mercoledì 29 giugno 2016

Ritual LAB Tupamaros

Debutta oggi sul blog quello che definire birrificio sarebbe un po' riduttivo. Ritual Lab, questo il nome di una realtà che nasce nel 2014 prima di tutto come centro didattico di formazione per chi si vuole avvicinare alla produzione della birra. I corsi, che si svolgono sia a livello amatoriale che professionale, sono tenuti da Emilio Maddalozzo (birraio con 30 anni di esperienza tra Pedavena e accademia Doemens di Monaco di Baviera); oltre alla parte teorica vi è anche le possibilità di effettuare una cotta su di un impianto di produzione professionale seguendo l'intero processo, dalla macinatura del malto sino all’imbottigliamento.
Ma Ritual Lab vuole anche essere sperimentazione, ovvero ricerca "di differenti metodi di produzione, maturazione e gestione" della birra nonché la coltivazione in proprio di luppolo.
Nato nel 2013 a Formello (Roma), dal 2014 Ritual Lab ha iniziato a commercializzare le proprie birre dapprima come beerfirm e, dal 2015, con il proprio impianto da 12hl gestito da birraio Giovanni Faenza: American Pale Ale, Pils, Bock e Stout sono state le birre di partenza alle quali si è poi affiancata di recente una Double IPA. Impossibile infine non citare le splendide e metafisiche etichette realizzate dall'artista e tatuatore romano Robert Figlia.

La birra.
Tupamaros, citando quanto riportato sull'etichetta posteriore: "furono un'organizzazione di guerriglia urbana attiva in Uruguay tra gli anni '60 e '70. Partigiani d'oltreoceano in quegli anni attraverso furti, rapine e sequestri svelano al mondo le attività fraudolente della classe politica uruguaiana. Ad oggi passati oltre 30 anni alcuni leader Tupamaros ritenuti ai tempo criminale coprono le più alte cariche di Stato".
Per quel che riguarda la birra, siamo nel territorio delle Double/Imperial IPA. Il suo colore è dorato e velato, con lievi riflessi arancio; forma un capello di schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla buona persistenza. Bottiglia con (suppongo) un mese di vita alle spalle circa che regala un aroma non molto intenso ma pulito e fragrante: domina l'asprezza degli agrumi (pompelmo, limone, cedro, mandarino) rilegando molto in sottofondo qualche suggestione di frutta tropicale. La sensazione palatale è ottima: corpo medio, carbonazione medio-bassa per un'ottima scorrevolezza ed una grande facilità di bevuta, sopratutto se si considera che stiamo parlando di una Imperial IPA dal contenuto alcolico rilevante (8%). Apprezzabilissima la scelta di non appesantire la base maltata con il caramello, lasciando spazio alla leggerezza ed alla fragranza dei crackers e ad un velo di miele, accompagnato dal dolce della frutta tropicale che rimarrà sempre in sottofondo: la bevuta ricalca in tutto e per tutto l'aroma nell'abbondanza di agrumi, soprattutto scorza. Ne risulta una birra piuttosto succosa ma comunque secca e con l'alcool sempre ben nascosto: chiude amara, con un profilo "zesty" che non tralascia qualche nota resinosa. La pulizia è piuttosto elevata, anche se ci sarebbe ancora spazio per migliorare: il livello di questa Double IPA di Ritual Lab rimane comunque piuttosto alto: viene un po' penalizzata da un aroma non esplosivo, ma si riscatta al palato regalando una bevuta molto facile, nella quale sono banditi gli estremismi a favore di un grande equilibrio e di un'ottima intensità.
Formato: 33 cl., alc. 8%, lotto 9, scad. 05/2017, 5.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 28 giugno 2016

Poppels Russian Imperial Stout


Si conoscono al Porter Festival del 2011 di Göteborg, Daniel Granath, Tomas Kaudern e Thomas Fihlman: tra una birra e l'altra abbozzano l'idea di fondare un birrificio, e dalla teoria ai fatti non passa molto tempo. Nel 2012 apre a Mölnlycke, una quindicina di chilometri a sud-est di  Göteborg, la Poppels Bryiggeri: è Daniel,  avido lettore di libri sulla produzione di birre e con alle spalle anni di homebrewing, ad occupare il ruolo di birraio mentre altri dodici soci reclutati tra amici e parenti contribuiscono a fornire il capitale necessario per partire con un impianto proveniente dallo stesso fornitore cinese di un altro birrificio svedese, Dugges: e proprio Mikael Dugge Engström  pare abbia dato un aiuto fondamentale ai ragazzi di Poppels durante l'installazione e l'avvio dell'impianto.
Inizialmente il birrificio fu chiamato Poppelmans in onore di Johan Casparsson Poppelman, un tedesco arrivato a Göteborg per fondare, nel 1638 il primo birrificio commerciale della città, Poppelmans Bryggeri, operativo sino al 1835: a causa di alcune questioni legali fu poi cambiato in quello attuale.
La Poppels Bryggeri debutta con una Brown Ale e realizza il 60% del proprio fatturato attraverso il monopolio svedese Systembolaget; lo scorso aprile 2016 è avvenuto il trasloco nella più ampia sede di Jonsered, quindici chilometri ad est di Göteborg. L'impianto dismesso è stato acquistato dal pub inglese Old Beefeater Inn di Göteborg.

La birra.
La Russian Imperial Stout di Poppels è un'evoluzione della Poppels Project 002, una imperial stout prodotta in soli 1600 litri che nel Porter Festival di Göteborg del 2013 vinse il primo premio nella propria categoria stilistica. Rispetto alla birra originale, l'ABV passa da 8.5 a 9.5%; non vengono dichiarati gli ingredienti usati.
Assolutamente nera, forma uno splendido cappello di schiuma beige compatta, "croccante" e cremosa, dall'ottima persistenza. L'aroma non è tuttavia all'altezza dell'opulenza visiva di questa birra: intensità piuttosto scarsa, il benvenuto sembra arrivare dai luppoli (agrumi) anziché dalla ricchezza dei malti. In sottofondo liquirizia, un accenno di fruit cake bagnato nell'alcool. La sensazione palatale si discosta dalla tradizione scandinava delle Imperial Stout: non è affatto una birra masticabile, ma una che privilegia la scorrevolezza: il corpo è medio, la consistenza oleosa e la facilità di bevuta ne trae beneficio sacrificando un po' morbidezza e "lussuria", se mi passate il termine. Il gusto s'indirizza subito deciso verso l'amaro del caffè e delle tostature, accompagnate da una patina dolce di caramello bruciato e liquirizia che rappresentano però solo una rapida deviazione da quello che sarà il leitmotiv ricorrente di questa Imperial Stout: amaro torrefatto, dall'eleganza discutibile, accompagnato da quello resinoso e terroso dei luppoli, con una nota quasi rinfrescante di anice. L'intensità non è particolarmente elevata, non ci sono difetti ma in verità neppure pregi o passaggi che la rendano così memorabile. Svolge il suo compito senza regalare emozioni, lasciando giusto un remoto ricordo di cioccolato fondente. 
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, IBU 60, lotto 286, scad. 27/08/2017, 5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 23 giugno 2016

L'artigianale al discount: NYC India Pale Ale

Di tanto in tanto torno ad occuparmi della “birra artigianale” che si trova sempre più di frequenta anche sugli scaffali dei discount, a dei prezzi finalmente interessanti e lontani da quelli esosi ai quali siamo purtroppo abituati quando si parla di “birra artigianale”. La domanda però è sempre la stessa: si può bere bene spendendo il giusto? 
Una possibile risposta cerca di darla Target 2000, società per azioni con sede a Riccione che dal 2000 fornisce birre e altre bevande analcoliche alla grande distribuzione;  della società fa anche parte Amarcord, birrificio  “artigianale” con sede operativa ad Apecchio (PU), che produce molti dei marchi distribuiti. 
Se non erro Target 2000 è stata la prima a proporre birre artigianali anche presso i discount: da molti anni sono disponibili in alcuni discount le birre Lucilla (Bionda, Bianca e Rossa) mentre più di recente sono arrivate (in altri discount) le Arcana (Golden e Red)  e le due Italian  (Pale Ale e Amber). Dedicata ai supermercati (no discount)  è invece la linea Bad Brewer, che con un lieve sovrapprezzo offre sicuramente una migliore qualità, almeno per quello che sono riuscito a provare
Ma l’offerta di Target è molto più ampia: ci sono le Tosca e le Contessa (nomi non proprio originali, vedi birrifici San Michele e Amiata) a altre tre IPA, visto che la moda del luppolo non è affatto tramontata: Lucilla La IPA, Postina IPA, NYC India Pale Ale. Non ho ancora avvistato le prime due, mentre grazie alla segnalazione un lettore del blog, Angelo, sono riuscito a recuperare una bottiglia di NYC India Pale Ale, distribuita presso una catena di discount ancora diversa rispetto a quella di Lucilla e Arcana/Italian. Molto carina l’etichetta, sebbene non riveli  dove (Amarcord) la birra viene prodotta, ma il contenuto? Se poi vi chiedete perché New York City, ecco quanto afferma il distributore: "lo stile cosmopolita per eccellenza,  l' INDIA PALE ALE, dalla città cosmopolita per eccellenza: NYC. Da qui un giallissimo taxi, e il motto "On radio call: Beer": una birra italiana da gustare quando la sete chiama."


La birra.
Bella nel bicchiere, di colore oro carico con venature arancio e una compatta testa di schiuma bianca e cremosa, dall’ottima persistenza. L’aroma non brilla per intensità e freschezza/fragranza, ma è sostanzialmente pulito e privo di difetti: sentori floreali, una leggera presenza di agrumi che richiama più la marmellata che il frutto fresco. Neppure il gusto è un manifesto d'intensità, ricalcando in buona parte l'aroma: miele e un tocco di caramello introducono il dolce-ma-non-troppo della marmellata d'arancia per poi arrivare abbastanza rapidamente alla conclusione amara. Il livello anche qui è medio-basso, giusto un "colpetto" resinoso, vegetale e terroso e poi riemerge il dolce: intendiamoci, in sé non è di certo una birra dolce, ma non ha neppure quel livello d'amaro che t'aspetteresti in una IPA. La sua secchezza è ben lontano dall'essere esemplare, con il palato avvolto dopo ogni sorso da una patina dolce che riduce di molto il potere rinfrescante di questa IPA: tutto sommato bene la sensazione palatale, con un corpo tra il medio ed il leggero e una carbonazione delicata, e tutto sommato non è neppure un male che l'intensità sei sapori sia modesta. Finezza e grazia non sono di casa, basta farla scaldare un po' per aumentare il tasso d'amaro e veder apparire le prime poco gradevoli avvisaglie di gomma bruciacchiata. 
Una birra che si beve ma che - se devo esprimere un giudizio - si ferma al di sotto della sufficienza, sopratutto se la bevete da sola e fuori pasto: costa relativamente poco, intorno ai 4 euro/litro, ma non offre particolari soddisfazioni pur restando ampiamente preferibile ad una qualsiasi lager industriale presente sugli scaffali della grande distribuzione, o alla IPA "crafty" di Poretti.
Mi sembrerebbe leggermente meglio della Italian Pale Ale prodotta dallo stesso birrificio per lo stesso distributore, anche se le ultime bottiglie di quest'ultima le ho trovate migliori rispetto a quelle assaggiate un paio di anni fa. Il livello è comunque più o meno quello: valutatene l'acquisto se volete qualcosa da bere ad una grigliata tra le chiacchiere degli amici senza fare troppa attenzione a quello che vi mettono nel bicchiere: con meno di venti euro ve ne portate via una dozzina. 
Formato: 33 cl., alc. 5.8%, IBU 40, lotto 501602, scad. 19/05/2017, prezzo 1,48 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 21 giugno 2016

Verhaeghe Vichtenaar

Verhaeghe, birrificio attivo sin dal 1885 a Vichte, una quindicina di chilometri ad est di Kortrijk/Courtrai, fu fondato da Paul Verhaeghe ed in seguito (1928) guidato dai figli Leon e Victor, quindi (1944) dai nipoti Pierre e Jacques e (1991) dai figli di quest’ultimo Karl e Peter. Dei due, Peter è il birraio, mentre Karl si occupa della parte commerciale  ed amministrativa. 
Nel 1919 il birrificio era stato completamente ricostruito dalle macerie della Prima Guerra Mondiale: tutte le attrezzature (malteria e bollitori in rame) furono asportate dai tedeschi in seguito al rifiuto da parte di Paul Verhaeghe di produrre birra per l’invasore nemico.  Per i successivi 5-6 anni la produzione si fermò e ovviamente tutta l'abituale clientela si rivolse altrove. Al momento della ripartenza non ci fu solamente da recuperare l'intero parco clienti; le classiche Flemish Red Ales che Verhaeghe aveva sempre prodotto erano state spodestate, nel gradimento popolare, dalle Lager e dalle Pils. Il birrificio fu costretto ad un nuovo investimento economico per produrre basse fermentazioni creando la Verhaeghe Pils, che oggi occupa all’incirca il 10% della produzione.   
Karl e Peter, gli attuali proprietari, si sono ritrovati nel 1991 con un birrificio piuttosto vecchio sul quale non venivano fatti investimenti da molti anni: la loro decisione fu di proseguire per la strada della tradizione, continuando a produrre soprattutto Flemish Red Ales anziché mettersi a seguire le mode imposte dal mercato. Le birre di maggior successo prodotte oggi da Verhaeghe continuano ad essere la Duchesse De Bourgogne, la Vichtenaar e la Echt Kriekenbier.

La birra.
Vichtenaar è la birra di Vichte, casa di Verhaege; questa Flanders Red matura per diversi mesi (almeno otto, leggo) in grandi botti di rovere (foeders) che vanno dai 5000 ai 25000 litri. 
All'aspetto è di un ambrato piuttosto carico, vicino alla tonaca del frate, con intensi riflessi rossastri; la schiuma ocra è cremosa e compatta ed ha un'ottima persistenza. Il naso apre con profumi di ciliegia e fragola, ricordando più lo sciroppo che la frutta fresca: s'affiancano il pane leggermente tostato, accenni di pasticceria, una speziatura che richiama alla lontana zenzero e cannella, legno; l'acetico è piuttosto rilegato in sottofondo, prendendo le dolci sembianze del balsamico quando la birra è ancora fresca per poi scivolare delicatamente verso l'aspro con l'innalzarsi della temperatura. E' uno scenario non troppo diverso quello che si presenta al palato: anche qui l'aceto rimane in secondo piano, rinunciando al ruolo di protagonista per andare a bilanciare il dolce sciropposo della ciliegia, dei frutti di bosco e del caramello. Il legno esce soprattutto nel finale di una birra "acida ma dolce", se mi passate il controsenso, e priva di amaro; la sensazione palatale è gradevole e morbida, libera da asprezze o asperità, con poche bollicine ed un corpo medio. Bevuta a temperatura fresca mette in evidenza un ottimo potere rinfrescante e dissetante, grazie ad un'ottima secchezza. Lasciatela riscaldare se desiderate una maggiore struttura, perderete l'aceto balsamico rimpiazzato da  una asprezza più evidente nella quale, oltre all'aceto di mela, apparirà anche una delicatissima nota lattica. Con una pulizia sempre elevata, la Vichtenaar è una Flanders Red versatile, molto ben fatta e piuttosto accessibile anche a chi non ha grande familiarità con lo stile o con le "birre acide": segnatevela se volete avventurarvi in questo affascinante mondo.
Formato: 25 cl., alc. 5.1%, scad. 18/12/2016, 1.00 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 20 giugno 2016

Mikkeller Porter

Nell’occasione dell’ultima Mikkeller bevuta mi ero divertito a fare il conto delle sue birre, secondo quanto contabilizzato nel database di Ratebeer:  784 in totale dal 2006 al 2015, una media di 87 birre diverse ogni anno, ovvero una nuova ogni 4 giorni lavorando 365 giorni o ogni 3 ipotizzando 250 giorni lavorativi in un anno; vero che una buona parte di queste sono delle leggere variazioni di altre birre, ma i numeri sono comunque inquietanti. 
In un elenco di quasi 800 birre prodotte in 9 anni è facile perdersi e il sito ufficiale di Mikkeller elimina il problema alla radice, non elencandole: c’è la sezione birrificio con le foto di San Diego, c’è la sezione dedicata ai numerosi Mikkeller Bar aperti nel mondo e c’è quella relativa al webshop/merchandising. Delle singole birre non si parla. 
In un portfolio così sterminato e disseminato di “birre disneyland”, di “birre pupazze”, di birre estreme fatte solo per stupire (ricordate la 1000 IBU?) fa quasi impressione parlare di una “semplice” Porter (ovviamente poi replicata in versione barricata e natalizia) che nella sua semplicità quasi passa sotto traccia, eclissata dall’hype di altre decine (forse centinaia) di  (imperial)stout/porter prodotte dalla beerfirm danese ad uso e consumo dei beergeeks. E poco importa se proprio su questo stile Mikkeller o qualcuno a nome suo abbia commesso qualche errore storico nella compilazione del suo libro “Mikkeller's Book Of Beer.

La birra.
La Porter di Mikkeller è in verità una “Robust Porter” (8%) che arriva assieme all’etichetta disegnata da Keith Shore. Prodotta in Belgio da De Proef, nel bicchiere è praticamente nera, sormontata da una cremossissima testa di schiuma color cappuccino, fine e compatta, dall’ottima persistenza. 
L'aroma mantiene le "golose" aspettative create dall'aspetto, regalando un bouquet pulito che apre con sensazioni di scorzette d'arancia ricoperte di cioccolato, caffè, orzo tostato, fruit cake, suggestioni di tiramisù; più in sottofondo qualche traccia di cenere e anche il luppolo fa sentire la sua presenza con un tocco di resina. Uno degli aspetti che secondo me non bisogna mai sottovalutare quando si parla di porter/stout dalla robusta gradazione alcolica è la sensazione palatale: la Porter di Mikkeller non lo fa, anzi, prende la cosa piuttosto seriamente. Il mouthfeel è splendido, setoso, vellutato, morbidissimo: poche bollicine, corpo medio, avrei scommesso ad occhi chiusi sull'utilizzo di avena ma l'etichetta non lo riporta. Il gusto parte deciso per la direzione amara, ricca di caffè e tostature, con il caramello bruciato e qualche accenno di zucchero candito a bilanciare; ogni tanto anche qualche agrume fa capolino, incastrandosi all'interno di un ipotetico fruit cake. Terminata la breve parentesi dolce centrale, il finale riporta caffè amaro e tostature a volontà, con uno strascico luppolo (terra, resina) a pulire il palato. Nulla da eccepire sulla pulizia, già detto della sontuosa sensazione palatale: la Porter di Mikkeller è robusta ma si beve con facilità, riscalda quanto basta, dispensa amaro e torrefatto senza mai perdere la ragione. Ottima birra, a dimostrazione che per stupire non è necessario sempre "farlo strano".
Formato: 33 cl., alc. 8%, scad. 23/11/2019, 5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 19 giugno 2016

Unibroue Don de Dieu

Secondo appuntamento con il birrificio canadese Unibroue che vi avevo presentato giusto un mesetto fa: è stato fondato nel 1990 da André Dion e Serge Racine che si sono poi avvalsi di alcuni consulenti belgi per la realizzazione delle ricette. Gino Vantieghem prima e Paul Arnott (un passato a Chimay) hanno contribuito a dare al birrificio quel DNA belga che il fondatore Dion voleva. Nel 2004 Unibroue venne acquistata dal birrificio canadese Sleeman il quale, due anni dopo, passò nelle mani giapponesi di Sapporo per 400 milioni di dollari. Il birraio è Jerry Vietz, in Unibroue dal 2003.
La Fin du Monde del mese scorso era una birra dedicata alla credenza europea che il mondo finisse in mezzo all'oceano atlantico, quando le Americhe non erano ancora state scoperte. Il nome della birra di oggi ha un'ispirazione simile: Don de Dieu ("il dono di Dio") era il nome del vascello capitanato dall'esploratore Samuel de Champlain, considerato il padre fondatore della "nuova Francia" altresì nota come Canada. Nel 1599 per conto del Re di Spagna si era recato in America Meridionale, mentre nel 1603 questa volta inviato dal Re di Francia, raggiunse le coste del Canada, un immenso territorio raggiunto per la prima volta da Giovani Caboto nel giugno del 1497; Samuel de Champlain, fondò nel 1605 Port Royal, nel luglio 1608 da Quebec City e nel 1611 Montreal. A lui dobbiamo la prima mappa dettagliata delle coste canadesi.

La birra.
Il birrificio la definisce una Triple wheat ale, che corrisponde ad una Belgian Strong Ale prodotta dal 1998 con una buona percentuale di frumento. Il suo colore, leggermente velato, è tra il dorato e l'arancio; forma un compatto cappello di schiuma bianca, cremosa e dalla buona persistenza. L'aroma mette in primo piano le note speziate del lievito (pepe, coriandolo) che introducono il dolce dello zucchero e della frutta candita; in sottofondo pane, cereali e crackers ma anche un pochino di mais cotto (DMS). Una sostenuta carbonazione rende la bevuta vivace, accompagnata da un corpo medio e da un'ottima scorrevolezza, se si considera la gradazione alcolica (9%); il gusto ricalca nel bene e nel male l'aroma, con le note di pane e biscotto, miele e frutta candita (arancia e pesca), e di nuovo mais cotto in sottofondo. In assenza completa d'amaro, l'equilibrio viene dall'ottima attenuazione del lievito e dall'acidità del frumento, ma c'è po' d'astringenza a rovinare la festa. L'alcool è ben nascosto, con un morbido tepore che si fa notare solamente nel retrogusto di frutta sotto spirito. La pulizia ci sarebbe anche, ma qualche difettuccio di troppo rende questa bottiglia di Don de Dieu poco memorabile, contrariamente alla Fin du Monde, che mi aveva davvero impressionato in positivo. Si riesce a bere, certo, ma con un po' di delusione.
Formato: 34,1 cl., alc. 9%, IBU 10.5, lotto J171510630.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 17 giugno 2016

Tempest A Face With No Name

Tempest Brewing Company viene fondata nel 2010 dallo scozzese Gavin Meiklejohn e dalla moglie neozelandese Annika a Kelso, Scozia, poche miglia dal confine sud-orientale con l’Inghilterra. I due si erano conosciuti alla fine degli anni ’90 in Canada (Whistler, British Columbia) dove Gavin stava lavorando come cuoco in quella che oggi è chiamata Whistler Brewing Company; è l'incontro con la a craft beer revolution statunitense a spingerlo verso l’homebrewing nel periodo in cui si trasferisce in Nuova Zelanda assieme alla futura moglie per continuare il suo percorso di chef. A Sidney frequenta anche un corso professionale per la produzione della birra e poi la coppia rientra in Scozia per aprire a Kelso il gastropub The Cobbles: nei momenti di pausa dalla cucina, Gavin continua con l’homebrewing sotto la  spinta dalle richieste sempre più pressanti dei clienti che desideravano bere una birra locale. 
Ad aprile 2010, nei locali un tempo occupati da un caseificio, fonda la Tempest Brewing Company che dispone di un impianto da 800 litri in parte costruito recuperando attrezzature usate proprio dall’industria casearia. Ad aiutarlo arriva come business manager Allan Rice, uno scozzese con esperienza alla Stewart Brewing di Edimburgo e – come Gavin -  in Canada e Nuova Zelanda; dopo un primo upgrade ad un impianto da 16 hl, per soddisfare la crescente domanda si è reso necessario nel 2015 il trasferimento nella nuova sede al Tweedbank Industrial Estate di Galashiels, ad una ventina di chilometri da Kelso, dove ha trovato posto il nuovo impianto da 30 hl al quale ha anche fatto seguito il completo restyling di tutte le etichette. 
Gavin e Annika hanno scelto di focalizzarsi sulla produzione di birra affidando in gestione/affitto il pub Cobbles a Luca e Olivia Becattelli: il locale continua comunque a funzionare come una specie di Brewery Tap di Tempest, che al momento ne è sprovvisto. Nello scorso maggio il British Institute of Innkeeping Awards ha nominato Tempest “birrificio scozzese dell’anno”.

La birra.
La IPA Brave New World e la Pale Ale  Long White Cloud sono le Tempest di maggior successo:  il debutto sul blog avviene però con  amber ale abbondantemente luppolata chiamata A Face With No Name, basata su di una ricetta formulata da Gavin ai tempi dell’homebrewing nella propria cucina, con le materie prime che aveva a disposizione in quel momento e chiamata Bastard Child.  La versione attuale rielaborata prevede malti  Golden Promise,  Amber, Vienna, Carared e Crystal T50, luppoli Cascade, Centennial e Green Bullet; i beer-raters di Ratebeer la eleggono tra le cinquanta migliori Amber Ale al mondo, per quel che conta.
All'aspetto è di un bell'ambrato con intense venature rossastre, e forma un compatto e cremoso cappello di schiuma ocra dall'ottima persistenza. Sono i luppoli a dare il benvenuto al naso con i loro profumi di resina, pino e, più in secondo piano, di pompelmo, passion fruit e terrosi; i malti non stanno comunque a guardare, contribuendo con note di biscotto e di quel nutty che riesco a tradurre solo con "frutta secca". L'ottima pulizia permette di apprezzare quello che sembra essere un incontro tra Stati Uniti e Regno Unito. Il percorso prosegue al palato con un ottimo mouthfeel, morbido, scorrevole e con poche bollicine: qui sono i malti ad inaugurare la bevuta (biscotto, caramello, frutta secca) formando una base solida ma non ingombrante che, dopo un rapido passaggio dolce di frutta tropicale, porta ad una bella chiusura amara che chiude perfettamente il cerchio laddove era iniziato: resina, pino, terra. L'alcool (6%) è molto ben nascosto e la facilità di bevuta è ottima; pulizia ed eleganza ci sono, la freschezza è ancora presente e permette di apprezzare il retrogusto amaro, intenso-ma-con-giudizio, di un'ottima Amber Ale dal profilo americaneggiante che non dimentica però di guardare ogni tanto alla propria terra di origine. Particolarmente azzeccata, secondo me, la scelta di non indulgere nel fruttatone tropicale in presenza di una base maltata già ricca di per sé, scegliendo poi di bilanciarla con resina e terra piuttosto che con il solito amaro della scorza d'agrumi. Non siamo al livello di questa Amber Ale, ma si beve ugualmente bene,
Formato: 33 cl., alc. 6%, IBU 50, lotto 214, scad. 01/03/2017, 4.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 16 giugno 2016

HOMEBREWED! Cavalier King Brewery - Saison

L’appuntamento di giugno dedicato alle produzioni casalinghe è di nuovo con  Giacomo Savatteri da Caltagirone (CT) ed il suo birrificio casalingo chiamato, in onore del proprio cagnolino, Cavalier King Brewery. Nei mesi scorsi avevo già ospitato la sua stout Sweet Black Lady e più di recente l’American/Belgian Pale Ale chiamata Modesta
Sono particolarmente curioso di assaggiare la birra di oggi per due motivi: è una Saison, stile che adoro, ed è realizzata isolando un ceppo di lievito da una bottiglia di Saison Dupont, probabilmente la birra che mi porterei su di una ipotetica isola deserta.  Il tentativo di Giacomo di clonare la Dupont si avvale anche delle stesse tipologie di malto e luppolo, almeno secondo il libro Farmhouse Ales di Phil Markowski; 100% malto Pilsner,  luppoli EK Goldings e Styrian Goldings. Segnalo anche la bella etichetta realizzata da Marta Sagone, una studentessa del liceo artistico di Caltagirone, che cattura l’essenza dello stile “saison”: birre destinate ai contadini e ai braccianti valloni nel corso delle lunghe, calde e faticose giornate estive di lavoro nei campi, per rifocillarli e dissetarli al posto dell’acqua, a quel tempo spesso insalubre. Due sono le bottiglie che Giacomo mi ha inviato, una da 33 ed una da 50 centilitri, che ho deciso di bere una dopo l'altra, per rifocillarmi da una (dura, ma non come quella di un bracciante agricolo) giornata di lavoro.

La birra.
Il suo colore è dorato, ovviamente velato, con netti riflessi arancio e una bella testa di schiuma bianca, cremosa e compatta ,dall’ottima persistenza. L’aroma presenta una rustica terrosità affiancata dalle spezie (pepe, accenni di coriandolo) e dalla polpa dell'arancio che a tratti sconfina nello zuccherino del candito. I fenoli però si portano dietro anche qualche nota meno gradevole di plastica/gomma, quasi impercettibile nella bottiglia da 50 cl. ma un po' fastidiosa in quella da trentatré. La sensazione palatale è quella giusta: corpo "quasi" medio, bollicine vivaci a solleticare il palato a movimentare la bevuta senza intaccare per nulla la scorrevolezza. Al gusto passano in rassegna cereali e miele, polpa d'arancio, una delicata speziatura che di nuovo richiama un po' il coriandolo e una discreta componente zuccherina e candita. Anche al palato i fenoli sporcano un po' la bevuta, "difetto" quasi inavvertibile nella bottiglia da mezzo litro; la chiusura finale terrosa è amara e piuttosto gentile per quel che riguarda l'intensità.
Personalmente l'ho trovata un po' poco attenuata, con un residuo zuccherino che mi ha ricordato alcune birre di Stillwater piuttosto che la secchezza della Dupont: siamo nell'ambito del gusto personale, ma anche l'amaro è un po' carente (sempre con riferimento alla Dupont) e la sua maggior presenza avrebbe forse contribuito a ripulire un po' il palato dal dolce. La pulizia al naso è migliorabile, sopratutto per quel che riguarda l'espressività del lievito che regala pochi esteri fruttati, con il risultato di un bouquet olfattivo un po' povero.
La birra comunque si beve con ottima facilità, l'alcool (6.5%) è molto ben nascosto e tutto sommato la birra risulta più che discreta svolgendo con dignità il suo compito dissetante e rinfrescante: mi è capitato anche di recente di bere delle Saison "professionali" molto meno riuscite di questa. Non faccio (non ancora)  la birra in casa quindi non so dare precisi consigli a Giacomo: considerando che una Saison la fa il lievito, direi che questo è l'aspetto su cui focalizzarsi, con tutte le attenuanti del caso visto che per questa birra è stato "recuperato" il fondo di una bottiglia di Dupont.
Questa la  valutazione su scala BJCP:  34/50 (Aroma 7/12, Aspetto 3/3, Gusto 13/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 7/10).  Ringrazio Giacomo per avermi spedito e fatto assaggiare la sua birra, e vi do appuntamento alla prossima "puntata" di Homebrewed! E ricordate che la rubrica è aperta  a tutti i volenterosi homebrewers!  
Formato: 33 e 50 cl., alc. 6.5%, imbottigliata 12/2015.

PS - per chi volesse rinfrescarsi la memoria con la Saison Dupont, qui trovate l'originale e alcune versioni dry-hopped.

mercoledì 15 giugno 2016

Get Radical Mars Need Women 2015

Get Radical è un progetto/beerfirm cui fanno capo  Brandon Evans e Simon Thillou, proprietari del beershop parigino La Cave a Bulles, fino a qualche anno fa uno dei pochissimi luoghi in cui poter acquistare birra di qualità nella capitale francese, nelle vicinanze del Centre Pompidou. Fortunatamente la scena brassicola di Parigi ha subìto un netto miglioramento e negli ultimi anni hanno aperto diversi beershop e bar specializzati in cui poter fare buoni acquisti e bere bene. 
Nel 2013 Evans e Thillou hanno deciso di collaborare con alcuni birrifici per realizzare ricette ispirate dalla musica. L’esordio avviene con due birre realizzate presso la Brasserie des Garrigues a giugno 2013 che vengono poi messe in vendita nel novembre dello stesso anno: si tratta  della Promised to the Night (6%) che il birrificio definisce una “India Small Beer” ispirata dalla canzone Is She Weird dei Pixes (700 litri prodotti) e di una sorta di barley wine (10%) chiamato Bodacious Cowboy (300 litri) che prende il nome da un personaggio della canzone Gaucho di Steely Dan. A settembre 2013 ci si sposta alla Brasserie Correzienne dove viene prodotta la Double IPA Wollt ihr das Bett in Flammen sehen, ispirata dall’omonimo brano dei Rammstein.
A gennaio 2014 tocca alla Brasserie Thiriez di Esquelbecq ospitare i Get Radical per realizzare una Biere de Mars generosamente luppolata chiamata Train to Mars sulle note della canzone Stars degli Hum; la birra coglie l’attenzione di Shelton Brothers che decide di importarla negli USA. Manco a dirlo, Train to Mars è diventata la birra di maggior successo di Get Radical entrando da allora in produzione stabile ogni anno: cotta a gennaio, in vendita a partire (ovviamente) da marzo; il successo ne ha fatto nascere anche una versione barricata con il nome di Mars Need Women. Le ultime nate sono la Feathers of Angels, una English IPA alla frutta realizzata alla Brasserie Mont Saleve alla fine del 2014 e la Thrill is Gone, una Porter nata alla Brasserie Goutte d'Or e dedicata a BB King. 
Lo scorso febbraio 2016 il popolo di Ratebeer ha eletto Get Radical come miglior "birrificio" francese del 2015 e Train To Mars miglior birra francese.

La birra.
Come detto, dietro ad ogni Get Radical c’è un’ispirazione musicale; per la Mars Needs Women si tratta dell’omonimo brano di Rob Zombie tratto dal suo disco Hellbilly Deluxe 2.  Per chi non lo sapesse (me compreso) Zombie fa all’anagrafe Robert Bartleh Cummings ed è uno dei fondatori del gruppo americano White Zombie; perdonate l’ignoranza ma il metal non sono mai riuscito a sopportarlo. Detto questo, Mars Needs Women altro non è che la versione barricata delle Biere de Mars chiamata Train to Mars; l’invecchiamento dura sette mesi in botti di vino provenienti dalla Valle del Rodano (Cote du Rhone).  Viene rifermentata con aggiunta di brettanomiceti e miele che di fatto la trasformano in un quella che Get Radical definisce una French Style Sour Ale; la ricetta della birra prevede invece 100% malto pils, luppoli Mosaic, Aramis e Simcoe. Ogni anno ne vengono prodotti circa 500 litri.
Nel bicchiere si presente di un bel color dorato, velato ma solare,  con una compatta testa di schiuma bianca e cremosa, dalla buona persistenza. Il naso apre con profumi floreali, di agrumi (limone, mandarino) e di ananas. Le caratteristiche "selvagge" dei brettanomiceti si fanno più evidenti man mano che la birra si scalda: lattico, sudore e legno completano un bouquet pulito, dalla buona intensità e piuttosto invitante. Leggera, molto scorrevole e facilissima da bere,  andrebbe tutto per il meglio al palato se solo ci fossero un po' più di bollicine. La vitalità ovviamente ne risente ma il gusto è ugualmente soddisfacente e ricco di frutta che riprende l'aroma: ananas, forse mango, polpa ma sopratutto tanta scorza di agrumi (lime e limone) a rendere la bevuta secca, lievemente aspra e  molto dissetante. Annoto il miele, il crackers dei malti, un lieve carattere vinoso ed chiusura amara nella quale convivono lattico, scorza d'agrumi e tannini. A fronte di un contenuto alcolico modesto (5%) questa Mars Need Women mette in campo un'ottima intensità risultando una saison rustica/funky, caratterizzata con criterio dal passaggio in botte e soprattutto  attraversata da una gradevolissima acidità molto rinfrescante e quindi particolarmente adatta a questi mesi dell'anno. 
Formato: 75 cl., alc. 5%, IBU 45, lotto 2015, scadenza non riportata, 11.00 Euro (beershop, Francia)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 14 giugno 2016

Amager/Jester King: Danish Metal

Eccoci ad un nuovo capitolo nella serie delle collaborazioni americane del birrificio danese Amager. Come sempre il fattore scatenante è la  CBC, ovvero la Copenhagen Beer Celebration, un evento che rende per un weekend all’anno la capitale danese uno dei luoghi più ambiti da beergeeks e che al tempo stesso porta in Danimarca numerosi birrai stranieri. 
Nonostante non sia Amager ad organizzare la CBC, nei giorni precedenti o posteriori all’evento alcuni birrifici si recano presso il birrificio danese, nei pressi dell’aeroporto di Copenhagen, per realizzare una birra collaborativa. Le birre vengono poi solitamente presentate a luglio, nel corso dell’American Day che si tiene ogni anno da Amager  il quattro di luglio, tra musica rockabilly ed esibizioni di Harley Davidson Nell’edizione 2014 fu il turno di  Orange Crush, una Session IPA realizzata con Cigar City, Todd - The Axe Man, un’American IPA con Surly Brewing, Shadow Pictures, una Double IPA assieme a Grassroots Brewing e Danish Metal realizzata con i texani di Jester King. 
Dopo aver già assaggiato le altre tre, è il momento di chiudere il cerchio con l’ultima rimasta.  L’idea di Morten Valentin Lundsbak, Jacob Storm (Amager),  Ron Extract e Garrett Crowell (rispettivamente uno dei fondatori e head brewer di Jester King)  è di mettere mano alla Imperial Stout  texana chiamata della Black Metal, della quale esistono già due versioni. Una prodotta con lievito farmhouse, assaggiata in questa occasione, ed una con English Yeast che Jester King ha smesso di produrre. La collaborazione punta a riesumare proprio questa birra, cambiandone leggermente gli ingredienti. Quella originale prevedeva malti Pale, Black, Chocolate, Caramalt, Carafa, Dark Crystal e orzo tostato,  luppoli Millennium ed East Kent Goldings;  quella elaborata assieme ad Amager parla invece di malti Maris Otter, Caramunich, Brown, Black, Chocolate, Carafa 3, Dark Crystal e orzo tostato; solo un luppolo utilizzato, il Polaris.

La birra.
Dal “Dark Metal” texano si passa quindi al “Danish Metal”, una birra che sfoggia anche un’etichetta meno minacciosa realizzata da Simon Hartvig Daugaard, fido collaboratore di Amager.
Il bicchiere si riempie subito di una cremosa ed esuberante schiuma color cappuccino che obbliga ad una lunga attesa prima di riuscire a comporre un bicchiere decente; è un’imperial stout assolutamente nera che regala profumi di caffè e tostature con accenni più dolci di fruit cake imbevuto di liquore e liquirizia. Intensità, eleganza e pulizia sono complessivamente buone ma non mandano in estasi chi avvicina il naso al bicchiere. L’irrequietezza della schiuma come c’era d’attendersi si manifesta purtroppo in una carbonazione eccessiva che mal si abbina con lo stile, disturbando parecchio la percezione dei sapori: il mouthfeel risulta troppo spigoloso, nonostante una consistenza oleosa che riesce a renderla bevibile senza ricorrere a quella masticazione che spesso le imperial stout scandinavi richiedono. Il gusto ripropone in toto l’aroma, con l’amaro del torrefatto e del caffè  bilanciato dal dolce di caramello e liquirizia; in sottofondo fa ogni tanto capolino un pochino di salsa di soia, mentre l’alcool (10%) non alza mai la testa più del dovuto irrobustendo e riscaldando la bevuta quanto basta. Gli elementi in gioco sono pochi e neppure disposti con quella maniacale pulizia/eleganza che sarebbe necessaria: chiude piuttosto amara di caffè e tostature che a tratti sconfinano un po' nel bruciato. Bottiglia solo discreta, davvero penalizzata da troppe bollicine, rimane la delusione per l'incontro di due birrifici che solitamente lavorano molto bene. 
Formato: 50 cl., alc. 10%, lotto 880, scad. 09/2019, 9.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 12 giugno 2016

Bells Kalamazoo Stout

Secondo appuntamento con Bell's, birrificio del Michigan incontrato qualche settimana fa per la prima volta. A settembre saranno 31 le candeline sulla torta del fondatore Larry Bell, nato nell'area di Chicago ma alla fine degli '70 trasferitosi ventiduenne a Kalamazoo, a 200 chilometri di distanza, per lavorare alla Sarkozy Bakery. Un collega di lavoro lo introdusse all'homebrewing, che Larry portò avanti con grande passione arrivando  ad aprire qualche anno dopo un minuscolo negozio di homebrewing, dal quale nacque poi la Kalamazoo Brewing Company, rinominata Bell's nel 2005.
Fondamentale fu per lui la frequentazione della Real Ale Co. di Chelsea, aperto nel 1982 da Ted Badgerow e di fatto il primo microbirrificio non solo del Michigan ma di tutto il Midwest: la Real Ale chiuse i battenti nel 1986 passando a Bell's (aperto nel 1985) il testimone di microbirrificio in attività più antico di tutta quell'area che si estende dalla East Coast alle Montagne Rocciose.
Kalamazoo, 75.000 abitanti, prende il suo nome da una parola  in Potawatomi, la lingua parlata dall'omonima popolazione residente in una piccola area tra il Michigan ed il Wisconsin. Nel 1829 s'insediarono i primi commercianti di pellicce europei che edificarono  un villaggio inizialmente chiamato Bronson, dal nome del fondatore Titus Bronson, poi rinominato nel 1836 Kalamazoo come il fiume che vi scorreva nelle vicinanze. 
Kalamazoo fu anche il luogo dove Orville Gibson nel 1902 fondò la  Gibson Mandolin - Guitar Co., Ltd: la produzione delle chitarre di quello che oggi è uno dei marchi più famosi nel mondo fu poi trasferita negli anni '80 nel stabilimenti di Memphis (Tennessee) e di Bozeman (Montana). 

La birra.
Sono cinque le stout prodotte da Bell's: Expedition Stout, Special Double Cream Stout, Java Stout e Cherry Stout sono disponibili sono in alcuni mesi dell'anno, mentre potete bere ogni giorno la Kalamazoo Stout,  prodotta con aggiunta di liquirizia e commercializzata per la prima volta nel 1986. Diamo un sguardo al beer-rating: 100/100 e quinta miglior stout al mondo per Ratebeer, punteggio di 90/100 per Beer Advocate.
Il suo vestito è quasi nero e lascia intravedere in controluce solo leggeri riflessi ebano scuro; la schiuma color cappuccino è perfettamente cremosa e compatta, dall'ottima persistenza.  Semplicità e pulizia sono le fondamenta sulle quali appoggia l'aroma: caffè e tostature la fanno da padrone, circondandosi di comprimari come mirtilli, cenere, cioccolato e liquirizia. Uno scenario pressoché identico viene riproposto anche al palato, con uguale semplicità, pulizia ed eleganza, nel quale l'amaro del caffè e del tostato indica subito la strada da percorrere senza indugi. Il dolce del caramello è anch'esso bruciacchiato, lasciando il compito di bilanciare la birra all'acidità dei malti scuri e alla generosa luppolatura finale, efficace nel ripulire assieme ad una nota quasi rinfrescante di liquirizia; dopo un attimo di pausa, il retrogusto ritorna a dispensare amaro nella forma di caffè e tostato, con una lieve terrosità. Una Stout solida e priva di fronzoli che regala una bella intensità a fronte di un'ottima bevibilità e di un contenuto alcolico ben lontano dalla doppia cifra; non capita spesso di vedere le Bells in Europa/Italia e quindi cercate di cogliere l'occasione, ora che sono arrivate: la Kalamazoo Stout si è rivelata piuttosto spinta sull'amaro del torrefatto, probabilmente se cercate qualcosa di più dolce potreste orientarvi sulla Double Cream Stout.
Formato: 35.5 cl., alc. 6%, lotto 15308, imbott. 27/01/2016, 5.00 Euro.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 10 giugno 2016

Verzet Oud Bruin Oak Leaf 2014

Della beerfirm in procinto di diventare birrificio Verzet vi avevo già parlato qualche mese fa. I birrai "della resistenza" sono Alex Lippens, Joran Van Ginderachter e Koen Van Lancker, compagni di studi e nel 2008 diplomati birrai alla scuola di Gent. Subito al lavoro in diversi birrifici, i tre erano soliti ritrovarsi durante i weekend per sperimentare o per produrre birre secondo il proprio gusto. Famigliari ed amici apprezzavano, arrivando a convincerli di fare le cose un po' più in grande; in assenza di finanziamenti per progettare il proprio birrificio, i tre ragazzi decidono nel 2011 di partire a produrre presso gli impianti del vicino birrificio Gulden Spoor di Gullegem. Nel 2012 si spostano presso De Ranke e, nel 2013, si aggiunge anche il birrificio Geert Toye. 
Nella loro città natale, Anzegem, è già operativo il Café Local, un locale dove poter assaggiare le proprie birre destinato a diventare tra qualche mese un vero e proprio brewpub. 
Dopo aver assaggiato la Oud Bruin, assemblata con un blend di birra fresca e di birra che viene invecchiata un anno in botti ex-vino rosso, è il momento della sua versione “Oak Leaf” , ovvero della “foglia di quercia”.  Il perché del nome è presto detto: la birra matura per 6 mesi assieme a foglie di quercia raccolte a mano in autunno, precisamente un metro quadro di foglie ogni 1000 litri di birra; i lieviti selvaggi naturalmente presenti sulle foglie di quercia finiscono quindi nella birra contribuendo alla fermentazione.

La birra.
Nessuna etichetta, solo un cartoncino appeso al collo con lo spago ed un tappo avvolto dalla ceralacca gialla a complicare un po’ la vita al momento dell’apertura. Qualcuno di voi avrà probabilmente avuto occasione di assaggiarla nel corso dell’ultimo Arrogant sour festival 2016.
Nel bicchiere arriva di color ambrato opaco, con intense sfumature rossastre ed un cappello di schiuma ocra fine e cremosa ma piuttosto evanescente. Legno  umido ed aceto di mela danno il benvenuto aromatico, accompagnati dall'asprezza di ribes e amarena; c'è un profilo "funky", lattico e polveroso "di cantina", mentre l'unica concessione dolce è data da accenni di vaniglia e zucchero a velo. Vivace e piacevolmente scorrevole, al palato nasconde benissimo il suo contenuto alcolico (7%) evidenziando pungenti bollicine ed un corpo medio. L'aroma non nascondeva il suo carattere aspro ed acido ed il gusto non intende smentirlo: la bevuta è segnata dall'asprezza del limone (quasi come succhiarlo) alla quale s'affiancano le note acetiche e l'asprezza di ribes e amarena. Il sottofondo dolce (caramello) è davvero solo accennato, il legno fa più volte capolino e ne risulta una birra  piacevolmente rustica e spigolosa, estremamente secca ma davvero molto aspra. Acetico e lattico camminano fianco a fianco entrando e uscendo di scena a più riprese, concludendo il match in parità. Estremamente dissetante e rinfrescante, la Oak Leaf  di Verzet è probabilmente la birra più sour che mi sia mai capitato d'assaggiare: se siete malati di acido fateci un pensiero, altrimenti valutate la Oud Bruin di Verzet "normale",  sicuramente più mansueta e accessibile.
Formato: 75 cl., alc. 7%, lotto 2014, scad. 12/2025, 9.20 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 9 giugno 2016

Mad Yeast Mad Saison

Mad Yeast è una beerfirm nata a Maggio 2013; al timone ci sono Denis Martin e Maxime Libouton, due belgi diplomati al Meurice Institute di Brussels che hanno successivamente trovato lavoro nell’industria della birra. Martin in Danimarca presso la Alfa Laval ad occuparsi d’installazione d’impianti professionali nel mondo, Libouton è rimasto in laboratorio di ricerca a fornire consulenze ai birrifici. 
Contagiati anche loro dalla craft beer revolution, hanno lanciato il  proprio  marchio Mad Yeast con sede legale in Danimarca a Frederiksberg; la produzione delle birre avviene però presso la  Brouwerij Anders di Halen, in Belgio; il progetto annunciato sul sito internet, non so quanto concreto, è di avere un giorno impianti di proprietà. 
Mad Yeast, il “lievito pazzo” richiama un po’ il wild yeast, qui lieviti selvaggi che però non sono ancora stati utilizzati dalla beerfirm.  Tre al momento le referenze prodotte:  Tripel  Mad (8%), Mad Stout (6%) e Mad Saison.

La birra.
Mad Saison (5.5%) viene prodotta con quattro varietà di luppolo non specificate: una tedesca, due alsaziane ed una americana. 
Di colore oro pallido velato, è piuttosto esuberante nella formazione di una schiuma bianca, pannosa e un po’ scomposta che riempie immediatamente il bicchiere obbligando ad una lunga attesa prima di riuscire a versare tutta la bottiglia. Il naso è fresco, pulito e di buona intensità: s'intrecciano profumi floreali, terrosi e sopratutto di agrumi (lime, limone); in sottofondo c'è l'asprezza della mela acerba, la dolcezza del miele e della banana, una gradevole nota rustica che ricorda la paglia.
L'aroma è un bel biglietto da visita che trova conferme in bocca: i malti sono leggeri (crackers, un tocco di miele) e lasciano il campo libero agli agrumi, che vanno a caratterizzare quasi tutta la bevuta: lime, limone e pompelmo non lesinano la propria scorza a formare una bevuta molto ben attenuata e quindi dall'elevatissimo potere rinfrescante. Pesca ed ananas offrono qualche spunto di dolcezza, mentre  la chiusura prosegue con l'amaro terroso e della scorza d'agrumi, senza mai perdere di vista pulizia ed intensità. Quasi perfetta la sensazione palatale, vivamente carbonata, scorrevole  e facile da bere come una Saison dev'essere. 
Davvero una piacevolissima sorpresa questa birra di Mad Yeast, nella quale trovano posto elementi moderni ma anche quelle classiche note rustiche che non dovrebbero mai mancare in questo stile. Encomiabile per pulizia e secchezza, si beve con grande soddisfazione; per darvi un paragone facilmente comprensibile, pensate ad alcune produzioni di Extraomnes (Wallonie, Hond,erd e Zest) e non andrete troppo fuori strada. 
Formato: 33 cl., alc. 5.5%, scad. 20/03/2017, 2.40 Euro (beershop, Belgio).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 7 giugno 2016

Logsdon Szech 'n Brett

Del birrificio dell’Oregon Logsdon Organic Farmhouse Ale vi avevo brevemente accennato un po’ di tempo fa, con l’assaggio della loro ottima Seizoen. Un birrificio che mi ha catturato ancora prima di riuscire a berlo: zero fronzoli, sito internet ed etichette delle birre quasi amatoriali che ricordano quelle di molti produttori belgi. 
Il fondatore è Dave Logsdon, quasi un’istituzione per ogni homebrewer  e birraio visto che fu nel 1985 uno dei fondatori della Wyeast Laboratories, oggi tra i più noti fornitori di lieviti; dopo aver aiutato per 25 anni altre persone a fare la birra, nel 2011 ha deciso di lasciare la Wyeast per fondare in una casa di campagna adiacente alla sua abitazione la  Logsdon Organic Farmhouse Ale; il  legame col Belgio non è casuale, visto che la moglie di Lodgson, Judith Barnes, è nata nelle fiandre e  i due s'incontrarono nel 2007 ad un festival di birra in Belgio. Logsdon era stato in passato uno dei fondatori del birrificio Full Sail, poi lasciato nel 1987 per concentrarsi sulla Wyeast.  
Caratteristica di Logsdon Organic Farmhouse Ale è che fu fondata senza nessun dipendente, ma soltanto soci: oltre a Logsdon e moglie, ci sono John Plutshack  (vendite) e la moglie Jodie Ayura, il birraio Charles  Porter (un passato alla Full Sail assieme a Logdson e poi a Deschutes) e Seaberg Einarsson, proveniente dal mondo dell’hotellerie ma oggi pittore nonché autore di tutte le etichette.  Il birrificio si trova isolato nella campagna circostante Hood River, immerso tra filari di meli e peri, sotto lo sguardo dei ghiacciai del Mount Hood. 
Il 2015 è stato anno di grandi novità: prima l’inaugurazione della Logsdon Barrel House & Taproom, in centro a Hood River, gestita da Seaberg Einarsson, e poi grossi cambiamenti societari. Il birraio  e socio fondatore Charles Porter ha abbandonato Logsdon per (forse) fondare il proprio birrificio ed è stato sostituito dal suo assistente Aaron Gilliam.  In società sono entrati AJ Shepard, Chris Shepard e Stuart Faris del beershop/birrificio Uptown Market di Portland.

La birra.
Szech 'n Brett, una farmhouse ale prodotta con pepe Sichuan e brettanomiceti, nasce a maggio 2015 come birra occasionale prodotta per il quinto anniversario del  16 Tons Taphouse and Bottleshop di Eugene, Oregon.  Il compleanno viene celebrato con l’evento Wild  Ale Festival, ovvero una cinquantina di spine dedicate a fermentazioni spontanee, miste e selvagge. La Szech 'n Brett di Logsdon ha ottenuto un alto gradimento ed è così entrata oggi in produzione quasi regolare.
Nel bicchiere è piuttosto torbida, di colore arancio, e forma una generosa ma scomposta testa di schiuma bianca, pannosa, dalla discreta persistenza. I lieviti selvaggi spingono la birra rimasta nella bottiglia a far capolino dal collo. L'aroma è piuttosto complesso, con i sentori lattici e funky dei brettanomiceti affiancati da profumi floreali e fruttati (albicocca, pesca, polpa d'arancia e ananas); c'è l'asprezza della scorza d'agrumi e della mela acerba, con una delicata speziatura (pepe) a far da collante. Naso pulito, fresco, quasi solare, davvero ricco di frutta. La sensazione palatale è perfetta, è quella che una saison/farmhouse ale dovrebbe sempre avere: vivaci bollicine, corpo snello, tra il medio ed il leggero, a favorire il massimo della scorrevolezza. Sembra che fosse cinque litri (!) il limite massimo di Saison da bere concesso ogni giorno ai contadini e ai braccianti valloni nel corso delle lunghe, calde e faticose giornate estive di lavoro nei campi: un quantitativo di birra (dal modesto contenuto alcolico, rispetto agli standard attuali) che si riteneva necessario per idratare, dissetare e rifocillare i lavoratori mantenendoli in grado di continuare a compiere le proprie mansioni. E avesse un costo più popolare, neppure io direi no a cinque litri quotidiani di questa Szech 'n Brett di Logsdon: su una base leggera di crackers c'è una straordinaria intensità fruttata dolce che richiama l'aroma (pesca, ananas, arancia e mela) ed è bilanciata dalle note lattiche dei lieviti selvaggi. Accanto all'acidità c'è l'asprezza degli agrumi (limone, lime) a comporre una birra dalla grande secchezza e dall'enorme potere dissetante. L'amaro (terroso e lattico) è appena accennato in una chiusura dove fa capolino anche il pepe, portatore di un lievissimo ma percepibile leggero calore. È una Saison facilissima da bere, dall'intenso profilo fruttato, che trova uno splendido punto d'incontro tra eleganza e rusticità. Per dirla senza troppe parole, l'estate in un bicchiere. 
Formato: 75 cl., alc. 6.5%,  lotto 3290, scad. 06/2019.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 6 giugno 2016

Innis & Gunn: Toasted Oak IPA & Oak Aged Beer Rum Finish

Oggi andiamo in Scozia per parlare di  Innis & Gunn, un marchio che strizza l’occhio al mondo “craft/artigianale” ma che ha in realtà spalle piuttosto grosse;  viene fondato nel 2003 da Dougal Sharp, figlio di quel Russell Sharp che nel 1987 riportò in vita la Caledonian Brewing Company, originariamente fondata nel 1869. Nel 2004 la Caledonian venne poi acquistata dalla Scottish & Newcastle a sua volta comprata nel 2008 per 7.8 bilioni di sterline da Heineken e Carlsberg, che si sono spartiti tra di loro il portfolio dei marchi. 
Secondo quanto riporta il sito di Innis & Gunn, la nascita del marchio avvenne per pura casualità: la distilleria scozzese William Grant & Sons voleva sperimentare l’invecchiamento del whisky in cask  precedentemente utilizzati per la maturazione di birra. Dopo diversi tentativi poco soddisfacenti, Dougal Sharp fu contattato per realizzare (presso la Caledonian, suppongo) una birra appositamente progettata per questo scopo: passare circa trenta giorni in casks di legno che vengono poi svuotati e riempiti di whisky. Il risultato di questo  “Ale Cask Whisky”  fu piuttosto soddisfacente, ma altrettanto lo fu la birra maturata in legno. Il brand Innis & Gunn nacque nell’agosto 2003 proprio per produrre birre maturate in legno da una partnership tra Dougal Sharp e William Grant, che nel 2008 lasciò al primo anche la propria quota societaria. 
Nonostante Innis & Gunn faccia leva sulla propria dimensione “craft”, le birre sono attualmente prodotte presso gli impianti della Wellpark  Brewery, fondata nel 1740 da Hugh and Robert Tennent e di proprietà dal 2009 del C&C Group, uno dei principali produttori e distributori di bevande nel Regno Unito, che lo aveva rilevato (assieme ai marchi Tennent’s e Caledonian) dalla AB-InBev. Tra i marchi più noti posseduti dal C&C Group ci sono anche i sidri Magners, Gaymers e Bulmers. Il fatto che le birre di Inns & Gunn promuovano il concetto di “craft” ma siano appaltate presso impianti industriali (Tennent’s e  Belhaven/Greene King)   ha suscitato diverse perplessità che Dougal Sharp sta cercando di dissipare: il primo passo necessario è quello di trasformare la beerfirm in birrificio, e per accorciare le tempistiche lo scorso aprile ha annunciato l’acquisizione del birrificio Inveralmond di Perthsfire per 3.1 milioni di sterline raccolte mediante un crowfunding chiamato “BeerBonds”: in questo modo sarà possibile produrre circa 100.000 ettolitri/anno.

Le birre.
Dalla gamma Innis & Gunn ecco due referenze disponibili anche in Italia sugli scaffali della grande distribuzione. Partiamo dalla Toasted Oak IPA (5.6%), la cui versione in bottiglia è filtrata e pastorizzata, contrariamente alle occasionali versioni in cask. L’etichetta parla di “un’abbondante luppolatura effettuata per ben tre volte nel corso della produzione”;  la birra matura poi per 41 giorni assieme a chips di rovere tostati. E' limpidamente dorata e forma una bella testa di schiuma bianca, fine e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma svolge il compito senza troppo impegno, con pulizia ma intensità alquanto bassa: note floreali, di agrumi e un tocco di miele. Anche al palato non è certo l'intensità la caratteristica principale di questa birra: la base maltata è leggera (pane, crackers, miele) ed accompagna le delicate note d'agrumi che ricordano tuttavia più la marmellata che il frutto fresco. L'amaro è abbastanza leggero, in bilico tra il terroso e la scorza d'agrumi; le carbonazione piuttosto bassa abbinata al suo corpo medio-leggero la rende molto scorrevole. Il suo potere dissetante è un po' limitato da una secchezza non ottimale, con una patina dolce, leggera ma percepibile che non abbandona mai il palato; non metterei la mano sul fuoco, ma mi sembra anche ci sia una lievissimo diacetile. Del legno invece, per quanto mi sforzi di cercarlo, nessuna traccia. Una stiracchiata sufficienza forse la porta a casa, è bevibile ma alla fondamentale domanda "la ricompreresti?" risponderei di no. 
Passiamo alla Innis & Gunn Rum Finish (6.8%) , tecnicamente una English Strong Ale pastorizzata, filtrata e maturata per 57 giorni assieme a chips di rovere americano precedentemente imbevuti di rum. Niente  da dire sull'aspetto, forse solo inquietantemente limpido: è un ambrato carico acceso di intense sfumature rossastre, mentre la schiuma, cremosa e dalla buona persistenza, vira verso l'ocra. Il naso è molto più intenso rispetto alla IPA, e ovviamente molto più dolce; c'è una leggera speziatura che accompagna la ciliegia sciroppata,  toffee e caramello, pane nero, prugna e una lieve presenza di legno. Benché pulito l'insieme sembra un po' artificioso, sopratutto nella componente fruttata/sciropposa. La sensazione palatale è pressoché identica a quella della sua sorella "chiara" e nel caso di una Strong Ale personalmente sento la mancanza di una maggiore struttura. Il gusto ripercorre passo dopo passo l'aroma, riproponendo ciliegia e prugna, pane nero, toffee,  caramello e riproponendo anche quella sensazione artificiosa. L'alcool è piuttosto ben nascosto, sollevando timidamente la testa solo nel retrogusto dolce di (sciroppo di) frutta sotto spirito; la bevuta parte e finisce dolce, con solamente l'amaro necessario (pane tostato) a bilanciarla. Nel complesso mi sembra comunque leggermente meglio della IPA, anche se di fragranza e di emozioni non vi è ovviamente nessuna traccia.
Nel dettaglio:
Toasted Oak IPA, 33 cl., alc. 5.6%, lotto 6012, scad. 01/2017, 1.79 Euro (supermercato, Italia)
Oak Aged Beer Rum Finish, 33 cl., alc. 6.8%, lotto 5343, scad. 12/2016,  1.79 Euro (supermercato, Italia)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 5 giugno 2016

Green Flash Double Stout

Grosse novità in casa Green Flash, il birrificio fondato a San Diego nel 2002 da Mike and Lisa Hinkley, gestori di un pub; privi di conoscere/esperienze nella produzione della birra, i due si sono quasi da subito affidati al birraio Chuck Silva che ha contribuito in maniera determinante al successo di un birrificio arrivato a produrre 82.000 ettolitri. Lo scorso anno Green Flash ha annunciato un ambizioso piano di espansione da 20 milioni di dollari che prevede la costruzione di un secondo birrificio sulla costa ad est, precisamente a Virginia Beach (Virginia): quello che verrà presumibilmente inaugurato entro la fine del 2016 sarà praticamente una copia di quanto già presente a San Diego: 100.000 ettolitri/anno di potenziale,  5000 metri quadrati nei quali troveranno posto la tasting room ed un beer garden. 
Ma l'annuncio più sorprendente non è stato piuttosto quello delle  inaspettate dimissioni di Chuck Silva, arrivate a settembre 2015 dopo undici anni di servizio. A ruolo di head brewer è stato promosso Erik Jensen, da quattro anni collaboratore di Silva e con esperienze precedenti alla Karl Strauss di San Diego e in alcuni brewpub. Sono probabilmente stati i grandi piani d'espansione che hanno fatto decidere a Silva di abbandonare "l'autostrada Green Flash" per dirigersi su una più piccola strada di campagna; il birraio dovrebbe infatti aprire quest'anno il suo nuovo birrificio (Silva Brewing) a Paso Robles, 500 chilometri più a nord rispetto a San Diego, a pochi isolati da Firestone Walker. Silva, nativo proprio della contea di San Luis Obispo, ha acquistato assieme alla moglie il terreno retrostante al Pour House, un pub con una trentina di spine: "non voglio creare un marchio e avere in testa solo di farlo crescere e crescere. Voglio un progetto che rimanga in una dimensione locale e sostenibile. Voglio fare birre in eleganti bottiglie con il tappo di sughero e magari in futuro coltivare nel terreno le erbe e i frutti da utilizzare nelle ricette". Il progetto, ancora in attesa delle autorizzazioni necessarie, dovrebbe partire con 300.000 dollari d'investimento per un impianto da 12 ettolitri e un potenziale anno di circa 1200 ettolitri: il pub The Pour House diventerà in pratica la taproom del birrificio, pur continuando a servire anche birre di altri produttori.

La birra.
Double Stout, è questa il nome scelto da Chuck Silva per l'imperial stout di Green Flash: un nome che richiama subito le robuste stout prodotte in Inghilterra nel diciannovesimo secolo, alle quali il birraio dichiara di essersi ispirato. La sua versione barricata in botti ex-bourbon prende il nome di Silva Stout.
Il suo aspetto è inappuntabile: nerissima, sormontata da un goloso cappello di schiuma color cappuccino cremosissima, compatta e fine, dall'ottima persistenza. Il naso offre un bouquet piuttosto interessante nel quale dominano i chicchi di caffè accompagnati da profumi di mirtillo, cioccolato amaro, tostature, liquirizia e un tocco di cenere. Pulizia, intensità ed eleganza sono ben presenti, con la componente etilica appena accennata. Al palato viene privilegiata la scorrevolezza: corpo medio, poche bollicine, consistenza oleosa e morbida  ma ben lontana da sensazioni cremose, avvolgenti o "lussureggianti". Il gusto segue quasi in fotocopia l'aroma, con un'intensa presenza di caffè e tostature sostenuta da un velo di caramello bruciato; fa capolino ogni tanto una suggestione di cioccolato fondente, ma non c'è molto altro. L'alcool è gestito molto bene e dispensa in sottofondo quel tepore necessario a irrobustire la bevuta senza mai infastidirla: i malti scuri le conferiscono una leggera acidità che contribuiscono a ripulire il palato assieme alla chiusura luppolata finale, terrosa.  Pulizia ed eleganza (sopratutto delle tostature) mi sembrano leggermente inferiori rispetto all'aroma, ma è comunque una imperial stout che si lascia bere con molta soddisfazione, nonostante la sua relativa semplicità.
Formato: 35.5 cl., alc. 8.8%, IBU 45, lotto F15253, scad. 03/09/2016.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 4 giugno 2016

Dieu du Ciel L'Herbe à Détourne

E' sempre un piacere stappare una bottiglia di Dieu du Ciel, birrificio canadese già ospitato sul blog con grande soddisfazione. Sono Jean-François Gravel, Patricia Lirette e Stéphane Ostiguy, compagni di studi (microbiologia), a fondarlo nel 1998 a Montreal; dei tre è Jean-François ad essere stato contagiato dalla passione per l'homebrewing dal padrino e dai libri di Charles Papazian. L'inaugurazione avviene nell'agosto del 1988, quando un ex-ristorante russo all’angolo di Rue Laurier e Rue Clark viene convertito in brewpub: "Dieu De Ciel!" sarebbe stata l’esclamazione di Jean-François dopo aver assaggiato la sua prima birra prodotta in casa.  Patricia Lirette lasciò la società nel 2006, rimpiazzata (anche nell’azionariato) dal birraio Luc Boivin, esperienza decennale alla Les Brasseurs du Nord. 
Boivin e la moglie Isabelle Charbonneau formarono la Dieu Du Ciel Microbrewery Inc., un primo passo del  necessario processo di espansione visto che la produzione nei modesti locali del  brewpub di Montreal non poteva più essere incrementata e non c'era neppure lo spazio per installare una linea d’imbottigliamento.
Venne trovato un nuovo edificio (16.000 metri quadri) a St. Jerome, 60 chilometri a nord di Montreal, vicino a casa di Luc ed Isabelle,  inaugurato nel 2007 con un potenziale produttivo di 3500 hl. Nello stesso anno vennero finalmente distribuite le prime bottiglie, mentre nel 2008, attiguo al nuovo birrificio, fu inaugurato un brewpub-fotocopia di quello di Montreal; attualmente gli impianti di St. Jerome producono circa 13000 ettolitri. Nel 2010 Bouvin ha lasciato Dieu Du Ciel per fondare in Quebec la Microbrasserie des Beaux Prés. 

La birra.
L'Herbe à Détourne è una produzione stagionale di Dieu Du Ciel, commercializzata per la prima volta nel maggio 2010 e da allora disponibile una volta l'anno, solitamente in primavera. Si tratta di una "new world Triple", il che significa che ad una classica Tripel belga viene aggiunta un'abbondante luppolatura di Citra. Secondo una (a me sconosciuta) leggenda, l'herbe à détourne sarebbe una pianta capace di far perdere il senso d'orientamento a chiunque la calpesti. La splendida etichetta realizzata da Yannick Brousseau, fido collaboratore del birrificio, cerca di comunicare con immagini quanto appena esposto, raffigurando un uomo con gli occhi coperti dalle ramificazioni della pianta.
Nel bicchiere si presenta di color arancio, piuttosto velato, con una cremosa testa di schiuma bianca, compatta e molto persistente. L'aroma è uno splendido biglietto da visita nel quale c'è una convivenza molto ben riuscita tra gli esteri fruttati (banana), le spezie (pepe) del lievito e la generosa luppolatura che elargisce fresche e fragranti profumi di pompelmo, arancia, mango, passion fruit e melone cantalupo. In sottofondo si scorgono tracce di una classica Tripel con lo zucchero candito e la scorza d'arancia candita. Il mouthfeel è quello classico belga; corpo medio, carbonazione vivace, birra dalla gradazione alcolica importante (10.2%) che tuttavia scorre senza grossi intoppi. La bevuta segue abbastanza fedelmente l'aroma, con una partenza ricca di frutta tropicale (ananas, mango, passion fruit) sostenuta dalla base maltata di pane, miele e biscotto; il gusto rispetta maggiormente i canoni stilistici di una Tripel, con una buona presenza di canditi e di zucchero a velo. L'amaro è praticamente impercettibile, sono l'acidità del frumento e la componente etilica ad asciugare il dolce mantenendo un ottimo equilibrio. L'alcool, è lui l'unico cruccio di questa birra: entra in scena con prepotenza a 3/4 della bevuta togliendo a questa birra quella "beviblità assassina" tipica delle migliori Tripel belghe: riscalda molto, sopratutto nel finale, facendo perdere qualche punto a quella che rimane comunque un'ottima birra, rispettosa degli elevatissimi standard di pulizia e di eleganza che ho trovato in tutte le produzioni Dieu Du Ciel. 
Formato: 34,1 cl., alc. 10.2%, lotto 17 12:14, imbott. 04/02//2016, 5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.