lunedì 3 dicembre 2018

Vivant Love Shadow (Bourbon Barrel Aged) 2017

Quello di Jason Spaulding è un nome già noto. Fu lui a fondare nel 1997 la New Holland Brewing Company  (Michigan, USA) assieme al compagno di homebrewing Brett VanderKamp: ne avevamo parlato in questa occasione. Dopo otto anni i soci si separarono per divergenze di vedute e alla fine del 2005 Spaulding lasciò l’azienda ricevendo la liquidazione della propria quota. Ma negli anni successivi non rimase con le mani in mano a godersi i soldi: prima il matrimonio con Kris, conosciuta ai tempi della New Holland della quale era un cliente regolare (“mi disse che le nostre birre non erano buone come la Amber di Bell’s” – ricorda) e poi un viaggio formativo e ispiratore in Belgio, in quella Vallonia terra d’origine delle cosiddette Farmhouse Ales. 
Al ritorno i due coniugi redigono il business plan per un nuovo birrificio: tre milioni di dollari d’investimento l’installazione di un impianto nei locali ristrutturati di un edificio nel quartiere East Hills di Grand Rapids, Michigan, dove un tempo vi era la cappella della più grande impresa di pompe funebri della città. Una location inusuale ma perfetta per lo scopo:  “chi entra nel nostro pub si sentirà come in un monastero belga”.  Il gallo (simbolo della Vallonia) viene scelto come logo del nuovo birrificio Vivant, un inno “al godersi le cose buone della vita (bon vivant), a partire da una buona birra”
Ma non solo:  “la cultura del cibo negli Stati Uniti è profondamente cambiata negli ultimi 10-15 anni. Quando abbiamo iniziato tutti i birrifici avevano lo stesso menu e la gente che arrivava da noi era sconvolta; si aspettavano pizza, hamburger e alette di pollo piccanti mentre noi avevamo lumache e petto d’anatra! Ora la gente vuole cibo fresco e locale, fa molta più attenzione a quello che mangia. Vogliamo restare un piccolo birrificio locale, non vogliamo che la nostra birra arrivi dappertutto ma piuttosto che la gente venga a trovarci da lontano e si porti a casa con sé le nostre birre. Vogliamo costruire un marchio che la gente possa associare alla città di Grand Rapids a al Midwest”. 
Alla guida dell’impianto viene chiamato Jacob Derylo, birraio con esperienza decennale presso la New Holland e vecchia conoscenza di Jason; ad affiancarlo c’è anche  Brian "the bomber" Kuszynski deputato alla gestione degli invecchiamenti in botte e dei tre grandi foeders da 45 ettolitri dedicati alle birre acide.  La produzione ruota intorno ad un nucleo di birre disponibili tutto l’anno (Farm Hand Farmhouse Ale, Hop Field Farmhouse IPA e Big Red Coq Hoppy Farmhouse Red Ale) affiancate da numerose produzioni stagionali e occasionali per un totale di circa 6000 ettolitri l’anno (2017).  Qualche mese fa Vivant ha annunciato l’acquisto di un edificio da 2000 metri quadrati a Kentwood, a una decina di chilometri di distanza, nel quale sarà installato quello che è attualmente utilizzato come impianto pilota a Grand Rapids. Questa seconda location sarà dedicata alla produzione di birre “alla moda” (NEIPA ?) che non rientrano nella tradizione belga e per le quali sarà probabilmente creato un nuovo “sotto-marchio” di Vivant. 

La birra.
Love Shadow è una delle tante produzioni stagionali di Vivant ed è commercializzata una sola volta all’anno: quest’anno è arrivata in febbraio, mentre la lattina che andiamo a stappare si riferisce all’edizione 2017, messa in vendita credo in agosto.  
Si tratta di una Imperial Stout (11.7%) d’ispirazione belga invecchiata in botti di bourbon. Il suo colore è prossimo al nero, in superficie si forma una modesta quantità di schiuma abbastanza grossolana e rapida nel dissiparsi. L’aroma è profondamente marcato dal passaggio in botte: bourbon, legno e accenni di vaniglia accompagnano i profumi di melassa e fruita cake, cioccolato al latte, liquirizia, prugna e uvetta. Un aroma intenso, caldo ed avvolgente, ricco e pulito. La bevuta è inizialmente un po’ disturbata da una carbonazione sottile ma un po’ troppo presente: meglio attendere un po’ per poter apprezzare in pieno la consistenza leggermente oleosa e morbida di questa imperial stout. Al palato Love Shadow conferma solo in parte le splendide premesse dell’aroma: il gusto si muove sugli stessi passi ma lo fa con meno precisione e profondità. E’ tutta via un bel bere, non fraintendetemi. Avrei però gradito trovare un po’ più di “stout” nel bicchiere, anche a  discapito dell’intensità del carattere barricato: tostature e caffè sono praticamente assenti.  Melassa, uvetta e prugna sotto spirito, tanto bourbon: il dolce è comunque ben attenuato da un finale asciutto di legno e tannini, terroso.  L’alcool non fa sconti ed è un mezzo litro che va sorseggiato con calma e possibilmente condiviso: se non potete farlo, prendetevi tutta la serata e lasciatevi riscaldare da una birra che non teme i rigidi inverni del Michigan.
Formato 47,3 cl., alc. 11.7%, lotto 2017, prezzo 5,39 dollari (beershop)

venerdì 30 novembre 2018

Benaco 70 India Pale Ale & Porter


Il Birrificio Benaco 70 nasce nel 2013 ad Affi, provincia di Verona, sulle colline sottostandi il monte Moscal a pochi chilometri dalle sponde meridionali del Lago di Garda. A fondarlo i coniugi Erica Zovi e Riccardo Costa, rispettivamente con lauree in lauree in Viticoltura ed Enologia e Statistica: tutta colpa di un kit da homebrewing che Erica regalò al marito verso la fine degli anni ’90: un lungo percorso che è sfociato nell’acquisto di un impianto da 10 Hl a cotta della ditta vicentina Impiantinox – Easybrau, quattro serbatoi verticali troncoconici e due celle frigorifere per la fermentazione e la maturazione. Il perché del nome scelto è presto detto: Benaco è l’antico nome latino del lago di Garda, 70 era la somma delle età dei componenti della famiglia al momento dell’apertura del birrificio.
Attualmente l’offerta brassicola si compone di sette etichette disponibili tutto l’anno (Brown Ale, Porter, Helles, India Pale Ale, Honey Ale, Blanche e ColoniAle) più qualche produzione occasionale e stagionale:  tutte birre volutamente semplici e facili da bere. “Attualmente lasciamo le acide a chi le sa fare ed il vino ai tanti produttori della Valpolicella che ci circonda” dice Riccardo. “Birre maggiormente alcoliche sarebbero interessanti, ma in controtendenza rispetto a quello che i nostri clienti ci chiedono”.  I due coniugi si occupano di ogni aspetto: Riccardo segue la produzione e l’approvisionamento delle materie prime mentre Erica si occupa della parte amministrativa e commerciale. Particolarmente ricca di soddisfazioni è stata la partecipazione all’ultima edizione del concorso Birra dell’Anno 2018: lo scorso febbraio a Rimini sono state premiate Blanche (secondo posto in categoria 24), Helles (prima in categoria 2) e Coloniale (prima in categoria 5).
Adiacente all’impianto vi è lo spaccio e la cosiddetta “taproom”:  una piccola cucina e sette spine che occasionalmente ospitano anche qualche altro birrificio. E’ aperta dal martedì  al giovedì dalle 16 alle 21 e, venerdì e sabato sino a mezzanotte.

Le birre.
Birra di qualità anche sugli scaffali del supermercato, a buon prezzo:  possibile?  E’ una sfida nella quale mi sono cimentato più volte: Benaco 70 propone da poco nella GDO le proprie bottiglie a 9 euro al litro, prezzo sicuramente interessante se si guarda al costo medio di un litro di birra artigianale nei negozi e nei beershop italiani. 
La India Pale Ale si presenta velata e di color ramato/ambrato scarico: la schiuma è piuttosto generosa, compatta ed ha un’ottima persistenza. Profumi di pompelmo, mandarino, arancia e resina anno a formare un’aroma fresco e di buona intensità; il bouquet è gradevole anche se non particolarmente raffinato o definito. La bevuta è un po’ disturbata da qualche bollicina in eccesso e anche a livello tattile la birra potrebbe essere meno pesante. La bevuta è piacevole e priva di difetti ma anch’essa caratterizzata da poca finezza: caramello, biscotto e un breve passaggio agrumato anticipano un finale amaro resinoso e pungente di buona intensità nel quale l’alcool  (7%) dà il suo contributo senza fare sconti.  Una IPA abbastanza secca ma un po’ ruvida, ancora da sgrezzare e raffinare, comunque una proposta positiva soprattutto per chi sta muovendo i primi passi nel mondo dell’artigianale e non ha aspettative particolarmente elevate. 

La Porter di Benaco 70 è di un bel color ebano scuro illuminato da riflessi rossastri: cremosa, compatta e dalla trame fine, la schiuma mostre buona ritenzione. Orzo tostato, qualche estero fruttato (bosco), accenni di caffè: al naso c’è il minimo indispensabile. Al palato ci sono invece troppi alti e bassi in un percorso che parte con una buona intensità per poi scivolare in pericolosi abissi acquosi. Caramello, tostature e fondi di caffè vengono quasi portati via da un’ondata acquosa che ripulisce il palato ma annulla anche il gusto: la porter si spegne improvvisamente per poi tornare timidamente in vita in un retrogusto di caffè e tostature che non brilla di eleganza. Gusto ed acqua sembrano quasi viaggiare su due binari paralleli, senza coesione. Nessuno si aspetta una bomba da una porter “sessionabile” (4.5%) ma gli esempi di birre “con poco alcool e tanto gusto” (semplificando) non mancano e qui il risultato è davvero molto mediocre: spiace dirlo ma, anche in assenza di difetti o off-flavours, il lavoro da fare su questa bottiglia è davvero tanto.
Nel dettaglio:
India Pale Ale, 33 cl., alc. 7.0%, IBU 60, lotto 18219, scad. 01/12/2019, prezzo indicativo 2.99 Euro (supermercato)
Porter, 33 cl., alc. 4.5%, IBU 32, lotto 18254, scad. 01/02/2020, prezzo indicativo 2.99 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 29 novembre 2018

Spezial Rauchbier Märzen

E’ stato fondato nel 1536 da Büttner Linhard Großkopf e dal 1898 è nelle mani della famiglia Merz: birrificio Spezial, Obere Königstraße 10, Bamberga. Un’importantissima via commerciale che nel medioevo collegava Erfurt, Bamberga, Norimberga e Augusta per poi proseguire a sud oltre le Alpi, collegandosi all’antica Via Augusta sino a Verona:  nei tipici edifici a graticcio sulla Königstraße che attraversava Bamberga vi erano un tempo oltre 22 birrifici e Spezial è uno dei pochi ancora rimasti in attività. 
Il nome deriva probabilmente dalla parola francone Spezeln  che significa “ritrovo di amici”; Spicial genannt, eyn Bräuer und auch Büttner gewesten ist  era il motto collegato al birrificio durante la gestione (1631-1664) del proprietario Nikolas Delscher. 
Come detto, la famiglia Merz ne detiene la proprietà dal 1898: alla guida è il birraio Christian Merz, discendente di quarta generazione che supervisiona una produzione annuale che si aggira sui 6-7000 ettolitri. 
Al numero civico adiacente (Obere Königstraße 8) dove vi era un tempo il birrificio Schwarzer Bär, vi è oggi la Gasthof di Spezial aperta ogni giorno dalle 9 alle 23, il sabato solo sino alle 14. Lager, Märzen, Weissbier,Ungespundetes e Bockbier formano una gamma classica e rispettosa della tradizione locale. Per chi non lo sapesse Bamberga è la città delle Rauchbier, birre affumicate; la leggenda racconta che a causa di un incendio un birraio si ritrovò con le proprie scorte di malto accidentalmente affumicate e, non potendo acquistarne altro, fu costretto ad utilizzarlo ugualmente. I motivi reali erano invece molto più pratici: l’orzo doveva essere in qualche modo essiccato e spesso non era possibile farlo lasciandolo all’aria aperta, sotto al sole. Per questo si utilizzava il fuoco che, assieme al fumo sprigionato dal legno, rendevano il malto affumicato. E’ solo grazie al processo tecnologico che è stato possibile utilizzare combustibili e tecniche diverse (i forni moderni) per essiccare il malto senza renderlo affumicato. Ma a Bamberga la tradizione  del malto affumicato tramite tizzoni ardenti di legno di faggio è ancora viva e, nel caso della Spezial, avviene ancora all’interno del birrificio stesso.

La birra.
La Märzen affumicata di Spezial si veste di color ebano con accesi riflessi ambrati; la schiuma, cremosa e compatta, ha un'ottima ritenzione. Difficile chiedere di più all'aroma di una Rauchbier:  ci sono profumi di speck (o geraucht Schinken per restare in zona), di camino acceso, caramello, legno, qualche nota terrosa. La scuola tedesca vuole birre facili da bere e questa non fa eccezione: la bassa carbonazione le permette di scorrere senza nessuno spigolo. Caramello, pane nero, qualche lieve nota biscottata sono il supporto sul quale s'appoggia l'intensa affumicatura: c'è più legno che speck in una bevuta intensa al cui equilibrio contribuiscono una discreta attenuazione, una lieve acidità ed un accenno d'amaro terroso. Tutti gli elementi elencati sino ad ora ritornano delicatamente anche nel retrogusto, un piccolo compendio di una una Rauchbier davvero ben fatta, pulita e precisa. Un piccolo gioiello da vedere, odorare e gustare, sopratutto se amate lo stile.
Formato 50 cl., alc. 5.3%, scad. 20/12/2018, prezzo indicativo 3.50-4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 28 novembre 2018

De Halve Maan Straffe Hendrik Wild 2015

La Brouwerij Halve Maan venne fondata nella splendida città belga nel 1856 da Leon Maes,  conosciuto anche come Henri I, capostipite della famiglia che ancora oggi la guida. Il marchio Straffe Hendrik fu inventato nel 1981 da Veronica Maes per celebrare la statua eretta a Bruges di St. Arnoldus, patrono di tutti i birrai; la birra (una Tripel) divenne molto popolare e si dice che il sindaco di Bruges l'avesse fatta divenire la bevanda ufficiale di tutte le ""celebrazioni"". Il calo dei consumi e le conseguenti difficoltà economiche costrinsero la famiglia Maes a cedere il marchio, nel 1988, alla Riva NV. E mentre la Riva era impegnata a fare altri acquisti (nel 2001 comprò anche la Liefmans), a Bruges Xavier Vanneste, figlio di Veronica Maes, si occupava della ristrutturazione e dell'ammodernamento della Halve Maan, che culminò nel lancio della Brugse Zot (2005). 
Nel 2007 la Riva dichiarò fallimento, ed i suoi marchi furono rilevati dalla Duvel Moortgat; l'anno successivo, Xavier riuscì a riacquistare dalla Duvel il brand Straffe Hendrik, riportandolo a casa. Brugge riebbe così la sua tripel: ""per me fu molto importante riprendere il marchio, dopo esattamente venti anni. Straffe Hendrik (“Henri il forte”) parla della dinastia della famiglia Maes, nella quale ci sono stati ben cinque Henri che hanno prodotto birra a Bruges"". Xavier adattò la ricetta originale agli impianti più moderni e capienti, che consentirono anche la nascita di una seconda  Straffe. Nel 2010 fu infatti lanciata la Quadrupel, una sostanziosa Belgian Strong Ale dall'importante contenuto alcolico (11%), seguita nel 2014 dalla Straffe Hendrik Wild, ovvero una tripel rifermentata con brettanomiceti.

La birra.
Viene proposta al pubblico per la prima volta nell’aprile del 2014 la versione “wild” della tripel Straffe Hendrik: i brettanomiceti vengono utilizzati per la rifermentazione nelle bottiglie che maturano per tre mesi nel magazzino del birrificio prima di essere messe in vendita. La ricetta della tripel annovera un mix di sei diverse varietà di malto, luppoli Saaz e Styrian. Da allora la Straffe Hendrik Wild viene prodotta ogni anno; vediamo che effetto hanno avuto sul millesimo  2015 i tre anni passati in cantina. 
Il suo colore è un arancio piuttosto velato, mentre l’esuberante schiuma pannosa è tipica espressione dei lieviti selvaggi, assoluti protagonisti al naso: cuoio, sudore e  pelle di salame disegnano un profilo “funky”  nel quale c’è davvero poco spazio per i ricordi sbiaditi di una tripel, ovvero biscotto e frutta candita. Molte, forse troppe bollicine rendono la bevuta molto vivace ma un po’ ruvida: ai brettanomiceti il compito di renderla molto secca e di nascondere l’alcool (9%) in maniera quasi diabolica. Il gusto rispecchia completamente l’aroma e il risultato non rientra particolarmente nelle mie corde: tanto funky, cuoio e terra, qualche nota pepata, mancano quei contrappunti e quei contrasti che dovrebbero provenire dalla componente tripel, quasi completamente sparita. Solo nel finale l’alcool mette la testa fuori dal guscio riscaldando gli ultimi istanti di una birra che mi pare troppo monocorde e noiosa, priva di spunti.
Formato 33 cl., alc. 9%, lotto 2015, scad. 09/03/2020

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 27 novembre 2018

Firestone Walker Velvet Merkin 2017

Velvet Merlin, Nitro Merlin e Velvet Merkin; chiudiamo il cerchio con la birra che ha dato origine a tutto. Nel 2004 il birrificio californiano Firestone Walker aveva lanciato la sua prima stout all’avena, elaborazione di una ricetta che il birraio Matt Brynildson aveva realizzato da homebrewer traendo ispirazione dal libro The Real Ale Almanac di Roger Protz. La birra, come prevede la prassi, venne “benestariata” dai proprietari Adam Firestone e David Walker che decisero di introdurla inizialmente come produzione autunnale disponibile solo alla taproom del birrificio: il nome scelto fu Velvet Merkin. Solo in seguito, quando la crescente  domanda dei clienti per birre “scure” ne permise la produzione su grande scala, venne decisa la messa in bottiglia: a quel punto il problema era nome.  Il termine “merkin” in inglese indica infatti una “mini parrucca" che viene utilizzata per coprire i genitali e che, al giorno d’oggi, viene utilizzata dall’industria cinematografica quando bisogna girare delle scene di nudo.  Per la distribuzione al grande pubblico la birra fu allora rinominata Velvet Merlin, un riferimento al mago Merlino ma anche al soprannome del birraio Brynildson: “inizialmente non ero contento, ma poi ho dovuto ammettere che potevano sorgere dei problemi a distribuire una birra chiamata Velvet Merkin. Dopo tutto la parola davvero importante nel nome è Velvet (velluto) in quanto descrive la consistenza che ho voluto dare a questa birra”. 
Scomparso dai radar, il nome Velvet Merkin è stato assegnato alla versione invecchiata in botti di bourbon della stessa birra: una variante che è sporadicamente apparsa per molti anni solo in fusto alla taproom del birrificio e che veniva principalmente utilizzata per formare l’Anniversary Ale (blend di birre barricate) con la quale ogni anno Firestone festeggia il proprio compleanno. Ciò non le ha comunque impedito di racimolare nel 2010 e nel 2011 due medaglie d’oro al Great American Beer Festival. 
E’ soltanto a settembre 2013 che Firestone Walker si decide ad imbottigliare la birra nell’ambito della Proprietor’s Reserve; questo l’annuncio del birraio Matt Brynildson: “sino ad ora si poteva assaggiare la Velvet Merkin solo in occasione di eventi speciali o alla nostra tasting room. Questa birra è diventata oggetto di culto e la gente ci perseguitava per averla. Quando si parla d’invecchiamenti in botte è facile orientarsi su birre dall’elevato contenuto alcolico, almeno 10%,  perché ciò favorisce la stabilità nel tempo della birra all’interno della botte. Ma col tempo siamo diventati sempre più bravi a gestire in botte anche birre dal contenuto alcolico più basso. L’alcool gioca un ruolo fondamentale nel carattere di una birra barricata, e se riesci ad abbassarlo tutti gli altri sapori emergono maggiormente. Nel caso della Velvet Merkin, nella birra di partenza dominano il caffè e il cioccolato fondente ma dopo un anno in botte emergono cioccolato al latte e vaniglia; per questo utilizziamo solamente botti ex-bourbon”. Per l’occasione vennero messe in vendita 3500 casse di bottiglie da 65 centilitri. Nel 2015 la terza edizione della Velvet Merkin vede una piccola modifica: “abbiamo aggiunto in botte una piccola percentuale di Milk Stout per arrotondare la sensazione palatale – dice Brynildson - E’ difficile da percepire, ma fa la differenza; avremmo potuto evitare di rivelare questo dettaglio, ma vogliamo essere trasparenti”. Anche nel 2015 furono commercializzate 3500 casse di bottiglie da 65 centilitri.

La birra. 
Non è ben chiaro quale percentuale di Firestone Walker sia rimasta in mano ai fondatori Adam e David dopo la “fusione” del 2015 con i belgi della Duvel Moortgat. L’aumentata capacità produttiva ha comunque permesso a noi europei di mettere le mani su birre un tempo inaccessibili per chi non si trovasse in California al momento della mesa in vendita. In Italia sono di recente arrivate bottiglie della edizione 2017 di Velvet Merkin, apparsa negli Stati Uniti nel settembre dello scorso anno nel nuovo e ridotto formato da 35,5 centilitri. La birra è stata invecchiata in varie botti di bourbon provenienti dalla distilleria Heaven Hill ed utilizzate per produrre marchi come Elijah Craig e Old Fitzgerald;  la ricetta (della Velvet Merlin) include malti Maris Otter, 2-Row Pale, Roast Barley, English Dark Caramel, Medium Caramel, Carafa  e avena (15%); l’unico luppolo utilizzato è il Fuggle coltivato negli Stati Uniti. 
Vestita di ebano scuro, forma un bel cappello di schiuma cremosa e compatta che mostra buona ritenzione. Il naso è pulito ma poco intenso; orzo tostato, caramello e caffè sono in primo piano e il contributo del passaggio in botte è un po’ sotto traccia. Si avvertono comunque sfumature di bourbon, legno, cocco tostato. Nonostante l’utilizzo dell’avena la sensazione palatale non è particolarmente cremosa e risulta meno morbida rispetto alla sorella non barrel-aged. Il carattere barricato è molto più evidente al palato dove il bourbon è subito protagonista e costringe al ruolo di semplice comparsa caramello, tostature, caffè, cioccolato. La chiusura  (legno e tannini) è abbastanza secca, il retrogusto di bourbon è caldo e avvolgente. Naso meno intenso ma più interessante e complesso di un gusto intenso che tuttavia risulta un po’ troppo monocorde:  la Velvet Merkin 2017 di Firestone Walker si sorseggia con piacere ma suscita qualche interrogativo, soprattutto perché il prezzo del biglietto è di prima fascia.
Formato 35.5 cl., alc. 8.5%, IBU 33, imbott. 21/08/2017, prezzo indicativo 12.00-20.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 26 novembre 2018

DALLA CANTINA: Extraomnes Quadrupel 2018 vs 2013


Sembra ieri ma sono già passati otto anni. Correva l’anno 2010 e debuttava uno dei birrifici italiani più attesi al varco: Extraomnes capitanato dal sanguigno Luigi “Schigi” D'Amelio. Blond, Saison, Bruin e Tripel  le birre scelte per iniziare un percorso che vide, per le festività natalizie dello stesso anno, l’arrivo della Kerst “qui pensiamo di fermarci per un bel po’, ci concentreremo per migliorare sempre di più queste piuttosto che ad allungare la lista delle referenze”. Così dichiarava D’Amelio in un intervista a Cronache di Birra, ma a pochi mesi di distanza, nella primavera del 2011, fu presentata all’Italian Beer Festival di Milano una birra destinata a diventare in poco tempo uno dei grandi successi del birrificio di Marnate, Varese:  la Zest. Nello stesso anno arrivarono anche la imperial stout al caffè Donker e, a Natale, la prima Kerst Reserva. 
Facciamo ora un salto in avanti nel tempo, tralasciamo altre novità arrivando al 2013 quando il birrificio festeggiava la cotta numero 200. Le celebrazioni per la numero cento erano state affidate alla Hond.erd, ma questa volta a Marnate decisero di fare le cose più in grande andando a colmare un importante vuoto nella gamma di un birrificio che si rispecchia nella tradizione belga: quella delle grandi Belgian Strong Dark Ales, o Quadrupel che dir si voglia. Una birra celebrativa ma non solo, come riportava a suo tempo il blog Varesenews: “vogliamo che la Quadrupel entri nella produzione standard; ovviamente aspettiamo il responso del mercato ma da questa birra ci attendiamo molto”.  Così è stato oggi la Quadrupel è una presenza fissa anche alle spine dei due locali di Extraomnes:  il Bier & Cibo a  Castellanza (Varese) e l’ultimo nato a Savona.

La birra.
Come ogni Quadrupel che si rispetti anche quella di Extraomnes  dovrebbe essere una buona candidata per passare del tempo in cantina. Mesi, anni? A voi la decisione e la scelta di correre il rischio che ogni invecchiamento porta inevitabilmente con sé.  Ho voluto oggi mettere a confronto una delle prime bottiglie prodotte nel 2013 con una nata all’inizio di quest’anno. 
Partiamo con la Quadrupel 2018 (9.3%) che si presenta vestita con la classica tonaca di frate (cappuccino, per i pignoli) la cui torbidità è illuminata da bagliori rossastri; la schiuma non è particolarmente generosa ma è cremosa, compatta ed ha una discreta ritenzione. Il naso è ricco, dolce, piacevolmente complesso: uvetta e datteri, prugna,  pera, miele e biscotto, caramello e zucchero candito, qualche accenno di pasticceria, una delicata speziatura infusa dal lievito trappista. La bevuta è perfettamente coerente con l’aroma anche se risulta un po’ meno definita e seducente:   il dolce è ben attenuato e bilanciato da un lieve amaro finale nel quale convivono note di frutta secca a guscio e delicate tostature, il congedo è un morbido e caldo ricordo etilico di frutta sotto spirito. Gran bel naso, interessante e complesso,  bevuta che forse non mantiene tutte le aspettative ma che rimane di ottimo livello. Alcool abbastanza ben gestito ma piuttosto evidente in alcuni passaggi.

La Quadrupel 2013 è visivamente più torbida della 2018  ed è sporcata da piccolissime particelle di lievito in sospensione; la schiuma  fa molta fatica a formarsi e si dissolve molto rapidamente. Dopo cinque anni in cantina l’aroma non regala piacevoli note ossidative che portano alla mente vini marsalati e liquorosi: scomparse le spezie, sono protagonisti gli esteri fruttati (prugna, uvetta, fico), lo zucchero candito e il caramello. Il naso è gradevole ma per eleganza ed ampiezza dello spettro aromatico la mia preferenza va alla bottiglia più giovane. Al palato la birra risulta molto morbida e tutti gli elementi molto ben amalgamati tra di loro; l’alcool è meno in evidenza ma la bevuta è ancora potente e vigorosa. Dominano prugna e uvetta ma numerose sono le suggestioni di vino fortificato e liquorose; anche in questa bottiglia il dolce è molto ben attenuato e bilanciato da leggere tostature ed è un piacere abbandonarsi alla lunga scia etilica che accompagna ogni sorso. Questa “vecchietta” di cinque anni è ancora in ottima forma anche se più mansueta rispetto alla giovane nipote: ogni spigolo è stato smussato e per quel che mi riguarda vince il confronto. E’ davvero un piacere passare una serata assieme a lei, come ad ascoltare il racconto dei nonni su di un tempo che non c’è più ma che sembra essere sempre più affascinante di quello in cui viviamo oggi.
Il verdetto? Lasciate qualche anno in cantina questa Quadrupel e lei saprà ricompensarvi.
Nel dettaglio:
Quadrupel 2018, 33 cl., alc. 9,3%, lotto 015 18, scad. 01/01/2020 
Quadrupel 2013, 33 cl., alc. 9,3%, lotto 136 13, scad. 31/05/2016
Prezzo indicativo 4.00-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 23 novembre 2018

Hoppin’ Frog Rocky Mountain DORIS

Ammetto il mio debole per le imperial stout di  Hoppin’ Frog, birrificio guidato dal 2006 da Fred “la rana” Karm ad Akron, Ohio.  BORIS The Crusher, DORIS The Destroyer  e TORIS The Tyrant rappresentano per me una delle massime espressioni dello stile: pochi fronzoli, tanta sostanza, e lontane dall’ondata di birre-dessert che ha invaso negli ultimi tempi il mondo della birra artigianale, soprattutto americana. BORIS viene prodotta dal 2006 ed è la birra che ha portato a Karm i primi riconoscimenti e le prime medaglie (oro nel 2008 e nel 2011) al Great American Beer Festival, contribuendo in maniera decisiva al successo di Hoppin’ Frog:  le sue sorelle maggiori DORIS e TORIS non sono da meno.
Giusto sfruttarne il successo realizzando quelle molteplici varianti che rappresentano uno strumento indispensabile per assecondare la sete di novità dei beer geeks: in questa occasione avevamo passato in rassegna quelle di BORIS; per quel che riguarda DORIS il proliferare è stato meno evidente. Oltre a tre diversi invecchiamenti (Barrel Aged DORIS, Barrel Aged DORIS Royale e Rocky Mountain DORIS) abbiamo le derive Marshmallow DORIS e Peanut Butter DORIS, avvistate sporadicamente solo alle spine della taproom.

La birra.
Fred  Karm è notoriamente molto restio nel divulgare informazioni sulle proprie birre e quindi nulla sappiamo sulla ricetta di DORIS; non è neppure mai stata rivelata la provenienza delle botti di whiskey (Heaven Hill?, si mormora) utilizzate per produrre la versione “standard” della Barrel Aged DORIS.  Nel 2016 Hopping Frog ha comunque messo in vendita due nuove edizioni “Rocky Mountain” di BORIS e DORIS, realizzate con botti ex-whiskey single malt provenienti, come il nome suggerisce, dal Colorado. Rocky Mountain DORIS debutta al birrificio il 14 maggio 2016 con, garantisce Karm, un “carattere molto più assertivo rispetto alla nostra standard Barrel-Aged D.O.R.I.S. Questa versione è una dimostrazione di come lavoriamo duro per dare ai nostri clienti solo il meglio”.   
DORIS è vestita completamente di nero ma come al solito ad impressionare è il colore scuro e minaccioso della propria schiuma che, in questa versione, ha una discreta ritenzione. Il naso è ricco e caldo, avvolgente: il whisky bagna delicatamente fruit cake, cioccolato, toffee, prugne e uvetta, tostature e qualche accenno di vaniglia. La sensazione palatale è oleosa e densa, ma leggermente meno morbida e “delicata” (per quanto può essere una imperial stout da 10.5%) della versione non barricata. Potente ed esuberante, bilanciata e non priva di una certa eleganza: nessuna sorpresa nel bicchiere, anche questa versione di DORIS regala grandi soddisfazioni a colpi di melassa, fruit cake, vaniglia, cioccolato e frutta sottospirito; l’amaro delle tostature e qualche ricordo di caffè viene enfatizzato dalla generosa luppolatura. Lascia una calda, lunga e morbida scia etilica ricca di whisky, legno e frutta sotto spirito. 
Il modus operandi è sempre quello: comodi in poltrona, bicchiere tra le mani, sorseggiare in tutta tranquillità, riscaldati e coccolati. I due anni dalla messa in bottiglia l’hanno ammorbidita e resa un po’ più mansueta: amaro, tostature ed alcool sono molto ben amalgamati tra di loro e nessuno cerca di prevalere. Livello alto e, anche se impegnativa, delizia per il palato e piacere per i sensi. 
Formato 65 cl., alc. 10.5%, imbott.05/2016, prezzo indicativo 19,00-27,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 21 novembre 2018

Electric Bear Above the Clouds IPA & Inspector Remorse Porter

Liquidata nel 2012 la propria società di informatica, Chris Lewis ha deciso d’investire 300.000 sterline per trasformare l’hobby dell’homebrewing in una professione.  Nell’estate del 2015 nella bella Bath,Somerset inglese, nasce il birrificio Electric Bear: 450 metri quadrati in un edificio industriale (curiosamente chiamato The Maltings) nel quale ha trovato posto un impianto da 23 ettolitri. Il nome scelto è un tributo al vecchio birrificio Bear che ha operato nella stessa area sino all’aprile del 1942, quando fu distrutto da un bombardamento tedesco. I maligni vociferano che le produzioni casalinghe di Lewis non fossero granché: che sia vero o no, per avviare il birrificio viene assunto Guillermo Alvarez giovane birrario predestinato. Suo nonno era uno dei proprietari del Gruppo Modelo in Messico (quelli della Corona, per intenderci) e suo zio possiede tre birrifici (BridgePort  in Oregon, Trumer in California e Spoetzl in Texas) nonché un distributore di birra negli Stati Uniti. Tra le precedenti esperienze professionali di Alvarez nel Regno Unito si sono St Austell e Rebel Brewing in Cornovaglia. All’agenzia media Clarity viene affidata la campagna #BuildingaBrewery che documenta su tutti i social media la costruzione e il debutto del birrificio: “mi ha facilitato il lavoro, era come se i clienti mi stessero già aspettando – dice  Justin Roberts, Electric Bear sales manager – ci avevano visto su Twitter ed erano già ansiosi di conoscere le nostre birre”. 
Il birrificio festeggia il primo compleanno aggiungendo due fermentatori da 4000 litri e aumentando il ritmo da due a quattro cotte la settimana per poter soddisfare tutta la domanda; la Milk Stout Mochachocolata Ya Y0, la Heisenberg Doppelbock e la lager alla segale SamuRye portano a casa medaglie ai World Beer Awards del 2016.  Nello stesso anno viene anche inaugurata la taproom dove viene attivato lo Speidel Braumeister da 20 litri un tempo usato da Lewis nel proprio garage di casa: a lui il compito di produrre birre sperimentali e in esclusiva per la taproom, aperta sabato e domenica da mezzogiorno alla sera.  Tutti i giorni è comunque possibile recarsi in birrificio per acquistare direttamente bottiglie, lattine e merchandising. 
A gennaio del 2017 Alvarez viene sostituito dal nuovo head brewer Ian Morris, proveniente da Arbor Ales e Bingham Brewery: assieme al nuovo birrario arrivano anche le prime lattine, formato ormai imprescindibile per competere nella scena UK. In quasi tre anni d’attività sono già state commercializzate un centinaio di diverse etichette.

Le birre.
Debutta nel febbraio del 2017 la Above the Clouds (6.2%) una IPA che il birrificio promette essere poco amara, morbida e più facile da bere di un succo di mango. La ricetta prevede malti Pale e Cara Light, frumento, luppoli Summit, Citra e Chinook. Il suo colore è dorato e piuttosto velato, la schiuma generosa schiuma candida è compatta e mostra buona ritenzione.  Ananas, arancia, lime, litchi e mango formano un aroma pulito e di buona intensità anche se non troppo definito. Le premesse comunque positive non vengono completamente soddisfatte al palato: gli elementi in gioco sono sempre gli stessi ma l’intensità subisce un calo, soprattutto per quel che riguarda la componente fruttata. C’è poca secchezza e non metterei la mano sul fuoco del diacetile, ma l’impressione c’è: l’amaro è abbastanza intenso ma di breve durata, l’alcool non è in evidenza ma potrebbe essere celato maggiormente. Nel complesso è una IPA discreta ma ancora poco definita, la bevuta è piacevole ma risulta un po’ anonima e priva di personalità. Difficile ricordarsela in un mercato sempre più affollato di birre più o meno simili. 

Passiamo ora alla Inspector Remorse (4.7%), prima Porter prodotta dal birrificio di Bath:  il nome “ispettore rimorso” è abbastanza singolare ma non sono riuscito a capire se dietro a questa scelta ci sia un riferimento cinematografico, musicale o cos’altro.  Non ci sono ingredienti aggiunti ma il birrificio asserisce di aver prodotto una specie di biscotto (digestive) al cioccolato in forma liquida; la ricetta elenca malti Pale, Chocolate, Biscuit, Crystal, avena, frumento e luppolo Willamette. 
Nel bicchiere si presenta di color ebano, la schiuma è cremosa, compatta ed ha buona persistenza. Annusando il bicchiere “alla cieca” punterei sicuro su di una Brown Ale: affiorano profumi di biscotto e pane nero, frutta secca, caramello, qualche remoto accenno di frutti di bosco e di caffè. Nonostante l’utilizzo di avena Electric Bear realizza una Porter che asseconda la sua gradazione alcolica quasi sessionabile, puntando a scorrere veloce senza nessun impedimento. Il gusto è invece molto più “in stile” e offre una buona intensità nella quale caramello e tostature trovano un ottimo equilibrio per supportare l’amaro del caffè  (e mi ritrovo perfettamente con la descrizione dell’etichetta) estratto a freddo. Il percorso va poi via via scemando in un finale meno amaro nel quale si fanno strada biscotto e cioccolato: pulizia ed equilibrio non mancano in una bevuta facile ma non banale, piuttosto gradevole. Una birra ben riuscita, ha quella personalità che manca alla IPA, ma secondo me si potrebbe osare ancora un po’ di più.
Nel dettaglio
Above the Clouds IPA, 44 cl., alc.6,2%, lotto 1193, scad. 10/04/2019, prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)
Inspector Remorse, 44 cl., alc. 4,7%, lotto 1191, scad. 03/04/2019,  prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 20 novembre 2018

Stijl Russian Imperial Stout

Con un impianto Speidel da 50 litri in una stanza di soli otto metri quadrati il birrificio Stijl è sicuramente tra i più piccoli in attività nei Paesi Bassi; lo inaugurano ad Almere nel gennaio del 2016 Raymond Geraads, la moglie Anneke Geraads-Broeren e l’amico nonché vicino di casa Robin de Winter. Raymond, pilota civile, ha partecipato come giudice birrario in diversi concorsi regionali e viene da cinque anni di homebrewing nel corso dei quali ha racimolato diversi premi con il proprio impianto casalingo “De Bolle Beer”; Robin è invece cuoco e lavora nell’horeca/catering. 
Quattro sono le birre con le quali Brouwerij Stijl  decide d’iniziare il proprio percorso:  Saison, Wheat Ale, Double India Pale Ale e Russian Imperial Stout. Il nanobirrificio nasce essenzialmente dalla necessità di poter vendere commercialmente le birre prodotte in casa, ma a colpi di cinquanta litri alla volta non è ovviamente possibile far molta strada. Ben presto le ricette vengono eseguite su scala maggiore presso la Berging Brouwerij, a cinquanta chilometri di distanza. L’impianto da cinquanta litri, rinominato Stijl Bierlab, viene utilizzato per testare le nuove ricette o realizzare birre sperimentali/occasionali su piccola scala: la prima Bierlab ad essere commercializzata è stata una Milkshake IPA, disponibile in ben 24 bottiglie. 
Internet non abbonda d’informazioni sul birrificio Stijl, ma da quanto ho capito all’inizio del 2017  Robin de Winter ha lasciato la società che è ora gestita solamente dai coniugi Geraads: Raymond in sala cottura, Anneke alle prese con la parte amministrativa e quella creativa, sia che si tratti di ricette, etichette o di social media.  

La birra.
Imperial Stout prodotta con sale marino e vaniglia: lo ammetto, in linea di principio non l’avrei presa in considerazione in quanto l’abbinamento tra i due ingredienti non mi pare particolarmente invitante. Mi è sfuggito quel “zeezout” (sale marino) su di un etichetta che annovera malti Pale Ale, Chocolate, Special B, Crystal , orzo tostao, luppolo Columbus e vaniglia. 
Nel bicchiere si presenta vestita di nero, la poco generosa schiuma è cremosa e compatta ed ha una discreta persistenza. Al naso arrivano profumi di fruit cake, vaniglia, orzo tostato, tabacco, un filo di fumo; pulizia e finezza non sono esemplari ma l’intensità è piuttosto buona.  Le bollicine sono fini ma un po’ troppo presenti e disturbano quella che sarebbe una sensazione palatale oleosa con un corpo medio-pieno. Il gusto? Segue con buona corrispondenza l’aroma riproponendone le caratteristiche: c’è intensità ma eleganza e precisione scarseggiano un po’ e i passaggi sono un po’ bruschi: il risultato è un agglomerato gradevole nel quale si riconoscono caramello e fruit cake, vaniglia, frutta sotto spirito. Il carattere tostato/torrefatto si fa più evidente nella seconda parte della bevuta, quando emerge anche una leggera nota salina/salmastra. L’alcool (10%) riscalda senza fare male e il percorso si chiude con l’amaro intenso di tostature e fondi di caffè, sospinto da una generosa luppolatura e “sporcato” da qualche frammento di cenere.  Sale e vaniglia evitano lo scontro entrando in scena in momenti diversi: l’imperial stout di Stijl è apprezzabile nelle intenzioni, un po’ meno nell’esecuzione, discreta e non memorabile. 
Formato 33 cl., alc. 10%, scad. 01/05/2019, prezzo indicativo 4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 19 novembre 2018

Bavaria 8.6 IPL

Ha di recente cambiato nome in Swinkels Family Brewers, ma è a tutti meglio nota come Bavaria: secondo maggior produttore olandese di birra dietro al colosso Heineken nonché una delle più grandi malterie europee. Un fatturato di circa 700 milioni di euro, due terzi dei quali provenienti dall’export in Europa (Belgio, Francia e Italia soprattutto) e in Etiopia. 
La famiglia Swinkels controlla Bavaria da sette generazioni: le prime evidenze documentate risalgono al 1680 quando Dirk Vereijken possedeva un birrificio a Lieshout, poi passato nelle mani delle sue tre figlie. L’ultima, Brigitta Moorrees, sposò nel 1764 Ambrosius Swinkels e assieme ottennero il controllo di un birrificio che da allora è nelle mani della stessa famiglia. Il nome Bavaria venne utilizzato a partire dal 1923 quando il birrificio si specializzò nella produzione di quelle lager a bassa fermentazione che dominavano il mercato: all’inizio della seconda guerra mondiale la produzione annua toccò i 40.000 ettolitri distribuiti in quasi ogni regione dei Paesi Bassi. E’ solamente all’inizio degli anni ’70 che Bavaria iniziò a guardare al di fuori dei confini nazionali: Europa ma anche paesi islamici, grazie all’introduzione della prima birra analcolica. Negli anni 80 la produzione aveva già raggiunto il milione di ettolitri: il 2017 si è chiuso a quota 7.500.000 grazie a tre siti produttivi nei Paesi Bassi, due in Belgio e uno in Etiopia. 
Oggi gli Swinkels operano attraverso una serie di marchi: oltre a Bavaria abbiamo Cornet, Swinckels', 8.6 Original, Habesha, Arthur's Legacy, Estaminet, Claro, Bock, Hollandia, Kroon e Landerbräu, ma non solo. Nel 1998 fu stipulato un accordo con i monaci trappisti di Koningshoeven per la produzione e la distribuzione del marchio La Trappe; venendo a mancare uno dei requisiti fondamentali per il riconoscimento di “birra trappista” (la produzione, o almeno il suo controllo, da parte di monaci trappisti), la International Trappist Association ordinò dalle etichetta la rimozione del logo “Authentic Trappist Product“. I monaci ottennero il diritto a riutilizzarlo solo nel settembre 2005 dopo aver dimostrato di aver ripreso il controllo del processo produttivo all’interno del monastero. Nel 2015 gli Swinkels hanno acquistato il 35% del birrificio olandese De Molen per una partnership focalizzata sulla distribuzione nel BeNeLux: “per un piccolo birrificio non è facile vendere la birra nei Paesi Bassi  – ha tagliato corto Olivier Menno, che detiene ancora la maggioranza assieme a  John Brus – e se non hai una rete distributiva puoi creartene una, ma è costoso”. Arriviamo così al 2016 quando Bavaria ha acquistato il 60% del birrificio belga Palm (e quindi anche Robenbach, Steenbrugge e Brugge Tripel); è qui dove viene prodotto oggi il marchio Urthel, acquisito nel 2012 assieme al microbirrificio De Leyerth di Hildegard Overmeire.

La birra.
Il marchio 8.6, nato con la prima Strong Lager dalla corrispondente gradazione alcolica in percentuale, è andato via via espandendosi con la 8.6 Black (7.9%), la 8.6 Gold (6.5%), la 8.6 Extreme (10.5%) e la 8.6 Red (7.9%). Lo scorso marzo alcuni mercati europei hanno visto il lancio della 8.6 IPL – India Pale Lager (7.0%) la cui pubblicità redazionale recita:  "profumatissima  e fresca, l’ultima  novità del Gruppo Bavaria risponde alle richieste di un consumatore sempre più consapevole, attento e desideroso di sperimentare nuovi stili di birra. Ispirandosi alla IPA – India Pale Ale, di cui mantiene il carattere luppolato intenso e la naturale ricchezza aromatica, 8.6 IPL è caratterizzata dalla bassa fermentazione tipica delle lager, che la rende meno amara e più facile da bere (sic!). Grazie alla tecnica di fermentazione tipica delle lager infatti, 8.6 IPL risulta non solo più rinfrescante e amabile, ma anche priva del difficile retrogusto tipico della IPA. Prodotta con malto  di  frumento e  malto  d’orzo,  8.6  IPL ha  un  piacevole retrogusto agrumato e fruttato  grazie ai luppoli Citra e Calypso, che esaltano il suo carattere esclusivo e unico.” 
Ma quello a cui non ho colpevolmente fatto caso è la  texture polisensoriale della lattina “che esalta il vero protagonista di questa birra: il luppolo. Stampato con inchiostro termico sulla parte frontale della lattina, il fiore di luppolo cambia colore e diventa verde quando si raggiunge la perfetta temperatura di servizio (7°)”. 
Dorata e limpida, forma nel bicchiere un impeccabile cappello di candida schiuma  compatta e cremosa. L’aroma non è particolarmente intenso ma, benché privo di fragranza, risulta pulito: pane, crackers, qualche traccia di agrumi, soprattutto arancia. Un biglietto da visita poco entusiasmante che rimane tuttavia la parte migliore di questa 8.6 IPL.  La bevuta scende ulteriormente d’intensità e si risolve in una mediocre lager industriale dolciastra e lievemente burrosa nella quale c’è qualche traccia di marmellata d’agrumi. Le manca secchezza ma quello che non si fa mancare è il classico "colpo d’alcool” tipico della gamma “strong” 8.6: chi le ha provate saprà a cosa mi riferisco; il percorso termina debolmente con un amaro erbaceo abbastanza corto, subito incalzato da un retrogusto dolciastro che vuole tenere a distanza quel “difficile retrogusto tipico della IPA”.   Aroma complessivamente accettabile, gusto poco intenso e poco piacevole: per gli stessi soldi meglio virare sulla  IPA della Faxe. Mi spiace, ma per quel che mi riguarda la 8.6 IPL può restarsene tranquillamente dov’è, sullo scaffale del supermercato.  
Formato 50 cl., alc. 7.0%, lotto CBLG 50153 R, scad. 01/02/2019, prezzo indicativo 1,59 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio