sabato 12 marzo 2016

Nøgne Ø Red Horizon 3rd edition

Kjetil Jikiun, ex pilota di aerei diventato birraio co-fondatore nel 2002 del birrificio norvegese Nøgne Ø, non ha mai nascosto il suo amore per il Giappone. Nel 2010 Nøgne è stato il primo birrificio europeo a produrre saké ottenendo anche il riconoscimento della Japan Sake Brewers Association, un onore - leggo in rete - che non viene quasi mai concesso a chi produce fuori dal Giappone.  
Dopo un periodo di apprendistato alla Daimon Shuzo di Osaka, un famoso produttore giapponese, Jikiun lanciò in Norvegia tre tipi di sakè, uno dei quali prodotto con la tecnica di fermentazione "Yamahai"  che consiste nel lasciare che il riso bollito (qui importato da Hokkaido) produca spontaneamente una "pellicola" di batteri lattici. 
Kjetil Jikiun ha lasciato Nøgne nell'agosto 2015 dopo una serie di divergenze con i soci della Hansa Borg che lui stesso ha spiegato in questo sfogo, parlando di "mediocrità"; chissà se aveva immaginato questo scenario quando a novembre 2013 decise di vendere il 54% del capitale al secondo più grande birrificio norvegese che ha anche la licenza di produrre la Heineken per il mercato locale. Oggi Kjetil abita sull'isola di Creta dove ha fondato la Grapes and Gratification che, nei prossimi mesi, dovrebbe far debuttare oltre al vino anche la sua prima birra  chiamata "Σολο". 
Con il suo addio sono anche terminate la produzioni della serie "Horizon", birre molto costose e faticose da produrre che avevano riscosso grande successo ma che forse mal si sposavano con la visione commerciale di un birrificio controllato da una grande azienda. Oltre alle massicce imperial stout Dark Horizon, un altro degli esperimenti di Jikiun è rappresentato dalle tre Red Horizon: si tratta di birre che vengono fermentate con un ceppo di lievito di saké, per la precisione quello "numero 7" elaborato dai laboratori del birrificio giapponese Masumi, isolato per la prima volta nel 1946 e arrivando poi ad essere utilizzato dal 60% dei produttori di Saké giapponesi.
La prima Nøgne Red Horizon venne prodotta nel 2009 e commercializzata nel 2010, con un considerevole ABV del 17% che fu poi abbassato a 13.5% per la seconda edizione prodotta a fine 2011 e messa in vendita nel 2013; nello stesso mese dello stesso anno arrivò anche la Red Horizon numero 3, 12.5% ABV, lievito numero 9 di Masumi e fermentazione per 10 settimane a bassa temperatura. Ed è proprio questa la protagonista di oggi.

La birra.
Packaging molto curato come per tutte le Horizon, la bottiglia arriva in un elegante cilindro metallico ed è anche incartata, all'interno. Nel bicchiere non è invece bella quanto la sua confezione: colore ambrato scarico e un tentativo di schiuma biancastra che si dissolve quasi sul nascere. Il naso è abbastanza complesso e di non facile lettura: convivono cuoio e pellame, salmastro, riso bollito, uvetta e zucchero caramellato, marmellata d'arancia, dettagli di frutti rossi (fragola, lampone?) e note ossidative sia negative (cartone bagnato) che positive (vino liquoroso, porto); c'è anche un lieve sottofondo "vegetale" proveniente da quello che rimane della generosa luppolatura (100 gli IBU dichiarati) dopo oltre quattro anni. Al palato arriva invece calda e avvolgente, oleosa, con poche bollicine ed un corpo medio: l'inizio è dolce di caramello, biscotto, uvetta e prugna, marmellata d'arancia ed albicocca, frutta candita. In sottofondo una nota affumicata accompagna la bevuta dall'inizio alla fine, mentre l'ossidazione, come nell'aroma, porta in dote richiami di vino liquoroso. Attenuazione ed acidità contribuiscono a mantenere il livello del dolce nei limiti del consentito, non c'è amaro ma un retrogusto molto avvolgente che riscalda e rincuora a colpi di vino liquoroso, toffee e frutta sotto spirito. Birra piuttosto complessa che ci mette più di qualche minuto ad aprirsi nel bicchiere e a rivelarsi nella sua pienezza; i 25 cl. della bottiglia sono una quantità assolutamente appropriata da sorseggiare senza grossi sforzi in un dopocena invernale nel quale si ha bisogno di essere riscaldati e "coccolati".
Formato: 25 cl., alc. 12.5%, IBU 100, lotto 742, imbott. 20/12/2011, scad. 20/12/2016, 13.50 Euro (Vinmonopolet, Norvegia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 11 marzo 2016

Lambrate - Mahr's: Nero

Non era tra i birrifici italiani più “collaborativi”, il Lambrate di Milano; anzi, fino all’anno scorso aveva se non erro sempre agito in solitudine, almeno stando al database raterbeeriano. Poi, la svolta:  arrivano la Grateful Deaf, in collaborazione con i birraio zingaro di Portland Ken Fisher, la Pussycat assieme agli olandesi di Kompaan, la Nero con i tedeschi di Mahr’s,  la Ghhoolagolasecca assieme ai panamensi di Casa Bruja, Lagrozischi e Tartaruga con i polacchi di Artezan, e le  recenti  Macchèkeller!  (assieme a Manuele Colonna) e Tiremm Innanz (una Vienna Lager realizzata assieme a quello che credo sia il birrificio italiano più “collaborativo”, ovvero Toccalmatto). 
Un discorso analogo si potrebbe fare con i tedeschi (Bamberga) di Mahr’s, che solo nel 2015 hanno realizzato una birra assieme a Birradamare, al già citato Lambrate e ne hanno annunciata una con gli americani di Sierra Nevada che sarà pronta per la prossima Oktoberfest. 
Lo scorso novembre 2015 Lambrate e Mahrs annunciano la nascita di una stout aromatizzata con cacao magro in polvere, granella di cacao ed affinata con chips di rovere: “Nero”, questo il nome scelto da Stephan Michel di Mahr’s  e da Fabio Brocca di Lambrate, peraltro fresco di nomination di “birraio dell’anno”.
La birra.
Nel bicchiere è effettivamente nera, sormontata da una schiuma cremosa color cappuccino che ha una buona persistenza. Caffè e cioccolato aprono le danze di un aroma poco intenso e dalla finezza migliorabile: in sottofondo orzo tostato e una leggera nota torbata. La cose migliorano fortunatamente in bocca, dove sale l'intensità e questa Nero rileva la sua solida spina dorsale di cioccolato amaro, caffè e orzo tostato, sostenuta dal sottofondo di caramello bruciato e impreziosita da dettagli legnosi e di vaniglia. Poche bollicine, al palato scorre bene - alla tedesca si potrebbe dire -  risultando morbida grazie all'utilizzo di avena (1.5%), amara ma ben stemperata dall'acidità dei malti scuri, lascia una sia abbastanza lunga di caffè, liquirizia, cacao amaro in polvere e tostature avvolta da una patina torbata e da una carezza etilica. Sicuramente meglio in bocca che al naso, Nero è una stout ben assemblata e intensa, nella quale tuttavia pulizia ed eleganza non sono a livello eccelso, un appunto non di poco conto se si considera la caratura dei due birrifici in gioco: buona ma, come spesso accade per le collaboration,  non al punto di restare impressa nella memoria.
Formato 33 cl., alc. 7%, lotto OLP0017215, scad. 10/07/2016, 5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 10 marzo 2016

Hopfmeister Irish Road Trip & Zombräu Motor Oil

Eccoci ad un altro episodio di beer-hunting in terra tedesca tra nuovi produttori o birrifici ancora poco conosciuti che stanno rapidamente prendendo parte alla “craft bier revolution” tra – bisogna ammetterlo – alti e bassi. 
Oggi partiamo da Monaco di Baviera dove ha sede la beerfirm Hopfmeister Braumanufaktur fondata nella primavera 2015 da Marc Gallo titolare della agenzia di grafica/design “Gallo Design”. Diplomato (o diplomando) Beer Sommelier, Gallo (43 anni) aveva inizialmente in cantiere di offrire solamente i suoi servizi grafici ai birrifici, ma è poi rapidamente passato alla fondazione di una beerfirm. Le etichette sono senz’altro pulite e ben eseguite, ma non riportano nessuna indicazione su dove la birra venga concretamente prodotta e neppure l’esaustivo database di Ratebeer è utile a svelare il segreto. Quattro sono al momento le proposte di Hopfmeister: la kellerbier “Franz Josef”, la Hefeweizen (o American Wheat?) Gipfel Glueck, la IPA Road Trip e la Surfers Ale, una Golden Ale che dedicata ad un’altra delle sue passioni, il surf sul fiume Eisbach a Monaco. Tutte le birre, da quanto ho capito, sono caratterizzate dalle generose luppolature extra-europee.
La birra.
Road Trip (Irish Edition) è una India Pale Ale che l’etichetta descrive come “ispirata all’Irlanda”, e non chiedetemi che cosa significhi; i luppoli utilizzati sono Zeus, Cascade, Centennial, Amarillo e Simcoe. 
La fotografia non rende molta giustizia al colore; non è certamente una IPA dorata, ma neppure una Brown Ale: rimane ambrata, con riflessi arancio e schiuma biancastra molto fine e compatta, cremosa, dall'ottima persistenza. La bottiglia è di settembre 2015 e mi prendo la colpa per averla fatta aspettare un paio di mesi in frigorifero dal giorno dell'acquisto: la freschezza è un lontano ricordo, ma l'aroma non è ugualmente molto pulito. L'intensità è modesta ed accanto al pompelmo e agli aghi di pino c'è il caramello mescolato a qualche reminiscenza tropicale. Al palato la carbonazione molto bassa le toglie ulteriormente vitalità, mentre il corpo è medio: in una classica interpretazione di "IPA 1.0", se mi passate il termine, la bevuta è giocata sul dolce di biscotto e soprattutto caramello, con qualche ricordo di frutta tropicale, a bilanciare l'amaro resinoso e terroso, che suggerisce anche la frutta secca ed accenna il pane tostato. Non ci sono le succose trame fruttate che vanno tanto di moda oggi, i sei mesi passati in bottiglia non l'aiutano a brillare ma certo è che questa bevuta si protrae con sufficienza e parecchia noia, mentre pulizia ed eleganza sarebbero molto migliorabili. 

Da una beerfirm di Monaco spostiamoci di 90 km a nord-est ad Essenbach, dove lo scorso anno ha aperto i battenti il microbirrificio  Zombräu, al cui timone ci sono Tobias Merches e Bastian Merches, homebrewers dal 2010 con un upgrade dalle pentole all’automatico del Brumas BrauEule II. Tobias, il birraio venticinquenne, ha  alle spalle gli studi all’Univeristà di Weihenstephan e un periodo di apprendistato da BrewDog. Ad inizio 2013 il primo lotto pilota della loro IPA viene prodotto presso gli impianti della Giesinger di Monaco, dalla quale i due hanno anche acquistato parte dei vecchi impianti dismessi e rimpiazzati dai nuovi. Nel 2014 in un ex-magazzino in un sobborgo di Essenbach chiamato Mirskofen sono iniziati i lavori d’installazione del birrificio, inaugurato il 30 maggio 2015; il debutto avviene con due birre, la Macunda IPA e l’imperial stout Motor Oil, seguite da un sidro, da una birra al miele, una Marzen con luppolatura americana, un’American Pale Ale ed una English Strong Ale.
La birra.
Difficile non pensare alla nostrana Motor Oil di Beba, quando la bottiglia capita tra le mani; la grafica dell'etichetta ricorda vagamente anche quelle del birrificio piemontese.  Ad ogni modo, la Motor Oil di Zombräu è una imperial stout "gentile" (7.5%) realizzata con malti Pilsner, Caraamber, Caraaroma, Roasted e Chocolate; solo un luppolo in ricetta, il Nugget. 
Bella nel bicchiere, completamente nera con una schiuma beige compatta e cremosa, dalla trama molto fine; bene anche la persistenza. Meno bene - per dirla con un eufemismo - l'aroma: quasi assente, e quel poco che c'è è piuttosto sporco. S'intravede orzo tostato, forse caffè e frutti di bosco, ma è davvero impossibile descriverlo. Il gusto prosegue la discesa verso l'inferno, con tostature e caffè che affiorano col lanternino in un intruglio, leggermente salmastro e piuttosto astringente.  Diventa difficile descrivere anche quello che c'è nel bicchiere, la completa mancanza di pulizia riesce paradossalmente a coprire anche la maggioranza dei difetti.  Non mi viene termine migliore del "bicchiere di acqua sporca" per chiamare una birra assolutamente impresentabile che dopo due sorsi prende la strada del lavandino; direi che siamo a posto così e non è necessario aggiungere altro se non che il giovane birrificio risolva in fretta i problemi di costanza produttiva.

Nel dettaglio.
Hopfmeister Irish Road Trip, formato 33 cl., alc. 6.5%, IBU 60, imbott. 09/09/2015, scad. 09/06/2016 , 2.97 Euro (supermercato, Germania).
Zombräu Motor Oil, formato 33 cl., alc. 7.5%, IBU 45, scad. 08/04/2016, 3.98 Euro (beershop, Germania).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 9 marzo 2016

Oersoep Brettalicious

Oersoep, in fiammingo il “brodo primordiale” ovvero quella “miscela  acquosa di sali inorganici e vari composti chimici di natura organica e inorganica nella quale si ritiene siano avvenuti gli eventi chimico-fisici che avrebbero poi dato origine alla vita sulla terra”: è  questo il nome scelto nel 2012 da Kick van Hout e Sander Kobes per il loro microbirrificio aperto a Nimega, Paesi Bassi.  Dei due è Sander ad essersi dedicato dall’homebrewing, mentre Kick gestiva due bar di Nimega con una buona offerta di birre: il De Opera e il  De Deut, tra l’altro organizzatori ogni anno del Nijmeegse Bierfeesten
Il perché del nome è presto detto:  dal “brodo” realizzato con acqua, malto e luppolo nasce la birra, ma lo sguardo ancestrale è anche rivolto alle tecniche produttive tipiche del passato, ovvero le fermentazioni spontanee, il blend di birra fresca e birra vecchia, la maturazione in botti di legno contenenti lieviti e batteri. A metà 2013 il birrificio ha già traslocato in alcuni locali di una dismessa azienda produttrice di miele nella zona industriale di Waalbandijk  a Nimega. E’ qui che Oersoep realizza il proprio già ampio portfolio di birre, suddiviso in quattro macro aree: “God is Good”, nella quale rientrano quelle prodotte con lieviti selvaggi o spontanei; “Saison”, un nome che non ha bisogno di spiegazioni, “Dark and Deep” che comprende ovviamente stout e imperial stout, mentre le birre più leggere o “session” che dir si voglia finiscono nell’area delle “Bubbly and Blond”. 
Nel 2014 il birrificio ha inaugurato anche il brewpub Stoom, una ventina di minuti a piedi dal birrificio, nel Kronenburgerpark che costeggia il fiume Waal: alle dieci spine ruotano birre olandesi ed internazionali, con qualche apparizione anche delle Oersoep che tuttavia sono disponibili per la maggior parte nelle bottiglie da 75 cl. 
Dal già vasto catalogo di Oersoep ecco una bottiglia di Brettalicious, una saison/farmhouse ale “brettata”, ovvero fermentata con lieviti selvaggi in “foudre”, ovvero grossi tini di legno: il protagonista in questo caso è stato il “foudre numero uno”. 
All’aspetto si pone al confine tra il dorato e l’arancio pallido, velata e forma una cremosa schiuma bianca, di dimensioni modeste e poco persistente. Al naso spiccano subito le note lattiche e "funky" affiancate in sottofondo da quelle più mansuete della crosta di pane, dei fiori bianchi, del miele, dell’arancia e della mela verde; il bouquet non è particolarmente complesso e, anche se pulito, vede i brettanomiceti dominare sul resto senza un adeguato interlocutore. Un po’ diverse le cose al palato, dove c’è maggior equilibrio e, soprattutto, un’ottima intensità se si considera la contenuta (5.5%) gradazione alcolica. Alla componente lattica s’affianca l’asprezza del limone e del lime, ma c’è una controparte dolce più pronunciata a rendere la bevuta “sour” ma più bilanciata rispetto all’aroma: ci pensano il miele, la polpa dell’arancia, un accenno di frutto tropicale (ananas?). In  bocca scorre bene, forse un po’ di bollicine in più le farebbero guadagnare maggiore vivacità, il corpo è medio: chiude abbastanza secca, con un finale leggermente legnoso ed una punta d’amaro che si compone di note lattiche e zesty. 
Una saison brettata rustica e piacevolmente rinfrescante, che disseta con gusto anche se pulizia ed eleganza non sono al livello di altre ottime “farmhouse” simili/brettate che mi è capitato d’assaggiare (ad es. questa, questa, questa e questa); la birra rimane comunque interessante, e utilizzo questo termine con sincerità e non per mascherare il solito giudizio negativo che non si vuol rivelare.
Formato: 75 cl., alc. 5.5%, lotto 14092F1, scad. 05/12/2016, 15.00 Euro (beershop, Italia)


NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 8 marzo 2016

Dugges Ethiopia Gedeo

Mi risultava strana l’assenza nel portfolio di un birrificio svedese di una Imperial Stout al caffè, se consideriamo che il mercato scandinavo è uno nei quali queste tipologie di birre sono maggiormente apprezzate e richieste. Ed infatti nell’estate del 2015 la Dugges Ale & Porterbryggeri (Mölndal, subborgo di Göteborg) colma questa lacuna e mette sul mercato la sua Ethiopia Gedeo, imperial stout che va ad affiancare la “storica”  Idjit
La birra nasce in collaborazione con la torrefazione Johan & Nyström di Tullinge e per l’occasione viene scelto il caffè Gedeo, proveniente dalla regione di Yirgacheffe, Etiopia meridionale, dove le piantagioni si trovano  a circa 2000 metri sul livello del mare. 
Lo scorso marzo Dugges ha poi commercializzato altre due imperial stout al caffè, sulla base della stessa ricetta: la Ethiopia Welena vede l’utilizzo dell’omonimo caffè etiope coltivato nella regione dell’Oromia, esattamente a Guji Oromias. La Imperial Geisha è realizzata con caffè proveniente da Finca Santa Teresa, Panama: la varietà Geisha è anch’essa originaria dell’Etiopia (città di Gesha) ed è stata poi introdotta nel 1950 in America Centrale. 
La ricetta per tutte queste tre imperial stout prevede malti Pilsner, Carahell, Brown, Carafa 3, Pale Chocolate e Smoked, frumento maltato, mentre i luppoli utilizzati sono Target ed Hercules. 
Il suo vestito è nero e porta un “cappello” di schiuma beige cremosa e compatta, di dimensioni modeste ma dalla buona persistenza. Come da aspettative il naso apre con in primo piano il profumo elegante dei chicchi di caffè che viene accompagnato da quelli di cioccolato amaro ed orzo tostato; a bilanciare c’è un sottofondo dolce che suggerisce la vaniglia ed il cioccolato bianco. 
La semplicità dell’aroma viene riproposta al palato: dopo una velocissima partenza dolce (vaniglia, caramello) il gusto viaggio solido e spedito sui binari di caffè e tostature con lievi note di cioccolato fondente e liquirizia a fondersi con la chiusura resinosa che incrementa ulteriormente il livello d’amaro. Il corpo è  tra il medio ed il pieno, con poche bollicine ed una consistenza morbida ed oleosa che non deborda negli eccessi del “catrame scandinavo”; la bevuta è però piuttosto monotona, batte sempre sugli stessi tasti ma per lo meno lo fa con ottima pulizia ed eleganza.  L’acidità dei malti scuri e il finale generosamente luppolato puliscono per un attimo il palato, preparandolo all’ultima corsa attraverso il nero e lungo tunnel  del caffè amaro, percorso anche da un discreto alcool warming che riscalda con forza senza mai arrivare a bruciare. Si sorseggia con gusto, ma piuttosto lentamente. Ethiopia Gedeo è nera come la pece ed intensa come una tazzina di caffè amaro:  mette in pratica quello che promette e lo fa bene, ma tenetelo a mente se invece preferite Imperial Stout più bilanciate dalla controparte dolce.
Formato: 33 cl., alc.. 10.6%, lotto T483, scad. 21/05/2017

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 7 marzo 2016

Uerige DoppelSticke

Risalgono al 1862 le prime notizie riguardanti la produzione di birra all’interno dell’edificio del diciassettesimo secolo di Berger Strasse 1, nel centro storico (Altstadt) di Düsseldorf; è Wilhelm Cürten ad acquistare il “Bergische Hof’, un birraio burbero e spesso di cattivo umore al punto da guadagnarsi il soprannome di “Uerige”, che nel dialetto locale significa appunto “lo scorbutico, il brontolone”.
Il testimone passò (1886) nella mani del figlio Max poi prematuramente scomparso nel 1902 a soli quarantun anni: sua  moglie diede prima in gestione e poi vendette il birrificio al birraio Jean Keller – un altro burbero – che lo guidò sino al 1934 per poi affittarlo a Jakob Lotz. Nel 1937 la Uerige viene acquistata da Rudolf Arnold – già birraio a Coblenza – al quale spettò il compito della ricostruzione dopo i gravissimi danneggiamenti del 1943 e 1944 causati dai bombardamenti aerei:  assieme ai suoi dipendenti (cameriere, cuochi e birrai che erano sopravvissuti alla guerra) iniziò un duro lavoro terminato nel 1949 e proseguito poi con la costruzione di un edificio annesso terminato nel 1951. Rudi Arnolf fu uno dei più longevi proprietari di Uerige, famoso  anche per essersi opposto all’innalzamento delle tasse su liquori e superalcolici smettendo di servirli e affiggendo dei cartelli di protesta che – mi dicono – sono ancora oggi visibili sulle pareti del ristorante. 
Nel 1974 vengono inaugurati i nuovi impianti produttivi e, proprio nell’anno del suo ottantacinquesimo compleanno, Rudolf inizia a cercare  il suo successore:  il prescelto è Josef Schnitzler, figlio dei proprietari di un altro storico e famoso birrificio di Düsseldorf, i “concorrenti” della Brauerei Schumacher, gestita dalla sorella Gertrud.  Assieme alla moglie Christa, il birraio Josef Schnitzler prende possesso di Uerige il 1 gennaio del 1976, in un passaggio di consegne molto “chiaccherato”; la famiglia Schnitzler ne detiene ancora oggi la proprietà, con il testimone passato nel 1999 nelle mani di Michael. 
Düsseldorf è la città della “Altbier”, con quel prefisso “Alt” che sta a significare “vecchio”:  è una birra prodotta con lievito ad alta fermentazione (che viene però fatto "lavorare" a bassa temperatura), antecedente all’isolamento dei ceppi a bassa fermentazione, e che ha poi “stoicamente” resistito alla colonizzazione operata da  lager, pils, bock, etc etc.  La Altbier più famosa ma anche quella da evitare è la Diebels, ma se andate nel centro storico di Düsseldorf troverete ancora piccoli produttori capaci di regalare grandi soddisfazioni, come raccontato in questo reportage del blog Berebirra. 
Dalla Altbier facciamo un passo in avanti in direzione della “Sticke”, nome che nel dialetto locale significa “segreto”:  si dice che questa birra sia nata da un errore commesso in un tempo non ben precisato dal birraio di Uerige nel preparare la classica “Alt”.  Ebbe la mano troppo pesante ed aggiunse una quantità esagerata di malti e luppolo, riuscendo però a realizzare una birra molto gradita a quei pochi che riuscirono ad assaggiarla. Furono proprio questi fortunati ad iniziare questo segreto passaparola su di una birra che veniva ogni tanto ripetuta per il piacere di quei pochi che ne conoscevano l’esistenza. Oggi la Uerige Sticke non è più un segreto, ma un evento molto pubblicizzato che si tiene due volte l’anno, ovvero il terzo martedì di ottobre e di gennaio, quando viene servita direttamente dalle botti di legno.  Semplificando, si potrebbe concludere che la Sticke sia per una Alt l’equivalente di una Bock o di una Maerzen/Oktoberfest per una Helles. 
Nel 2005, sembra su richiesta del mercato americano, Uerige lancia sul mercato la DoppelSticke: 8.5% di contenuto alcolico e disponibilità nel corso dei mesi invernali, nella caratteristica bottiglia dal lungo collo e con tappo meccanico. La ricetta dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) prevedere malti Pilsner, Roasted e Caramello, luppoli Hallertau Perle, Hallertauer Spalter e  Spalt Spalter.
Nel bicchiere si presenta di color ambrato piuttosto carico, con bei riflessi ramati e rossastri ma anche molte particelle di lievito in sospensione, nonostante la cura nel versarla; la schiuma beige chiaro è cremosa e compatta, ed ha un'ottima persistenza. L'aroma è esuberante ma lascia per strada eleganza e finezza: è uno sciroppo dolce e zuccherino, ricco di ciliegia e prugna, con un sottofondo di biscotto e pane nero. Sicuramente meglio il primo sorso, nel quale questa DoppelSticke regala un corpo medio e una carbonazione molto delicata che la fa risultare oleosa e morbida. L'alcool non si nasconde e a mio parere mostra assai più del valore dichiarato (8.5%): viene a mancare la proverbiale facilità di bevuta della tradizione tedesca che caratterizza anche le Doppelbock, categoria stilistica alla quale si potrebbe vagamente far riferimento, con tutte le limitazioni dal caso. Ne risulta che la birra si sorseggia con gusto ma piuttosto lentamente, in un insieme di sapori che richiamano l'aroma nella ciliegia e nella prugna, nel pane nero e nel biscotto: all'elenco aggiungo caramello e melassa, liquirizia, uvetta. Nonostante la spiccata dolcezza sciropposa, l'eccellente attenuazione riesce a non renderla stucchevole, aiutata dalla chiusura amaricante che ricorda il pane nero tostato, la frutta secca ed il terroso; anche l'alcool contribuisce ad "asciugare" un po' il dolce regalando un retrogusto caldo che abbraccia melassa, uvetta e frutta sotto spirito in un accenno di vino liquoroso.  Un buona compagna per i mesi più freddi dell'anno, ma anche una delle bevute tedesche "più impegnative" che mi è capitato di fare.
Formato: 33 cl., alc. 8.5%, IBU 75, lotto 14715, scad. 05/2016, 3.45 Euro (beershop, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 6 marzo 2016

Sainte Helene Barley Wine

E' Eddy Pourtois l'uomo dietro alla Brasserie Sainte-Hélène, che dopo alcuni traslochi pare aver trovato la sua casa definitiva a Ethe, nel Lussemburgo belga. Eddy aveva iniziato nel 1993 a produrre la birra in casa, per poi frequentare alcuni corsi preparatori all'apertura al numero 21 di quella rue Sainte Hélène ad Orsinfaing che diede anche il nome al suo birrificio, capacità produttiva 3 hl; la sua prima birra viene commercializzata a maggio 1999. L'anno successivo assieme a  Gregory Verhelst (Brasserie Artisanale de Rulles) organizza la prima edizione del Brassigaume, un festival di piccoli birrifici che si tiene ancora ogni anno in ottobre.
A causa di alcune vicende familiari nel 2002 avviene il primo trasloco a Virton, nella regione del Gaume belga (estremo sud) e, nel 2005 qualche chilometro più in là in Rue de la Colline ad Ethe, dove ancora oggi il birrificio si trova. E' qui che vengono anche inaugurati i nuovi impianti da 14 hl che, oltre ad aumentare la capacità produttiva, contribuiranno a migliorare la qualità e la stabilità delle birre. Al tempo stesso in società entra anche il birraio Raphael Vanoudenhoven, che più tardi lavorerà anche alla Brasserie du Lion à Plume che proprio da Sainte Helene produce le sue birre; autore delle etichette è quel "Palix" già apprezzato per i suoi lavori con Rulles
Piuttosto semplice invece il biglietto da visita di questo robusto Barley Wine (12% ABV), una produzione occasionale che per il mercato americano prende il nome di Antipode abbassando di un paio di punti il tenore alcolico. La descrizione commerciale indica un'interpretazione belga di un'American Barley Wine, con (immagino) un'abbondante luppolatura di Brewers Gold e Strisselspalt. 
L'aspetto non è esattamente invitante, con il bicchiere che si colma di un torbido liquido ambrato/ramato; la schiuma biancastra è piuttosto grossolana, di dimensioni modeste e poco persistente. L'aroma, abbastanza pulito, mette in evidenza l'alcool che accompagna il caramello,  il miele, la marmellata d'albicocca,  l'uvetta e la mela cotta; l'intensità è buona ma inversamente proporzionale alla finezza dei profumi. La componente etilica è ancora maggiore al palato, rendendo davvero difficile anche il semplice sorseggiare: il gusto rimane in territorio dolce con uvetta, biscotto e caramello, miele ed albicocca, mela gialla. L'inizio è abbastanza positivo e reminiscente di un vino liquoroso, ma la birra si perde presto per strada slegandosi e perdendosi tra i fumi di un alcool troppo pronunciato. Il corpo è tra il medio ed il pieno, le bollicine sono poche con un una viscosità oleosa che porta una discreta morbidezza, ma il vero problema di questo barley wine è solo uno, ma fondamentale: bevibilità. La bevuta è davvero lenta, pesante e resa difficile dall'alcool che  affligge ogni sorso e sembra viaggiare su un binario parallelo, senza mai legare con gli altri elementi. La noia prende rapidamente il sopravvento e non serve il rincuorante finale (molto) caldo di albicocca sotto spirito e caramello: la voglia di versare metà della bottiglia nel lavandino prende il sopravvento su tutto. 
Formato: 37.5 cl., alc. 12%, scad. 02/2016, 4.50 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 5 marzo 2016

Dark Horse Boffo Brown Ale

Nuovo appuntamento con la Dark Horse Brewing Company, situata nelle desolata periferia di Marshall, contea di Calhoun, Michigan. 
Detroit si trova ad un paio d'ore di macchina ad est, mentre a soli 50 chilometri di distanza c'è Bell's, quello che probabilmente è il birrificio craft più famoso del Michigan. L'avevamo già incontrata con la sorprendente Plead the 5th imperial stout e, cinque anni fa, con la Crooked Tree IPA; Dark Horse fu fondata nel 1997 da Bob Morse e dal figlio Aaron come ristorante/brewpub ma, visto lo scarso successo, la licenza di brewpub fu convertita in birrificio. Oggi esiste comunque una taproom dove poter assaggiare tutte le birre che vengono ancora prodotte utilizzando gli impianti originali (8 ettolitri) che sono gestiti dal birraio Aaron "Noonie" Newsome. Tutte le altre birre sono seguite da Bryan Wiggs che le produce negli impianti da 35 hl. situati nell'edificio adiacente, ad un ritmo costante di due cotte al giorno.
Aaron Morse realizza le grafiche di tutte le etichette che, bisogna ammetterlo, non sono certamente tra le più belle esistenti sul mercato.  La Crooked Tree IPA è ovviamente la birra di maggior successo di Dark Horse, seguita dalla Raspberry Ale, dalla  Boffo Brown Ale, dalla Reserve Special Black Beer  e  dalla Amber Ale.
Oggi tocca proprio alla Boffo Brown Ale, qui descritta dal birraio Bryan Wiggs e da Aaron Morse: difficile confermare se il nome sia ispirato dalla famosa serie americana di vignette Mister Boffo o se semplicemente si sia utilizzato il significato dell'aggettivo che indica una cosa  di "grande successo, di alta qualità".
Si presenta nel bicchiere di un bel color marrone carico, con riflessi rosso rubino; la schiuma beige chiaro è di dimensioni e persistenza piuttosto modeste, benché cremosa e dalla trama molto fine. Il naso, molto intenso, regala una spiccata dolcezza composta da ciliegia e prugna sciroppata, uvetta e frutti di bosco, melassa e biscotto, con qualche nota terrosa. Al palato ci sono pochissime bollicine che, abbinate ad un corpo medio, formano una birra dal mouthfeel oleoso e morbida, ben scorrevole. Il gusto fa però un passo indietro rispetto all'intensità dell'aroma: ne ripropone comunque la dolcezza con caramello, biscotto, ciliegia, uvetta e prugna. Nonostante la grande, forse troppa dolcezza iniziale, la bevuta riesce comunque a non essere stucchevole grazie all'ottima attenuazione, alla lieve asprezza di frutti rossi ed al moderato amaro del finale terroso. E' una Brown Ale molto fruttata, fin troppo facile da bere nella quale personalmente sento la mancanza di un po' di quel calore etilico che si manifesta solo nel retrogusto abboccato; il risultato mi è parso però solo discreto e un po' sottotono, con tutte le attenuanti del caso per una birra che ha attraversato l'oceano e che è stata conservata in chissà quali condizioni.
Formaro: 35.5 cl., alc. 7%. IBU 26, imbott. 03/2015, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 4 marzo 2016

Hammer Bulk Porter

Ritorna il birrificio Hammer - Italian Craft Beer, incontrato per la prima volta lo scorso giugno 2015 con una delle prime cotte prodotte della Wave Runner IPA. Hammer ha sede a Villa d'Adda (BG), ed è di proprietà della famiglia Brigati, da tempo titolare di un mollificio: è Fausto il membro della famiglia ad essere stato contagiato dalla passione per la buona birra e ad aver coinvolto nella costruzione di un birrificio anche il fratello Roberto ed il padre Angelo. Fausto ha alle spalle qualche esperienza di homebrewing ed un corso Unionbirrai sull'apertura di un birrificio: in una superficie di 1300 metri quadrati, viene installato un impianto automatizzato da 20 hl. con sala cottura Flex-Bräu (EasyBrau), cinque fermentatori con serbatoi da 2500 litri ed una linea d'imbottigliamento a pressione isobarica. In sala cottura troviamo Marco Valeriani, classe 1981, proveniente dal Birrificio Menaresta.
Hammer non ha ancora spento la prima candelina e la sua gamma si sta già ampliando: oltre alle birre “base” prodotte regolarmente,  come  Riverside (Pale Ale), Bulk (Porter), Asia (Blanche), Westfalia (Koelsch), Spring (Amber Ale), Wave Runner (IPA), Killer Queen (Double IPA), Black Queen (Black IPA) e Daarbulah (Imperial Stout), si aggiunta una serie “parallela” chiamata Workpiece comprendente una Imperial IPA , una Pacific IPA, una Session IPA ed una Keller Pils. 
Valeriani si è fatto conoscere in Italia per le sue ottime birre luppolate,  e per sfatare il cliché stappiamo oggi la Bulk Porter; la descrizione commerciale indica che è stata “prodotta con una miscela unica di malti torrefatti e caramellati, e con piccole dosi di malto affumicato e torbato”. 
Nel bicchiere è nera e forma appena un paio di dita scarse di schiuma beige scuro, cremosa e abbastanza fine ma non molto persistente.  Il naso è essenziale ma molto pulito e non privo di una certa finezza, soprattutto per quel che riguarda il caffè in chicchi che domina la scena, affiancato dai profumi di orzo ostato e caffè liquido. Il suo corpo medio e la carbonazione molto contenuta la rende morbida pur consentendole si scorrere con grande facilità: volendo essere proprio (ma proprio) pignoli mi sembra lievemente slegata tra gusto ed acqua, come sensazione tattile. L’intensità al palato è davvero notevole, ricca soprattutto di caffè e tostature, con qualche intermezzo di cioccolato amaro e una patina dolce, in sottofondo, di caramello. Anche il gusto è piuttosto semplice, con pochi elementi in gioco ma molto ben disposti, valorizzati da un ottimo livello di pulizia; la componente amara è molto importante, con tostature e caffè parzialmente stemperate ed alleggerite dall’acidità dei malti scuri.  Chiude coerente con un lungo retrogusto di caffè e tostature, impreziosito da sfumature di cioccolato amaro e torba.  Una (robusta) porter solida e molto caratterizzata dal caffè, pulita e molto intensa, di una precisione quasi chirurgica, forse un po' avara di emozioni ma capace di soddisfare completamente chi se la  trova nel bicchiere.
Formato: 33 cl., alc. 5.8%, IBU 45, lotto 281A, imbott. 10/2015, scad. 31/10/2016, 4.00 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 3 marzo 2016

Achel Extra Bruin

Risalgono al diciassettesimo secolo notizie sull’esistenza di un luogo di pregheria nel piccolo villaggio di Achel, nel Limburgo belga, a pochi chilometri dal confine olandese: la comunità di monaci eremiti venne però spazzata via dal vento della Rivoluzione Francese e fu solamente nel 1838  che l’abate della non lontana abbazia di Westmalle decise d’acquistare i ruderi del convento per ristrutturarlo affinché nel 1845 potessero insediarsi alcuni monaci provenienti da Merseel. La neonata comunità dell’Achelse Kluis (il rifugio di Achel)  praticò agricoltura, pastorizia e produzione di prodotti caseari, acquistando inizialmente all’esterno la birra destinata al proprio consumo; fu solo nel 1850 che venne autorizzata la costruzione di una malteria e di un birrificio all’interno dell’abbazia, con l’acqua che tramite una condotta sotterranea fu fatta arrivare dal torrente Tongelreep: nacque la Patersvaatje (12°P) una birra che secondo quanto si può ricostruire dalle vecchie “cartelle esattoriali” veniva realizzata una volta al mese. 
La produzione, destinata solo al consumo interno, fu interrotta con la prima guerra mondiale quando i tedeschi sequestrarono e smantellarono gli impianti in rame utilizzandoli come materia prima per l’industria bellica; la seconda guerra mondiale portò nuovamente all’esodo dei monaci che riuscirono a rientrare solo nel 1946, anno in cui iniziarono i restauri del monastero di Sint-Benedictusabdij de Achelse Kluis. Le risorse economiche non permisero la ricostruzione del birrificio e la comunità continuò a dedicarsi ad agricoltura e allevamento sino a quando le fu possibile; l’invecchiamento anagrafico dei monaci, che non riuscivano più a reggere i ritmi del lavoro nei campi, e la mancanza di giovani risorse che potessero sostituirli imposero di trovare fonti alternative di reddito. Si tornò a pensare alla birra e in assenza di impianti produttivi nel 1976 il “mitico” Pierre Celis fu incaricato di produrre laTrappistenbier De Achelse Kluis” poi rinominata “Sint Benedict - Trappisten Abdij”, una birra scura dal contenuto alcolico del 6.5%. Curioso come il “Kluis”  contenuto nel nome originale non si riferiva al monastero “Achelse Kluis” ma al nome del birrificio di Celis, ovvero la Brouwerij De Kluis, aperta nel 1966. Nel 1985 un incendio agli impianti di Celis decretò la fine della collaborazione, ed i monaci si rivolsero al birrificio Sterkens che produsse sino all’inizio degli anni ’90 la Kluyserbier (6.4% ABV) poi sostituita dalla “’t Paterke” realizzata sino al 1995 dalla Brouwerij De Teut di Neerpelt.  E’ soltanto nel 1998 che la produzione di birra ripartì dentro le mura del convento, grazie al mezzo milione di dollari ricavato dalla vendita di alcuni terreni circostanti; nacque così quello che allora era il più giovane birrificio trappista, la  Brouwerij der Trappistenabdij De Achelse Kluis, nel cui bar era possibile assaggiare le birre e dare una sbirciata agli impianti al di là di una parete di vetro.
Sino ad allora ai monaci di Achel era permesso bere una Westmalle Dubbel al giorno e a guidare i primi passi del birrificio viene chiamato proprio da Westmalle Padre Thomas che assieme al birraio Marc Knops redige le ricette per le prime tre birre di Achel, disponibili inizialmente solo in fusto: Blond 4, Bruin 5 e Blond 6. Con il tempo rimasero in vita solo la Blond 5 e la Bruin 6. In aiuto di Padre Thomas, le cui condizioni di salute non gli consentivano più di supervisionare la produzione, arriva da Rochefort nel 2001 Padre Antoine; assieme a Knops redigono le ricette di due birre più alcoliche per soddisfare la richiesta di un mercato che, oltre ai fusti, reclamava anche le bottiglie. Sulla base di una Tripel che Knops già produceva per la Corporazione dei Birrai della Grand Place di Bruxelles nasce la Achel Blond 8 e l’esperienza di Padre Antoine con le “scure” di Rochefort fa nascere la Achel Bruin 8. 
Nel 2002 Knops e Padre Antoine realizzano in occasione delle festività natalizie una potente Strong Dark Ale (9.5%) chiamata semplicemente Extra e decidendo poi – a furor di popolo bevitore – di metterla in produzione tutto l’anno. Inizialmente ci fu un po’ di confusione in quanto sembra che un distributore olandese avesse commercializzato il primo lotto di Extra cambiandole il nome nel poco monastico “De Drie Wijzen”, ovvero i tre saggi, con riferimento ai Re Magi; l’ultima nata in casa Achel è la Blond Extra (9.5%), che dal 2010 affianca la sorella “bruna”.  
La produzione è oggi completamente affidata allo stakanovista Marc Knops aiutato dal birraio Jordy Theeuwen, con la supervisione - requisito fondamentale per poter ricevere il logo di "birra trappista" - di Padre Jules, l’unico tra i sei monaci (60-80 anni di età) rimasti ad Achel ancora coinvolto nella produzione della birra; come i monaci di Westvleteren, anche quelli di Achel utilizzano lievito fresco che viene prelevato in giornata da Westmalle.
La Extra Bruin (9.5% ABV) di Achel dovrebbe condividere buona parte degli ingredienti delle altre sorelle scure minori, Bruin 5 ed 8, ma in quantità ovviamente maggiore: malti Pilsner e Dingemans Roost 900 (un Chocolate), zucchero caramellato, luppolo in coni Saaz acquistato da Westmalle.
La sua tonaca di frate è assolutamente inappuntabile e splendida, impreziosita da venature ambrate e rosso rubino; la schiuma è "golosa" e abbastanza compatta, molto cremosa, dalla buona persistenza. Il naso, pulitissimo, regala un dolce bouquet composto da mela, uvetta e prugna/datteri, zucchero candito, ciliegia, una delicata speziatura e qualche accenno di banana matura; in sottofondo frutti di bosco, sentori di vino liquoroso, caramello, frutta secca. Un caldo e morbido abbraccio avvolge subito il palato con note di biscotto, uvetta e prugna, frutti di bosco, caramello, zucchero candito, una lieve speziatura; a bilanciare il  dolce contribuiscono la sostenuta carbonazione, qualche sfumatura aspra di frutti rossi ed una delicata acidità; chiude con una lieve nota luppolata terrosa e qualche accenno di cioccolato e frutta secca, prima di coccolare il bevitore con un retrogusto caldo, delicatamente ricco di frutta sotto spirito.
Facile da leggere e assolutamente non impegnativa da bere, la generosa bottiglia (75 cl.) di Extra Bruin si può affrontare in solitudine nel corso di una soddisfacente serata; benché ottima, si colloca qualche gradino sotto le altre grandi trappiste Westvleteren 12 e Rochefort 10, ma questo  non può  essere assolutamente una scusa per non provarla.
Formato: 75 cl., alc. 9.5%, scad. 01/06/2017, 6.05 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.