giovedì 30 marzo 2017

Stigbergets Saison

Il birrificio svedese Stigbergets è stata una delle più interessanti  novità arrivate in Italia negli ultimi sei mesi, grazie soprattutto ad una serie di birre luppolate davvero ben fatte che, in alcuni casi, mi dicono rappresentino dignitose interpretazioni europee di quelle New England / Juicy IPA americane che tanto vanno di moda oggi. 
Ma Stigbergets (e la sua stessa beerfirm O/O) non è solo quello: aperto a cavallo tra 2012 e 2013 come costola del ristorante del Hagabion di Göteborg, il birrificio guidato dal birraio e co-fondatore Olle Andersson tocca con la sua gamma produttiva non solo la tradizione anglosassone ma anche quella belga e tedesca. 
La novità più interessante per tutti i beergeeks è forse quella uscita qualche settimana fa: Barnaby Struve, ex-vice presidente del birrificio americano Three Floyds, si è infatti trasferito in Svezia per lavorare come birraio – inizialmente per un periodo di prova – proprio da Stigbergets. I Three Floyds non rilasciano molti comunicati stampa ed anche in questo caso non sono state rese note le ragioni di una separazione che è tuttavia iniziata già una ventina di mesi fa quando Struve, per problemi personali, era di fatto divenuto solamente un consulente esterno del birrificio. “Andare in Svezia è un grosso cambiamentoha dichiaratoe quindi voglio essere sicuro della mia decisione prima di prendere l’impegno. Sono un birrificio molto piccolo, hanno solo otto dipendenti.” 
Torniamo a Stigbergets: hype europeo ai massimi livelli per quel che riguarda le Juicy IPA, ma le altre birre? Se il Belgio è il vero banco di prova per un birrificio, eccomi a testare una Saison prodotta in Svezia; il birrificio ne produce più di una, la Hitchhiker Saison (5.5%), la Stigbergets Saison e, come beeefirm di se stessa la O/O Bohemia (5%) e la  O/O New World Saison (7,3%).

La birra.
Nessuna informazione sugli ingredienti utilizzati se non che hanno origine biologica. La Stigbergets Saison ha vinto il primo premio nella categoria di riferimento al Gothenberg Beer & Whiskey Festival del 2016. Avevo in verità intenzione di fare un confronto tra questa e la Deville  Hoppy Saison di Hammer presentata sul blog ieri; pensavo che anche il birrificio svedese avesse scelto di luppolare piuttosto generosamente la propria Saison, ma si tratta invece di un’interpretazione piuttosto classica e quindi non ha alcun senso fare dei paragoni. 
Detto questo, la Saison di Stigbergets si presenta nel bicchiere dorata ma di una limpidezza piuttosto inquietante; la schiuma è invece cremosa e compatta, “croccante” ed ha una buona persistenza. L’aroma nel complesso è piuttosto pulito ma alquanto carente in quel carattere rustico che una Saison dovrebbe sempre avere: spezie (pepe bianco, coriandolo), scorza d’arancia, crosta di pane, un accenno terroso. La carbonazione non particolarmente elevata non l’aiuta ad acquistare vivacità nemmeno al palato: scorre fin troppo liscia e innocua in uno scenario rassicurante e privo di sussulti fatto di crosta di pane e miele, una delicata speziatura, un finale piuttosto timido caratterizzato da un velocissimo passaggio amaricante di scorza d’arancio e terroso. Il gusto convince ancor meno dell’aroma e all’innalzarsi della temperatura emerge anche una lieve presenza di diacetile.  
All’antitesi del rustico, la Saison di Stigbergets si beve senza sussulti e senza emozioni: discreta, poco secca e quindi meno dissetante del previsto, facile da bere quanto da dimenticare.
Formato 33 cl., alc. 5.5%, lotto 531, scad. 05/10/2017, prezzo indicativo 4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 29 marzo 2017

Hammer Deville

Workpiece è il nome dato dal birrificio Hammer ad una serie di birre occasionali/sperimentali che vengono prodotte di tanto in tanto. Workpiece in inglese è il pezzo grezzo da lavorare sul quale si abbatte il martello (Hammer) del fabbro o gli attrezzi del centro di lavoro che danno poi origine al pezzo finito.  
Sette sino ad ora le birre realizzate in quest’ottica: Imperial IPA, American Wheat , Hoppy Saison, Imperial Dark Ale, Keller Pils,  Pacific IPA  e Session IPA : di queste la Pacific IPA è stata la prima ad entrare poi in produzione regolare con il nuovo nome di Koral, seguita dalla Session IPA che se non erro è diventata Microwave.
L’ultima a trasformarsi da “pezzo grezzo” a "finito" è stata la Hoppy Saison, che dalla fine dello scorso gennaio è entrata ufficialmente in produzione regolare e continuativa con il nome di Deville. Non sono riuscito a trovare particolari motivazioni dietro al nome scelto, se non un riferimento all’omonima cittadine francese nel dipartimento delle Ardenne, confinante con quell’Hainaut belga dove le Saison nacquero, prodotte dai birrifici in inverno per dissetare i braccianti agricoli che lavoravano d’estate nei campi.  La birra era rinfrescante, fortificante e, soprattutto, più sicura dell’acqua, spesso fonte di possibili infezioni.  Ogni fattoria/birrificio aveva la propria ricetta e a quel tempo si faceva la birra con i cereali e le spezie che erano disponibili di volta in volta; sarebbe quindi più corretto parlare di “famiglia di birre” anziché di “stile”.

La birra.
Malto 100% pils, luppoli Hallertau Blanc, Citra, Saaz e Styrian Golding, lievito French Saison: questa la ricetta per una birra che non utilizza nessuna spezia ed affronta il non semplice compito di far convivere una generosissima luppolatura con l’espressività del lievito Saison. 
Il suo colore è un dorato un po’ pallido e leggermente velato, sormontato da un generoso cappello di schiuma candida, un po’ grossolana ma dalla buona persistenza. Al naso c’è quella “estate” che vorresti sempre trovare in una Saison: profumi floreali, una bella nota rustica di paglia, pepe bianco; l’asprezza degli agrumi (cedro e lime) è contrastata da un velo dolce che richiama la  polpa d’arancia, la pesca gialla e l’ananas, in secondo piano c’è anche un accenno di banana. Fresco e pulitissimo, l’aroma riesce a far convivere l’eleganza dei luppoli con quel carattere rustico che non dovrebbe mai mancare in una Saison. La sensazione palatale è pressoché perfetta:  vivaci bollicine, corpo medio-leggero, ottima scorrevolezza. L’intento di creare una Hoppy Saison  trova qualche difficoltà in più al palato, dove i luppoli dominano decisamente la scena mettendo un po’ in un angolo la Saison: il mio è un appunto puramente teorico perché la pratica – ovvero bere – dice che nel bicchiere c’è un’ottima birra.  Malti molto lievi (pane e crackers), un tocco dolce di tropicale e pesca gialla e poi la bevuta passa in mano agli agrumi, il cui amaro è il vero protagonista affiancato da quelle note terrose che, assieme a qualche spigolo un po’ ruvido (bollcine, speziatura del lievito) ci ricordano in fondo in fondo che stiamo pur sempre parlando di una Saison, anche se più ruffiana che rustica. 
Secchissima e molto pulita, attraversata da una delicata acidità, facilissima da bere, la Deville di Hammer non può non entrare tra le mie birre fondamentali per affrontare i mesi più caldi dell’anno: i luppoli e le IPA dominano ancora il mercato della cosiddetta birra artigianale, ma quando incontri “il Belgio luppolato fatto come si deve“ per quel che mi riguarda non c’è proprio partita.
Formato: 33 cl., alc. 5%, lotto 3548, imbott. 01/2017, scad. 31/07/2017, prezzo indicativo 4.50 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 28 marzo 2017

St. Bernardus Abt 12 Oak Aged

01 dicembre 2014: la notizia è di quelle molto interessanti visto che proviene da un birrificio che non segue certamente la moda di rilasciare una nuova birra ogni mese o, peggio ancora, ogni settimana; l’unica concessione è una bottiglia Magnum della Abt 12 che ogni anno, dal 2012, viene offerta ai collezionisti con una diversa serigrafia . Parliamo ovviamente della St. Bernardus Brouwerij, da anni rigorosa nell’offrire un portfolio di birre quasi immutabile: Pater 6, Prior 8, Abt 12, Tripel, Wit, Christmas Ale, Extra 4, Watou Tripel e Grottenbier Bruin
A dicembre 2014 sulla propria pagina Facebook il birrificio annuncia che entro poche settimane saranno messe in vendita le prime bottiglie della Abt 12 invecchiata sei mesi in botti di Calvados; in contemporanea Marco Passarella, sales manager di St. Bernardus, mette in mostra le prime bottiglie presso la Horeca Expo di Gent. 
“L’ammiraglia” Abt 12 venne prodotta per la prima volta nel 1992, quando i monaci della vicina abbazia di St. Sixtus/Westvleteren decisero di riportare all’interno del monastero la produzione della birra che, dal 1946, era stata affidata alla St. Bernardus di Watou.  Terminato il contratto, il birrificio fondato da Evarist Deconinck ha continuato a produrre birra cambiando ovviamente i nomi ma - assicurano - lasciando pressoché immutate le ricette. Furono piuttosto i monaci a cambiare le loro birre, iniziando negli anni ’90 ad utilizzare un ceppo di lieviti proveniente dai fratelli trappisti di Westmalle; la data di nascita della Abt 12 di St. Bernardus sarebbe quindi da collocare intorno al 1946.

La birra.
Con una gradazione alcolica leggermente più alta  (11% anziché 10.5%) rispetto alla Abt 12 classica, la versione Oak Aged si presenta nel bicchiere di colore ambrato carico, tonaca di frate, con dei bei riflessi ramati; la schiuma biancastra è cremosa e compatta ed ha una buona persistenza. Al naso c’è grande pulizia ed una notevole intensità nella quale è subito evidente il passaggio in botte (calvados): la componente etilica è morbida e accompagna i profumi di uvetta e mela caramellata, pera, biscotto e zucchero candito, con in sottofondo accenni di legno e la delicata speziatura del lievito. Sin dal primo sorso quello che colpisce è l’incredibile attenuazione di questa birra e il modo in cui l’alcool è nascosto: davvero sorprendente, con una scorrevolezza e una facilità di bevuta ottima. Il gusto segue in fotocopia l’aroma, senza deviazioni: le caratteristiche della Abt 12 (spezie, biscotto, zucchero candito, uvetta e prugna) sono ben presenti ma è il passaggio in botte a condurre la bevuta in un territorio nuovo, molto godibile ed interessante. In sottofondo si scorgono la mela caramellata ed il legno. Il dolce è asciugato completamente da un finale secchissimo che ripulisce il palato e lo lascia libero d’assaporare un lungo retrogusto etilico, caldo di brandy e frutta sotto spirito. 
Il suo prezzo è ovviamente molto più alto di quello della Abt 12 classica ma è un biglietto che si paga volentieri: il risultato è una “quadrupel” potenziata nel modo migliore, ovvero senza eccessi, con il passaggio in botte che rafforza la birra base e l’arricchisce di altri elementi. Tutto questo avviene mascherando benissimo la componente etilica e riscaldando ugualmente il bevitore: non ricordo di averla mai vista in Italia ma se vi capita tra le mani vale senz’altro la pena assaggiarla.
Formato: 75 cl., alc. 11%, lotto A0A 12:47, scad. 16/02/2019, prezzo indicativo 12.00-17.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 27 marzo 2017

Prairie Apple Brandy Barrel Noir

Quando si parla di beerfirm si pensa sempre al passaggio allo status di birrificio come coronamento di un percorso di crescita; ed è quello che è accaduto anche a Prairie, birrificio di Tulsa (Oklahoma) fondato dai fratelli Healey che ha operato per diversi anni come beerfirm per poi inaugurare, alla fine del 2015, il proprio brewpub. Prairie è tra i produttori craft più apprezzati della scena statunitense, nonostante non sia di certo tra quelli a buon mercato. Livello qualitativo molto alto, utilizzo di lieviti selvaggi, affinamenti in botte, belle etichette: Prairie aveva tutto il necessario per entrare nelle grazie dei beer-geeks e così ha fatto. Racconta Healey: “eravamo arrivati ad un punto in cui c’era bisogno di grossi cambiamenti per Prairie: più personale, nuovi impianti. La gente dirà che sono pazzo, ma io volevo continuare a fare birra, non gestire un’azienda di grosse dimensioni”.   
A giugno 2016 Healey ha ceduto  Prairie alla Krebs Brewing Co., il birrificio sui cui impianti Healey ha sempre prodotto le proprie birre.  “Era da un po’ che volevo acquistare una quota di Prairie – ha detto Zach Prichard, presidente di Krebs – e l’anno scorso si è presentata l’occasione di acquistare tutto il marchio. E’ un onore che Chase Healey abbia pensato a noi.” 
Lasciata Prairie, per la quale forse in futuro rivestirà il ruolo di “ambasciatore”,  Healey utilizza il ricvato della vendita per mettere un piedi un nuovo microbirrificio a Tulsa ed inaugurare, nella stessa estate 2016, il suo nuovo birrificio American Solera. 
Tra le birre che hanno contribuito alla “fama” di Prairie ci sono sicuramente le imperial stout; oltre alla Bomb!,  che utilizza caffè, cacao, vaniglia e peperoncino, esiste anche la più “semplice” Noir, un’imperial stout prodotta con avena e invecchiata in botti di bourbon. Come spesso avviene con le birre di successo, una volta indovinata la formula base ecco nascere le varianti:  Pirate Noir (botti di rum giamaicano), Coffee Noir (caffè + botti di whisky), Vanilla Noir (botti di whisky), Wine Noir (botti di vino rosso) e la Apple Brandy Barrel Noir che andiamo a stappare.

La birra.
Viene annunciata alla fine del 2014 la nuova variante Noir di Prairie che prevede un invecchiamento di sei mesi in botti che hanno ospitato Laird's Apple Brandy. L’accompagna – al solito – la bellissima etichetta disegnata da Colin Healey, fratello di Chase, che ha scelto di continuare a lavorare per Prairie anche dopo la vendita alla Krebs. L’immagine rimanda alla serie di videogiochi The Incredibile Machine, nata negli anni ’90: scopo del gioco è sistemare gli oggetti a disposizione in modo da scaturire una reazione a catena in grado da eseguire il compito richiesto. Nello specifico, si tratta di versare una birra nel bicchiere partendo da una serie di pedine del domino. 
Il numero stampigliato al laser sulla bottiglia è illeggibile, ma avendola acquistata nella primavera del 2015 dovrebbe trattarsi proprio del primo lotto prodotto di Prairie Noir. Assolutamente nera, forma nel bicchiere un modesto cappello di schiuma nocciola, un po’ grossolana e dalla discreta persistenza. Il naso è ricco e molto intenso, con il calore del brandy ad aprire la porta di casa e ad introdurre il bevitore in un percorso “goloso” che include caffè, cioccolato al latte, tostature, fruit cake, vaniglia, mela caramellata.  L’avena la rende estremamente morbida al palato: basta un sorso di questo liquido denso e viscoso per rendersi conto che è una di quelle birre che ti bastano per fare serata. Il gusto non tradisce le aspettative dell’aroma ed è altrettanto opulente: fruit cake, caramello, vaniglia e cioccolato, mela caramellata, delicate tostature e caffè prima che il caldo del brandy prenda la bevuta per mano e la concluda con un grandioso finale, lunghissimo ed appagante. 
Una solidissima imperial stout che viene impreziosita da un passaggio in botte molto ben riuscito ad arricchire la birra, senza sovrastarla, con le sue note di brandy, legno e di vaniglia; potenza ed eleganza vanno d’amore e d’accordo in una birra molto pulita che si colloca ad un livello davvero molto alto, impressionante. Per una volta, il prezzo del biglietto è caro ma non lascia rimpianti.
Formato: 35.5 cl., alc. 12%, lotto 2015, prezzo indicativo 11.00-12.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 26 marzo 2017

Extraomnes Guld

Arriva nel mezzo dell'estate 2015 la saison al mango di Extraomnes chiamata Guld; una birra che Luigi "Schigi" D'Amelio aveva in cantiere da un po' ma che è stata rimandata - sembra - a causa della morte improvvisa del cantante Pino Mango, avvenuta nel dicembre 2014. Sembra anche che in origine dovesse chiamarsi Goud, "oro" in fiammingo, nome poi mutato in Guld.  
Nella stessa estate vengono anche lanciate l'american pale ale Yanqui e la Egocentrique, versione barricata della  Ciuski  (maturata per tre mesi in botti ex-whiskey Laphroaig)  belgian ale aromatizzata allo zenzero le cui sole ottocento bottiglie prodotte vengono esaurite in pochi giorni.
Da allora non so se la ricetta della Guld sia stata leggermente modificata: sui vari siti di beer-rating viene ancora chiamata "saison al mango", ma l'etichetta della bottiglia tra le mie mani dichiara l'utilizzo di una "purea concentrata di frutta tropicale (ananas, mango, passion fruit e guava)".

La birra.
All'aspetto è di colore arancio pallido, opalescente, e forma un buon cappello di schiuma bianca e cremosa, un po' grossolana ma dalla buona persistenza. L'intensità dell'aroma non è molto elevata ma c'è un ottimo livello di pulizia che permette d'apprezzare il carattere rustico del lievito saison affiancato da ananas, mango, passion fruit, agrumi; in sottofondo s'avvertono anche i profumi di crackers, crosta di pane. 
Al naso la frutta non è la caratteristica dominante, probabilmente anche a causa dei dieci mesi passati dall'imbottigliamento, ma al palato le cosa sono molto diverse. La base maltata è piuttosto leggera e la bevuta vira subito su di un fruttato piuttosto intenso e ricco di passion fruit e mango, protagonista della parte centrale della bevuta. Dal tropicale si passa agli agrumi, con un finale molto secco, zesty e terroso, tipico di molte produzioni Extraomnes. L'elevata carbonazione rende la bevuta molto vivace, scongiurando qualsiasi rischio di "effetto succo di frutta": la birra scorre veloce con un elevatissimo potere rinfrescante e dissetante. Mente l'aroma è abbastanza bilanciato, al gusto la frutta va ben oltre la semplice aromatizzazione e domina la bevuta: comunque si faccia, difficile mettere d'accordo tutti, quelli che pensano che ne sia troppa e quelli che invece ne vorrebbero di più. Per il mio gusto personale al palato trovo la "componente saison" un po' troppo offuscata dalla frutta, con il risultato di una birra buona, pulita e godibile che tuttavia, terminato il bicchiere, non mi invoglia a chiederne un secondo. Un divertissement  che non aggiunge molto al portfolio alla gamma Extraomnes, una birra forse superflua ma capisco anche che non si può vivere solo di Blond e Zest. O forse sì?
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, lotto 137 16, scad. 30/11/2017, prezzo indicativo 4.00/5.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 24 marzo 2017

Thornbridge Eldon

Lo scorso gennaio il birrificio inglese Thornbridge  ha annunciato l’abbandono delle bottiglie da mezzo litro, il classico formato inglese, in favore di quello da 33 centilitri utilizzato da quasi tutti i birrifici protagonisti della UK craft beer revolution: una scelta, dicono, guidata dalle richieste dei clienti. Questi ultimi sono però da intendersi come bar e distributori, più che utenti finali. Se la scelta può essere comprensibile per birre dall’alto contenuto alcolico (Bracia), lo stesso non si può dire per quelle da bere in grandi quantità come ad esempio Kipling, Jaipur, Chiron; il sospetto è – purtroppo – che il passaggio dalle bottiglie più piccole consentirà al birrificio e ai rivenditori di aumentare la propria marginalità, visto che difficilmente il bevitore pagherà lo stesso prezzo al litro. Il nuovo formato è sicuramente appropriato per la nuova imperial stout chiamata Eldon che Thornbridge lancia a febbraio 2016 e che affianca la storica Saint Petersburg
Il nome fa riferimento all’Eldon Hole che si trova all’interno del Peak District National Park nel Derbyshire. La cavità, profonda una sessantina di metri, fu percorsa per la prima volta nel 1780 dal signor Lloyd che pubblicò poi il racconto della sua avvenuta nel libro On foot through the Peak di James Croston. L’Eldon Hole è una delle principali attrazioni del parco ed ha fatto nascere diverse leggende: la prima narra di un’oca che, avventuratasi nella cavità, scomparve per riapparire qualche giorno dopo in una caverna di Castleton a ben cinque chilometri di distanza; anche il racconto di Lloyd parlava di un corso d’acqua sotterraneo che scorreva alla base della cavità, ma nessun esploratore ne ha mai trovato traccia. Nel quindicesimo secolo un uomo vi si calò legato da una corda lunga un miglio ma non riuscì a toccare il fondo; un secolo dopo un altro uomo tentò la discesa per risalire poco dopo in preda al terrore ed incapace di parlare. Morì pochi giorni dopo, e da allora si pensò all’Eldon Hole come al rifugio del diavolo, ad una porta d’accesso all’inferno. 

La birra.
Eldon, Bourbon Oak Imperial Stout: non si tratta di un birra invecchiata in botte ma prodotta con chips di rovere imbevute nel bourbon e, come segnalato in etichetta, vaniglia. Si presenta di colore ebano scurissimo, quasi nero, con un bel cappello di schiuma cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L’aroma è piuttosto dolce, a tratti quasi sciropposo: a melassa, vaniglia, ciliegia e frutti di bosco “rispondono”  accenni di tostature, cioccolato e soprattutto caffè in chicchi. La sensazione palatale privilegia la scorrevolezza sacrificando la morbidezza: il corpo è medio e la consistenza piuttosto leggera  è più simile all’acqua che all’olio. Al gusto c'è una buona corrispondenza con l'aroma: si parte con il dolce di caramello e melassa, uvetta, vaniglia e fruit cake, le tostature partono in secondo piano per aumentare leggermente d'intensità ma è sopratutto il caffè a portare equilibrio. Davvero difficile pensare che non sia annoverato tra gli ingredienti. Non c'è legno ma è il calore del bourbon ad attraversare tutta la bevuta con il suo calore per poi riscaldarla con maggior vigore nel finale, ricco di caffè, tostature e cioccolato.
Considerata la gradazione alcolica non eccessiva (8%), la Eldon di Thornbridge è un'imperial stout molto intensa ma un po' incompiuta: pulita ma non del tutto amalgamata, con dolce e amaro che viaggiano a tratti su due binari paralleli senza mai incontrarsi e qualche spunto dolce sciropposo un po' eccessivo. Consistenza un po' esile per il mio gusto ma livello abbastanza buono: le chips imbevute di bourbon non sono ovviamente la stessa cosa di un passaggio in botte.
Formato: 33 cl., alc. 8%, scad. 05/02/2018, prezzo indicativo 5.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 23 marzo 2017

Founders Backwoods Bastard

Ci sono delle birre che fanno la fortuna di un birrificio, e la Dirty Bastard è una di quelle. Il birrificio Founders, aperto nel 1997 a Grand Rapids (Michigan) da Mike Stevens e Dave Engbers, non se la stava passando troppo bene: le birre prodotte non ottenevano grandi consensi e la  situazione finanziaria peggiorava di mese in mese. Non riuscivano più a pagare l'affitto, le rate del prestito e si trovavano con otto mesi di tasse arretrate: a giugno del 2001 la United Bank notificò  ai birrai sei giorni di tempo per rientrare di 550.000 dollari. Prima di dichiarare bancarotta, Stevens ed Engbers fecero un ultimo tentativo andando a parlare con Peter C. Cook, un famoso uomo d'affari e noto filantropo di Grand Rapids; dopo un paio di giorni i birrai ricevettero una telefonata da parte della banca ad annunciare che il signor Cook si era personalmente fatto garante del loro debito. 
Per invertire la rotta, Mike e Dave chiamarono a lavorare con loro il birraio Nate Walser (ex New Holland Brewing Co.) per rivoluzionare completamente l'offerta delle birre, sostituendo le birre semplici ed anonime prodotte sino ad allora con altre molto più robuste, complesse e impegnative.
"Le nostre birre erano buone ma non eccezionali – ricorda Engbers – facevamo birre che potessero piacere a tutti, ma erano esattamente le stesse birre prodotte da tutti gli altri birrifici del Michigan: una Pale Ale, una Amber Ale, una birra di frumento, una scura. Capimmo di dover iniziare a fare qualcosa di diverso. A quel tempo le IPA non erano così di moda, iniziammo a produrre la Centennial IPA e la gente al bancone ce la rimandava indietro dicendo di non riuscire a berla, era troppo amara. In quel periodo andavano forte le Amber Ales e così realizzammo una nuova birra molto maltata e alcolica per poterci risollevare dalla difficile situazione finanziaria. Pensammo al nome Fat Bastard, ma dopo esserci consultati con i legali scoprimmo che quel nome era già stato registrato da un produttore di vini. All’avvocato chiesi di verificare se il nome Dirty Bastard fosse disponibile, lui mi rispose che era una pazzia pensare di usare quel nome e io gli dissi: “non sappiamo neppure se tra qualche mese saremo ancora in attività, chi se ne frega”. Improvvisamente, invece che una Red Ale, una Porter ed una Pale Ale eravamo diventati quelli che producevano la Dirty Bastard, una bomba maltata con 8% di ABV. La gente iniziò a parlare di noi, aprirono siti come BeerAdvocate e RateBeer e noi partecipammo attivamente alle discussioni sui forum rispondendo alle persone: il successo della Dirty Bastrd ci convinse che quella era la direzione giusta da prendere: tutte le nostre birre diventarono più potenti e più complesse. Iniziammo a fare le birre che ci piacevano bere, non quelle che pensavamo sarebbero piaciute alle persone. Arrivarono la Breakfast Stout, la Curmudgeon e la Devil Dancer.” 
Tutte birre che ottennero uno straordinario successo e contribuirono in maniera decisiva a portare Founders tra i più grandi ed apprezzati produttori del Michigan e di tutta la scena craft statunitense: la moda delle IPA vide poi Founders protagonista prima con la Centennial IPA e poi con la All Day IPA, che oggi occupa la maggior parte della capacità produttiva del birrificio.

La birra.
Nel 2003 Founders presenta la versione barricata della Dirty Bastard: il nome scelto è Backwoods Bastard (il bastardo che vive in un luogo remoto, isolato, lontano da tutto) e la birra è accompagnata dalla solita bella etichetta disegnata da Grey Christian. Le botti trovano oggi posto nei sotterranei del birrificio, un’impressionante serie di corridoi e cunicoli lunga sei miglia che un tempo venivano utilizzati per estrarre il gesso e che Founders ha preso in affitto. Dai quattro barili ex-bourbon posseduti dal birrificio nel 2002 si è arrivati ai 4700 del 2014: l’aumento della quantità va purtroppo spesso a discapito della qualità e il discorso si può applicare anche a Founders. Le sue birre barrel-aged (KBS su tutte) non sono - dicono - più quelle di una volta ma sono accessibili a molte più persone.
La Backwoods Bastard è una produzione stagionale che arriva ogni anno nel mese di novembre; la gradazione alcolica sale all'8.5% della Dirty Bastard all'11.1%. Ciò nonostante, leggo su forum di appassionati americani che non è una birra che invecchia particolarmente bene e quindi stappiamo subito l'edizione 2016 che è arrivata anche in Europa.
Il suo colore è uno splendido ambrato carico, limpido ed impreziosito da intensissimi riflessi rosso rubino; la schiuma color crema è cremosa e compatta ed ha un'ottima persistenza. Al naso il bourbon accompagna i profumi di melassa, biscotto, uvetta, prugna e ciliegia; in secondo piano legno e vaniglia, suggestioni terrose e un filo di fumo. Al palato è davvero molto morbida, con un corpo quasi pieno e una carbonazione bassa: il palato viene avvolto da un liquido intenso che riscalda senza mai bruciare, con il bourbon protagonista assieme agli stessi elementi che hanno composto l'aroma. La bevuta è piuttosto dolce ma ben asciugata dall'alcool che viene aiutato dal lieve amaro finale, terroso e resinoso, dei luppoli. Il retrogusto è davvero lunghissimo e ricco di bourbon, legno e tanta frutta sotto spirito. Scotch Ale potente ma non difficile da sorseggiare, molto pulita e in grado di riscaldare perfettamente i gelidi inverni del Michigan: più che il contenitore (legno, vaniglia) è il suo contenuto (bourbon) a dare la caratterizzazione, con un risultato finale non eccellente ma sicuramente molto, molto buono.
Formato: 35.5 cl., alc. 11.1%, IBU 50, scad. 06/04/2017.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 22 marzo 2017

Inglorious Quad

I fratelli gemelli Erwin e Benny Van Aerschot sono avidi collezionisti di birre che, in occasione del loro trentesimo compleanno, a settembre 2012, ricevono in regalo dalle proprie mogli l’iscrizione ad un corso sull’homebrewing organizzato dal birrificio Alvinne, in Belgio. In poco tempo il garage di Erwin si trasforma in una sorta di birrificio casalingo pieno di pentole e fermentatori; un anno dopo iscrivono quasi per gioco la loro quinta ricetta alla Brouwland Biercompetitie, un concorso per homebrewers che regala al vincitore una cotta da 500 litri presso il birrificio Anders seguita dalla distribuzione delle bottiglie per tre mesi nei supermercati Delhaize.  E’ il giugno del 2014 e, sorprendentemente, la quadrupel prodotta dai Van Aerschot si aggiudica il primo premio tra i 146 partecipanti. 
Se siete assidui lettori del blog ricorderete un percorso identico fatto dai  Vliegende Paard Brouwers (concorso del 2011) e dai De Lustige Brouwers (2013): curiosamente anche questi homebrewers hanno vinto con una Quadrupel. 
Nell’ottobre dello stesso anno nasce la beerfirm Inglorious Brew Stars BVBA, che si appoggia agli impianti di Anders e sceglie il proprio nome ispirandosi al film Bastardi Senza Gloria (Inglourious Basterds) di Quentin Tarantino. La Quadrupel vincitrice del concorso, chiamata Inglorious Quad, viene affiancata nella primavera del 2015 dalla Belgian IPA chiamata Cum Laude, scelta come birra “ufficiale” dell’Università di Anversa, dove i gemelli  Van Aerschot avevano studiato. Nello stesso anno la Inglorious Quad vince una medaglia d’oro al Brussels Beer Challenge nella categoria 5 Strong Dark Ales. Nel febbraio 2016 esce la versione barricata della quadrupel (botti ex whisky della distilleria Belgian Owl) e, a maggio, una nuova IPA chiamata Amis Fleur #892 e realizzata in occasione della sfilata di carri floreali Bloemencorso di Loenhout.

La birra.
Quadrupel sorprendentemente scura nel bicchiere, si presenta di color ebano molto prossimo al nero, con una cremosa e compatta testa di schiuma che mostra una buona persistenza. L’aroma è invece molto più tradizionale; la delicata speziatura del lievito accompagna il dolce del caramello e del biscotto al burro, lo zucchero candito, la pera e l’uvetta. In sottofondo una leggerissima presenza di verdure cotte che tutta via non ne pregiudica la piacevolezza. Le sorprese ritornano al palato dove i primi sorsi evidenziano una presenza inattesa di tostature e di caffè che vengono pian piano fatte scivolare in secondo piano dagli altri elementi più convenzionale per questo “stile”: caramello, pera, uvetta e prugna. Il dolce ed il calore della frutta sotto spirito viene ben bilanciato da un finale generosamente luppolato, a tratti quasi “rinfrescante”, che ben ripulisce il palato in attesa del sorso successivo. Chiude il percorso con un pelo d’astringenza ed un retrogusto caldo di frutta sotto spirito e un accenno di caffè. 
Una Quadrupel/Belgian Strong Dark Ale godibile e abbastanza ben fatta che mantiene un’ottima bevibilità nonostante un contenuto alcolico (10,3%) abbastanza importante: qualche lieve imprecisione non pregiudica comunque una bevuta piacevole e intensa.
Formato: 33 cl., alc. 10.3%, scad. 12/02/2017, 1.90 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 21 marzo 2017

Lervig / Hoppin' Frog Sippin Into Darkness

Il 2016 si è rivelato ricco di collaborazioni per il birrificio dell’Ohio Hoppin' Frog,  fondato nel 2006 dal birraio  Fred Karm ad Akron; il birrificio esporta in Europa dal 2008 e ha voluto nuovamente collaborare, ripetendo l’esperienza del 2012, con alcuni birrifici del nostro continente.  L’Hoppin Frog 2016 European Collaboration Tour ha coinvolto i danesi della Dry &  Bitter per una Baltic Porter, la beerfirm To Øl (SS Stout),  gli inglesi di Siren (la piccante 5 Alarm) e i norvegesi di Lervig con la massiccia Sippin Into Darkness Imperial Stout. 
Secondo il libro di Tony Abou-Ganim “Vodka Distilled: The Modern Mixologist on Vodka and Vodka Cocktails”, il cocktail chiamato Chocolate Martini fu inventato da Rock Hudson ed Elizabeth Taylor quando si trovavano a Marfa (Texas) per le riprese del film “Il Gigante”: i due attori vivevano in due villette adiacenti, diventarono amici e si ritrovavano spesso la sera a far tardi con un bicchiere in mano. “Eravamo così giovani – ricordava Hudson – potevamo mangiare e bere tutto quello che volevamo e non sentivamo mai il bisogno di dormire. Una sera inventammo il miglior drink che mi sia mai capitato di bere, un Martini al cioccolato fatto con vodka, sciroppo di cioccolato Hershey's e Kahlúa (un liquore messicano al gusto di caffè). Non so come siamo riusciti a sopravvivere.”  Anche se tecnicamente non era un Martini, la bevanda inventata quella sera divenne molto popolare a Hollywood ispirando poi la nascita di una serie di miscelati al cioccolato: moltissime le varianti che vengono oggi chiamate Chocolate Martini, quasi tutte basate su vodka e un liquore al cioccolato ai quali vengono poi aggiunti ingredienti a fantasia, come ad esempio vaniglia, menta, lamponi, panna. 

La birra.
Questo cocktail è anche l’ispirazione presa dai birrifici Lervig (Norvegia) ed Hoppin Frog (USA) per una massiccia (12%) imperial stout collaborativa chiamata Sippin Into Darkness:  come mostra questo breve video-documentario, i due birrai Mike Meyers e Fred Karm si ritrovano a Stavanger, Norvegia per realizzare una ricetta che prevede anche avena, zucchero candito, lattosio, fave di cacao e vaniglia. La versione europea inizia a circolare a luglio 2016, in fusti ed in bottiglia da 33 centilitri; la ricetta viene poi replicata sugli impianti di Hoppin Frog e debutta sul mercato americano (fusti e bottiglia da 65 cl.) il 15 ottobre 2106 con una gradazione alcolica leggermente inferiore (10%). Alla taproom del birrificio dell’Ohio potevate acquistare le prime bottiglie al prezzo di 10.99 dollari più tasse, ovviamente. 
Nera, davvero impenetrabile, riempie il bicchiere con un denso liquido sormontato da un discreto cappello di schiuma, cremosa, compatta e dalla buona persistenza. Al naso cioccolato al latte, frutta secca, melassa e gianduia ma soprattutto tanta vaniglia: il dolce è davvero notevole, l’eleganza non è la caratteristica principale di un aroma che tuttavia riesce a non scivolare nell’artificiosità. In bocca è piena e poco carbonata, avvolgendo completamente il palato con una viscosità morbida che non sconfina nel catramoso o nel masticabile: sorseggiarla non è così complicato anche perché l’alcool (12%) è stato ben addomesticato. Il “problema” di questa birra – almeno per me – è che s’addentra troppo nell’amato/odiato territorio delle “birre-dessert”, se mi passate il termine. Hoppin Frog e Lervig producono entrambi ottime imperial stout, robuste, massiccie, dure, intense: B.O.R.I.S., D.O.R.I.S. e Konrad’s Stout sono davvero notevoli.  Sippin Into Darkness è ovviamente una birra che non vuole andare in quella direzione, ma perché non mantenere una di quelle basi ed aggiungere solo una leggera caratterizzazione? Qui la componente dessert (vaniglia, cioccolato al latte, caramello, biscotto) domina nettamente la birra con un risultato che s’avvicina pericolosamente allo stile Omnipollo.  Per fortuna non c’è quella sensazione di artificiosità così marcata ma è la classica birra che, dopo la “meraviglia” dei primi sorsi, inizia a stancarmi; l’amaro è quasi assente, caffè e tostature hanno solo il compito di bilanciare il dolce, aiutati dal luppolo che a fine corsa contribuisce a ripulire un po’ il palato. Il finale è piuttosto lungo, con il calore della frutta sotto spirito che avvolge vaniglia e caramello. 
Livello sicuramente alto se applicato al concetto di “birra-dessert”: se invece non amate particolarmente questo tipo di birre, pensateci bere prima di decidervi ad un acquisto che non è esattamente tra i più economici. Per me è un "ni".
Formato: 33 cl., alc. 12%, IBU 50, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 6.00/7.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 20 marzo 2017

Ca' del Brado Piè Veloce Brux

“Cantina brassicola”, questo il modo in cui ha scelto di autodefinirsi Ca' del Brado, nuova realtà che ha aperto le porte nel dicembre 2016 a Pianoro (Bologna); non si tratta di un birrificio in quanto non ha impianti di produzione propri ma non si tratta neppure di una semplice beerfirm. Quello che Ca’ Del Brado fa è occuparsi della trasformazione del mosto di malto a birra: il primo viene prodotto su impianti terzi e viene poi fermentato e affinato/invecchiato all’interno delle varie botti posizionate nella cantina.  La Ca’ (Casa) è il luogo dove questi lieviti (tradizionali e selvaggi) e batteri operano trasformando la materia grezza (mosto) in birra: quello che viene iniziato dall’uomo è poi portato a termine dal tempo, ed ecco spiegato l’utilizzo del termine “brado”. Brado come “lento”, in quanto gli affinamenti possono durare da alcuni mesi ad anni; brado come “libero nel suo ambiente naturale”, in quanto l’operato dei batteri naturalmente presenti nel legno non è completamente controllabile dall’uomo. 
Va da sé che dietro a questo progetto ci dev’essere la passione per le birre acide, a fermentazione selvaggia e spontanea: è questo il tratto che accomuna i quattro fondatori (Mario Di Bacco, Luca Sartorelli, Andrea Marzocchi e Matteo d’Ulisse), tutti membri dell’associazione BrewLab di Bologna che ha al suo attivo l’organizzazione di festival, degustazioni ed incontri tra homebrewers. 
Sul sito internet di Ca' del Brado, davvero molto curato, trovate tutte le informazioni non solo sulle birre ma su di ogni singolo lotto prodotto e sulle botti che sono state utilizzate: al momento la cantina dispone di due botti da circa 3000 litri, dieci tonneaux da circa 500 litri ciascuno e sette barriques da 250 litri. 
Ca' del Brado ha debuttato con due birre fermentate esclusivamente con brettanomiceti: Veloce Brux (dicembre 2016) e Piè Veloce Lambicus (gennaio 2017), seguite da altre due versioni che hanno ricevuto dry-hopping (Cascade e Styrian Golding, rispettivamente) al termine della maturazione in botte al fine di accentuare la componente aromatica. A febbraio è arrivata la farmhouse ale Invernomuto affinata sei mesi in botte.

La birra.
Debutta il 14 dicembre 2016 in alcuni locali selezionati la Piè Veloce Brux di Ca’ del Brado: il contrasto tra il nome della birra (ossia il soprannome dato ad Achille, eroe della mitologia greca celebre per la sua velocità della corsa) e quello di una “cantina brassicola” che ha scelto di utilizzare lo scorrere del tempo come elemento fondamentale del processo produttivo è solo apparente. Sotto alla gamma “Piè Veloce” vengono infatti incluse quelle birre che maturano "solo" più rapidamente delle altre; nello specifico, la Piè Veloce Brux viene fermentata con Brettanomyces Bruxellensis e affinata per circa due mesi in una grande botte di rovere da 3150 litri costruita negli anni ’60 e rigenerata internamente, che conteneva vino nebbiolo. 
Grazie all’utilissima sezione “cerca lotto” sul sito di Ca’ Del Brado è possibile conoscere tutta la storia di quello che avete nel bicchiere: il mosto è stato prodotto dal birrificio Brewfist il 16/09/2016: malto pilsner 72%, frumento in fiocchi  15%,  malto segale 8%, Carapils 8%, luppolo Amarillo, lievito White Labs Brettanomyces Bruxellensis. La fermentazione è avvenuta direttamente in botte, la maturazione in legno è durata circa due mesi: l’imbottigliamento è avvenuto il 19/11/2016 e, dopo un mese circa d’affinamento, la birra è stata messa in vendita. 
Il suo colore è un bel dorato pallido velato: si forma una testa di schiuma bianca non molto generosa e un po’ grossolana, abbastanza veloce a collassare nel bicchiere. Al naso c’è un bouquet pulito nel quale trovano posto le note lattiche, di legno e di “cantina”, gli agrumi, l’uva acerba e il ribes, l’ananas. Il percorso continua in linea retta al palato, dove scorre facilmente ma ha un unico difetto: bollicine quasi assenti, con il risultato di una birra non particolarmente vivace. Il suo profilo è “gentilmente” acido senza particolari asperità: il lattico attraversa tutta la bevuta affiancato dal legno, dall’asprezza della frutta acerba e degli agrumi, mentre in sottofondo c’è un velo dolce di pesca gialla ed ananas. La chiusura è delicatamente amara (lattico, scorza d’agrumi) e piuttosto secca, con un elevatissimo potere rinfrescante e dissetante: l’alcool (7.4%) è davvero impercettibile. 
Una sour ale precisa e piuttosto pulita, non priva di una certa eleganza: le mancano un po’ di bollicine e – secondo me – quelle imprecisioni/imperfezioni che spesso poi riescono a regalare le più belle emozioni in una birra. Nonostante la sua personalità ancora giovane e in divenire, mi sembra un debutto piuttosto positivo per una “cantina brassicola” che mostra d'avere idee chiare e un ottimo potenziale a disposizione. Le birre acide sono una piccola nicchia all’interno della nicchia della cosiddetta birra artigianale, soprattutto se guardiamo al mercato italiano: un grosso in bocca al lupo al coraggio di Cà del Brado.
Formato: 37.5 cl., alc. 7.4%, lotto 16001, imbott. 19/11/2016, scad. 17/11/2021, prezzo indicativo 7.00 Euro (beershop,)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 17 marzo 2017

Firestone Walker Velvet Merlin

Ritorna sul blog il birrificio californiano Firestone Walker fondato nel 1996 da Adam Firestone e David Walker a Paso Robles, Contea di Santa Barbara e, dall’estate 2015, partner dei belgi della Duvel Moortgat il cui denaro è stato utilizzato per finanziare un ambizioso piano d’espansione. I dettagli dell’accordo tra le due imprese private non sono stati resi noti, ma nel 2016 Firestone Walker è stato in grado di lanciare le prime lattine, inaugurare la Barrelworks di Buellton, una sede dedicata esclusivamente agli invecchiamenti in legno, e la nuova succursale con brewpub e ristorante di Venice Beach a Los Angeles. 
Nel 2004 il birrificio aveva lanciato la sua prima stout all’avena, elaborazione di una ricetta che il birraio Matt Brynildson aveva realizzato da homebrewer traendo ispirazione dal libro The Real Ale Almanac di Roger Protz. La birra, come prevede la prassi, venne “benestariata” dai proprietari Adam Firestone e David Walker che decisero di introdurla inizialmente come produzione autunnale disponibile solo alla taproom del birrificio: il nome scelto fu Velvet Merkin. Solo in seguito, quando la crescente  domanda dei clienti per birre “scure” ne permise la produzione su grande scala, venne decisa la messa in bottiglia: a quel punto il problema era nome.  Il termine “merkin” in inglese indica infatti una “mini parrucca" che viene utilizzata per coprire i genitali e che, al giorno d’oggi, viene utilizzata dall’industria cinematografica quando bisogna girare delle scene di nudo. 
Per la distribuzione al grande pubblico la birra fu allora rinominata Velvet Merlin, un riferimento al mago Merlino ma anche al soprannome del birraio Brynildson: “inizialmente non ero contento, ma poi ho dovuto ammettere che potevano sorgere dei problemi a distribuire una birra chiamata Velvet Merkin. Dopo tutto la parola davvero importante nel nome è Velvet (velluto) in quanto descrive la consistenza che ho voluto dare a questa birra”. 
Scomparso dai radar, il nome Velvet Merkin dopo qualche anno d’assenza è ritornato quando il birrificio ha deciso di far uscire una versione barricata della Velvet Merkin, leggermente modificata e con aggiunta di lattosio.

La birra.
La ricetta prevede malti Maris Otter, 2-Row Pale, Roast Barley, English Dark Caramel, Medium Caramel, Carafa  e avena (15%); l’unico luppolo utilizzato è il Fuggle (coltivato negli Stati Uniti). Il suo colore è un ebano scurissimo e forma un generoso cappello di schiuma beige cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. Ad un aspetto perfetto fa seguito un naso molto pulito e abbastanza elegante: orzo tostato, pane nero e caffè disegnano un bouquet arricchito da dettagli di mirtillo, cioccolato, cenere. La sensazione palatale non è esattamente vellutata ma comunque morbida e molto gradevole: davvero notevole per un birra dal contenuto alcolico non eccessivo (5.5%).  La bevuta è molto bilanciata con l'orzo tostato ed il caffè bilanciati da caramello ed un velo di liquirizia; le tostature sono delicate ed eleganti, aumentano leggermente d'intensità solo nel finale dove accanto al caffè compare anche qualche suggestione di cioccolato. Elegante e molto pulita, facilissima da bere; stout semplice dove però ogni cosa è al punto giusto e non ti fa desiderare null'altro. Impeccabile esecuzione di una ricetta che non necessita di orpelli o artifizi, all'insegna del "less is more".
Formato: 35.5 cl., alc. 5.5%, IBU 27, imbott. 01/12/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 16 marzo 2017

Magic Rock Inhaler

Ritorna sul blog il birrificio inglese Magic Rock, del quale vi avevo già parlato in queste occasioni e che nel 2015  ha finalmente trovato una nuova casa nel sobborgo di Birkby (Huddersfield, West Yorkshire): i nuovi impianti  (10.000 hl/anno con possibilità di arrivare sino a 70.000) hanno finalmente permesso di ampliare la distribuzione che, a parte qualche rara bottiglia, era avvenuta esclusivamente tramite fusti. La scelta è caduta sulle (modaiole) lattine che sono cominciate ad arrivare anche nel nostro paese con un rinnovamento alle già belle etichette delle bottiglie d’esordio: la parte grafica è da sempre curata dal designer Richard Norgate, che dopo aver legato l’identità visiva di Magic Rock al mondo del circo si è ultimamente dedicato a disegnare simpatici piccoli mostri. 
Juicy è l’aggettivo più di moda tra i beergeeks ed anche Stuart Ross, head brewer di Magic Rock, non si sottrae alla sfida: se la “juicy” finisce poi in una lattina e se il birraio ha vinto un premio per la sua barba (sic!), l’hype aumenta esponenzialmente. 
Inhaler è la Pale Ale (o Session IPA, secondo Ratebeer) che debutta a marzo 2016 in fusto ed il mese successivo in lattina. Non si tratta esattamente di una birra che cerca di imitare le New England IPA ma vuole enfatizzare il carattere “fruttato” e succoso conferito dal late e dry-hopping: l’ispirazione – ammette Ross – è venuta dalle produzioni di un altro birrificio inglese molto in voga, Cloudwater:  “è innegabile che il nostro birrificio si sia inizialmente ispirato alle IPA della West Coast, più amare e limpide all’aspetto. Ma dopo aver bevuto alcune IPA americane e inglesi torbide e poco amare ed aver collaborato con il birrificio Other Half  di Brooklyn, devo dire che anche noi ci sentiamo ispirati da questa nuova tendenza che ha preso piede nell’ultimo anno".

La birra.
Malti Crystal T50, Golden Promise e Imperial, luppoli Amarillo, Citra, Equinox, Galaxy, Mosaic e Simcoe: a questi ingredienti il compito di realizzare una Pale Ale sessionabile (4.5%) e “juicy”.  Nel bicchiere è di color arancio carico piuttosto opalescente e forma una testa di schiuma biancastra un po’ grossolana ma dalla buona persistenza. La frutta che domina l’aroma è piuttosto dolce, zuccherina, matura: mango, passion fruit, ananas, melone, pompelmo rosa. L’intensità è buona mentre pulizia ed eleganza, come sovente accade per queste birre che mirano al “juicy”, hanno ampi margini di miglioramento. Il corpo è medio-leggero, con poche bollicine e quella ottima scorrevolezza che ogni session beer deve avere: non ci sono aspirazioni di cremosità. Al palato c’è davvero una notevole intensità ma anche qui la finezza non è di casa: dominano gli stessi frutti dell’aroma che lasciano giusto intravedere la base maltata (biscotto); l’amaro è di modesta intensità, si muove sulle coordinate erba/vegetale/resina ma finisce per “raschiare” un po’ in gola. Il risultato?  Interpretate l’aggettivo “juicy” in senso lato: nessuno sguardo al New England ma piuttosto una session beer davvero molto intensa ma un po’ rozza. Se siete disposti a sacrificare l’eleganza in favore del carattere “succoso”, questa è per voi. Per il resto la gamma Magic Rock offre molte altre alternative che valorizzano quello che qui è stato sacrificato: Ringmaster (3.9%) e High Wire (5.5%)
Formato: 33 cl., alc. 4.5%, lotto illeggibile, scad. 21/06/2017, prezzo indicativo 4.00/4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 15 marzo 2017

Zipfer: Meisterwerke 2016 Pils Calypso & Meisterwerke 2016 Pale Ale Calypso

Torniamo in Austria ad affrontare le birre “crafty”, ovvero prodotti industriali che emulano quelli artigianali cercando d’intrufolarsi nello stesso segmento di mercato, spesso a prezzi più competitivi. Vi avevo parlato qualche tempo fa dell’offerta di Stiegl, birrificio dai grandi numeri ma ancora in mano ad un famiglia, la Huemer-Kiener. 
Un altro dei grandi giocatori sul mercato domestico austriaco è il marchio Zipfer, birrificio fondato nel 1842 da Friedrich Hofmann nella città austriaca – ovviamente – chiamata Zipf; il birrificio non ebbe gran successo e nel 1858 fu acquistato a prezzo di “saldo” dal banchiere Franz Schaup. Questa famiglia lo controllò sino al 1970, riuscendo a sopravvivere ai disastri delle due guerre mondiali; in quell’anno avvenne la fusione con il brrificio Brau AG, già proprietario di diversi altri marchi austriaci. La Brau AG continuò ad accorparsi con altri birrifici cambiando nome ad ogni operazione:  la denominazione attuale Brau Union Österreich AG risale al 1993 quando avvenne la fusione con la Steirerbrau. La Brau Union venne fagocitata nel 2003 dal gruppo Heineken per 769 milioni di euro: si formò allora  il più grande produttore di birra dell'Europa centrale ed orientale, che oggi controlla il  60% del mercato austriaco (nove milioni di ettolitri circa) con sette siti produttivi e una quindicina di marchi tra i quali, oltre a quelli di Heineken, ci sono Edelweiss, Gösser, Kaiser, Puntigamer, Reininghaus, Schladminger, Schlossgold, Schwechater, Wieselburger e Zipfer: praticamente quasi tutto quello che trovate da bere nel locali dell'Austria! 
A settembre 2016 Zipfer annuncia la nascita di due ambiziose Meisterwerke, ovvero "capolavori": due birre prodotte in autunno con una varietà di luppolo appena raccolta, nel caso specifico l'americano Calypso, che viene utilizzata per il dry-hopping.

Le birre.
Partiamo con una Pils dorata e perfettamente limpida che forma un bel cappello di schiuma fine, bianca e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma non brilla per intensità o finezza ma è nel complesso pulito: profumi erbacei, qualche remoto ricordo d'agrumi, cereali ed una delicatissima speziatura. Bene la sensazione palatale, scorrevole e morbida: il "pericolo acquosità" che affligge molte birre industriali é scampato. Il gusto segue fedelmente l'aroma nel riproporre pane e cereali, un tocco di miele e di agrumi, un finale amaro erbaceo  delicatamente speziato dalla discreta intensità. Abbastanza secca, pulita e bilanciata, non regala molte emozioni ed è priva di quella fragranza che vorresti sempre trovare in una pils. Una pils scolastica e precisa con un lieve carattere agrumato conferitole dal luppolo americano; l'intensità complessiva è buona, direi quasi quasi una piacevole sorpresa per quello che è un prodotto industriale. 

L'American Pale Ale si presenta di un colore dorato un po' più carico e leggermente velato; la schiuma è generosa e perfettamente cremosa e compatta. Il naso predilige la delicatezza all'intensità,   purtroppo la freschezza lo ha già abbandonato: profumi floreali e di marmellata d'agrumi provano a replicare il bouquet dell'American Pale Ale per eccellenza, la Sierra Nevada. Anche questa Zipfer è piuttosto gradevole al palato: corpo e carbonazione nella media, mouthfeel morbido ma forse un pochino pesante a livello tattile. Caramello, biscotto e cereali formano una base maltata che rimane in secondo piano lasciando il palcoscenico al pompelmo. Anche qui c'è una buona intensità che non è tuttavia valorizzata dalla necessaria fragranza e freschezza: dopo tutto dovrebbero essere ormai sei i mesi passati dalla messa in bottiglia. Un po' deludente il finale, dove l'amaro vegetale e terroso, di modesta intensità, si mostra molto meno elegante di tutto quello che l'ha preceduto.
Nel complesso anche questa crafty industriale non è affatto disastrosa come alcuni prodotti simili che si trovano sugli scaffali dei supermercati italiani. L'intensità è tutto sommato buona, non ci sono ovviamente emozioni ma alla fine il prodotto risulta molto più godibile di alcune "vere" artigianali austriache che s'incontrano nella stessa sezione delle "craft biere" dei supermercati austriaci. Elemento che dovrebbe fare riflettere visto che la differenza di prezzo, al contrario di quanto avviene in Italia, non è così ampia rispetto ai prodotti dei microbirrifici. Tra le due Zipfer Meisterwerke la pils mi sembra comunque un gradino sopra rispetto all'American Pale Ale.

Nel dettaglio:
Pils Calypso, 33 cl., alc. 5.2%, IBU 33, lotto 374G2, scad. 06/2017, 1.39 Euro (supermercato, Austria)
Pale Ale Calypso, 33 cl., alc. 5.4%, IBU 35, lotto 372G2, scad. 06/2017, 1.39 Euro (supermercato, Austria)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 14 marzo 2017

CRAK / Nøgne Ø NEIPA

Inizia nell’estate del 2015 la collaborazione tra il birrificio italiano CR/AK e quello norvegese di Nøgne Ø:  a Barcellona i ragazzi di Campodarsego e Stephen Andrews, Barrel Cellar Manager di Nøgne  si conoscono e buttano giù qualche idea di lavoro. Il primo incontro avviene nel settembre dello stesso anno nel corso del 3° Collaboration Fest organizzato da CRAK: le spine dell’evento vengono equamente condivise tra i due birrifici. 
Ma per assaggiare i frutti della collaborazione bisogna però attendere quasi un anno, perché sono state utilizzate le botti, sfruttando l’esperienza con il legno di Stephen Andrews: a dicembre 2016, nel corso della  RI-Collaboration Fest XMAS Edition organizzata a Campodarsego. Vengono svelate una Wheat Ale fermentata con Lactobacillus  e Pediococcus, prodotta sugli impianti norvegesi, e la Italian Grape Ale  BV03, fermentazione spontanea realizzata in Italia con i lieviti del mosto d’uva e con i batteri naturalmente presenti sul legno delle botti di vino, con un invecchiamento durato dodici mesi. 
L’incontro dello scorso dicembre è servito anche per realizzare altre due birre a quattro mani: vedono la luce una saison che dovrebbe poi maturare in botti di vino e un’altra  birra più “immediata” e pronta da bere appena uscita dal fermentatore. CRAK e Nøgne hanno infatti voluto cavalcare assieme la moda delle New England/Cloudy/Juicy IPA: la nuova nata NEIPA esce ufficialmente il 9 gennaio 2017 ma il suo debutto vero e proprio avviene in occasione della manifestazione Birraio dell’Anno che si tiene a Firenze qualche settimana dopo: gli assaggi non convincono del tutto ed al birrificio stesso ammettono che c’è qualcosa ancora da sistemare.  Detto fatto, ecco la seconda cotta di NEIPA che arriva a febbraio.

La birra.
Citra, Galaxy ed Ekuanot i luppoli utilizzati: se quest'ultimo vi risulta sconosciuto, ricorderete forse l'Equinox (HBC 366). Trattasi sempre della stessa varietà che ha solamente cambiato nome: la YCH Hops che ha sviluppato questo luppolo ha infatti ricevuto una lettera dai legali del birrificio Equinox (Oregon) che rivendicava il diritto esclusivo di usare quel marchio da loro registrato in precedenza.
Il suo aspetto è quello classico delle Cloudy/Juicy IPA: torbido colore arancio pallido e un modesto cappello di schiuma biancastra, un po' scomposta e poco persistente. L'aroma mostra un buon livello di pulizia che mette in evidenza su tutto l'ananas: lo affiancano mango, arancia e pompelmo. L'intensità non è sfacciata o esplosiva, ne guadagnano equilibrio ed eleganza. La sensazione palatale è gradevole benché non particolarmente morbida o cremosa come vorrebbero invece i dettami di questo nuovo sottostile di IPA. Poco male, perché al palato c'è ugualmente una grande ricchezza di frutta tropicale, fresca e fragrante, con ananas e mango sugli scudi. Il livello d'amaro è volutamente moderato: il pompelmo e la resina non intendono affatto rubare il palcoscenico al juicy della frutta. La facilità di bevuta di questa NEIPA è davvero ottima, nonostante una gradazione alcolica che l'avvicina al territorio della Imperial IPA: bella secchezza, alcool ben nascosto con un morbido tepore che affiora solo nel finale. L'eleganza non è la caratteristica principale di queste Juicy IPA, spesso sfacciate e un po' rozze, ma qui mi pare si sia raggiunto un buon compromesso. Livello molto buono,  l'intensità dell'aroma è migliorabile ma per l'ulteriore salto di qualità le manca soprattutto quel mouthfeel morbido e cremoso che mi dicono avere le originali New England IPA. 
Formato: 33 cl., alc. 7.6%, imbott. 06/02/2017, scad. 06/05/2017, prezzo indicativo 5.00/6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 13 marzo 2017

Perennial 17 Mint Chocolate Stout

Ritorna sul blog il birrificio americano Perennial Artisan Ales (St. Louis, Missouri) che avevamo incontrato a qualche mese fa con l’ottima Saison de Lis; lo ha fondato Phil Wymore assieme alla moglie Emily, che dopo aver lavorato alla Grindstone (Columbia, Missouri), alla Goose Island ed alla Half Acre (Chicago) ha deciso di ritornare in Missouri per inaugurare il proprio birrificio. Milletrecento metri quadri di superficie, impianto da 8 barili con l’intento dichiarato di diventare “un birrificio per geeks. Vogliamo fare birre per le quali la gente si entusiasmi. Non vogliamo essere il dodicesimo birrificio di St Louis che produce una Pale Ale”. I fatti gli danno parzialmente ragione: nonostante l’intento di realizzare birre “per geeks”, è la belgian ale Southside Blonde a balzare in cima alle vendite, una session-beer fatta su richiesta di sua moglie che voleva invece una birra semplice che potesse avvicinare anche nuove persone alla craft beer. 
L’hype per alcune birre di Perennial è comunque reale, soprattutto quello per la famosa imperial stout Abraxas, in particolare la versione invecchiata in botti di Rittenhouse  Rye Whiskey.  La sua uscita, una volta l’anno, è accompagnata dalla consueta fila di beer-geeks che si crea ore prima dell’apertura: scene che nei primi anni divertivano i Wymore ma che sono poi state regolamentate.  Phil ha creato la  Société du Chêne, una membership che per 300 dollari vi assicura una bottiglia delle prime dodici birre invecchiate in botte prodotte da Perennial ogni anno, un bicchiere, uno sconto del 10% sulle consumazioni alla tap room e la possibilità di prenotare per l’acquisto altre ricercate bottiglie. 
Tra le birre più apprezzate prodotte da Perennial ci sono proprio le imperial stout:  dovrebbe trattarsi della stessa ricetta “base” che genera poi una serie di ricercatissime variazioni:  oltre alla già citata Abraxas (una sorta di Mexican Cake liquida prodotta con cacao, peperoncini, vaniglia e cannella) ci sono la Sump (con l’omonimo caffè) e la 17 (cacao e menta); l’imperial stout base “semplicemente” invecchiata in botti di Rittenhouse Rye Whiskey prende il nome di Maman, ma esistono versioni barricate e leggere variazioni (Abraxas Coffee, ad esempio) anche di tutte le altre.

La birra.
Perennial 17, un’imperial stout basata su di un abbinamento classico di pasticceria: cioccolato e menta. Per la ricetta vengono utilizzati oltre a malto Chocolate anche fave di cacao e foglie di menta. Il suo debutto avviene il 29 marzo 2013 con un evento dedicato alla taproom di Perennial nella quale venivano vendute un massimo di due bottiglie a testa, al prezzo di 24 dollari cadauna. Da allora la birra numero 17 viene messa in vendita nel febbraio di ogni anno, in quanto il birrificio la considera “perfetta per gli ultimi mesi invernali”. Abbastanza sorprendentemente qualche bottiglia è anche arrivata in qualche beershop del nostro continente. 
Davvero impressionante la viscosità del liquido nero, simile ad olio motore, che riempie il bicchiere; la schiuma è cremosa e compatta ma fa quasi fatica a formarsi e si dissolve abbastanza rapidamente. Il naso è pulito e piuttosto “goloso”, con i profumi di cioccolato e menta che sono affiancati da quelli di caffè e tostature, melassa, fruit cake: un biglietto da visita molto elegante che genera aspettative elevate, prontamente confermate al palato. Mouthfeel perfetto: poche bollicine, corpo pieno e birra che avvolge il palato in modo morbido e avvolgente, senza sconfinare in eccessi masticabili. Melassa e caramello, cioccolato, fruit cake e accenni di liquirizia costituiscono una bevuta dolce che viene poi bilanciata dall’amaro del caffè, delle tostature e del cioccolato amaro: la menta fa ogni tanto capolino con un effetto quasi rinfrescante che aiuta a ripulire un po’ il palato, mentre l’alcool lo riscalda senza mai bruciarlo. Il risultato è molto intenso e potente ma ben bilanciato e si lascia sorseggiare in tutta tranquillità, senza nessuno sforzo. Il retrogusto è lunghissimo, con le tostature ed il caffè avvolte dal dolce e dal calore della frutta sotto spirito. 
17 di Perennial Artisanal Ales: imperial stout memorabile ed elegantissima che regala grosse soddisfazioni: livello davvero molto, molto alto.
Formato: 75 cl., alc. 10%, imbott. 02/2016, prezzo indicativo 17-20 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 12 marzo 2017

Eastside Brewing: Bear Away & Bere Nice

Nuovo appuntamento con Eastside Brewing, birrificio laziale (Latina)  fondato nel 2013 da Luciano Landolfi, Tommaso Marchionne, Alessio Maurizi, Cristiano Lucarini e Fabio Muzio. La loro storia ve l’avevo raccontata dettagliatamente in questa occasione; il birraio è Luciano il quale riesce ancora a coniugare gli impegni in birrificio con il suo lavoro quotidiano altrove: nel concreto questo “stakanovismo” si traduce nel recarsi in birrificio alla sera e ogni weekend. 
Dopo Sera Nera e Sunny Side, Soul Kiss e Sweet Earth è il momento di assaggiare le ultime due birre delle sei che vengono regolarmente prodotte tutto l’anno; allo “zoccolo duro” se ne affiancano poi  quattro stagionali, al momento disponibili solo in fusto. 

Partiamo dalla Bear Away, una california common prodotta con luppoli Northern Brewer ed una piccola percentuale di Cascade. Ammetto la mia scarsa familiarità con uno stile che, per chi non lo conoscesse, invito ad approfondire su questa pagina.  Il nome “Bear Away”  fa riferimento alla manovra nautica che si fa quando la barca arriva in boa mure a dritta, poggia e subito dopo vengono issati Spinnaker e tangone, rimanendo sempre mure a dritta: il doppiaggio della boa rappresenta idealmente il passaggio di Eastside da beerfirm a birrificio, avvenuto nel 2015.
L'etichetta raffigurante una mappa ed un faro rimandano sempre alla nautica, mentre le palme richiamano idealmente la California, dove le prime Steam Beer vennero prodotte alla metà del diciannovesimo secolo. Il suo colore è ambrato scarico con riflessi oro antico e forma un buon cappello di schiuma ocra, cremosa e compatta dall'ottima persistenza. Al naso fragranti profumi di pane, biscotto e caramello vengono affiancati da quelli di prugna e ciliegia, frutta secca: aroma semplice ma pulito, non privo di una certa eleganza. Il gusto segue fedelmente l'aroma evidenziando una base maltata con crosta di pane, biscotto, caramello e qualche accenno di miele ad accompagnare le note di frutta; il corpo medio e le poche bollicine conferiscono una sensazione palatale morbida e una scorrevolezza di tutto rispetto. Chiude con un delicato alcool warning e un amaro che ospita frutta secca, mandorla amara, quasi impercettibili tostature: birra pulita, ben bilanciata e con un profilo di malti molto fragrante.

La Witbier di casa Eastside si chiama invece Bere Nice, gioco di parole italo-anglosassone che allude al "bere bene". L'etichetta mi dicono essere una dedica d'amore alla moglie di uno dei soci del birrificio: tra i luppoli e gli agrumi c'è anche un riferimento alla celebre fotografia Le violon d’Ingres di Man Ray, la donna violoncello. L'interpretazione di una witbier secondo Eastside prevede una generosa luppolatura di Citra, Equinox e Mandarina Bavaria e una speziatura "quasi" classica: coriandolo, arancia amara, bergamotto e scorza di limone.
Nel bicchiere si presenta del classico color paglierino sormontato da un generoso cappello di cremosa schiuma bianca, compatta e dall'ottima persistenza. La generosa luppolatura genera un'aroma intenso e pulito, ancora piuttosto fresco, ricco di agrumi: arancia, bergamotto, cedro e scorza di limone; in sottofondo si scorgono pesca bianca, profumi floreali, un delicato tocco di coriandolo e di cereali. Al palato scorre senza intoppi come una "session beer" dovrebbe sempre fare: corpo medio-leggero, forse le manca qualche bollicina in più ma è un dettaglio che passa in secondo piano rispetto ad un'intensità davvero notevole. Il gusto segue fedelmente l'aroma riproponendo un profilo ricco di agrumi bilanciato da lievi suggestioni di frutta tropicale ed una spolverata di coriandolo e cerale: chiude con un bell'amaro dalla discreta intensità ricco di scorza d'agrumi e qualche nota erbacea. Witbier atipica e molto luppolata ma assolutamente convincente quella pensata da Eastside: i tratti caratteristici dello stile ci sono, ma rimangono in sottofondo ad accompagnare il profumato bouquet dei luppoli utilizzati che è il vero protagonista, sia al naso che al palato. Ottimo livello di pulizia con una gradevole acidità a renderla rinfrescante ed un'intensità davvero sorprendente se si considera la gradazione alcolica. Birra molto ben riuscita, con personalità e carattere.

Nel dettaglio:
Bear Away, 33 cl., alc. 5.8%, IBU 24, lotto 33 16, scad. 09/2017, prezzo indicativo 4.50 Euro.
Bere Nice, 75 cl., alc. 4.6%, IBU 14, lotto 46 16, scad. 11/2017, prezzo indicativo 10 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.