venerdì 29 settembre 2017

Jackie O's: Mystic Mama IPA & Dark Apparition Imperial Stout 2017

Athens, capoluogo dell’omonima contea dell’Ohio, è una tranquilla cittadina di 28.000 abitanti che si moltiplicano nei mesi in cui gli studenti frequentano i corsi della Ohio University. Tra di loro nel 2004 c’era anche Brad Clark che per mantenersi gli studi faceva un po’ di tutto in un brewpub chiamato O’Hooley’s: era lì che – oltre alle birre della casa - aveva iniziato a conoscere quelle di  Sierra Nevada, Dogfish Head, Avery e Allagash.  
Appena riesce a fuggire dal dormitorio del college e ad affittare un mini-appartamento con alcuni amici Brad inizia a farsi la birra in casa; nel 2005 il pub dove lavorava si trova in difficoltà finanziarie e propone l’investimento all’amico Art Oestrike, già proprietario di un negozio di Bagel che da sempre desiderava aprire un bar. Oestrike rileva l’attività in fallimento e offre a Brad, che lo riforniva spesso con la sua birra fatta in casa, il ruolo di apprendista birraio: “io sapevo solo fare birra da kit in casa e lui non aveva mai gestito neppure un bar, figuriamoci un brewpub; fu una pazzia, non avevamo idea di quello che stavamo facendo”.  Per qualche mese Clark affianca il precedente birraio del brewpub sull’impianto da 8 ettolitri e poi si reca per un anno a Chicago per di seguire un corso al Siebel Institute; in città passa i weekend al Map Room, un pub nel quale s’innamora della Rodenbach Grand Cru e di altre birre acide a lui ancora sconosciute. 
Nel frattempo, ad Athens, la madre di Oestrike muore improvvisamente di cancro ai polmoni e, in suo onore, il locale O’Hooley’s viene rinominato Jackie O’s; terminato il corso Clark è molto più confidente delle sua capacità e assume il ruolo di birraio. Per il nuovo nato brewpub Jackie O’s è l’inizio di una crescita senza sosta che inizia nel 2009 con l’apertura di un secondo pub con trenta spine e cucina a fianco del brewpub e di un forno i cui prodotti sono serviti sia al pub che nei Farmers Market della zona. Nel 2012 Oestrike e Clark acquistano un nuovo edificio ad un paio di miglia di distanza, una sorta di fattoria con tanto di silo, nel quale a marzo 2013 viene inaugurato il nuovo impianto da 24 ettolitri. Qualche mese dopo debuttano le prime lattine della Firefly Amber e della Brown Ale Chomolungma; la produzione si assesta sui 5000 ettolitri l’anno tra fusti (30%), bottiglie e lattine (70%) per raddoppiare l’anno successivo. Il nuovo birrificio offre anche a Clark uno spazio nel quale iniziare a produrre quelle birre acide che ama, una linea d’imbottigliamento separata per evitare contaminazioni, tre foeders da 120 ettolitri e qualche centinaio di botti ex rum, bourbon e vino. 
Tutto sembra andare per il meglio quando, il 16 novembre 2014, un terribile incendio colpisce Union Street, la strada dove si trovano i due locali di Jackie O’s:  il tetto, gli impianti idraulici e la cucina del pub vengono gravemente danneggiati ma fortunatamente gli impianti del brewpub adiacente sono salvi. Ad un’azienda che aveva appena fatto ingenti investimenti viene però a mancare la principale fonte di reddito: una quarantina di persone rimangono senza lavoro per diverse settimane: a fine anno il brewpub riapre offrendo un menu gastronomico ridotto mentre i lavori di ricostruzione della Publican House si sono protratti sino a maggio 2016. Nel frattempo Jackie O’s ha raggiunto i 14000 ettolitri l’anno e ha avviato un nuovo piano di espansione per arrivare sino a 35.000; il 99% delle birre vengono distribuite in Ohio, con qualche occasionale spedizione in California di birre acide e “robuste”, queste ultime apparse di recente anche in Europa.

Le birre
La IPA Mystic Mama (e la sua sorella maggiore Matriarch -Double IPA) è una dedica che Oestrike e Clark fanno a Jackie, la madre di Art Oestrike improvvisamente scomparsa nel 2005. La prima IPA prodotta da Jackie O’s nel 2007 si chiamava Magic Mama e si ispirava a quello che allora era uno dei birrifici preferiti da Brad Clark, Dogfish Head: “era molto amara e conteneva anche una percentuale di malto tostato, era quasi una Indian Brown Ale”. La crisi del luppolo del 2008 ne sospese la produzione che riprese solamente nel 2009 con il nome Mystic Mama. Questa volta Clark guardò alle IPA della West Coast, alla Racer 5 di Bear Republic, alla Green Flash’s West Coast IPA e alla Duet di Alpine: vennero utilizzate cinque varietà di luppolo, Centennial, Columbus, Warrior, Amarillo e Simcoe, questi ultimi due utilizzati anche in dry-hopping. Clark conferma che da allora la birra subisce dei lievi aggiustamenti volti a migliorarne la shelf life o a sopperire alla mancanza di disponibilità di qualche varietà di luppolo; la versione attuale prevede un abbondante dry hopping di Citra e Simcoe (un chilo ogni cento litri) che dura da 5 a 7 giorni.
Il suo colore dorato è quasi limpido, mentre nel bicchiere si forma una generosa e cremosa testa di schiuma bianca, dall'ottima persistenza. L'aroma, benché pulito ed elegante, non è tuttavia il punto di forza di una lattina che ha un mese di vita sulle spalle: arancia e pompelmo, ananas e mango ci sono ma l'intensità è davvero bassa. Pronto riscatto al palato, a partire da una sensazione palatale molto morbida e gradevole: la bevuta è in perfetto equilibrio tra il leggero contributo dei malti (pane, accenni biscottati) e un fragrante ed elegante fruttato che richiama sopratutto il pompelmo e un po' di tropicale. L'amaro finale è di buona intensità, molto pulito ed "educato" nella sua alternanza di resina e pompelmo: l'alcool è molto ben nascosto in questa IPA dalla grande bevibilità, pulitissima e molto bilanciata, capace di rivaleggiare con le sorelle della West Coast alle quali dichiara di ispirarsi. 

"Adoro i malti: non che i luppoli siano da meno, ma sono davvero molto eccitato quando mi trovo nella mia stanza dei malti a immaginare che cosa posso fare con loro": queste le parole di Brad Clark che utilizza una tonnellata di malto nel suo bollitore da 23 ettolitri per una delle birre che ama maggiormente produrre. E' la imperial stout Dark Apparition, il cui successo ne ha poi originato le solite molteplici varianti sia per quel che riguarda gli ingredienti aggiunti (caffè, vaniglia...) che i passaggi in differenti botti.
Nera quanto la sua etichetta, forma nel bicchiere una bella  testa di schiuma cremosa e compatta: al naso s'intrecciano profumi di caramello bruciato e melassa, caramella mou, orzo tostato e caffè, tabacco e cacao in sottofondo. Il suo corpo medio non è particolarmente ingombrante e la sensazione palatale si mantiene sul versante oleoso senza indulgere nella lussuria del cremoso. La bevuta si mostra potente sin da subito, con l'alcool che non mostra nessuna timidezza e riscalda ogni sorso: caramello, frutta sotto spirito (prugna, uvetta) e melassa danno forma ad una bevuta che inizia  abbastanza dolce mettendo caffè e tostature e tabacco in secondo piano. Intensa e avvolgente, la Dark Apparition di Jackie O's è una sorta di piccolo dessert che si sorseggia con calma ma con grande soddisfazione: in chiusura delicate tostature, caffè e qualche accenno di cioccolato vengono bagnati da una calda nota etilica che prende per mano e accompagna per un bel pezzo di strada.
Nel dettaglio:
Mystic Mama IPA, formato 35.5 cl., alc. 7%, IBU 80, imbott. 12/07/2017, 2,02 $
Dark Apparition, format 37.5 cl., alc. 10.5%, lotto 2017, 6,21 $

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 28 settembre 2017

Toccalmatto Black Bretty

Tra le molte novità del 2014 di Toccalmatto, oltre a diverse one-shot e collaborazioni varie, c’è stata la nascita della linea sperimentale FreakLab Series: viene inaugurata  a settembre con l’uscita della Black Bretty. “La prima, rarissima e misteriosa release della serie sperimentale FreakLab. Non saprete altro”: questo il criptico messaggio con il quale viene annunciata sul blog del birrificio di Fidenza. Qualche mese dopo è arrivata una Smoked Porter seguita a dicembre dalla Belgian Ale chiamata Antani. 
Non so se la FreakLab Series non sia ancora attiva ma le novità in casa Toccalmatto non smettono di arrivare, soprattutto nella forma di one shot e collaborazioni; quella più interessante è però stata la joint-venture annunciata la scorsa estate assieme a Caulier, marchio-beerfirm di proprietà italiana che produce in Belgio e in Messico. Il birrificio di Fidenza produrrà le birre Caulier per il mercato italiano (si parla di circa 11.000 ettolitri/anno) mentre De Proef continuerà a soddisfare la domanda del nord-europa.

La birra.
Black Bretty inaugura quindi la FreakLab Series sperimentale di Toccalmatto, caratterizzata da grafiche monocromatiche, per poi entrare nella gamma Toccalmatto e dotarsi di una vera e propria etichetta. Birra e musica s’incontrano spesso nel mondo Toccalmatto e credo che anche in questo caso - visti gli indizi in etichetta -  il nome scelto sia un richiamo ad una canzone, quella Black Betty che gli afro-americani cantavano sul lavoro negli anni ’30 del secolo scorso.  Per quel che riguarda la birra parliamo di una strong/imperial porter (9.5%) prodotta con brettanomiceti ed aggiunta ciliegie. Il lotto di produzione in etichetta sembra rimandare all’annata 2013; la bottiglia è stata da me acquistata nel 2015 e ha riposato per un paio d’anni in cantina. 
All’aspetto risulta ”quasi nera” e forma una testa di schiuma di modeste dimensioni, con bolle un po’ grossolane ed una discreta persistenza. L’azione dei brettanomiceti è evidente al naso, che apre con richiami al cuoio e al formaggio, alla pelle di salame; al loro fianco troviamo profumi di ciliegia, prugna e, più in secondo piano carne, salsa di soia e qualche traccia volatile di solvente. Al palato si avverte già qualche segno dell’età: il corpo è medio ma la birra appare un po’ slegata in alcuni passaggi, con una bassa carbonazione che non riesce a restituirle un po' di energia. La bevuta è comunque un interessante caleidoscopio di sapori che a parole sembrerebbero respingersi tra di loro: tostature e caffè, cuoio, salsa di soia e carne, tabacco, l’asprezza dell’amarena, il dolce dell’uvetta e della prugna. C’è una discreta astringenza che rovina un po’ quello che vorrebbe essere un finale appagante fatto di lievi tostature, caffè e qualche spunto di cioccolato; l’alcool è piuttosto delicato e apporta solamente un lieve tepore a fine bevuta. 
Una imperial porter piuttosto complessa da sorseggiare con calma, non tanto perché la bevuta sia difficile o impegnativa ma perché ci sono davvero molti elementi, spesso dissonanti, che richiedono la dovuta attenzione. Il risultato è un po’ confuso e un po’ penalizzato da qualche segno del tempo, ma tutto sommato è una birra che si beve con soddisfazione e che induce a farsi delle domande su quello che c’è nel bicchiere. Che sia questo il vero significato del tanto abusato termine “birra da meditazione” ?
Formato: 75 cl., alc. 9.5%, lotto 13030, scad. 16/04/2023, pagata 10.00 Euro (birrificio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 27 settembre 2017

Michigan: Tapistry Reactor IPA, Right Brain CEO Stout & Kettle IPA, Greenbush Distorter Robust Porter

Ancora un po’ di beer hunting in territorio Americano, in particolare nello stato del Michigan: tre birrifici che non mi sembra siano mai stati importati in Europa, a oggi. 
Partiamo da Tapistry Brewing, fondato nel 2013 da Joe Rudnick e Greg Korson a Bridgman, nel Michigan sud-occidentale: le rive del lago sono ad un paio di chilometri di distanza e anche il confine con l’Indiana non è molto lontano. Rudnick e Korson, amici da una decina d’anni, passano molti weekend assieme a visitare birrifici del Michigan e maturano lentamente l’idea di aprirne uno. Rudnick è anche homebrewer e, a 39 anni, rinuncia alla sua ventennale carriera da ingegnere in un’industria farmaceutica per aprire le porte della Tapistry Brewing: impianto da 20 ettolitri in un edificio da  450 metri quadrati collegato ad un secondo edificio da 200 nel quale si trova la taproom. Il giardino  che circonda la proprietà può accomodare un centinaio di persone. Si inizia con otto spine per arrivare alle venti attuali:  l’organico del birrificio si compone di una decina di persone tra le quali il birraio Kyle Heslip. Dal 2015 le lattine hanno sostituito le bottiglie da 65 centilitri che sino ad allora Tapistry aveva sempre utilizzato e che vengono distribuite nell’area meridionale del Michigan e in quella settentrionale dell’Indiana. Il nome Tapistry nome deriva dall’unione delle parole “tap” e “chemisty”: in quattro anni di vita sono circa un centinaio le etichette prodotte, ma sono solo cinque quelle disponibili tutto l’anno. 
Tra queste la Reactor IPA, 7.5% ABV e 78 IBU per un’etichetta che sembra promettere un’esplosione nucleare di verde luppolo: Cascade, Chinook e Centennial sono supportati da un mix di malti che include Pale, Caramello e Monaco. Il suo colore è ramato, con qualche riflesso dorato ma l’aroma non è così potente come la grafica vorrebbe far credere. Nessuna indicazione sull’età di una lattina che presenta un naso poco fragrante e poco intenso, caratterizzato da una percepibile componente etilica:  marmellata d’arancia, biscotto, qualche accenno di aghi di pino. Il gusto prosegue nella stessa direzione con un buon livello di pulizia ma con poca fragranza: la bevuta risulta alquanto noiosa nel suo incedere dolce di biscotto-caramello-marmellata che quasi mette in secondo piano un finale amaro che si snoda tra il vegetale ed il terroso. L’alcool non si nasconde in una IPA solida e vigorosa ma monotona e priva di slanci. 

Da Tapistry facciamo una gita di circa 400 chilometri a nord per raggiungere Traverse City, una graziosa cittadina (per gli standard americani) sulla riva del lago Michigan nonché nota come “la capitale delle ciliegie”. E’ qui che Russell Springsteen ha fondato la Right Brain Brewery; nativo del Michigan, Russell lavorava nei primi anni ’90 come acconciatore e allenatore di wrestling a Boulder, Colorado, dove venne a contatto con la craft beer revolution. Alla fine degli anni ’90 fu costretto a ritornare nel Michigan settentrionale per aiutare l’agenzia immobiliare del padre; non trovando (a suo dire) niente di decente da bere decise di iniziare a farsi la birra in casa.  L’hobby divenne rapidamente un’ossessione ma Russell non disponeva dei fondi necessari per aprire un microbirrificio: ispirato da un viaggio a New York, decise allora di far coniugare le sue due passioni, capelli e birra. Nel 2005 nel Warehouse District di Traverse City nasce il Salon Saloon, metà barbiere e metà pub dedicato alla birra artigianale: due anni dopo, racimolati i 40.000 dollari necessari per acquistare un impianto usato, vende il Saloon a una delle proprie dipendenti e inaugura la Right Brain Brewery.  Nel 2013 il birrificio si è trasferito nei più ampi locali (3000 metri quadri) nel SoFo District di Traverse City con una pub annesso nel quale sono operative una ventina di spine;  all’impianto principale da 17 ettolitri se ne affianca uno da 8 per rifornire il locale che, dicono, riceve 150.000 persone ogni anno, con un picco nei mesi estivi quando la regione è popolata da molti vacanzieri.  La produzione, di circa 6000 ettolitri l’anno,  è attualmente affidata all’esperto birraio Sam Sherwood, ex Founders, Perrin e Traverse Brewing. 
La Ceo Stout (5.5%) viene prodotta in collaborazione con la torrefazione Jack Coffee Co. di Traverse City; CEO acronimo di Chocolate, Espresso e Oatmeal, ovvero quello che dovrebbe aspettarvi nel bicchiere. E’ la birra più venduta di Right Brain:  il caffè è effettivamente protagonista al naso, con buona eleganza ed intensità: chicchi ed espresso sono accompagnati in secondo piano da note di orzo tostato e liquirizia. Nonostante l’utilizzo d’avena la sensazione palatale non è particolarmente cremosa e sembra soprattutto mirare alla scorrevolezza: anche al palato c’è tanto caffè, supportato molto in sottofondo dal dolce del caramello e da delicate tostature. Eleganza e pulizia non sono allo stesso livello dell’aroma  ma la bevuta è ugualmente intensa e abbastanza soddisfacente, peccato per una lieve astringenza che rovina un po’ l’esperienza. Bene il caffè, secondo me manca un po’ di contorno.
Centennial, Cascade e Citra, quest’ultimo anche in dry-hopping, sono i protagonisti della IPA (5.8%) chiamata Dead Kettle. Nel bicchiere è ramata con riflessi oro carico. L’aroma si compone di dolci profumi di arancia e pompelmo, ben zuccherati, con qualche nota floreale e biscottata; l’intensità è discreta, mentre pulizia ed eleganza sono ampiamente migliorabili. Il mouthfeel è morbido e gradevole ma un po’ troppo ingombrante per una birra dal contenuto alcolico modesto che dovrebbe invece scorrere senza intoppi. La bevuta è ben bilanciata, in piena tradizione Midwest, tra caramello, biscotto, agrumi e un finale amaro, di discreta intensità ma un po’ sgraziato, nel quale s’incontrano note vegetali e di scorza d’agrumi. Anche in bocca l’intensità è di ottimo livello ma pulizia e finezza lasciano un po’ a desiderare: una IPA discreta che tuttavia è ancora ben lontana dalle migliori produzioni del Michigan. 

A soli dieci chilometri di distanza da Tapistry si trova la Greenbush Brewing Company, fondata a Sawyer nel giugno 2011 dai quarantenni Scott Sullivan e Justin Heckathorn, rispettivamente un ex mobiliere ed un ex bancario, nei locali che ospitavano una lavanderia. L’apertura di Greenbush era un evento atteso con grande interesse in quanto una porter prodotta da Sullivan ai tempi dell'homebrewing aveva riscosso grandi consensi in concorsi ed eventi della zona. Il nome Greenbush è quello di una vecchia stazione ferroviaria, ora in disuso, di Harbert, paese vicino dove Sullivan e Heckathorn sono nati: “il mio socio Justin propose quel nome e suonava bene, quindi lo adottammo”. Nel 2015 il birrificio si è ingrandito acquistando un magazzino sull’altro lato della strada nel quale ha trovato posto un impianto da 17 ettolitri dedicato alla produzione di fusti e bottiglie; nel locale originale rimane operativa la taproom, alimentata dal vecchio impianto da 8 ettolitri, dove possono sedersi una trentina di persone. La produzione si attesta sui 15000 ettolitri l’anno, l'obiettivo è di raddoppiarla entro i prossimi cinque anni. 
Tra le oltre 150 etichette sfornate in sei anni di attività scelgo proprio quella porter che attirò l’attenzione sull’homebrewer Scott Sullivan e lo convinse ad entrare nel mondo dei professionisti. Distorter è una porter robusta (7.2%) che si presenta quasi nera e regala un naso di buona intensità, semplice ma molto pulito: caffè americano, orzo tostato, liquirizia. Al palato l’alcool è ben gestito e riesce ad irrobustire la bevuta senza comprometterne la facilità: è una porter che nel gusto mantiene gli stessi elevati standard di pulizia ed eleganza dell’aroma. Il gusto è ben bilanciato tra caramello, liquirizia e caffè, impreziosito da accenni di tabacco e di cioccolato e si conclude con intense tostature il cui amaro viene enfatizzate da una generosa luppolatura resinosa. Una porter di ottimo livello, intensa e facile da bere, capace di reggere il confronto con le tante eccellenti  “sorelle scure”  che vengono prodotte da altri famosi birrifici del Michigan come Founders, Bell’s e Dark Horse.

Nel dettaglio:
Tapistry Reactor IPA -  47.3 cl., alc. 7.5%, IBU 78, lotto/scadenza non indicati, 2.39 $
Right Brain CEO Stout – 47.3 cl., alc. 5.5%, lotto/scadenza non indicati, 2.59 $
Right Brain Dead Kettle IPA – 47.3 cl., alc. 8%, IBU 70, lotto/scadenza non indicati, 2.,89 $
Greenbush Distorter -  35.5 cl., alc.  7,2%, , 2.09 $

martedì 26 settembre 2017

Siren Project Barista - Turkish

Lo scorso giugno il birrificio inglese Siren, che abbiamo già incontrato in più di un occasione, annuncia la nascita di una serie di birre che hanno come protagonista il caffè e che si chiameranno “Barista Project”.  Non è la prima volta che il caffè finisce in una birra di Siren: una delle loro etichette più apprezzate è infatti la stout Broken Dream e le sue diverse varianti, ma per le nuove birre Siren promette di voler portare in una nuove e inesplorate direzioni il rapporto tra birra e caffè. Sabato 14 giugno, nella taproom di Siren a Finchampstead, duecento persone hanno partecipato all’evento di presentazione delle quattro birre al  caffè, disponibili nello stesso giorno anche in altri in sette selezionati locali del Regno Unito.  
Americano” è una Double IPA (9.1%) prodotta con caffè etiope in collaborazione con la Quarter Horse Coffee di Birmingham; un caffè estremamente forte è stato aggiunto direttamente nella birra poco prima della messa in fusto e bottiglia. I luppoli utilizzati sono stati  Citra, Columbus, Cascade, Chinook  e Mosaic Cryo Powder.  “Crema”  è invece una White (sweet) Stout  (4.9%) che utilizza caffè invecchiato in botti di whiskey tedesco, baccelli di vaniglia e fave di cacao. “CapHeine”  (6.2%) vede la collaborazione della torrefazione Climpson di Londra; chicchi di caffè keniano, caratterizzati da note fruttate e floreali, sono stati aggiunti ad una birra acida prodotta con ibisco in bollitura e 120 chili di lamponi durante la fermentazione. Per creare un vero e proprio “caleidoscopio” di sapori è stato anche fatto un leggero dry-hopping di Mosaic, Palisade e Bravo.  La quarta e ultima birra del “Progetto Barista” è un’imperial stout chiamata Turkish.

La birra.
Ovviamente ispirata all’omonimo caffè orientale, la Turkish di Siren è una massiccia imperial stout  (10%) che vuole rappresentare un’esperienza molto più ampia: al caffè viene infatti anche abbinato il dolce. Oltre a 45 chili di caffè tailandese forniti dalla Tamp Culture Coffee di Reading sono stati impiegati vaniglia, scorza d’arancia e noce moscata nel whirpool e 420 chili di fichi alla birra fermentata; l’etichetta cita anche fave di cacao e zucchero moscovado.
Nel bicchiere appare un liquido abbastanza denso e scuro, mentre la schiuma di modeste dimensioni risulta un po' scomposta. Al naso domina il caffè con un'intensità davvero notevole ma con scarsa finezza, ricordando più che alto i "fondi" esausti che il liquido: nel poco spazio libero rimasto s'intravedono note di carne affumicata, tabacco, tostature. Non basta l'opulenza a formare un bouquet convincente ed invitante che dovrebbe invece evocare un dessert. Neppure il mouthfeel è esente da critiche: la sensazione è oleosa ma non particolarmente morbida o cremosa. Al palato il dolce del caramello e del fico cerca di fornire un appoggio alle intense tostature che a tratti sconfinano nel bruciacchiato; carne, fondi di caffè e tabacco costituiscono una bevuta che segue l'aroma con buona corrispondenza, peccando nuovamente in pulizia ed eleganza. Una nota luppolata quasi resinosa chiude il percorso ben mescolandosi all'amaro del torrefatto, mentre il retrogusto è una lunga  e calda scia etilica ricca di frutta sotto spirito e caffè. 
Turkish, ovvero una Imperial Stout ambiziosa nelle intenzioni che fallisce i suoi nobili intenti di abbinare il caffè al dessert: birra spigolosa e grezza, con poco equilibrio tra i vari elementi e, sopratutto, una scarsa pulizia che non permette di percepire gli elementi-dessert elencati in etichetta. La potenza (anche quella etilica) c'é, ma per citare un famoso spot pubblicitario "senza il controllo è nulla": nel complesso discreta, ma quando il prezzo del biglietto è di fascia alta è lecito pretendere molto, molto di più 
Formato: 33 cl.,  alc. 10%, lotto G799, imbott. 09/06/2017, prezzo indicativo 6.00-7.00 Euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 settembre 2017

Fat Head's Brewery: Sunshine Daydream Session IPA, Trail Head Pale Ale & Head Hunter IPA

Nel 1992 a Pittsburgh, Pennsylvania, Glenn e Michelle Benigni aprono il Fat Head’s Saloon: la craft beer non era ancora "esplosa" ma i due coniugi riuscirono ugualmente ad offrire ai propri clienti otto spine e un centinaio di etichette in bottiglia. Michelle si occupa del bar mentre Glenn è in cucina a preparare qui panini chiamati headviches, ovvero grandi come una testa umana, che contribuiranno al successo del locale; al resto ci pensa la diffusione della birra artigianale, e il locale dei Benigni diviene una destinazione da non mancare se si vuole bere bene a Pittsburgh.
Nello stesso periodo in cui il Fat Head’s apre le porte, Matt Cole si diletta con l'homebrewing mentre frequenta l'università di Pittsburgh: per pagarsi gli studi lavora di sera in un bar dove c'è una buona selezione di birre. Qui incontra il sales manager della Pennsylvania Brewing Company che gli offre un lavoro part-time; accetta con entusiasmo e, dopo aver frequentato festival e conosciuto altri giovani birrai, decide che il birraio professionista è quello che vuol fare da grande. La sua formazione passa attraverso esperienze alla Baltimore Brewing Co. e alla Great Lakes di Cleveland, Ohio, prima di diventare birraio per la Rocky River Brewing, ruolo che occuperà per quasi dieci anni attirando l'attenzione degli addetti ai lavori per la qualità delle birre. 
Nel 2008 Cole ha in progetto di aprire un brewpub a North Olmsted, un sobborgo di Cleveland, ed è alla ricerca di investitori: bussa anche alle porte del Fat Head’s Saloon. I Benigni acconsentono a partecipare al progetto a patto che il brewpub si chiami Fat Head's: l'inaugurazione avviene nell'aprile 2009 e il Fat Head's Brewery & Saloon di North Olmsted – 30 spine, 200 posti a sedere e un ampio bancone che può accomodare una trentina di persone – oltre a rifornire le spine del locale di Pittsburgh inizia anche a raccogliere le prime medaglie e i primi riconoscimenti. A quattro mesi dall’apertura la rivista Draft include la Head Hunter IPA tra le “Top 25 beers in the world”: nel 2010 la birra viene premiata con l’argento al Great American Beer Festival, ottenendo il bronzo l’anno successivo.  
I seimila ettolitri prodotti nei primi tre anni di attività non sono ovviamente sufficienti a soddisfare tutta la richiesta e nel 2012 i Benigni e Cole decidono che è il momento di passare da brewpub a birrificio, inaugurando a marzo 2012 il nuovo impianto di Middleburg Heights, ad una decina di chilometri di distanza dal Saloon. Il birrificio, oltre a rifornire i due locali di proprietà, sforna fusti e bottiglie sino ad arrivare a toccare i 37.000 ettolitri l’anno; al Great American Beer Festival la Double IPA JuJu porta a casa l’oro nel 2013 e nel 2015, accontentandosi del bronzo nel 2016. Oro nel 2015 anche per la Black IPA Midnight Moonlight e per la Double Red Ale. Nel novembre del 2014 Fat Head’s attraversa gli Stati Uniti e apre una terza succursale a Portland, Oregon: impianto da 11 ettolitri, 42 spine e quasi trecento posti a sedere.
Sono passati 25 anni dal 1992 e Fat Head’s ha celebrato le proprie nozze d’argento annunciando l’imminente apertura di un nuovo e più ampio sito produttivo da 7000 metri quadrati che a breve sostituirà quello di Middleburg Heights:  un investimento da dodici milioni di dollari per un BrauKon da 82 HL più impianto pilota da 17 HL per rifornire il brewpub annesso, 250 posti a sedere.  L’obiettivo è di raddoppiare la produzione arrivando a 70.000 ettolitri nei prossimi tre anni e a 150.000 nei prossimi cinque; il nuovo stabilimento sorgerà ad un paio di chilometri di distanza da quello attuale ma avrà una maggior visibilità trovandosi ai bordi della Interstate 77. Ma non è finita qui: entro la fine dell’anno è prevista l’inaugurazione di un nuovo Fat Head’s Saloon a Canton, Ohio, settanta chilometri a sud di Cleveland e, nel 2018, a Charlotte (Carolina del Nord).

Le birre.
La Sunshine Daydream Session IPA di Fat Head’s entra in produzione stabile nella primavera del 2014, anche se era già stato possibile assaggiarla l’anno precedente alla spina dei Saloon di Pittrburgh e Cleveland;  il grande successo della All Day IPA di Founders sprona il birraio Cole a realizzare una IPA simile, con poco alcool e tanto luppolo. “Peace, Love & Hoppiness” è il motto riportato sull’etichetta di una birra che s’ispira all’omonima canzone dei Grateful Dead; la ricetta prevede malti Pale, C-15 e Cara-Pils, luppoli HBC 342, Simcoe, Centennial e Citra, lievito American Ale. Il suo colore “West Coast”, tra l’arancio e il dorato, è l’anticipazione di una birra “solare” anche nei profumi: arancia e mandarino, qualche accenno di frutta tropicale e aghi di pino, biscotto. Pulizia, intensità ed eleganza ci sono e anche la sensazione palatale è ottima:  Session IPA con corpo medio-leggero ma mouthfeel molto morbido che non accenna nessuna deriva acquosa. La bevuta mantiene le elevate aspettative create dall’aroma, mettendo in campo un’intensità davvero notevole; i malti sono presenti (miele, biscotto) quasi senza farsi notare,  fresca frutta tropicale e agrumi proseguono un percorso che termina con un amaro di buona intensità nel quale s’incontrano note resinose e vegetali. Session IPA di livello alto, ancora fragrante e molto pulita, da bere praticamente senza sosta.

A giugno 2013 Fat Head’s annuncia l’arrivo della Trail Head: un’American Pale Ale realizzata con lo scopo di racimolare fondi per la Cleveland Metroparks, associazione che si occupa della gestione della manutenzione di diciotto parchi che circondano la città dell’Ohio.  Per ogni pinta, growler o fusto vengono donati rispettivamente 50 centesimi, 1 e 5 dollari ad una fondazione che si occupa del restauro dei percorsi (“trail”) che si snodano all’interno di queste aree. Una birra dedicata alla vita all’aperto trova la sua collocazione ideale all’interno di una lattina, formato che arriva a maggio 2014. La sua ricetta elenca malti Pale, Munich, Crystal e CaraPils, luppoli Simcoe e Citra, California Yeast. Il suo arancio-dorato è più carico rispetto alla Sunshine Daydream, mentre l’aroma affianca agli agrumi, arancia e pompelmo soprattutto, delicate note biscottate. La sensazione palatale, a livello tattile, è forse un pelino pesante anche se la facilità di bevuta non ne risente; la bevuta è rispettosa della tradizione del Midwest americano con caramello e biscotto ben percepibili ma non invadenti a supportare il dolce di arancia e pompelmo. Chiude con un amaro di discreta intensità caratterizzato da note terrose, vegetali e quasi un accenno di tostatura. APA molto ben fatta, semplice, pulita e precisa, anche questa di ottimo livello.

Chiudiamo con la birra che è attualmente quella maggiormente venduta da Fat Head’s:  la Head Hunter IPA. Viene prodotta dal 2009, anno in cui il birraio Cole non osa iscriverla al Great American Beer Festival in quanto non la ritiene in grado di competere con la sue “grandi sorelle” della West Coast. Decide invece di mandarla al più piccolo ma altrettanto rinomato festival che si tiene al locale The Bistro ad Hayward, California: la Head Hunter se ne torna a casa con una medaglia d’oro, risultando la  Weast Coast IPA non prodotta da un birrificio della West Coast  a vincere. L’anno successivo il GABF la premierà con un argento.
Incivile e aggressiva, questo lo slogan che l’accompagna; la ricetta si è evoluta nel corso degli anni modificando il mix dei luppoli che attualmente include Columbus, Simcoe e Centennial; i malti utilizzati sono Pale, CaraMalt, C-15 e Cara-Pils, lievito American Ale. Nel bicchiere si presenta di colore velato, con qualche venatura arancio e una cremosa e compatta testa di schiuma bianca. L’aroma è pulito e intenso, elegante, valorizzato dalla freschezza di due settimane in bottiglia: profumi tropicali, soprattutto di ananas, s’affiancano a quelli di pompelmo e arancia e a note di aghi di pino e terriccio umido. Mouthfeel perfetto, facilità di bevuta eccellente per una IPA che dichiara ABV 7.5% ma riesce a nascondere l’alcool abbastanza bene. Una leggera base maltata (biscotto, miele) sostiene la generosa luppolatura che indugia prima su tropicale e pompelmo per poi accelerare con un finale amaro resinoso di buona intensità e grande eleganza.  Una IPA di livello davvero alto, pulitissima, elegante, potente ma facile da bere, bilanciatissima in tutte le sue componenti: siamo a Cleveland ma con questa bottiglia tra le mani il lago Erie potrebbe facilmente trasformarsi nell’oceano Pacifico che bacia la West Coast.

Nel dettaglio:
Sunshine Daydream Session IPA, 35.5 cl., alc. 4.9%, IBU 60, imbott. 06/07/2017, 2.10 $
Trail Head Pale Ale, 35.5 cl.,  6.3% ABV, IBU 55, imbott. 02/08/2017, 2.10 $
Head Hunter IPA, 35.5 cl., 7.5% ABV, IBU 87, imbott. 28/7/2017, 2.10 $

venerdì 22 settembre 2017

Prösslbräu Adlersberg Palmator Doppelbock


Il birrificio Prössl viene fondato nel 1838 della omonima famiglia che – dopo sei generazioni – ancora lo controlla. I suoi edifici fanno parte di un vecchio monastero sull’Erkasberg, una montagna ricoperta di betulle, costruito nel tredicesimo secolo dal Duca di Baviera Ludovico II; pare che decise di costruirlo per espiare all’uxoricidio commesso dopo aver accusato ingiustamente la moglie di adulterio. Monache benedettine provenienti  da Weißenburg lo popolarono sino al 1542, quando il monastero venne abbandonato per sempre. I fabbricati divennero dapprima di proprietà del Palatinato e, per effetto della secolarizzazione, passarono poi nelle mani di diversi borghesi. 
Nel 1838 alcuni edifici del complesso furono acquisiti da Michael Prößl che decise di continuare l’attività del birrificio già esistente: al timone ci sono oggi i discendenti Heinrich e Dagmar Prößl assieme a – dicono orgogliosi – tre figlie, un cane, un cavallo, una capra e le galline della fattoria. Sono circa 7000 gli ettolitri prodotti ogni anno: oltre al birrificio con annesso ristorante e Biergarten, il complesso di Adlersberg dispone di un hotel con una dozzina di camere. In alternativa, a dieci chilometri di distanza, c’è la bella Ratisbona. 
Helles, Dunkel, Pils, Zwickel e Vollbier sono le cinque birre prodotte tutto l’anno alle quali s’affianca la più potente Palmator Doppelbock:  il suo nome fa riferimento alla domenica delle palme, giornata in cui veniva servita per la prima volta a tutti pellegrini (a volte anche cinquemila) che si recavano alle celebrazioni nell’adiacente chiesa. La domenica delle palme si trova ancora all’interno del periodo di quaresima, quello durante il quale i birrifici tedeschi erano soliti produrre birre alcoliche e “sostanziose” che potessero placare i malumori derivanti dal digiuno. La Palmator non è più una birra stagionale ma viene attualmente prodotta tutto l’anno.


La birra.

Il suo colore è un bellissimo mogano limpido e impreziosito da accese venature rosso rubino: la schiuma è impeccabilmente cremosa e compatta, con un’ottima persistenza nel bicchiere. Pane nero, caramello, delicate tostature, biscotto zuccherato, prugne e ciliegie disidratate formano un naso pulito e di buona intensità. L’aroma è caldo e avvolgente e introduce una bevuta che procede nella stessa direzione senza mai deviare. Il corpo è medio ma la sensazione palatale è molto avvolgente e morbida se paragonata agli standard della scuola tedesca: la facilità di bevuta non è comunque minimamente minacciata e l’alcool (7.4%) porta quel tepore che ci dovrebbe sempre essere in una Doppelbock e che rafforza le note maltate di biscotto, caramello e pane nero, gli esteri fruttati (ciliegia e uvetta) e le delicate tostature del finale.  Pulizia e fragranza rendono la bevuta molto soddisfacente e  il finale è un delicato – quasi tenero – e caldo abbraccio di dolce frutta sotto spirito. Una gran bella sorpresa da un birrificio a me era sconosciuto, una Doppelbock nella quale la precisione tedesca, spesso un po’ fredda, riesce anche a regalare qualche emozione.  Se amate questo stile, cercatela e non ve ne pentirete.

Formato: 50 cl., alc. 7.2%, lotto B5, scad. 12/2017, prezzo indicativo 3.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 settembre 2017

Odd Side Ales: Hop Gobbler, Citra Pale Ale & Hoplicated Double IPA

Grand Haven, cittadina adagiata  sulla riva del lago Michigan, è una popolare destinazione turistica per molti abitanti che abitano nelle aree più interne dello stato americano; il suo porto turistico e la sua grande spiaggia sabbiosa fanno si che il numero di abitanti (10.000 circa) aumenti esponenzialmente nei mesi estivi. E’ in questa località che nel 2010 Chris Michner, assieme alla moglie Alyson e al socio Kyle Miller hanno deciso di aprire nel 2010 il birrificio Odd Side Ales. 
Michner e Miller si dilettavano con l’homebrewing nel proprio appartamento ai tempi della Michigan State University:  terminati gli studi Michner iniziò a lavorare nel campo delle revisioni contabili ma dopo due anni si trovò disoccupato a causa della crisi finanziaria del 2008. Non contento del precedente lavoro, anziché cercarne un altro simile decise d’investire i 40.000 dollari che era riuscito a mettere da parte, ne chiese altri 40.000 in prestito per ristrutturare un vecchio edificio in centro a Grand Rapids, dove sino al 1984 venivano prodotti dei pianoforti: la cittadina  del Michigan era ancora sprovvista di brewpub. Sistemato l’impiantino da 75 litri (!) e, con l’aiuto di alcuni familiari, anche gli arredamenti della taproom, il 17 marzo 2010 Odd Side Ales serve le prime pinte ai propri clienti: nel locale non viene installato nessun televisore e non si serve cibo (anche se potete portare il vostro) in quanto il focus è volutamente orientato sulla birra. 
In poco tempo la capacità dell’impianto viene raddoppiata ma gli spazi del brewpub di Grand Haven – che oggi ospita ancota una ventina di spine, tutte di Odd Side -  non consentono grandi manovre; nel 2012 un nuovo impianto da 17 ettolitri trova spazio in un fabbricato a sei chilometri di distanza. Nel 2015 è tempo di un nuovo trasloco in un capannone da 4000 metri quadri poco più a sud al 1811 di Hayes Street, in prossimità del Grand Haven Memorial Airport: sul muro esterno dello stabilimento vi è una gigantografia dell’etichetta dalla Session IPA chiamata Hop Gobbler. Qui è operativo il nuovo impianto da 500 ettolitri con il quale, tenendo fede al suo nome, Odd Side produce birre spesso utilizzando frutta, spezie e altri ingredienti “inusuali”; il database di Ratebeer ne elenca quasi trecento anche la birra più venduta rimane la Citra Pale Ale. Ed è proprio su birre "normali" che mi sono orientato.

Le birre.
Partiamo dalla Hop Gobbler, in etichetta una Extra Pale Ale che il birrificio definisce una invece “session” Pale Ale; nasce nel 2013 ed è oggi una delle birre più vendute di Odd Side. Da settembre 2016 è disponibile anche in lattina. I luppoli utilizzati dovrebbero essere Centennial e Citra, mentre il suo colore leggermente velato è perfettamente dorato; l’aroma è pulito e ancora fresco di note floreali ed erbacee, cedro e arancia, frutta tropicale. Il suo carattere di “session beer” è evidente al palato dove c’è pulizia e fragranza e un’intensità, soprattutto per quel che riguarda il livello d’amaro, tale da non stancare mai chi decide di berla.  Crackers, miele e agrumi disegnano un profilo delicatamente dolce bilanciato da una finale amaro erbaceo, più che resinoso, di modesta intensità. Il suo punto di forza sono quella pulizia e facilità di bevuta tipiche del Midwest americano (e dei suoi immigrati di origine tedesca). Nonostante la bella etichetta, personalità e intensità sono un po’ deboli, ma è comunque una birra che si beve con grande piacere se la si trova nel proprio bicchiere.

Citra Pale Ale (5.8%) non è, secondo il birrificio, né un'American Pale Ale né una IPA: si colloca a metà, qualsiasi cosa ciò voglia dire. Si tratta di una single hop a tutto Citra il cui dorato è più carico rispetto alla Hop Gobbler. La bevo a due mesi circa dalla messa in bottiglia e l'aroma è ancora fresco: mandarino, arancia e  qualche nota di ananas, profumi floreali costituiscono un bouquet pulito ma dolce, come se un po' di zucchero fosse caduto sulla frutta. La sensazione palatale è gradevole e morbida e il gusto ricalca l'aroma senza nessuna deviazione: una leggera sensazione caramellata e biscottata ben si amalgama con agrumi e frutta tropicale fino ad una chiusura abbastanza secca con un amaro delicato ma non molto elegante nel quale s'incrociano note erbacee e zesty. Una buona Pale Ale dà il meglio di sé al naso, mentre in bocca l'eleganza si perde un po' per strada.

Chiudiamo con la Hoplicated, una Double IPA che Odd Side dichiara essere la sorella maggiore della Citra Pale Ale: la data d'imbottigliamento in etichetta è illeggibile ma dovrebbe trattarsi di una bottiglia con un mese e mezzo di vita. In passato era anche stata commercializzata con il nome I want my Htv e un'etichetta che citava il video di Money For Nothing dei Dire Straits. Anche qui l'unico luppolo protagonista è il Citra ma sin dall'aroma, quasi assente, s'intuisce che c'è qualcosa che non va. La bevuta non è particolarmente pulita ma è sopratutto troppo spinta sul versante dolce: caramello, biscotto, agrumi canditi, marmellata, sciroppo di frutta danno forma ad una birra stucchevole con un amaro finale che quasi non riesce ad emergere.  L'alcool (9%) è ben gestito e si sente con moderazione, la sensazione palatale è morbida e avvolgente ma la sua eccessiva dolcezza la rende una Double IPA che stanca subito il palato e che si beve con troppa fatica.

Nel dettaglio:
Hop Gobbler, 35.5 cl., alc. 5%, IBU 36, imbott. non riportato, 1.49 $
Citra Pale Ale , 35.5 cl., alc. 5.75%, IBU 43, imbott.  14/06/2017,  2.09 $
Hoplicated, 35.5 cl., alc. 9%, IBU 61, imbott. 30/06/2017 (?),  2.19 $

mercoledì 20 settembre 2017

Duvel Tripel Hop 2017 (Citra)

Appuntamento fisso di ogni anno, anche sul blog,  è quello con la Duvel Tripel Hop, “sorella" più luppolata della Duvel che affianca  ad ogni edizione una nuova varietà di luppolo a quei Saaz e Styrian Goldings utilizzati per quella “normale”. 
La Tripel Hop nacque come "one-shot" nel 2007 ospitando il luppolo Amarillo; il risultato piacque ai bevitori ma alla Moortgat non ritennero che valesse la pena replicarlo; a quanto si legge furono necessarie una "campagna" su Facebook e 12.000 firme raccolte dagli appassionati belgi di “De Lambikstoempers" per convincerli a rimetterla in produzione.  Nel 2012 la Tripel Hop ritornò utilizzando il Citra, come terzo luppolo "incomodo”, nel 2013 fu usato il Sorachi Ace e nel 2014 l’americano Mosaic: il 2015 ha visto come protagonista l’Equinox (oggi rinominato Equanot) e il 2016 la varietà sperimentale HBC 291 oggi nota con il nome di Loral. 
Lo scorso anno Duvel mise in vendita anche un “tasting box” comprendente tutte e sei le precedenti edizioni ; oltre alla possibilità di una “pericolosa verticale”, gli acquirenti potevano anche votare la loro preferita. Duvel aveva dichiarato che la vincitrice sarebbe poi diventata la Tripel Hop 2017: la promessa è stato mantenuta e la scorsa primavera quando la Tripel Hop Citra è stata messa in vendita, anche se dalle etichette è sparito il millesimo.

La birra.
Nessuna sorpresa per quel che riguarda l’aspetto il colore è perfettamente limpido e dorato con una generosa testa di schiuma cremosa ma dalle bolle un pochino troppo grosse e dalla buona persistenza. L’aroma è molto pulito ed elegante, e presenta le tipiche note del Citra: arancia, pompelmo e mandarino, lime e cedro in secondo piano. C’è una nota pepata, un tocco di miele e di agrumi canditi, qualche ricordo di pasticceria. Il mouthfeel è quello giusto per supportare una Strong Ale capace solitamente di mascherare il suo contenuto alcolico (9.5%) in maniera diabolica, appunto. In questa bottiglia non è esattamente così e l’alcool si fa sentire: il ritmo di bevuta non ne è particolarmente influenzato ma il bevitore avverte che nel bicchiere c’è qualcosa che può “far male”. I malti (pane e miele) supportano adeguatamente una bevuta caratterizzata da un bel fruttato nel quale gli esteri sono perfettamente amalgamati al luppolo: non solo agrumi ma anche qualche sensazione di frutta a pasta gialla, pesca in primis. La bevuta è dolce ma perfettamente asciugata dall’alcool e da una notevole attenuazione: c’è anche un velocissimo spiraglio amaro di scorza d’agrumi prima del congedo con una scia dolce e calda di frutta sotto spirito. Ben fatta, pulita e intensa: nel bicchiere è quasi tutto perfetto inclusa una certa avarizia nel regalare emozioni. Ma sugli scaffali dei supermercati è comunque sempre una manna dal cielo trovarla.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, lotto 41305, scad. 08/2018, prezzo indicativo 2,49 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 settembre 2017

Short's Brewing Company: Bellaire Brown & Huma Lupa Licious IPA

Quando iniziò con l’homebrewing Joe Short aveva diciannove anni e considerava quell’hobby solamente un metodo per aggirare le leggi e poter consumare alcolici assieme agli  amici della Western Michigan University: non aveva ambizioni professionali ma, ricorda, “i compagni di college che mi venivano a trovare erano impressionati dalla quantità di libri e quaderni che vedevano in casa. In realtà io non stavo studiando, stavo leggendo libri di homebrewing e scrivendo ricette di birre!” 
Terminato il triennio, Short lascia gli studi per lavorare in alcuni birrifici del Michigan settentrionale e, a soli 22 anni, registra il nome di quello che diventerà il suo birrificio, Short’s Brewing; a Bellaire nel 2013 inizia con l’aiuto di amici e volontari i lavori di ristrutturazione di una vecchia ferramenta dove viene aperto nell’aprile del 2004 un piccolo brewpub con impianto da otto ettolitri. Nel 2005 entra in società anche l’amica (poi fidanzata e poi moglie) Leah: inizia con un lavoro estivo – retribuito con birra e cibo -  per poi occuparsi in pieno della ristorazione; l’anno successivo arriva il terzo socio di Short’s: si tratta di Scott Newman-Bale, un amico in comune della coppia con un background nel settore immobiliare che diventerà poi fondamentale nella gestione amministrativa a finanziaria del birrificio. 
Nel suo primo anno di vita Short’s produce 200 ettolitri ma nel 2008 è già tempo di espandersi: per meglio concentrarsi su questo aspetto Joe assume il birraio Tony Hansen al quale affida la produzione. L’anno successivo è operativo il nuovo birrificio di Elk Rapids che consente a Short’s d’imbottigliare e distribuire le proprie birre in tutto il Michigan; il pub di Bellaire viene completamente ristrutturato e riapre nel 2010: nel 2016 verrà nuovamente ingrandito per permettere di accomodare 500 persone. Nel 2015 Short’s inizia anche la produzione di sidro, mentre quella di birra raggiunge i 45.000 ettolitri: nonostante qualche anno prima avesse protetto da copyright lo slogan “Michigan Only, Michigan Forever”, il birrificio si vede costretto a distribuire le proprie birre anche al di fuori dei confini del proprio stato se vuol mantenere quel piano industriale che prevede di saturare completamente la propria capacità produttiva (65.000 ettolitri) entro la fine del 2017. 
Qualche mese fa Short’s ha confermato di aver raggiunto un accordo per la cessione del 20% delle proprie azioni birrificio Lagunitas che, ricordo, dallo scorso maggio è posseduto al 100% da Heineken. Per la Brewers Association americana tuttavia Shorts può continuare ad essere craft, visto che la percentuale venduta non supera il 24.9%: molti appassionati americani non hanno tuttavia apprezzato il fatto che Shorts, nel comunicare quanto avvenuto, non abbia mai espressamente nominato la multinazionale olandese "nascondendo" l'operazione dietro al nome Lagunitas. Le rassicurazioni fornite dal birrificio del Michigan ai propri dipendenti e ai propri clienti sono sempre le stesse: “non cambierà nulla, sarà più facile per noi crescere, siamo sempre noi a contollare il nostro birrificio”. Chi vivrà, vedrà.

Le birre.
Sono quasi cinquecento birre prodotte da Short’s in tredici anni di attività, ma solamente cinque quelle disponibili tutto l’anno. Vediamone due partendo dalla Bellaire Brown, una classica American Brown Ale il cui bell'aspetto di colore  ambrato carico con intensi riflessi rossastri è un po' rovinato da una schiuma scomposta e grossolana. L’aroma è invece molto pulito e piuttosto complesso, con una ben riuscita convivenza di pane nero e caramello, orzo e caffè, frutti di bosco. In sottofondo richiami alla carne affumicata, al cioccolato al latte e al pane tostato. Al palato c'è piena corrispondenza con l'aroma per una bevuta intensa ma facile al tempo stesso, grazie ad una componente etilica (7%) molto ben nascosta.  Nel finale anziché enfatizzare le tostature la ricetta sceglie il versante dolce, indulgendo su di una sorta di caffellatte ben zuccherato; una lieve astringenza non penalizza una Brown Ale molto ben fatta, pulita e valorizzata dalla fragranza di poche settimane in bottiglia.

Huma Lupa Licious - il nome deriva ovviamente da sua maestà il luppolo, humulus lupulus - è la flagship IPA di Short's che, con un ABV del 7.7%, si pone ai confini del double. Centennial, Columbus, Chinook, Cascade e Palisade sono le varietà selezionate, mentre l'etichetta è opera dell'artista Fritz Horstman. Il suo colore è oro antico e l'aroma, benché pulito, non è il suo punto di forza: note floreali e resinose costituiscono un bouquet un po' povero e di modesta intensità, ma bastano alcuni sorsi per accorgersi che nel bicchiere c'è una IPA molto solida e ben fatta. La base maltata (biscotto e caramello) è ben presente ma non invadente, nella miglior tradizione Midwest; pompelmo e arancia regalano un piacevole tocco fruttato ad una bevuta che si apre con un finale amaro piuttosto intenso e pungente, resinoso e terroso. L'alcool è ben gestito, avvertendosi quanto basta per dare forma ad una IPA potente ma facile da bere, molto ben bilanciata: non corre di certo dietro alle mode, la sua ricetta - dicono - è la stessa da dodici anni ma si difende ancora con onore in un mondo che corre troppo velocemente sempre dietro all'ultima novità.

Nel dettaglio:
Bellaire Brown, 35.5 cl., alc. 7%, IBU 19, imbott. 02/08/2017, prezzo 2,11 $
Huma Lupa Licious, 35.5 cl., alc. 7.7%, IBU 95, imbott.  18/07/2017, prezzo 2,11 $

lunedì 18 settembre 2017

Tilquin Oude Quetsche à l'Ancienne avec Prunes de Namur 2015

Era da quindici anni che non nasceva in Belgio un nuovo assemblatore di lambic: nel 1997 era apparsa la Geuzestekerij De Cam e a maggio 2011 tocca alla Gueuzerie Tilquin: al progetto fa capo Pierre Tilquin ma vi partecipano anche altri imprenditori come ad esempio Grégory Verhelst del birrificio La Rulles.  
Pierre ha una formazione in ingegneria biomedica ma ha poi seguito un corso di Brewing Technology a Lovanio, completandolo con esperienze pratiche presso il birrificio Huyghe e, soprattutto, 3 Fonteinen e Cantillon. Gueuzerie Tilquin è anche il primo assemblatore di lambic della Vallonia, avendo sede a Bierghes a poche centinaia di metri da confine, linguistico e territoriale, con le fiandre.  Tilquin acquista mosto da vari produttori (Boon, Lindemans, Girardin e Cantillon) e lo mette a fermentare e a maturare in oltre 200 botti usate di rovere francese provenienti dalle regioni del Rodano e Bordeaux: la sua Oude Gueuze à L'Ancienne prende forma blendando diversi lambic di uno, due e tre anni. Dal 2012 fa parte dell’HORAL (De Hoge Raad voor Ambachtelijke Lambiekbieren);  all’incirca il 75% della produzione viene esportata al di fuori dei confini nazionali, con gli Stati Uniti  (40%) a farla da padrone. Nello stesso anno  Tilquin ha anche iniziato la produzione di lambic alla frutta utilizzando un ingrediente abbastanza insolito: le susine.

La birra.
Il primo lotto di 500 bottiglie di Oude Quetsche à l'Ancienne viene messo in vendita esclusivamente al "birrificio" a febbraio 2012;  l’edizione 2013, composta da 5.000 bottiglie da 75 e 10.000 da 37,5 è commercializzata in concomitanza con il Toer de Geuze e viene distribuita anche in Europa e negli Stati Uniti. Pare che il primo lotto sia stato prodotto con prugne belghe provenienti dalla zona di Namur, mentre per l’edizioni successive siano state usate prugne alsaziane. Successivamente Tilquin ha rimesso in produzione, in quantità più limitate e ad un prezzo maggiore, la Oude Quetsche à l'Ancienne avec Prunes de Namur; la provenienza della materia prima, al contrario della Quetsche normale, è specificata in etichetta. Le due varietà sono abbastanza simili ma, come racconta Tilquin, quelle di Namur sono più piccole e un po’ più aspre di quelle francesi. Le susine, fresche e denocciolate, vengono fatte fermentare in acciaio assieme ad un blend di lambic di un anno; dopo quattro mesi viene aggiunto lambic di due e tre anni fino ad ottenere una concentrazione finale di circa 250 grammi di frutta per ogni litro.  La successiva maturazione in bottiglia dura almeno tre mesi. 
L’edizione 2015 della Oude Quetsche à l'Ancienne avec Prunes de Namur appare di colore arancio con intensi riflessi dorati e in superficie genera un piccola e scomposta schiuma biancastra, piuttosto evanescente. Al naso le note funky del lambic  (pelle di salame, sudore, cantina, carte da gioco vecchie) si mescolano con quelle aspre di limone e prugna e con una lieve sensazione di legno. Al palato è un lambic ancora ben carbonato che regala comunque un mouthfeel morbido e gradevole: a due anni dalla messa in bottiglia la prugna non è più protagonista di una bevuta che vira piuttosto su asprezze citriche (limone e pompelmo) affiancata da una lieve acidità lattica e da un finale leggermente legnoso il cui delicatissimo amaro oscilla tra tannini e scorza d’agrumi.  La bevuta rimane piuttosto educata con gli off-flavors tipici del lambic che rimangono sempre in secondo piano. Il risultato è forse un po’ troppo “scolastico”, se mi passate il termine, con poca profondità e una certa parsimonia di emozioni derivante dall’eccessivo addomesticamento della componente “selvaggia”: ne sarà avvantaggiato il bevitore che sta muovendo i suoi primi passi nell’affascinante mondo delle fermentazioni spontanee. Escludendo la componente soggettiva, questa Quetsche de Namur di Tilquin mi sembra una bevuta godibilissima e perfetta, con la sua secchezza e la sua asprezza, nel rinfrescare e dissetare. 
Formato: 75 cl., alc. 6.4%, lotto 2015, scad. 09/02/2025, pagata 11.70 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 17 settembre 2017

New Glarus Brewing Company: Moon Man No Coast Pale Ale & Serendipity

Nel 1845 alcuni immigranti svizzeri provenienti dal Canton Glarona si stabilirono in quella regione oggi appartenente allo stato del Wisconsin e fondarono il villaggio di New Glarus: è qui che Daniel e Deb Carey nel 1993 hanno aperto le porte dell'omonimo birrificio. Dan lavora per l'industria della birra da quando aveva vent'anni: dopo il diploma in Scienze dell'alimentazione con specializzazione in Malting and Brewing Science ha svolto un periodo di apprendistato in Germania per poi ritornare negli Stati Uniti seguendo l'installazione e l'avviamento di molti micro-birrifici. Prima di mettersi in proprio era supervisore della produzione per la Anheuser-Busch a Fort Collins.
E' sua moglie Deborah a convincerlo a vendere la loro casa in Colorado e ad utilizzare tutti i loro risparmi per tornare con i figli in Wisconsin, dove lei era nata, a fondare la New Glarus Brewing Company; è lei a redigere il business plan di un brewpub che parte con un impianto da 23 ettolitri acquistato da un birrificio tedesco in demolizione che viene installato in un magazzino abbandonato. "Investimmo davvero tutto quello che avevamo - dice Deb - se le cose fossero andate male saremmo finiti a dormire in macchina".  New Glarus inizia producendo solamente birre a bassa fermentazione, fedele alla tradizione degli immigrati tedeschi che furono i primi a produrre birra in Wisconsin. Deb  è quindi la prima donna americana ad aver fondato un birrificio, mentre Dan è il birraio che, ogni venerdì, sale sul proprio furgoncino per consegnare la birra ai clienti. 
In dieci anni il birrificio passa ad occupare da 100 a 1800 metri quadrati e arriva a produrre 75.000 ettolitri l'anno, saturando completamente la propria capacità; dal 2002 New Glarus decide di vendere la propria birra solamente in Wisconsin, ritirandosi dai pochi altri stati in cui era distribuita. Nel 2006 Deb Carey annuncia un piano di espansione da 21 milioni di dollari: il nuovo birrificio, una serie di edifici a graticcio che ricordano quelli della Svizzera, nasce su di una piccola collina a sud del villaggio. In questi ultimi dieci anni New Glarus ha continuato a crescere al ritmo del 15-20% annuo: i 150.000 ettolitri prodotti nel 2012 hanno convinto i coniugi Carey ad intraprendere una nuova espansione da 11 milioni di dollari con l'aggiunta di altri fermentatori che dovrebbero portare la capacità a 300.000 ettolitri/anno. Il 65% di questi è rappresentato dalla birra Spotted Cow, che Dan Carey definisce una farmhouse ale: assaggiata alla spina non mi ha fatto una gran impressione, sopratutto per quel che riguarda il suo carattere rustico/farmhouse.

Le birre. 
Siamo nel Midwest e quel "No Coast Pale Ale" che accompagna il nome Moon Man lo mette ben in chiaro: American Pale Ale dedicata al gatto di casa, prodotta con cinque diverse varietà di luppolo non rivelate: "in Wisconsin non devi essere estremo per essere reale", aggiungono i coniugi Carey. L'imprinting "tedesco" si vede anche in questa APA che, effettivamente e paradossalmente, ricorda proprio quelle prodotte dei birrifici in Germania. Pulizia ed equilibrio sono ineccepibili ma tutta questa perfetta tranquillità si traduce alla fine in una birra un po' timida che non mostra un gran carattere. Il naso parte dal floreale per poi virare sui classici profumi dei luppoli americani, ovvero gli agrumi: nello specifico si parla di arancia e mandarino. Crosta di pane e caramello formano un base maltata fragrante e leggera sulla quale emerge una delicata nota agrumata; il finale, molto pulito, porta un amaro leggero a cavallo tra note terrose e zesty. Come detto, New Glarus distribuisce solamente in Wisconsin e questa birra ne riflette il DNA: niente estremi, massima facilità di bevuta, pulizia ed eleganza. L'intensità di aromi e sapori non è tuttavia il suo punto di forza e, in quanto bevitore europeo in trasferta negli Stati Uniti, non è la birra che desidero trovarmi nel bicchiere.

Si cambia marcia con Serendipity, una delle birre più apprezzate di New Glarus: nel 1986 Dan e Deb Carey sono in Belgio e s'innamorano dei lambic alla frutta, in particolare delle kriek. Ci vorranno però sei anni di tentativi e di errori prima di arrivare a realizzare la ricetta di quella che sarà la Wisconsin Belgian Red, una Sour Brown Ale prodotta con amarene Montmorency del Wisconsin che debutta nel 1995.
Ma nel 2012 la primavera nello stato americano è caratterizzata da gelate tardive che compromettono quasi completamente il raccolto di amarene e Carey non riesce a produrre la sua tanto amata birra. Alle poche amarene trovate decide di aggiungere mele Gala dallo stato di Washington e cranberries (mirtilli rossi) locali: il risultato ottenuto quasi per caso (serendipità) è ottimo e da quell'anno viene prodotta Serendipity una "Happy Accident Fruit Ale". Il suo colore oscilla tra il lampone e il rosso rubino ed è sormontato da un cappello di schiuma ocra, cremosa e compatta, che ha un'ottima persistenza.  L'aroma mantiene fede a quanto raffigurato in etichetta: mela, amarene e mirtilli rossi, con una fragranza ed un'intensità impressionanti. La frutta sembra letteralmente saltare fuori dal bicchiere per raggiungere poi, senza nessun cedimento, anche il palato; la bevuta oscilla tra il dolce di mela e ciliegia e l'aspro di amarena e cranberries, spinto da vivaci bollicine che tuttavia non ne pregiudicano la morbidezza. Il contenuto alcolico non è riportato in etichetta ma è comunque inavvertibile, mentre il finale secco è la perfetta conclusione di una birra dall'enorme potere dissetante e rinfrescante, assolutamente perfetta come aperitivo. Raramente mi è capitato d'incontrare una birra con un utilizzo del frutto così pulito, pieno e fragrante: cheapeau. Prezzo abbordabile, se paragonato ad altre birre simili americane, e per trovarla  in Wisconsin non dovete dormire accampati fuori dal birrificio: spesso vi basta andare al supermercato.

Nel dettaglio:
Moon Man No Coast Pale Ale, 35.5 cl., alc. 5%, lotto non riportato,  1.58 $.
Serendipity, 75 cl., alc. 5.1% (?), lotto non riportato, 9.99 $.

venerdì 15 settembre 2017

DALLA CANTINA: LoverBeer BeerBrugna 2010


Il birrificio Loverbeer è già transitato più volte sulle pagine del blog ma oggi facciamo un salto indietro nel tempo parlando di quella che se non erro è stata la birra dell’esordio per Valter Loverier, ex tecnico progettista di un’azienda di telecomunicazioni con l’hobby per i rally e l’homebrewing.  Sin dall’epoca delle produzioni casalinghe l’interesse di Valter sono i lieviti selvaggi e le fermentazioni spontanee: il suo primo esperimento è ispirato dalle Kriek belghe: “quando assaggiai la prima Kriek mi venne subito l'idea di realizzare una birra che utilizzasse, con la stessa tecnica, un frutto fortemente legato al mio territorio. La scelta è caduta sul Ramassin della Valle Bronda (presidio Slow Food), una piccola susina damaschina dal profumo unico aggiunta ad una base in grado di supportare una fermentazione così complessa”. 
La birra piacque a Lorenzo “Kuaska” Dabove che nel 2005, in occasione del Brassin Public di Cantillon la portò con sé facendola assaggiare a Jean Van Roy, il quale apprezzò molto;  che gradisce. L’amicizia con Kuaska lo portò a conoscere Tomme Athur (Lost Abbey) e Vinnie Ciliurzo ( Russian River),  gli incoraggiamenti e gli apprezzamenti ricevuti lo convinsero a lasciare il vecchio lavoro per aprire il proprio birrificio a Marentino, con fermentatori in legno di rovere e una bella batteria di barriques.  Era il 2008  e oggi Loverbeer è diventato uno dei protagonisti della cosiddetta “birra artigianale” italiana: le sue birre, certamente non facili per un “novizio” e dal costo impegnativo, vengono esportate in molti paesi, Stati Uniti inclusi.


La birra.
Sono circa 5000 i litri di BeerBrugna che vengono prodotti ogni anno; la sua fermentazione avviene con inoculo di batteri lattici e lieviti, tra cui brettanomiceti, mentre la maturazione avviene in barrique per dodici mesi con aggiunta di susine damaschine (Ramassin) fresche. Per apprezzare al massimo il frutto è ovviamente meglio stappare una bottiglia giovane; oggi vado controcorrente e dalla cantina ne recupero invece una prodotta nel 2010 e poi messa in vendita l'anno successivo.
Il suo colore è un ambrato opaco con sfumature ramate, mente la grossolana schiuma biancastra si dissolve molto rapidamente. L'intensità dell'aroma dopo sei anni dalla messa in bottiglia è davvero sorprendente: la susina è ancora piena e "netta", accompagnata da profumi di ciliegia, mela e lavanda. Semplice, pulito e sopratutto incredibilmente "fresco".  E' solo al palato che si avverte il passaggio del tempo, con la birra che in alcuni passaggi risulta un po' slegata. La carbonazione è piuttosto bassa, ma anche se poco vivace, questa Beerbrugna regala un'ottima e intensa bevuta ricca di prugna matura, more e lamponi; alla loro dolcezza si contrappone l'aspro del ribes, dell'uvaspina, della prugna acerba e del limone. Anche in bocca c'è una fresca sensazione floreale, mentre nel finale spunta qualche accenno di vino e di legno. Bevuta secca, molto dissetante e rinfrescante, con un'acidità non troppo spinta e comunque sempre spalleggiata da una dolce controparte: l'alcool non è pervenuto, il carattere funky dei brettanomiceti è quasi completamente sopraffatto dalla frutta. Non c'è forse una grande profondità ma c'è pulizia, eleganza e, soprattutto, emozione. E una freschezza davvero sconvolgente per questa "signora" che ha ormai sette anni.
Formato: 75 cl., alc. 6.2%, lotto PBGN02-0411, scad. 12/2015, pagata 15,40 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 14 settembre 2017

Founders All Day IPA

Nel 2001 furono alcune birre ad alta gradazione alcolica e per certi versi estreme, come Dirty Bastard, Breakfast Stout e Centennial IPA a salvare il birrificio Founders da una difficilissima situazione finanziaria: quasi dieci anni dopo il maggior contributo alla crescita è invece arrivato dal lancio di una birra dal basso contenuto alcolico, poi diventata una sorta di “stile di vita”, come dicono a Grand Rapids, Michigan. 
Era il 2007 e, racconta il birraio  Jeremy Kosmicki, “stavamo cercando qualcosa che alla nostra taproom potesse sostituire la lager che avevamo smesso di produrre; volevamo avere alla spina una birra leggera da offrire ai bevitori di Bud Light che ci venivano a trovare assieme ai loro amici appassionati di craft beer. Iniziammo a produrre una birra chiamata Extra Pale, poi Solid Gold ma, ad essere onesti, erano due birre molto blande; così pensammo di cambiare e realizzare una birra che piacesse anche a noi, leggera ma piena di gusto grazie al dry-hopping. Non fu facile, le prime ricette erano troppo poco luppolate ma pian piano, ascoltando il feedback di chi la beveva alla taproom, arrivammo a fare la birra giusta”. Mike Stevens, fondatore di Founders assieme a Dave Engbers, aggiunge: “eravamo considerati dei precursori per quel che riguarda le birre forti, ad alta gradazione alcolica, ma iniziavamo a mettere su famiglia e ad avere bambini. Volevamo soprattutto per noi una birra in stile Founders ma che potevi bere ripetutamente nel corso di una serata”.  “Facemmo così tante prove -  ricorda Engbers -  che avremmo potuto far uscire la birra sul mercato un anno prima, ma volevamo che fosse perfetta. Per quasi un anno alla taproom fu conosciuta come  Endurance—All Day IPA: All Day IPA era solo la descrizione, ma poi ci fu un contenzioso sulla parola Endurance con una beerfirm di Boston e decidemmo di chiamarla semplicemente All Day IPA.  I grafici realizzarono quella bella etichetta che contribuì in maniera decisiva a comunicare il significato: uno stile di vita attivo. La cosa che mi colpì maggiormente quando fu messa in vendita era che molti dei nostri colleghi birrai ne rimasero sconvolti; molti di loro iniziarono a produrre una birra che fosse piena di sapori ma dal basso contenuto alcolico, e quando dei birrai che rispettiamo ci fanno così  tanti complimenti vuol dire che abbiamo davvero fatto la birra giusta”.  
“Quando debuttò a marzo 2012  - continua Stevens - ancora non ci rendevamo conto di cosa avevamo fatto e quello che  stava per accadere; avevamo una disponibilità limitata di luppolo e quindi il primo lotto fu distribuito solo in quattro stati come produzione stagionale estiva. Andò esaurita quasi subito e firmammo dei contratti con i fornitori di luppolo che ci permettessero di essere in grado di distribuirla a tutto il nostro network l’anno successivo. Ma ancora oggi non riusciamo a coprire tutta la richiesta. E’ incredibile la velocità con cui ha superato quella che era la nostra birra più venduta, la Centennial IPA. Per quel che mi riguarda, costituisce il 90% dei liquidi che bevo ogni giorno”. “Ben presto ci accorgemmo che questa birra era destinata a coloro che facevano uno stile di vita attivo – dice Engbers - e la lattina sarebbe stata fondamentale per offrirla a chi va in barca, in bicicletta o fa hiking”. 
Ricapitoliamo: la All Day IPA di Founders arriva nel 2012 ma già nel 2010, con il nome di Endurance IPA Jr., ottiene la medaglia d’argento al Great American Beer Festival nella categoria delle “Session Ales”; alla fine del 2013 arrivano le prime lattine e la All Day IPA rappresenta da sola il 25% delle vendite di Founders. Nella primavera del 2014 Founders è il primo birrificio craft americano a realizzare l’upgrade dal 12 pack di lattine al 15 pack, e ciò avviene senza aumentare il costo;  prezzo di vendita suggerito per 15 lattine è di 18 dollari. Al cambio attuale fa 1,03 Euro a lattina da 35 cl., tasse ovviamente escluse. L’ultima novità che la riguarda è l’arrivo del “lattinone” da 568 ml (19.2 once). 
La All Day IPA è oggi la lattina di "craft beer" più venduta negli Stati Uniti ed è la terza IPA più venduta nello stesso paese: è distribuita in 46 stati e, all’estero, in 26 nazioni; Founders stima di chiudere il 2017 con una produzione di 460.000 barili (540.000 ettolitri) e più della metà di questi è rappresentata dalla All Day IPA.  E basta farsi un giro nel Midwest per rendersene conto: la trovate praticamente ovunque e, dai supermercati ai distributori di benzina e, a volte, con un prezzo "all'oncia" inferiore a quello delle Bud Light! 
Ricordo che per l'American Brewers Association il birrificio Founders non è più considerato "craft" per aver venduto nel 2014 il 30% delle proprie azioni agli spagnoli della Mahou San Miguel.

La birra.
Di fatto la sua gradazione alcolica (4.7%) la porta leggermente al di sopra della soglia del “sessionabile”, ciò non toglie che la All Day IPA di Founders è veramente una birra quotidiana. Founders è da anni presente in Italia e, ultimamente, anche sugli scaffali di diversi supermercati con alcune etichette. Ho avuto occasione di provare la All Day IPA “italiana” dalla grande distribuzione e il risultato è stato ovviamente poco gratificante, vuoi per i mesi passati dalla messa in bottiglia che per le condizioni di conservazione della grande distribuzione. Negli Stati Uniti sono invece riuscito a trovare una bottiglia con un paio di settimane di vita, facendomi così un’impressione più veritiera di una birra che ha avuto uno straordinario successo.
Simcoe e Amarillo sono i luppoli utilizzati in una IPA che si presenta di colore oro carico, leggermente velato e sormontato da una testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla buona persistenza. Al naso profumi floreali si mescolano a quelli di arancio e pompelmo, resina e un lieve tocco dank; la pulizia è ottima, mentre l'intensità è solamente discreta. Nessuna deriva acquosa al palato dove c'è invece - in piena tradizione Midwest - una buona base maltata, con pane e biscotto, a supporto della polpa d'arancia e del pompelmo; la bevuta è abbastanza secca e chiude con un amaro delicato leggermente resinoso e terroso. Non ci sono molte emozioni nel bicchiere di una IPA a cui forse la quantità oggi prodotta ha tolto un po' di cuore: la qualità comunque è ineccepibile: birra pulita, bilanciatissima, delicatamente profumata e delicatamente amara ma piena di guato. Prezzo assolutamente concorrenziale, soprattutto se la comprate nei pack da 6 bottiglie o 15 lattine: è la birra che negli Stati Uniti vi salva ogni volta  che non trovate nulla di decente da bere. E' il tipo di birra che ancora manca (e forse sempre mancherà)  in Italia, come rapporto qualità-prezzo, per accompagnare grigliate, giornate al mare, scampagnate e ritrovi con amici.
Formato: 35.5 cl., alc. 4.7%, IBU 42, imbott. 31/07/2017, pagata 2,11 $ (supermercato).