La Craft Beer Revolution non ha portato solamente benefici a noi appassionati ma ha anche involontariamente contribuito a creare dei piccoli “mostri”. Mi riferisco ai tentativi dei grandi birrifici industriali e delle multinazionali di realizzare dei prodotti “crafty”: è “colpa” della birra artigianale se oggi abbiamo sugli scaffali dei supermercati le IPA di Moretti, Poretti e Ceres, tanto per citarne alcune!
Per molti anni nel mio immaginario (e a quanto leggo non solo nel mio) la Faxe è stata la “birra dell’autogrill”: la trovavo quasi solo lì, perennemente in offerta nella sua esagerata lattina da un litro. Decenni fa, quando per me la birra era solo un liquido giallo col quale inebriarsi, la Faxe rappresentava una variante esotica e ricercata rispetto alla più diffuse birre danesi Ceres e Carlsberg: incontrare occasionalmente il lattinone da un litro anche al supermercato era un evento gioioso.
Dietro “alla birra dell’autogrill” c’è però una storia da raccontare: Faxe è un comune della Zelanda, Danimarca, dove nel 1901 Nikoline and Conrad Nielsen fondarono la Fakse Dampbryggeri; dopo la morte del marito, avvenuta nel 1914, la vedova Nielsen cambiò il nome in Faxe Bryggeri e continuò a gestire il birrificio con ottimi risultati grazie alla produzione di lager e strong lager, queste ultime destinate principalmente all’esportazione verso la vicina Germania. Nel 1956 Faxe fu trasformata in una società per azioni la cui maggioranza passò nelle mani dei tre figli di Nikoline e, a partire dal 1960, del nipote Bent Bryde-Nielsen: i suoi investimenti consentirono all’azienda di espandersi e di ottenere un grande successo nel ventennio 1970-1980, soprattutto con l’esportazione in Svezia e Germania del “Grande Danese” (così veniva reclamizzata la lattina da un litro) e alla produzione di soft drinks (Faxe Kondi). Nel 1989 avvenne la fusione con la Jyske Bryggerier (Ceres, Urban e Thor) per formare la Royal Unibrew secondo maggior produttore danese dietro al colosso Carlsberg; alla fine degli anni 90 vennero inglobati anche i birrifici delle ex-repubbliche baltiche Vilniaus Tauras, Kalnapilis e Lāčplēša Alus. Oggi Royal Unibrew produce quasi 5 milioni di ettolitri l’anno ed ha una forte presenza in Danimarca, Finlandia, Italia (soprattutto con la Ceres Strong Ale), Germania, Lituania, Estonia e Lettonia. Alla guida della divisione “craft & specialty beers”, che attualmente vale il 2% dell’intero fatturato, c’è una vecchia conoscenza: Anders Kissmeyer. Al nostro paese sono destinate le gamme Nørden/Ceres e Polar Monkey; all’inizio dell’estate è arrivata un po’ in sordina anche la Faxe IPA.
Il marchio Faxe non dovrebbe accendere entusiasmi tra gli appassionati di birra artigianale, anche se affiancato dalle parole magiche IPA, Mosaic e IBU, le ultime due sconosciute alla stragrande maggioranza di coloro che acquisteranno questa lattina. Il problema è sempre il solito, ovvero il prezzo: immaginate di organizzare una grigliata tra amici e di volerla annaffiare con litri di buona birra. L’opzione “vera artigianale” è molto, troppo cara, direi inaffrontabile. Escludete anche a priori la classica lager scialba e insapore. Ci sono queste lattine da mezzo litro che costano 1,50 Euro: possono essere un’alternativa ?
La IPA di Faxe, prodotta con “generose quantità di luppolo Mosaic” (sic) è di un limpido color oro antico: schiuma ineccepibilmente compatta e cremosa, dall’ottima persistenza. L’aroma non è ovviamente un manifesto di fragranza e freschezza ma tutto sommato è accettabile; marmellata d’agrumi, resina, caramello, c’è anche qualche suggestione di quei frutti di bosco tipici del Mosaic e di alcool. La bevuta prosegue in linea retta senza nessuna sorpresa: si passa dal dolcione biscotto - caramello - marmellata a un tocco amaro resinoso e vegetale che pungola il palato, sospinto da una percezione dell’alcool (5.7%) molto più elevata di quanto dichiarato. E’ la birra del vichingo, che credevate? Il retrogusto è accondiscendente e ovviamente dolciastro, le manca secchezza, freschezza e fragranza ma nel complesso non è così disastrosa come pensavo e soprattutto priva di quelle sfumature ematiche/metalliche spesso presenti nelle lattine di Faxe. Si beve e meglio di altre IPA industriali, in primis della sorella Ceres al rosmarino: peccato per quella fastidiosa nota etilica. Non la disdegnerei come accompagnamento quantitativo (anziché qualitativo) dell’ipotesi grigliata descritta in precedenza.
Ovviamente se volete bere una “vera” IPA fatta come dio comanda non dovete cercarla in questa lattina: la qualità si paga (spesso troppo) e in questo caso bisogna accontentarsi. Le alternative low cost oggi non mancano, supermercati e discount sono pieni di proposte alternative alle costose “artigianali”: alcune sono meno peggio di altre e questa IPA di Faxe mi sembra potersi giocare la sua partita. Sul fondo della lattina è anche stampigliata la data di nascita, quindi dateci un'occhio prima dell'acquisto: io ho avuto la fortuna di trovare un esemplare con poco più di un mese di vita.
Formato 50 cl., alc. 5.7%, IBU 45, lotto 23/05/2018, scadenza 21/08/2019, prezzo 1,49 euro (supermercato)
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio
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