wild bevuta il risultato è perfettamente in parità: luci ed ombre, tre a tre. Un bilancio assolutamente non soddisfacente, non sono birre economiche e le possibilità che una bottiglia su due non sia proprio memorabile è troppo elevata. Molto bene Ninkasi ed Evolver IPA,  bene Epic Saison, da dimenticare tutto il resto che trovate qui; nell'attesa che il birrificio trovi quella fondamentale costanza produttiva, soprattutto per quel che riguarda i "blend" di birra giovane e barricata, andateci cauti e incrociate le dita, se proprio vi decidete ad acquistare.
Formato: 33 cl., alc. 7%, scaf. 16/05/2016, pagata 4.52 Euro (beeershop, Inghilterra).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 30 ottobre 2015

L'Artigianale al discount: Cask 65 Bruna & Arcana Red Ale

Di tanto in tanto mi piace ritornare sull’argomento “la birra artigianale al discount”, due concetti teoricamente contrapposti;  “birra artigianale” è stata infatti "inventata" con in mente target ambiziosi: ristorazione, esperienze gourmet, enoteche, eleganti bottiglie da 75 cl. che inizialmente ricordavano quelle del vino o dello champagne, prezzi elevati (anche per) caratterizzare e posizionare un prodotto in fascia “premium”. Solo in tempi più recenti, dopo lo scarso successo nell’ambito della ristorazione, la “birra artigianale” ha preferito rivolgersi ai suoi canali “tradizionali”, ovvero la birreria, il pub, il bar e il beershop, rimpiazzando o almeno affiancando il formato 75 con quello da 33. I prezzi non sono diminuiti, ma questa è un’altra storia. 
E’ curioso come un prodotto come la  “birra artigianale”  sia pian piano entrato anche nelle cerchie dei supermercati “discount”, dove difficilmente i prodotti “premium” trovano collocazione e dove la gente si reca soprattutto per comprare “quello che costa poco”. Ma è allora possibile trovare una “birra artigianale italiana”  (e sottolineo “italiana”, perché in altri paesi il problema non si pone) che sia buona e che costi poco?  Al momento la risposta sembrerebbe essere più no che sì: queste sono almeno state le mie impressioni derivanti da questo e questo assaggio.   Facciamo oggi un terzo tentativo con due birre che ho di recente avvistato per la prima volta sugli scaffali del discount. 
La prima è la Arcana Red Ale, commissionata dalla Target 2000 di Riccione e, sebbene non sia indicato in etichetta, prodotta dal birrificio Amarcord di Apecchio (PU): una “rossa” che va ad accompagnare la già esistente “bionda” Golden Ale, assaggiata lo scorso anno. Piuttosto bella nel bicchiere, ambrata, velata con venature ramate; la schiuma ocra è compatta e cremosa, con un’ottima persistenza. L’ idillio dura però poco: al naso un discreto diacetile e qualche sentore metallico mettono un po’ in ombra i sentori di toffee e di frutta secca (o “nutty", per dirla all’anglosassone). C’è quasi una suggestione di ciliegia e, quando la birra si scalda, di mela.  La pulizia non brilla neppure al gusto, ma nel complesso l’inizio della bevuta è accettabile, riproponendo biscotto, toffee, frutta secca e anche un lieve diacetile; abbastanza sgraziata è invece la chiusura, con un amaro tra il terroso e l’erbaceo poco elegante, leggermente astringente e lievemente bruciacchiato (gomma).  Indubbiamente un po’ migliore della sua sorella “bionda” , è un’ambrata dal vago carattere inglese non certo memorabile ma neppure imbevibile; l’avessi trovata al bancone del bar/pub a 5 Euro mi sarei probabilmente inca**ato,  ma la bottiglia di mezzo litro a  1,79 Euro  fa socchiudere gli occhi sui difetti e può essere un’opzione per bere qualcosa che ha un po’ più gusto di una blanda industriale senza dover arrivare ai soliti prezzi della “birra artigianale” italiana. In due parole, “quasi sufficiente”.
Più arduo il compito che deve affrontare la birra Cask 65 Bruna, prodotta dal birrificio cuneese Della Granda  per la linea “Mastri Birrai Italiani”  de “La Cantinetta” di un altro noto discount italiano: qui si entra in territorio Belga, dove il lievito è più che mai protagonista. Sorvolerei sulle trionfanti note descrittive del volantino pubblicitario (“Viaggio fra sapori autentici, tra tradizione ed innovazione, alla scoperta delle birre dei migliori Mastri Birrai Italiani” con “l’obiettivo di presentare una birra genuina e di altissima qualità, ad un costo contenuto rispetto ad altre dalle medesime caratteristiche”) per passare subito alla sostanza , non prima di ricordare i luppoli utilizzati: Spalter Select, Saaz, Magnum.  
Anche per questa birra il meglio arriva dagli occhi: ambrata e velata, bei riflessi rossastri e ramati, schiuma ocra, cremosa e compatta ma poco persistente. L'aroma è quasi inesistente, ma quel poco che c'è è dominato dall'acetaldeide (mela verde) e, impegnandosi, si può scorgere qualche sentore zuccherino e di caramello. Le cose vanno solo un pochino meglio al palato, ma non c'è nulla di cui essere contenti: biscotto, caramello, mela e pera vanno a comporre un gusto poco pulito, poco intenso che si rivela essere una sorta di amalgama di elementi privi di qualsiasi eleganza e fragranza. La chiusura di mandorla amara e nocciolo di pesca è piuttosto leggera, la birra slegata e un po' tropo watery, un pelino astringente, dove anche nel gusto c'è un po' troppa mela a far capolino; il retrogusto è piuttosto corto e la Cask 65 si congeda molto rapidamente con caramello e un lieve tepore etilico. Birra alquanto modesta che, onestamente, ho fatto piuttosto fatica a finire; alla fondamentale domanda "la ricompreresti?" la mia risposta sarebbe senz'altro di no. E questo a prescindere dal prezzo che, solo lui, mi riporta idealmente in un qualche supermercato belga. Si conclude anche questa terza puntata del "viaggio" tra le artigianali dei discount senza grosse lodi e con tanta mediocrità che sembra voler dire: volete bere bene? Lasciate perdere il discount.
Nel dettaglio:
Arcana Red Ale, formato 50 cl., alc. 6.7%, lotto 2091501, scad. 28/10/2016, pagata 1.79 Euro (3.58/litro)
Cask 65 Bruna, formato 75 cl., alc. 6.5%, lotto 4153/4, scad. 08/2017, pagata 3.49 Euro (4.65/litro)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 29 ottobre 2015

Zundert Trappist

L’estate del 2013 vedeva l’annuncio della nascita del nono birrificio trappista al mondo, il secondo in territorio olandese: si  tratta dei monaci dell’Abbazia Maria Toevlucht (ovvero “il rifugio di Maria”), nella località  Klein-Zundert, poco lontano dal confine con il Belgio. 
Il monastero sorse all’interno della fattoria De Kievit, acquisita dal signor Van Dongen dallo stato olandese per poi darla in affitto al fattore Bart Nouws. Nel 1899, alla morte di Van Dongen, gli eredi decisero di donare il terreno e gli edifici all’abbazia di Koningshoeven (La Trappe): da qui arrivarono due monaci e, il 24 Maggio del 1900, fu inaugurata la cappella del nuovo monastero nel quale una dozzina di monaci iniziarono a dedicarsi all’agricoltura, all’allevamento e alla vendita di prodotti caseari. Gli edifici attuali, che rimpiazzano la vecchia fattoria, risalgono al 1950 ma ci sono stati ulteriori ammodernamenti nel periodo 2002-2005.  
Negli ultimi venti anni il monaci si sono visti costretti a modificare le proprie attività, alcune di esse non più redditizie, e trovare nuovi metodi di autosostentamento: dalla fine degli anni ’60 è possibile pernottare all’interno del monastero e partecipare ai rituali di preghiera;  nel 1996 fu sospesa la produzione di caseari, nel 2009 terminò quella agricola e tutto il bestiame fu venduto. I terreni di proprietà del monastero furono affidati in gestione alla Natuurmonumenten, società olandese che si occupa di preservare siti naturalistici; nello stesso anno i monaci deliberarono che un nuovo potenziale mezzo di autofinanziamento era la costruzione di un birrificio. Dopotutto, a soli trenta chilometri di distanza ci sono i fratelli "belgi" trappisti di Westmalle, poco più in la quelli di Achel e, per restare in territorio olandese, La Trappe/ Koningshoeven: ed è proprio qui che due monaci di Zundert vengono inviati per imparare a fare la birra. Nel frattempo il sindaco di Zendert dà il suo benestare all’avvio dei lavori della costruzione del birrificio; allo studio d’architettura Oomen Architecten spetta il compito di studiarne la collocazione all’interno dei locali che un tempo ospitavano la fattoria; gli impianti sono invece forniti dai tedeschi di JBT.  I lavori iniziano il 24 ottobre 2012 e a fine giugno 2013 il birrificio è pronto ad entrare in funzione: si parte con una sola birra  che viene chiamata Zundert Trappist e le cui prime bottiglie arrivano sugli scaffali in dicembre.  
E’ ambrata, leggermente velata, e forma un bel cappello di schiuma ocra, cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Al naso una buona pulizia ed una discreta fragranza che si compone di profumi floreali, spezie (coriandolo?), suggestioni dolci di fragola e ciliegia, miele, pane e croissant, zucchero a velo.  Una “golosità” che si ripropone anche in bocca, con un gusto piuttosto dolce di biscotto e miele, pasticceria, zucchero candito e caramello, accenni di marzapane: sono le vivaci bollicine a stemperare un po’ la dolcezza, bilanciata poi da un finale lievemente amaricante (mandorla, erbaceo) e abbastanza asciutto. Il mouthfeel è ottimo, nonostante l’alta carbonazione questa Zundert non risulta affatto spigolosa ma è quasi morbida al palato. L’alcool (8%) mette fuori la testa dal nascondiglio solamente nel retrogusto, riscaldando un po’ il corpo (e l’animo) del bevitore con note  di frutta sotto spirito a concludere una bevuta soddisfacente che lascia un buon ricordo di sé. 
Un esordio già di buon livello quello dei frati trappisti di Zundert, con una Tripel intensa ma di facile bevuta  che, nonostante la giovane età, non sfigura affatto al confronto con le "storiche" trappiste. 
Formato: 33 cl., alc. 8%, lotto 02BO 08:21, scad. 02/02/2017, pagata 2.29 Euro (supermercato, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 27 ottobre 2015

SchuppenAas

Hobbybrouwerij Het Nest, ovvero “la culla”, beerfirm nata quasi per scherzo e diventata ora una cosa seria.  La fondano un gruppo di amici residenti a Turnhout e dintorni,  compagni sin dalle scuole superiori, inizialmente come un “circolo di degustazione” che li tenesse occupati nelle serate in cui mogli e fidanzate si riunivano nel loro “circolo di cucina”; in breve le donne imparavano a cucinare, gli uomini a bere. Gli incontri quindicinali fanno nascere in cinque di loro la voglia di seguire un corso per fare la birra e, soprattutto, la convinzione di poterla fare meglio della maggior parte di quelle che assaggiavano. E’ Bart Cuypers, oggi “presidente”  di Het Nest, a recuperare un po’ di attrezzatura per homebrewing di seconda mano e gli esperimenti con le pentole hanno inizio nel 2006; dopo qualche anno di pratica e d ifeedback positivo da parte di amici decidono di iscrivere la propria Tripel ad un concorso olandese, ottenendo il terzo posto tra le 92 partecipanti. E’ il trampolino di lancio per la nascita “ufficiale” della beerfirm, che produce i suoi primi 500 litri di  Schuppenboer Tripel presso il birrificio Boelens:  in seguito si appoggeranno agli impianti della Brouwerij Pirlot per le birre che vengono poi affinate in legno e alla Brouwerij Anders per tutte le altre. 
Alla Tripel, oggi chiamata Jack of Spades, si aggiungono le  blonde ale Queen of Diamonds (luppolata con Cascade) e King of Hearts (luppoli europei), le saison Turnhoutse Patriot e KoekeDam e la strong ale KlevereTien, prima tra le loro birre a finire in botte, seguita poi a breve distanza dalla Imperial Stout  Dead Man's Hand. Nel 2012 un centinaio di cartoni vengono importate per la prima volta  da Shelton Brothers negli Stati Uniti, e nello stesso anno Het Nest inizia a pianificare il suo futuro birrificio proprio, sul quale sono state effettuate le prime cotte alla fine dello scorso agosto. L’inaugurazione ufficiale – con apertura al pubblico – si è svolta lo scorso weekend del 24/25 Ottobre. Het Nest produce circa 700 ettolitri di birra, dei quali 600 in Belgio ed i restanti esportati verso USA, Olanda, Svezia, Danimarca, Spagna, Italia, Taiwan e Japan. 
Caratteristica di tutte o quasi le birre Het Nest è il legame con il mondo delle carte di gioco; la città belga di Turnhout è infatti centro mondiale di produzione di carte (grazie alla presenza dell’azienda Cartamundi): ecco ad esempio la SchuppenAas, ovvero l’Asso di Picche. 
Leggo in internet che si tratterebbe di un omaggio all’Orval;  in verità sul sito di Het Nest non c’è nessun riferimento a questo, e quindi potrebbe essere che il legame con la birra trappista sia solo un'operazione di marketing dei distributori o degli importatori. Di certo vi è che la SchuppenAas viene rifermentata in bottiglia con aggiunta di Brettanomiceti e riceve una luppolatura di Tomahawk e Simcoe. 
I lieviti “selvaggi” le donano una certa irruenza che si manifesta sin dal momento in cui la si versa nel bicchiere: bisogna avere un po’ di cautela per domare la schiuma color ocra, cremosa, compatta e molto persistente: il corpo è invece di colore ambrato chiaro e leggermente velato.  L’aroma è pulitissimo e apre con quei profumi di fiori bianchi che effettivamente mi ricordano l’Orval “giovane”; in secondo piano gli agrumi (polpa e scorza d’arancia, limone), il biscotto, qualche suggestione di fragola e forse lampone, di zucchero vanigliato. Il naso è molto elegante e pulitissimo, permettendo di cogliere anche la leggerissima presenza di acido lattico. Le vivaci bollicine segnano l'inizio di una bevuta piuttosto facile, ruspante e scattante, watery quanto basta: si parte tuttavia un po' troppo sul dolce, con le note di biscotto, di pane "zuccherato", canditi, mango e papaya molto in evidenza, ma fortunatamente l'asticella viene posta abbastanza rapidamente in equilibrio da una leggera acidità lattica e soprattutto dalla chiusura amaricante finale caratterizzata da tonalità terrose e vegetali, che ricorda in qualche modo l'Orval un po' più adulta pur non replicandone la stessa eleganza. 
Interessante questa SchuppenAas, anche se a mio parere ancora un po' incompleta; personalmente ho trovato troppo contrasto/antagonismo tra l'elevata dolcezza dell'inizio, frutta tropicale inclusa, che va un po' a scontrarsi con l'intensità dell'amaro terroso: i due elementi in alcuni passaggi sembrano quasi respingersi, anziché amalgamarsi. Splendidamente nascosto l'alcool (6.5%), è una birra un po' rustica e molto rinfrescante dall'evidente carattere belga che potrebbe tranquillamente rientrare in quella categoria di Farmhouse Ales che vanno molto di moda oggi. Il potenziale è molto buono ma ancora in parte inespresso, ora che Het Nest ha un impianto di proprietà sarà interessante vedere in quale direzione le birre potranno crescere.
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 44, scad. 04/11/2016, pagata 1.70 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 26 ottobre 2015

Founders Imperial Stout

Le “scure” alla Founders Brewing Co. (Grand Rapids, Michigan)  le sanno fare, non c’è che dire:  Porter, Breakfast Stout, KBS (e anche CBS)  sono tutte grandi birre che si sono guadagnate un’eccellente reputazione, e non solo sui siti di beer-rating. E, per quel che mi riguarda, poco importa che lo scorso anno Founders abbia ceduto il 30% delle proprie azioni al birrificio spagnolo Mahou San Miguel, del quale non posso parlare con altrettanto entusiasmo: finché Founders continuerà a mantenere i suoi elevati standard qualitativi, non mi scandalizzo di certo  per   l’accordo con un “nemico” industriale (benché ancora di proprietà della famiglia Mahou)  che ha consentito di racimolare le risorse finanziarie necessarie per completare il previsto piano di espansione da 40 milioni di dollari e rendere così maggiormente reperibili le proprie birre, anche al di fuori degli Stati Uniti. 
Assaggiate le tre “scure” citate in precedenza, all’appello mancava l’ Imperial Stout, birra la cui “fama” è probabilmente un po’ oscurata dall’hype che circonda le altre due “sorelle” (Breakfast e KBS) prodotte aggiunta di caffè. Per questa vengono invece utilizzate “solamente“ dieci varietà diverse di malto, che il birrificio ha però scelto di non rivelare; in etichetta regna sovrana l’aquila bicipite, simbolo araldico usato per la prima volta dall’imperatore romano Costantino I e, in seguito, anche dai Romanov... visto che parliamo di una  “Russian Imperial Stout”. Fu il matrimonio tra il primo imperatore russo  Ivan III e Zoe, nipote di Costantino XI, ultimo imperatore di Bisanzio, a consentire al primo di appropriarsi dei simboli bizantini. L’aquila bicipite, oltre a rappresentare il potete spirituale e temporale riuniti nelle disponibilità di una unica persona, simboleggiava anche le due parti del continente (Europa ed Asia) sulle quali si sviluppava la Russia; lo scudo sul petto dell’aquila  raffigurante il cavaliere che uccide il grado è l’antico stemma di Mosca di cui Ivan III era Granduca.
La Imperial Stout venne inizialmente prodotta da Founders solo occasionalmente ed in modeste quantità, in quanto la capacità del birrificio era tutta impegnata a soddisfare l’enorme richiesta di Centennal IPA e Dirty Bastard.  E’ soltanto a Novembre del 2007, quando viene inaugurata la nuova e più capiente sede produttiva che questa ed altre birre, come ad esempio la Porter, riescono a trovare maggior spazio, soprattutto per soddisfare le richieste provenienti dal New England e da alcuni stati della costa ad Est.  L’Imperial Stout di Founders diviene così un appuntamento fisso stagionale di ogni anno, solitamente disponibile nel periodo tra gennaio e marzo. 
Nel bicchiere è assolutamente nera ed impenetrabile alla luce, formando un compattissimo cappello di schiuma cremosa e color beige scuro, molto persistente. L’aspetto è “goloso” e il naso non si tira indietro, con un’intensità che si sprigiona non appena la bottiglia viene stappata:  i profumi sono quelli del fruit cake, del cioccolato amaro, del rum e del caffè, con in sottofondo delle lievi sfumature di cenere e di carne. Al palato il suo percorso inizia con una specie di carezza, ovvero la sensazione tattile: birra molto morbida, cremosa poche bollicine, corpo tra il medio e il pieno, buona scorrevolezza. Quella che inizialmente sembra una birra "mansueta" non impiega troppo tempo per tirare fuori muscoli ed artigli; Imperial Stout, molto, davvero molto intensa nelle tostature, nelle note di caffè amaro e di liquirizia, con solamente una leggera presenza di caramello bruciato a sostenerle. E le cose si fanno ancora più serie man mano che si arriva a fine corsa, dove all'intenso (ma elegante) amaro delle tostature si aggiungono le note resinose dei luppoli, a pulire un po' il palato e preparare il terreno al lungo ed intenso retrogusto che si snoda tra note etiliche, tostate, di caffè e cioccolato amaro. Una birra relativamente semplice, pulitissima e straordinariamente "solida", potente: zero fronzoli, zero merletti, gli elementi in gioco sono pochi ma giocano davvero bene. L'alcool si sente ma non disturba affatto quello che risulta essere un tranquillo sorseggiare in un dopocena da poltrona; dicono che invecchi anche piuttosto bene, e allora perché non affidare una bottiglia al tempo della cantina?
Formato: 35.5 cl., alc. 10.5%, IBU 90, scad. 05/10/2015, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 24 ottobre 2015

DALLA CANTINA: Struise Pannepot 2009

Inauguro oggi un nuovo appuntamento, chiamato "dalla cantina" e dedicato al "vintage", a birre invecchiate che hanno passato qualche anno in cantina, a volte forse anche più del dovuto. Non è certo un segreto che la birra nove volte su dieci vada bevuta fresca, ma ci sono delle eccezioni ovvero birre che invece possono sopportare qualche o diversi anni d'invecchiamento, sviluppando gradevoli profumi e sapori. A voi scegliere se andare sul sicuro e mettere in cantina quelle birre già note per il loro potenziale "vintage", oppure rischiare con qualche altra bottiglia meno nota e sperare nella sorte.
La prima birra ad essere riesumata dalla cantina è quasi una certezza, la Pannepot del birrificio De Struise, che era già apparsa sul blog nella sua versione Grand Reserva, e nella variante chiamata Pannepeut. Si tratta di una massiccia Strong Dark Ale la cui storia la trovate descritta in maniera impeccabile qui: prodotta da Carlo Grootaert  e Urbain Coutteau per la prima volta nel 2005, la Pannepot prende il suo nome dalla tipica barca che i pescatori di De Panne utilizzavano ogni giorno per navigare il freddo Mare del Nord nei primi anni del '900. A casa, le loro mogli, producevano una birra scura e la conservavano in cantina dentro a piccole botti, dalle quali veniva  "prelevata per essere versata in contenitori di acciaio fatti precedentemente arroventare sul fuoco.  Questa birra senza nome, piatta, arricchita a volte con tuorli d’uova e irrobustita dall’uso non morigerato di zucchero di canna, una volta che entrava in contatto con le pareti arroventate del contenitore di acciaio si caramellizava quasi all’istante, assumendo una caratterizzazione “spessa” e una consistenza altrettanto pronunciata. Perfetta per riscaldare i corpi e lo spirito dei marinai agghiacciati dall’inclemenza del Mare del Nord.". Con la Pannepot gli Struise omaggiano De Panne, quello che un tempo era un piccolo borgo di pescatori vicino al confine francese e oggi, dune escluse, è purtroppo soltanto una delle tante località balneari sulla costa belga caratterizzata da infinite schiere di anonimi condomini rivolti su di una grande spiaggia sabbiosa.
Pannepot anno 2009, Strong Dark Ale che si dice essere speziata con coriandolo, timo, cannella, e buccia d’arancia dolce; a quel tempo gli Struise erano solo una beerfirm e veniva prodotta presso gli impianti della Deca di Woesten. 
Si veste di color marrone scurissimo, illuminato solamente da qualche riflesso ambrato; la schiuma beige non è particolarmente generosa ma rimane cremosa e compatta, anche se la sua persistenza è piuttosto limitata. L'aroma è ancora molto intenso e ricco di pane nero, prugna disidratata, uvetta e datteri, frutti di bosco, caramello, melassa e zucchero candito. I quasi 6 anni passati in cantina hanno provocato una lieve ossidazione che regala delle belle note di vino liquoroso, di porto; sono invece fortunatamente piuttosto lievi le caratteristiche negative, ovvero l'odore di cartone bagnato. La corrispondenza tra gusto e aroma è pressoché totale: la Pannepot restituisce anche al palato le note dolci di porto e di vino liquoroso, l'uvetta sotto spirito e la prugna disidratata, il caramello, i frutti di bosco. La presenza etilica è importante ma non va mai oltre il dovuto, consentendo di sorseggiare la birra in tutta tranquillità senza nessuno sforzo. Il corpo è ovviamente meno denso rispetto ad una bottiglia giovane, oscillando tra il medio ed il pieno, con poche bollicine; la sensazione palatale è comunque ottima, una birra molto morbida che scende avvolgendo il palato, ancora potente. Non c'è molta complessità (le spezie sono ovviamente già svanite) ma rimangono pulizia e tanta sostanza: pochi elementi sono sufficienti a garantire una bevuta ricca di soddisfazioni, impreziosita dalle note liquorose. Ancora lievi e del tutto "sopportabili" le conseguenza negative dell'ossidazione, come quella nota di cartone bagnato a fine bevuta che viene comunque subito assorbita dall'alcool, fondamentale anche nel bilanciare la dolcezza della birra. Mettetela nel bicchiere e gustatevela some se fosse un porto o un liquore per riscaldarvi in una serata d'autunno o d'inverno.
Resta da rispondere alla domanda che bisognerebbe porsi dopo aver aperto ogni "vintage": vale la pena aspettare sei anni per berla?  La risposta è "ni": personalmente non amo le Strong Dark Ales belghe molto giovani, e preferisco sempre aspettare un po' prima di berle. La Pannepot è già ottima  e "perfetta" dopo 2-3 anni dall'imbottigliamento, avendo già smussato le irrequietezze della gioventù; mancano ancora le note liquorose dovute all'ossidazione, ma è una birra così intensa e così piena di sapori che non ne sentirete la mancanza. E' una birra che regge comunque bene il tempo, e che potrebbe restare in cantina tranquillamente per qualche altro anno senza che l'ossidazione le doni più difetti che pregi.
Formato: 33 cl., alc. 10%, lotto D, scad. 30/09/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 23 ottobre 2015

HOMEBREWED! Spufi Brewing Sette e 1/2 IPA

Ritorna dopo un periodo d’assenza la rubrica (mensile ?) dedicata alle produzioni casalinghe; la calda estate che ci siamo lasciati alle spalle con le sue elevate temperature ha purtroppo sconsigliato l’invio per posta di qualsiasi bottiglia.  Voglio anche rassicurare gli homebrewers che stanno ancora attendendo di vedere le loro birre “pubblicate”: il ritardo è anch’esso dovuto al caldo, difficile per me affrontare dei Barley Wine in piena estate, ma ormai la stagione "giusta" è alle porte.
Oggi vi presento l’homebrewer Mirko Pizzi da Limido Comasco, paese che si trova solo ad un paio di chilometri da Lurago Marinone, "casa" del Birrificio Italiano. Capitatovi una sera per caso, fu proprio l’incontro con un bicchiere di Bibock a far nascere in lui la passione per la birra e, di conseguenza, il beer-hunting e il desiderio di provare a produrla a casa;  dal 2008 inizia assieme ad amici a sperimentare con i vari kit da estratto, ma i risultati non sono molto soddisfacenti. Le cose migliorano solamente a partire dal 2012, quando Mirko decide di passare all’All Grain: nel tempo libero dal suo lavoro da programmatore si “forma” in modo completamente autodidatta, soprattutto attingendo informazioni da siti specializzati in internet. 
Diamo quindi il benvenuto alla “Spufi Brewing”, questo il nome del birrificio casalingo il cui logo raffigura il gatto di casa, Spufi; la prima birra che stappo è una IPA chiamata “Sette e 1/2", prodotta con malti  Pale, Pils, Carapils, una piccola percentuale di malto caramello e fiocchi  d'orzo. Per l’amaro è stato scelto il Magnum, affiancato da Chinook, Columbus, Mosaic, Citra, Amarillo, Simcoe e Galaxy; c’è anche un generoso dry-hopping di Mosaic. 
La fotografia la scurisce un po' troppo, perché in realtà nel bicchiere arriva molto torbida e di colore arancio, con qualche venatura ramata: la schiuma è biancastra, compatta e cremosa, con un’ottima persistenza. 
L’eccessiva opalescenza è subito “perdonata”  non appena si avvicina il naso al bicchiere. E’ una IPA in bottiglia da circa due mesi e l’aroma ne riflette tutta la freschezza, sorprendendomi soprattutto per  intensità, pulizia ed eleganza. C’è una macedonia di frutta ruffiana al punto giusto e molto ben assemblata con i profumi di litchi, ananas, melone retato, pompelmo, arancia e mango: davvero nulla da invidiare a birre “professionali”, anzi…  molto meglio di molte IPA da me assaggiate in questi anni.  I maligni potrebbero obiettare che un dry-hopping ben fatto e un po’ “spinto” conquista subito le narici del bevitore contribuendo anche a mascherare eventuali piccoli difetti;  ma il “problema”, se così si può chiamare, è che un tale aroma crea dell’elevate aspettative che il gusto deve poi saper confermare. Al palato questa IPA ha una buona scorrevolezza, anche se potrebbe essere più “leggera”  e snella per quel che riguarda la sensazione “tattile”: il livello di bollicine è giusto, medio, come il corpo.  In bocca arriva subito una bella fragranza dei malti, con note di cereali e crackers, una breve introduzione che spalanca poi le porte ad un’intensa macedonia di frutta che rivisita l’aroma. La corrispondenza profumi/sapori è quasi perfetta, mentre pulizia e finezza del gusto non sono allo stesso livello dell’aroma: la frutta domina andando però a coprire tutto il resto, e mi riferisco in particolare alla chiusura amara che, personalmente, vorrei sempre trovare in una IPA. L’amaro fa invece un po’ fatica ad emergere dal dolce della frutta, anche se le cose migliorano quando la birra s'avvicina alla temperatura ambiente mettendo un po' più in mostra le note di scorza di pompelmo e quelle vegetali.  E' comunque una chiusura in tono minore rispetto all'intensità del resto della birra, a "scendere" invece che  a "salire"; nel retrogusto ritornano un po' a sorpresa le note di cereali e crackers. 
E' una IPA di livello piuttosto buono, davvero: l'aroma mi ha assolutamente colpito in positivo, e  se devo quindi dare qualche "umile" consiglio all'homebrewer è di lavorare sopratutto sul "mouthfeel", un po' troppo pesante, e sulla parte amara finale che, almeno per i miei gusti è un po' sottotono rispetto al resto della bevuta. Il gusto è di ottima intensità, l'alcool è molto ben nascosto ma bisognerebbe trovare un po' più di equilibrio tra i vari elementi, senza lasciare che la componente fruttata e "ruffiana" sia padrone assoluta del palcoscenico. Questa la  valutazione su scala BJCP:  37/50 (Aroma 10/12, Aspetto 2/3, Gusto 14/20, Mouthfeel 3/5, impressione generale 8/10). 
Ringrazio Mirko per avermi spedito e fatto assaggiare la sua birra, e vi do appuntamento alla prossima "puntata" di Homebrewed! E ricordate che la rubrica è aperta  a tutti i volenterosi homebrewers!  
Formato: 33 cl., alc. 7.5%, IBU 52, OG 1065, imbott. 13/08/2015.

giovedì 22 ottobre 2015

Witkap Pater Stimulo

Il birrificio Slaghmuylder viene fondato nel 1860 da Emmanuel Slaghmuylder, un ex-commerciante di grano, a Ninove, trenta  chilometri ad est di Brussels, ed è oggi l'unico superstite tra i tredici produttori esistenti in paese all’inizio del 1900; il birrificio – a seguito degli ampliamenti avvenuti negli anni – sorge oggi su quel terreno dove un tempo si trovava l’abbazia di Ninove. E’ sotto la guida di Edouard, figlio di Emmanuel, che Slaghmuylder si specializza nella bassa fermentazione, iniziando nel 1926 a produrre con successo la Slag Pils. Le ristrettezze economiche che caratterizzano il periodo della seconda guerra mondiale consigliano di ridurre i costi derivanti dall'energia necessaria alla refrigerazione e quindi il birrificio inizia a concentrarsi sulle alte fermentazioni.
Ma il marchio "Witkap", che oggi costituisce la gamma di birre di maggior successo di Slaghmuylder, ha una storia leggermente diversa. Il suo ideatore è Hendrik Verlinden, ingegnere birrario che nel 1916 aveva rilevato il birrificio Drie Linden nella vicina Brasschaat; Verlinden è considerato secondo Michael Jackson come l'artefice della prima "triple" belga, ancor prima che lo stile s'identificasse  con quella prodotta da Westmalle; ed è proprio per questi monaci che Verlinden si trovò a lavorare negli anni '20 come consulente cercando di risolvere alcuni problemi che erano sorti con la Dubbel Bruin. Come racconta Stan Hieronymus in "Brew Like a Monk", Verlinden iniziò nello stesso periodo a produrre birre in stile "trappista"alla Drie Linden lanciando poi nel 1932 la Witkap Pater, oggi nota come Witkap Tripel, due anni prima di quella di Westmalle. I monaci, che non lesinavano azioni legali nei confronti di altri birrifici che utilizzavano in etichetta la dicitura "trappistenbier",  lasciarono invece il birrificio Drie Linden libero di utilizzarlo indisturbato sino al 1981. Hendrik Verlinden fu ucciso assieme al suo figlio più giovane nel maggio del 1939 quando una bomba lanciata dai tedeschi colpì il suo birrificio. Fu il figlio maggiore a continuare l'attività sino alla metà degli anni '60. Drie Linden, in grosse difficoltà finanziarie, passò poi nelle mani di diversi acquirenti finché, nel 1981, fu rilevato dalla famiglia Slaghmuylder che ancora oggi, alla quinta generazione di discendenti, ne detiene il controllo. Il birraio é Karel Goddeau che, nel tempo libero, si occupa anche del blend dei lambic presso De Cam.
La Witkap Pater Stimulo negli Stati Uniti è commercializzata con il nome Witkap Singel per motivi che non sono riuscito a reperire; il "cappuccio bianco" (witkap) è ovviamente quello dei monaci cistercensi. E' una Belgian Ale prodotta con luppoli belgi e della Repubblica Ceca, ma ovviamente qui il protagonista è il lievito; l'etichetta riporta anche l'utilizzo di mais.
Perfettamente dorata e velata, forma nel bicchiere un perfetto cappello di bianchissima e compatta schiuma cremosa, dall'ottima persistenza. L'aroma brilla per eleganza e pulizia: lievi sentori erbacei sono accompagnati da quelli fruttati di pera, limone, banana e scorza di mandarino; c'è una delicatissima speziatura che ricorda il coriandolo assieme a sentori di crackers, cereali, una suggestione di frutta secca (arachidi) e una spolverata di zucchero a velo. La sensazione palatale è praticamente perfetta, con un riuscitissimo compromesso tra una vivace carbonazione ed una morbidezza leggermente cremosa che non preclude assolutamente la scorrevolezza; il corpo è medio. Il gusto, pulitissimo, mette in evidenza note di cereali e crackers, polpa d'arancio e banana, una delicata speziatura e una dolcezza che ricorda il miele e il mais, accenni di frutta tropicale. L'intensità non è la caratteristica principale di questa Stimulo, che mette invece in mostra una pulizia, un equilibrio ed un'eleganza quasi maniacali; caratteristiche che ritornano anche nel finale, delicatamente amaro (erbaceo, zesty), che lascia poi spazio al ritorno nel retrogusto dei cereali e del dolce del miele. Una belgian ale che disseta e rinfresca senza richiedere attenzione o voler rubare la scena: svolge il suo compito con una discrezione ed un silenzio quasi monastico, al punto che probabilmente vi accorgerete di lei solamente quando il bicchiere è vuoto per domandarne ancora. 
Formato: 33 cl., alc. 6%, lotto C, scad. 04/2016, pagata 1.40 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 21 ottobre 2015

Birra Perugia Sidro Artigianale

Oggi facciamo una leggera deviazione al di fuori della birra per entrare nel mondo del sidro, prodotto dalla fermentazione di mele, diffusissimo in alcune regioni settentrionali dell’Europa come Normandia e Bretagna, Regno Unito, Irlanda, Portogallo, Asturie e Paesi Baschi. In Italia lo potete trovare alla spina in diversi pub ma la sua produzione, un tempo molto diffusa al nord, è oggi molto limitata ed è stata soppiantata da quella del vino. 
Onestamente ignoro quanti “reali” produttori di sidro siano attivi in Italia e non ho trovato nessun utile censimento o statistica in internet. Il sito Microbirrifici.org, che ovviamente limita la sua conta ai birrifici, ne annovera tre che sono anche produttori di sidro. C’è Melchiori in Val di Non,  c’è Baladin e il suo sidro prodotto (in Francia, se non erro) assieme alla sidreria Maeyaert, e c’è Birra Perugia in Umbria.  Proprio questo birrificio mi ha gentilmente invitato ad assaggiarlo: ammetto di non essere un gran bevitore di sidro ma qualche anno fa, nel corso di una vacanza tra Bretagna e Normandia, ho avuto occasione di assaggiarne diversi e si è trattata di un’ottima alternativa alle mediocri birre che si trovano in quelle zone. 
Il Sidro Artigianale di Birra Perugia viene prodotto utilizzando mele biologiche provenienti da un’azienda agricola di Montepulciano e viene fermentato con lievito saison ed aggiunta di miele di Torgiano. La sua presentazione ufficiale avviene il 16 maggio 2014 presso l’Umami di S. Maria degli Angeli (Assisi): è attualmente disponibile sia in bottiglia che in fusto.
Nel bicchiere si presenta di colore paglierino, piuttosto pallido, co riflessi verdognoli e leggermente velato; la piccola schiuma che si forma è molto effervescente e svanisce immediatamente. Al naso c'è ovviamente la mela con un bel equilibrio tra le note più aspre di mela verde e quelle dolci di mela gialla; in sottofondo avverto un richiamo all'uva bianca (acerba) e un lieve carattere rustico che si traduce in sentori legnosi e di cantina. Nonostante la buona gradazione alcolica (8%) è un sidro che in bocca è piuttosto leggero e caratterizzato da bollicine molto sottili e fini, piacevoli e delicatamente vivaci. Il gusto ripropone l'asprezza della mela verde e il dolce di quella gialla, l'uva e, scaldandosi, qualche nota di miele. Il lievito apporta una delicata speziatura che ben interagisce con le bollicine, mentre l'alcool è incredibilmente nascosto. Nonostante l'etichetta dia istruzioni di "servire freddo, ideale come aperitivo", è ovviamente quando si riscalda che il sidro meglio apre il suo ventaglio di profumi e sapori, regalando anche qualche suggestione vinosa. Non ha tuttavia la "struttura" di certi sidri importanti che ricordo aver bevuto (non chiedetemi di ricordare i nomi) nel settentrione della Francia, privilegiando piuttosto la freschezza e la facilità di bevuta, mettendo in mostra un bel carattere dissetante e, con un'ottima chiusura secca e una gradevole asprezza/acidità, molto rinfrescante. 
Formato: 75 cl., alc. 8%, lotto 1S14, scad. 09/2016.
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 20 ottobre 2015

NatteLore Ferme Saison

Brouwerij NatteLore è una beerfirm belga fondata da otto amici residenti tra Lovanio e Kessel-Lo ed inaugurata nel 2011. L’unico segno di esistenza o quasi sul web è la pagina Facebook: due le birre attualmente prodotte, secondo il database di Ratebeer. La prima è la Hors Saison, prodotta presso il birrificio Anders, che viene poi affiancata dalla Ferme Saison, realizzata negli impianti di Hof Ten Dormaal, birrificio che si trova all’interno dell’azienda agricola di proprietà della famiglia Janssens  e che utilizza cereali e luppoli autoprodotti. Il birrificio è stato fondato nel 2009, ma lo scorso gennaio 2015 ha subito ingenti danni agli impianti a causa di un violento incendio dal quale si sono salvati solamente alcuni barili di birra utilizzati poi per produrre la birra chiamata “Inferno”. 
La bella fattoria di Hof Ten Dormaal appare un luogo ideale per realizzare la Ferme Saison  (“Saison della fattoria”) che in etichetta reca la scritta “Cuvée Spring 2014”. Il suo colore ricorda quello di un’intensa giornata di sole estiva: tra il dorato e l’arancio, leggermente velato, sormontato da un generoso cappello di schiuma bianchissima, compatta e pannosa, dall’ottima persistenza. Nell’aroma c’è un interessante mix di sentori eleganti di arancia (polpa e scorza), limone, mandarino, mela e pepe bianco, affiancati a quelli rustici e ruspanti di cantina, legno, paglia. C’è anche una leggera componente “skunky”, ma è soprattutto quando la birra si scalda che le note legnose del sughero aumentano dando quell’impressione poco piacevole “di tappo” che mi è capitata di trovare in altre bottiglie di Hof Ten Dormaal. 
La bevuta deve obbligatoriamente attendere un po’ per stemperare le bollicine che sono eccessive anche per lo stile “saison”: il percorso al palato segue le linee guida dell’aroma, alternando elementi “rassicuranti” (pane, miele, arancia e pesca, spezie) a caratteristiche molto meno eleganti e rozze, difficili da descrivere ma non esattamente gradevoli. Ogni tanto sbuca qualche stranezza, qualche puzzetta, ritorna il tappo di sughero, prima di arrivare ad un finale amaro erbaceo e di terriccio umido, una leggera astringenza finale e un leggero warming etilico (8%). 
Il risultato? Probabilmente una “farmhouse ale”  molto rustica, rozza, sincera, “originale”, forse simile a quelle che si bevevano qualche secolo fa per necessità più che per piacere; oggi siamo però nel 2015 ed è giusto riportare questa birra al “qui ed ora”. Ne risulta una saison piuttosto sgangherata, tenuta assieme da un immaginario spago nel quale convivono lampi di luce ed ombre, pregi e difetti: ci vorrebbe un piccolo miracolo  per trasformare questa  Ferme Saison in una birra davvero compiuta dove gli opposti si attraggono, anziché respingersi. Ma Hof Ten Dormaal non è Dany Prignon, e “quell’epifania”  della quali siamo ogni tanto testimoni stappando una Fantôme in questo caso non si è verificata.
Formato: 37.5 cl., alc. 8%, lotto 07/2014, scad. 04/2015, pagata 2.90 Euro (beershop, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 19 ottobre 2015

Amager Hr. Frederiksen & Hr. Frederiksen Niepoort Edition

Ne ha fatta di strada, il birrificio danese Amager, da quell’Aprile 2007 in cui Morten Valentin Lundsbak e Jacob Storm ne hanno aperto le porte di a sud di Copenhagen, nei pressi dell’aeroporto, sull’omonima isola; dei due amici ex-homebrewer è oggi Jacob ad occuparsi della produzione, mentre Morten segue soprattutto gli aspetti commerciali e amministrativi. 
Volumi costantemente in crescita e domanda che – nonostante siano già stati fatti ampliamenti – eccede la capacità produttiva, con una significativa porzione di domanda da parte dei mercati europei e, grazie all’importatore Shelton Brothers, anche degli Stati Uniti;  e proprio i birrifici americani sono stati protagonisti delle numerose birre collaborative che hanno visto la luce nell'ultimo anno, come questa o questa
Tra le birre che hanno indubbiamente contribuito a consolidare la reputazione di Amager, in patria e all’estero, vi è indubbiamente la Imperial Stout  “Hr. Frederiksen”,  così chiamata in onore del Signor Peter Frederiksen, un amico di Lundsbak e Storm senza il cui aiuto, dichiarano i fondatori di Amager, “il birrificio non sarebbe dov’è oggi”. Si veste completamente di nero, questo signor Frederiksen, ma indossa un bel cappello di schiuma beige, compatta e molto cremosa, dall’ottima persistenza; si presenta davvero bene regalando poi al naso eleganti profumi di cacao in polvere, grani di caffè, orzo tostato. 
In secondo piano le note dolci di vaniglia, liquirizia e quelle di pelle/cuoio; la generosa luppolatura americana (Centennial) dopo un anno di cantina fa ancora emergere qualche nota resinosa. In questo caso l’apparenza non inganna e il palato è appagato quanto gli occhi sin dal primo sorso: il mouthfeel è cremoso e morbido senza sconfinare in quella consistenza “catramosa” o “masticabile” che sovente caratterizza le Imperial Stout scandinave. Qui il corpo è al confine tra il medio e il pieno, con poche bollicine che permettono d’apprezzare il caffè, le tostature e la liquirizia, con l’alcool (10.5%) che si annuncia sin da subito, sebbene in modo tutto sommato “delicato” e mai invasivo. E’ un’imperial stout pulita e piuttosto amara grazie al contributo delle tostature e delle note resinose del luppolo, fondamentali anche nel ripulire un po’ il palato a fine bevuta; al caramello, leggermente bruciato, il compito di fornire quel minimo di dolcezza indispensabile, relegata in sottofondo. Il signor  Frederiksen è uno scandinavo dai modi duri e decisi, che nasconde sotto sotto un cuore (mouthfeel) morbido ed affabile:  predilige solidità e sostanza senza ricercare orpelli o raffinatezze di forma; un mezzo litro di birra semplice  e intensa che fa serata, da sorseggiare senza fretta riscaldandosi sorso dopo sorso in compagnia del lungo retrogusto etilico, tostature e caffè. Molto bene. 
Fatta (bene) la birra eccone poi nascere le inevitabili varianti barricate: il signor Frederiksen è finito di volta in volta in botti ex Colorado Whiskey, ex-vino rosso danese, porto, vino rosso svedese e Buffalo Trace Kentucky, tanto per citarne alcune. L’occasione era quella giusta per un assaggio “fianco a fianco” della Frederiksen “base” con una di queste varianti, ma purtroppo le cose non sono andate come previsto. 
Per la Niepoort Edition l’imperial stout di Amager riposa per 12 mesi in botti che hanno in precedenza ospitato il  Porto prodotto dall’omonima azienda portoghese, fondata nel 1813 da Franciscus Marius van der Niepoort, olandese poi trasferitosi in Portogallo per iniziare come semplice commerciante e venditore di Porto. 
Il suo colore tende sempre al nero ma presenta qualche sfumatura marrone scuro, mentre i mesi passati in botte non aiutano certo la formazione della schiuma che risulta in effetti piuttosto modesta, grossolana e dalla modesta persistenza. 
L’aroma è dominato dall’alcool, molto invadente, che relega i sentori di cacao in polvere e liquirizia molto, troppo in sottofondo; c’è qualche sentore di carne, non proprio gradevole ed una suggestione di porto che si manifesta soprattutto in un leggerissimo residuo zuccherino. Le speranze di miglioramento al palato vengono subito disattese: la birra è un po’ slegata, non c’è la cremosità della versione “base” ma soprattutto c’è di nuovo l’alcool troppo in evidenza: il gusto è poco pulito, risultante in un “amalgama “ alcolico privo di qualsiasi eleganza dal   quale si può cercare di indovinare la presenza di liquirizia, di caramello, di qualche tostatura. Persino il sorseggiare diventa problematico, lento e molto poco soddisfacente, con il palato sempre solleticato dall'alcool a reclamare una pausa dopo l'altra, in cerca di sollievo, in cerca di qualsiasi altro elemento che possa spezzare per un po' la monotonia etilica.  Bottiglia molto poco riuscita, e in questo caso il rammarico è doppio visto che si tratta di una birra il cui costo non è certo economico.
Nei dettagli:
Hr. Frederiksen, formato 50 cl., alc. 10.5%, IBU 85, lotto 833, scad. 01/07/2019, pagata 8.50 Euro (beershop, Italia).
Hr. Frederiksen Niepoort Edition, format0 50 cl., alc. 11%, lotto 451, scad. 01/07/2018, pagata 12.50 Euro  (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 17 ottobre 2015

Rodenbach Vintage 2012

La birra di oggi è strettamente legata a quella  Rodenbach Grand Cru raccontata un paio di anni fa, prodotta sin dalla fine del diciannovesimo secolo dalla Brouwerij Rodenbach, fondata nel 1820 da Alexander Rodenbach e guidata, in quel periodo, dal nipote Eugene. 
E’ lui ad apprendere il mestiere nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo dove le birre maturavano nei barili di legno e veniva poi effettuato il blend tra birra giovane  e “invecchiata”; Eugene dota Rodenbach di una straordinaria “cantina” nella quale vengono costruiti enormi tini di quercia, chiamati “foeders”. Ancora oggi è possibile ammirarne 294, alcuni dei quali hanno ormai 150 anni d’età e costituiscono parte del patrimonio industriale della regione delle Fiandre.
La Rodenbach subisce la fermentazione primaria in tank d'acciaio con il lievito proprietario e viene poi trasferita all'interno degli enormi foeders, dove la birra si trova a contatto con la microbiologia e la flora batterica presente nel legno, restandoci per circa due anni e ricavandone, oltre alle caratteristiche acide, anche le splendide sfumature rosso Borgogna del suo colore. Ogni tino di legno ha ovviamente una propria microbiologia diversa dagli altri e quindi impartisce caratteristiche leggermente diverse alla birra che contiene.
Il blend tra birra fresca e birra invecchiata nei tini di legno dà origine alla Rodenbach "base" che contiene il 75% di birra fresca ed il 25% di birra proveniente dai foeders; la Grand Cru è invece formata dal 34% di birra giovane e dal 66% di blend di birra invecchiata proveniente dai diversi tini. Il blend è ovviamente svolto al fine di ottenere una birra il più possibile costante e "uguale" nel corso degli anni. Una variante, introdotta da Rodenbach a partire dal 2009, è costituita dalla "Vintage": si tratta di una birra non "blendata", proveniente da un unico foeder, diverso ogni volta. Per la Rodenbach Vintage 2012, che è stata poi imbottigliata a fine 2014, è stato selezionato il tino numero 170.
Il suo colore è un bell'ambrato carico con intensi riflessi rossastri e qualche venatura ramata; la schiuma ocra è cremosissima e compatta, con una buona discreta persistenza. L'aroma mette fianco a fianco le note aspre di aceto di mela, visciole e mela verde con quelle dolci di ciliegie, amarene cotte, caramello e vaniglia; i secondo piano i sentori legnosi e le suggestioni vinose e di aceto balsamico. Un percorso molto pulito ed elegante che continua anche al palato, tra l'asprezza dell'amarena, del ribes rosso e della mela acerba, dell'aceto di mela e il dolce della ciliegia sciroppata, del caramello e della vaniglia. Il tutto è impreziosito da accenni legnosi e di pelle cuoio, per arrivare al finale molto secco e lievemente tannico. Birra molto ben bilanciata, che inizia dolce per poi virare con eleganza e morbidezza in territorio aspro risultando molto dissetante, senza che la componente acetica arrivi a disturbare. Lasciatela scaldare se volete addentrarvi in territorio vinoso, ma è quando è da fresca che questa Vintage regala il meglio di sé, rispettando fedelmente l'appellativo che Michael Jackson aveva affibbiato alla sorella "Grand Cru", ovvero "la birra più rinfrescante del mondo".
Formato: 37.5 cl., alc. 7%, vintage 2012, pagata 4.30 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 15 ottobre 2015

Smuttynose Baltic Porter


Nel 1998 l’americana Smuttynose Brewing Co. (Portsmouth, New Hampshire) lancia la propria serie delle “Big Beers”, ovvero birre occasionali prodotte in piccole serie nel classico formato “bomber”  e spesso dall’elevato tenore alcolico. Il birrificio fondato nel 1993 da  Peter Egelston, aggiunge alla gamma una Baltic Porter, che viene commercializzata per la prima volta nel 2008 e costituisce di fatto “un’evoluzione” della Winter Porter e della Robust Porter prodotte in precedenza. L’occasione è anche buona per tornare ad utilizzare la bella etichetta realizzata da Joanne Francis e raffigurante il Padre Tempo che prende per mano un fanciullo, presente un tempo sulle bottiglia delle due porter citate; etichetta che oggi potrebbe avere qualche problema almeno per quel che riguarda la distribuzione proprio nello stato del New Hampshire, dopo che lo scorso giugno è stata approvata una legge che vieta la presenza di bambini sulle etichette di bevande alcoliche. 
La prima versione della ricetta include malti Pilsner, Munich, CaraHell, Dark Crystal 120, Carastan 35, Chocolate Malt e  Black Malt, con il luppolo Magnum in bollitura ed il Liberty per aroma, ABV 8.7%. 
Nel 2010 la ricetta viene leggermente modificata: malti  Cargill 2-Row, Munich 20L, Weyermann Carahell, Crisp C-120, Baird’s Carastan, Crisp Chocolate e Crisp Black,  un solo luppolo (Sterling) e lievito Old Bavarian Lager di White Labs, lo stesso che Smuttynose utilizza anche per la propria Portsmouth Lager. La Baltic Porter ottiene un grande apprezzamento, che nel divertissement del Beer-Rating si traduce in un punteggio di  94/100 su BeerAdvocate e di 100/100 su Ratebeer, dove figura come la terza miglior Baltic Poter al mondo, dietro  (sic) a Imperator Balticki dei polacchi di Pinta  e alla Baltic Porter di The Duck-Rabbit (USA) che non ho ancora avuto la fortuna di poter assaggiare. 
Sacrosanta quindi la decisione di Smuttynose di non limitare questa birra ai volumi ridotti della “Big Beer Series” ma di renderla disponibile tutto l’anno nel pratico formato da 12 once (35.5 cl.); l’edizione 2015 arriva sugli scaffali dei beershop americani a febbraio e, dopo qualche mese, anche qui in Italia. 9% ABV, malti North American 2-Row, Munich 10L, Caramunich, Carahell, Carafa II DH, luppolo Sterling e lievito Old Bavarian Lager. 

Già versandola nel bicchiere si riesce quasi a gustarne con gli occhi l'opulenza: un oleoso liquido praticamente nero ed  impenetrabile alla luce che forma una modesta schiuma di colore cappuccino, cremosa ma un po’ grossolana e dalla discreta persistenza.  Molto ricco l’aroma, spiccatamente dolce, colmo di prugna disidratata, frutti di bosco (mirtilli, ribes nero, more), uvetta, pane nero e biscotto, orzo tostato, fruit cake: delicatissima la presenza dell'alcool che regala  eleganti note di frutta sotto spirito e, interagendo con la ricchezza dei malti, qualche suggestione di Pan di Spagna imbevuto di liquore. Rimangono in secondo piano anche il cioccolato al latte e di caffè. 
Il gusto altro non è che la fotocopia dell'aroma, di ugual intensità e pulizia; un percorso dolce ed elegante nel quale s'incontrano di nuovo il pane nero, il biscotto inzuppato di liquore, il fruit cake, la prugna disidratata, l'uvetta ed il mirtillo sotto spirito, lievi note di liquirizia e di caffè, prima del finale leggermente amaro di cioccolato e di note terrose. E' una birra molto ben bilanciata, con un lieve acidità e con un morbido calore etilico ea stemperarne la manifesta dolcezza; il mouthfeel è molto morbido, leggermente cremoso, con poche bollicine e un corpo medio che agevola la scorrevolezza di una birra dal tenore alcolico comunque importante ma dosato con perfetta maestria e perfettamente integrato con la ricchezza dei malti.  A voi scegliere se sorseggiata in tutta tranquillità o se aumentare il ritmo, senza però dimenticarvi di prendervi tutto il tempo necessario per assaporare il sontuoso retrogusto di fruit cake, frutta sotto spirito e una punta di cenere/tabacco Una birra che fa serata, e tra le migliori bevute nel 2015.

Formato: 35.5 cl., alc. 9%. IBU 40, imbott. 01/2015, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 14 ottobre 2015

NovaBirra Li P'tite Gayoûle

Dopo quello di ieri con Vliegende Paard (Préaris), ecco un altro appuntamento con un birrificio belga di recente apertura. NovaBirra è il nome scelto da Emanuele Corazzini, rientrato in Belgio dopo sei anni passati negli Stati Uniti, per dare vita al suo progetto inaugurato nel 2008 in quel di Braine-l'Alleud (una trentina di chilometri a sud di Brussels) come un “Atelier de Brassage” dove poter comprare e degustare birre, partecipare a laboratori e soprattutto imparare l’homebrewing. I corsi si svolgono nel weekend, con due giornate intense nelle quali i partecipanti  (da 1 a 4 persone) decidono assieme la ricetta e producono la loro birra, tornando poi un mese dopo a ritirare sette bottiglie da 75 centilitri. 
Il passo successivo è lo status di beerfirm; le ricette vengono infatti studiate e testate sull’impianto proprio, ma per la produzione in “larga” scala della prima birra, la Big Mama Stout  (2012) ci si affida agli impianti della Brasserie de Jandrain-Jandrenouille. La birra del debutto verrà in seguito  realizzata da De Ranke, ed è qui che vedono la luce anche le altre due ricette di NovaBirra, ovvero la  Big Nose Triple e la Li P'tite Gayoûle. Quest’ultima nasce da una ricetta elaborata assieme ad alcuni partecipanti ai corsi di produzione di NovaBirra: Arnaud, FX,  Kevyn e, ovviamente, Emanuele Corazzini. Lievito tipo Saison, malti Pilsner e caramellati e luppolatura affidata a Simcoe e Mosaic. 
Il suo colore è ambrato, velato, sormontato da una testa di schiuma biancastra, compatta e cremosa, dall’ottima persistenza. Al naso non c’è quella predominanza di frutta che ci si attenderebbe dall’uso di luppoli americani ma sono piuttosto i malti ad essere in evidenza con sentori di pane e fetta biscottata, miele e cereali, una delicata speziatura; in sottofondo s’avvertono erbe officinali ed una remota presenza di agrumi. Lo scenario rimane pressoché simile anche al palato, in un gusto dove domina la componente maltata, peraltro molto fragrante, con le sue note di biscotto, frutta secca, miele e lieve caramello. C’è una leggera suggestione di frutta tropicale che anticipa la chiusura amara, terrosa, lievemente erbacea e – finalmente – un po’ rustica.  La birra è tecnicamente pulita e ben eseguita, non fosse per una leggera astringenza che la penalizza soprattutto a fine corsa; la facilità di bevuta è enorme, con un corpo medio-leggero e una vivace carbonazione. Il resto rientra nei confini del gusto personale, ovvero la preferenza (come nel mio caso) per Saison più fruttate e luppolato rispetto a quelle come questa dove i malti sono maggiormente in evidenza.
Formato: 33 cl., alc. 5.5%, lotto LNR52T 20/08/2014, scad. 09/08/2019, pagata 2,10 euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 13 ottobre 2015

Préaris Blond

Vliegende Paard, ovvero “il cavallo volante” è il nome scelto dall’ex-homebrewer   Andy Dewilde per la sua beerfirm che debutta nel 2011, l’anno in cui una sua ricetta casalinga, la “Préaris  Quadrupel”, ottiene il primo posto al concorso nazionale per homebrewers “Brouwland Biercompetitie” la cui finale, alla quale partecipano un centinaio di birre, si tiene a Ghent.
Andy non vuole lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione per sfruttare la notorietà, ma il proprio impianto casalingo a Oedelem (una quindicina di chilometri a sud di Bruges) da 80 litri non è sufficiente a produrre la quantità necessaria per un lancio commerciale. Si rivolge allora all’immancabile De Proef dal quale, a settembre 2011 esce la prima cotta di Préaris Quadrupel.
Allo Zythos festival del 2012 Andy Dewilde incontra Christine Celis, figlia del celebre Pierre (Hoegaarden) e residente da una ventina d’anni in Texas; Christine rimane favorevolmente impressionata dalle Prearis e porta qualche bottiglia negli Stati Uniti, convincendo un importatore ad ordinare i primi 7 hl destinati al mercato statunitense.   Nel 2013 Vliegende Paard viene proclamato da Ratebeer come il miglior nuovo “birrificio” belga, mentre nel 2014  la Prearis Quadrocinno  (la Quadrupel con aggiunta di caffè del Costa Rica) viene eletta dai 17.000 visitatori dello Zythos 2014 tra le tre migliori birre del festival.  
Curioso è invece quanto avvenuto lo scorso aprile 2015, quando Andy Dewilde riceve una telefonata dall’organizzatore del tour europeo del gruppo hardcore americano Sick of it All: la band ha infatti espressamente richiesto di avere a disposizione ogni sera, nei camerini, alcune bottiglie di  Prearis Grand Cru, ovvero la versione barricata della Quadrupel.
A febbraio 2013  Vliegende Paard presenta al Bruges Beer Festival una nuova birra: si tratta della Blond, una Belgian ale dalla luppolatura americana che per l’occasione viene servita al pubblico con l’utilizzo di una specie di Randall proveniente dagli Stati Uniti. 
Solare nel bicchiere, perfettamente dorata e leggermente velata, la Préaris Blond forma un bel cappello di bianchissima schiuma cremosa, compatta e fine, molto persistente. Difficile risalire all’età anagrafica di questa bottiglia (ipotizzo settembre 2014 ?)  e l’aroma non trasmette particolare sensazione di freschezza; i profumi sono poco intensi ma puliti con una leggera speziatura (pepe bianco, forse coriandolo?), sentori di scorza e polpa d’arancia, pesca, frutta candita. Più convincente il gusto, che mostra un bel carattere ed una buona intensità che passa per le note maltate (pane, miele) e quelle fruttate  (arancia e albicocca) generate dall’ottima interazione tra i luppoli e gli esteri del lievito, responsabili anche della delicata speziatura. La bevuta è abbastanza dolce di frutta candita e con il miele d’arancio sempre presente in sottofondo, il tutto bilanciato da un amaro di buona intensità (soprattutto se si prende come riferimento la media belga)  che chiude il percorso con note vegetali, terrose e qualche suggestione di resina. La secchezza è tutto sommato buona e la birra risulta ben bilanciata, molto facile da bere e pulita, con tutti gli elementi (malti, luppoli, lievito) ben percepibili e ben assemblati tra di loro; la bottiglia non molto fresca sacrifica un po’ l’eleganza, penalizzata dallo scorrere del tempo per sempre più inclemente verso i luppoli americani rispetto a quelli continentali.
Préaris Blond è comunque un’interessante interpretazione moderna (leggasi “hoppy”) di Belgian Ale molto ben fatta che vale sicuramente la pena di provare.
Formato: 33 cl., alc. 6%, IBU 35, scad, 30/09/2016, pagata 1.55 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 12 ottobre 2015

Birrificio Finalese Old Ale

Dopo la India Pale Ale assaggiata qualche mese fa, ritorna sul blog il brewpub/birrificio Finalese guidato in quel di Finale Ligure dal birraio Piero Cavalleri.  Impianto da cinque ettolitri a vista e birra che viene spillata direttamente dai maturatori all’interno dei locali; se non erro il brewpub è aperto dal giovedì alla domenica, con la possibilità di acquistare anche bottiglie da asporto. Le notizie in internet sul birrificio sono davvero scarse e quindi senza indugiare passiamo ad aprire una bottiglia di una ben più impegnativa, dal punto di vista realizzativo, della IPA bevuta in precedenza. 
Si tratta della Old Ale, definita dall’etichetta come una “birra rossa ad alta fermentazione affinata sei mesi in barriques di rovere” che hanno ospitato Barbera Superiore; per chi volesse sapere di più su questo stile (o "non stile," per alcuni) che a molti appassionati "neofiti" risulterà poco noto,   consiglio questo bell'articolo  in inglese di Martyn Cornell. Per qualche nozione in italiano, soprattutto se vi piace trafficare con le pentole, andate invece qui
L'aspetto di questa Old Ale è molto gradevole nel bicchiere: ambrato con intense venature rossastre, qualche riflesso rubino, leggermente velato; la schiuma beige chiaro è abbastanza compatta e cremosa, pur non essendo molto persistente. Ammetto che la primissima impressione avvicinando il naso al bicchiere è stata tutt'altro che positiva: il dominio totale dell'acido lattico mi ha fatto temere una birra completamente imbevibile a causa della contaminazione avvenuta in botte. Ma è bastato avere una buona dose di pazienza ed aspettare che la birra s'avvicinasse alla temperatura ambiente (siamo intorno ai 15 gradi) per vedere tornare il sereno.  L'aroma, quindi, oltre al lattico offre delle interessanti sfumature di vaniglia, legno, uva acerba e ribes; evidentissimo il carattere vinoso, con un dolce sottofondo di frutti di bosco e zucchero caramellato. Al palato arriva con un corpo medio e una carbonazione contenuta, mentre la sua consistenza acquosa è funzionale a garantire una buona scorrevolezza soprattutto quando la temperatura si alza e l'alcool si fa più presente.
La bevuta risulta fortemente caratterizzata dal passaggio in botti ex-Barbera, al punto che in alcuni tratti la birra sembra quasi scomparire: accanto alle note vinose ci sono quelle legnose, lattiche ed acetiche, queste ultime molto leggere e per nulla fastidiose. L'asprezza si compone di ribes, visciole, uva acerba ed è supportata da una base dolce, tanto leggera quanto indispensabile, di caramello, prugna disidratata, uvetta, biscotto, zucchero caramellato. Il finale ricco di tannini si mantiene in territorio vinoso, con una punta amaricante che richiama, oltre al lattico, anche il nocciolo di pesca; bene il retrogusto, ça va sans dire vinoso, morbido, etilico e piacevolmente caldo, molto appropriato per un dopocena di una fresca serata autunnale. Dopo l'inizio "problematico" ammetto di averla bevuta molto guardingo e forse un po' prevenuto, ma alla fine il risultato mi ha soddisfatto. Fondamentale avere pazienza, attende  che si riscaldi e si apra nel bicchiere per lasciare emergere tutte le  sue componenti: il risultato è un po' troppo caratterizzato dal vino che è stato ospitato nelle botti, ma rappresenta già un'ottima base di partenza,  su cui lavorare per il futuro con fiducia. 
Formato: 75 cl., alc. 7.2%, lotto 12/14, scad. 12/2020, pagata 10.00 Euro (enoteca, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.