mercoledì 22 ottobre 2014

Peroni


Oggi una birra che probabilmente non vi sareste aspettati di trovare in questo spazio: parliamo di Peroni. Non è esattamente quello che ogni appassionato della cosiddetta birra “artigianale” sogna di trovarsi nel proprio bicchiere; stiamo parlando del “nemico” industriale ma anche di uno dei produttori storici italiani, fondato nel 1846 a Vigevano da Francesco Peroni, con mescita in un locale adiacente alla fabbrica che ebbe un permesso speciale per rimanere aperto fino alle 23.30.  Per chi volesse saperne di più, segnalo questo bell’articolo di Alberto Laschi per Fermento Birra, al quale credo ci sia poco da aggiungere. Cerco di riassumerlo: dopo una ventina d’anni di successo e di crescita, la Peroni sbarca a Roma aprendo un secondo stabilimento “prima vicino a Piazza di Spagna (1864), poi nel Borgo santo Spirito (1872, con la mescita che si effettuava nella elegante zona di via dei Due Macelli) e, infine, in zona Colosseo (1890), dove, accanto alla fabbrica, apre un “pub” con 19 tavoli”. All’inizio del ventesimo secolo la Peroni introduce in Italia la bassa fermentazione e per fare ciò si rende necessaria la fusione con la più grande fabbrica di ghiaccio di Roma. Nascono Le Società Riunite Fabbrica di Ghiaccio e Ditta F. Peroni, che nel periodo tra le due guerre, si dedicano all’acquisizione di altri piccoli produttori nazionali: la fabbrica Birra Perugia, le Birrerie Meridionali di Napoli, la Birra d’Abruzzo di Castel di Sangro, la Birra Partenope  e la  Birra Livorno. E’ Franco Peroni a trovarsi al comando dell’azienda dopo la seconda guerra mondiale: è lui a doverla far ripartire, e per farlo s’isipira al “modello americano”: la razionalizzazione logistica e la massima organizzazione (e standardizzazione) del processo produttivo si realizzano completamente nel nuovo e moderno stabilimento di Napoli inaugurato nel 1953. Il complesso formava una micro-città moderna e produttiva, composta da un insieme organico di grandi presenze costruite, piccole strutture residenziali o di servizio, ampi spazi verdi ed aree per viabilità e parcheggi. Seguono poi le aperture di Bari (1963), Roma (1971) e Padova (1973). Intanto il pesce grande continua a mangiare (comprare) quelli più piccoli: Dormisch di Udine e Faramia di Savigliano (anni ’50),  Pilsen di Padova e Raffo di Taranto (anni ’60), Itala Pilsen (1970) e Whurer di Brescia (1983).  E’ proprio negli anni ’80 che l’export comincia a diventare una voce molto significativa nel bilancio aziendale, grazie anche al successo della Nastro Azzurro, lanciata nel 1963 e divenuta (ahimè!) la birra italiana più venduta all’estero. 
A cavallo degli anni ’80 e ‘90 viene chiusa una buona parte degli stabilimenti acquisiti in precedenza: Livorno, Savigliano, Taranto, Udine e Brescia.  E arriva anche il giorno in cui il pesce grande, un tempo leader in Italia (40% di quota mercato negli anni ’80, oggi scesa al 19%), viene “mangiato” da un pesce ancora più grosso: nel 2003 la multinazionale SAB Miller acquista da Isabella Peroni la maggioranza aziendale. L’accordo viene “inaugurato” con la chiusura dello stabilimento di Napoli (31 Gennaio 2005); oggi il Gruppo Peroni annovera circa 750 dipendenti, tre stabilimenti produttivi (Roma, Padova e Bari), la malteria Saplo, una produzione annua di birra che ammonta a 3,320 milioni di ettolitri (2012) attraverso i marchi Wührer, Crystall Wuhrer, Raffo, Peroni, Peroni Doppio Malto, Peroni Rossa, Peroni Gran Riserva Puro Malto, Peroni Chill Lemon, Peroncino e Nastro Azzurro. 
Si parla di “gateway beer”  per indicare quelle cosiddette “birre artigianali” di facile fruizione che spesso rappresentano il modo in cui il bevitore “impara” a conoscere sapori e profumi diversi da quelli delle classiche birre industriali. Ma una volta che si è superato il “cancello” (gate), è possibile tornare indietro? Puoi capitare a chiunque birrofilo di bere un’industriale semplicemente perché “non c’è altro da bere” (e l’acqua?) ma difficilmente chi ha la possibilità di scelta lo farà. Ricordo la prima volta che ho assaggiato una IPA, diversi anni fa. Ero in un bar a New York e non sapevo neppure cosa fosse una IPA, anche se mi divertivo già a collezionare le etichette di birra; dal menu delle bevande ordinai qualcosa da bere lasciandomi ispirare dal nome: optai per la Hoptical Illusion IPA della Blue Point Brewing Company.  Avrò avuto la (s)fortuna di ricevere una bottiglia molto fresca (giovane), ma non credo di essere riuscito a finire quel liquido amarissimo, vegetale,  quasi balsamico. Lo trovai orribile; non ne capivo nulla e riconducevo la parola India (e le spezie) a quel gusto particolarmente  resinoso, pepato e pungente, appunto “speziato”. Per un palato “industrializzato” come era il mio di allora si trattò di una specie di shock gustativo;  ma com’è invece il processo inverso, ossia la regressione dall'artigianale all'industriale? 
La “prima sfida” è quella di bere volontariamente una Peroni  in un tranquillo dopocena, seduto sul divano, accompagnato da quel pizzico di nostalgia che ti fa associare il nome Peroni con il Secondo tragico Fantozzi del 1976:  “Sabato 18, alle ore 20:25, in telecronaca diretta da Wembley, Inghilterra-Italia, valevole per la qualificazione della Coppa del Mondo.  Fantozzi aveva un programma formidabile: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero!” Non sono riuscito esattamente a risalire all’equivalenza in centilitri della “Peroni formato famiglia”; io opto per il 66, ma sappiate che la trovate oggi anche nel 20, 33, 50, e 75.  La “seconda sfida” è quella di descrivere e raccontare una birra che hai trovato molto poco piacevole senza incorrere nel rischio di una denuncia da parte del gruppo industriale (avvocati e soldi…) che la produce.  Proviamoci ugualmente. 
Nel bicchiere è ovviamente perfettamente limpida e dorata, con una bellissima testa di schiuma bianca, croccante, fine e cremosa, anche se non molto persistente. L’aroma, poco pronunciato, è di mais e nello specifico mi ricorda l’amido di mais (provate ad aprire e annusare un sacchetto di maizena);  c’è anche qualche sentore di riso (?) e, in lontananza, qualche traccia di cereale. Non mi capita molto di frequente di bere “industriale”, ma la sensazione al palato è davvero impressionante: corpo leggerissimo, poche bollicine, un’acquosità esagerata per far evidentemente sì che la bevuta scorra il più rapidamente possibile, per rinfrescare  e dissetare. Del resto, avete mai visto una fotografia commerciale di una bottiglia di birra industriale che non sia ricoperta di “nebbiolina” o di goccioline d’acqua, per comunicarvi l’idea del fresco, del ghiaccio, del refrigerio? In bocca l’ho trovata praticamente priva di sapore, ma forse è “colpa” del mio palato che si è abituato ad altri “standard” e che cerca inutilmente di trovare qualche suggestione di pane o di miele: qui domina l’acqua, con qualche sfumatura di mais e di riso ed una timidissima nota amara erbacea a fine corsa. Riesce tuttavia ad essere leggermente dolce, e a lasciare un po’ il palato appiccicoso, soprattutto se evitate di berla “ghiacciata” come la prassi vorrebbe: ma, così facendo, ne ridurrete anche il suo potere dissetante. Direi che sia allora meglio seguire il consiglio. 
La prima chiave di lettura della Peroni sta tutta nell’informazione che trovate sul collo della bottiglia, nella foto in alto a sinistra; ingredienti: acqua, malto d’orzo, granoturco, luppolo. La seconda chiave la trovate sul sito ufficiale di Birra Peroni. “viene prodotta, oggi come allora, solo con ingredienti selezionati, come il malto 100% italiano, frutto di una speciale qualità di orzo cresciuto sotto il nostro sole e seguito con cura in tutte le fasi di crescita”.  L’enfasi è dunque sul malto: non ne metto in dubbio la qualità, ma piuttosto la quantità. Qual è la percentuale di malto e quale di granoturco utilizzata per fare questa birra? Nonostante l'elogio al malto italiano utilizzato, per me questa Peroni è una birra il cui gusto (leggero) è principalmente di mais. Detto questo, siete liberissimi di amarla, tracannarla gelata e dilettarvi nel fantozziano rutto libero o, in mancanza di alternative, considerate la possibilità di bere anche un rinfrescante bicchiere di acqua.
Formato 66 cl., alc. 4.7%, lotto L4 166 101, scad. 06/2015.

4 commenti:

  1. Mi piace, si può imparare molto anche assaggiando birre industriali!
    Da quanto mi risulta, l'odore di mais non è direttamente imputabile al mais, è dovuto a basse concentrazioni di DMS ma la sua provenienza è il malto d'orzo. Diverso è, invece, avvertire da una serie di fattori come secchezza, scarso corpo ed una soffice dolcezza residua, che portano a pensare alla presenza di mais nel grist, così come hai verificato da etichetta.

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    1. Interessante, grazie.

      Io ingenuamente pensavo anche che l'utilizzo di succedanei (adjuncts) dell'orzo fosse solamente un semplice discorso di riduzione dei costi di produzione.
      Ma se guardi il confronto tra i prezzi delle diverse commodity agricole (ad es. orzo vs.mais) il discorso regge solo sino ad un certo punto.
      http://www.indexmundi.com/commodities/?commodity=corn&months=60&commodity=barley

      Mi sono imbattuto in interessanti discussioni su forum americani, e ci sono molte altre variabili in gioco.. come ad esempio leggo che i succedanei sono funzionali a far sì che la birra sia perfettamente limpida anche servita a temperature molto basse (ghiacciata), nonché (come dici anche tu sopra) ad alleggerire ulteriormente il corpo e l’intensità del sapore, allo scopo di creare quella “light taste beer” che una buona fetta di consumatori ricercano.

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  2. in effetti ogni tanto qualche incursione nel mondo industriale si potrebbe fare.

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  3. Sono finito in questo bel blog perché appassionato, molto ignorante, di birra. Ho provato la Peroni qualche settimana fa: non ci crederete ma l'ho fatto perché uno degli stabilimenti è nel mio capoluogo di provincia, volevo insomma contribuire all'economia della mia zona...
    Quando l'ho assaggiata non mi sembrava neanche birra da quanto era dolce, successivamente riprovandola mi sono detto che, mangiando, non era male.
    Ma se non è una questione di costi l'aggiunta del mais, perché quando si passa a birre più costose contengono solo malto d'orzo?
    Un saluto

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