mercoledì 30 aprile 2014

Firestone Walker Double DBA 2012

A distanza di un paio d'anni, riecco il birrificio californiano Firestone Walker, che abbiamo incontrato in quest'occasione per la prima volta. Purtroppo le loro birre arrivano in Europa davvero con il contagocce: non ricordo siano mai state importate in Italia, mentre qualcosa è invece arrivato in Germania. Ed è un vero peccato che tra le tante birre americane che giungono nel nostro paese non ci siano quelle di Firestone, uno dei birrifici californiani più interessanti e - soprattutto - dall'elevatissima qualità e costanza produttiva. Moltissime attenzione (e spazio) viene dedicato ai programmi di invecchiamento e di affinamento in botti. Nel luglio del 2012 arriva sul mercato la Double DBA (Double Barrel Ale), ovvero una versione "potenziata" (raddoppiata) della DBA - Double Barrel Ale, la special bitter che viene prodotta tutto l'anno, e che va ad aggiungersi alla ampia Proprietor's Vintage Series di Firestone che include, tra le altre, anche le più famose Parabola e Sucaba. La ricetta, dicono alla Firestone, è essenzialmente la stessa della DBA, ma con percentuali raddoppiate di malti Premium Two-Row, Maris Otter Pale, Munich, Crystal, Chocolate, luppoli Magnum (amaro), Styrian Golding, East Kent Golding; ed un dry hopping finale di East Kent Golding. L'ABV viene così portato dal 5% della DBA al 12% della Double DBA.  La DBA matura in botti di quercia americana (le Firestone Union) con un metodo che s'ispira a quello storico del Burton Union; per chi volesse approfondire, ecco un articolo di Michael Jackson. Anche la Double DBA matura - per un tempo più prolungato - in parte nel legno delle Firestone Union ed in parte in acciaio. Terminata la fermentazione, l'edizione 2012 è invecchiata per dieci mesi in parte in botti nuove di quercia americana ed in parte in botti usate che hanno ospitato bourbon; il blend viene poi imbottigliato, senza nessuna filtrazione.
Nel bicchiere si presenta di uno splendido ed intenso color ambrato piuttosto opaco, con riflessi ramati; nonostante l'elevata gradazione alcolica, si forma un buon cappello di schiuma color ocra, fine e cremosa ma non molto persistente. L'aroma è fortissimo, e m'accoglie con marcate note di vaniglia, zucchero a velo, caramello, uvetta e datteri, melassa; più in secondo piano emergono, man mano che la birra raggiunge la temperatura ambiente, anche sentori di bourbon e di legno. Pulizia quasi impeccabile, notevole intensità. In bocca rivela un corpo più verso il "medio" che il "pieno": molto poco carbonata, oleosa, è morbida ed avvolgente, davvero molto gradevole. Davvero splendido il bouquet regalato dai malti: passano in rassegna caramello, biscotto, uvetta e fico disidratato. Ancora vaniglia, frutta candita (cedro, arancia) e delle lievi - ma molto raffinate - note di bourbon che, quando la birra si scalda, vengono affiancate da accenni di vino liquoroso. E' potente ma raffinata al tempo stesso, l'alcool è nascosto in maniera incredibile, ed alza un po' la testa solo nel finale, sorprendentemente secco, ed asciuga il palato dal dolce della bevuta. Morbidissimo il retrogusto, caldo, etilico, elegante: un riuscitissimo mix di bourbon, porto, legno e vaniglia, che ti accompagna per lungo tempo in un sontuoso dopocena. Grande birra, pulitissima, magistralmente eseguita e che si lascia sorseggiare con grande, forse addirittura troppa, facilità. Alla fine ti ritrovi a guardare il bicchiere soddisfatto ma con un po' di tristezza: è finita, sarebbe una birra da mettere un cantina ad invecchiare negli anni a venire ma (prezzo a parte) dall'Italia tu non puoi farlo.
Formato: 65 cl., alc. 12%, IBU 29, lotto 2012, scadenza non riportata, pagata 14,00 Euro (supermercato, USA)

martedì 29 aprile 2014

Birrificio di Franciacorta 18.80 Birra Chiara

Birrificio di Franciacorta, ma in realtà non si tratta di un vero e proprio birrificio quanto di una birra prodotta per le Catine Majolini, produttore di vino ad Ome (Brescia), nel cuore della Franciacorta. Nel 2011 l'azienda decide di lanciare sul mercato il marchio "Major Luxury Selection", ossia una selezione di prodotti d'eccellenza "per  promuovere una vera cultura enogastronomica e garantire una scelta dei migliori prodotti gourmand”. Vengono dunque selezionati e distribuiti Champagne francesi, caviale, aceto balsamico, vini ed anche la birra entra in campo. Tre le etichette che vengono tutte (credo) commissionate al Badef - Birrificio Artigianale della Franciacorta che si trova a Passirano (Bs): una weizen, una bock ed una chiara a bassa fermentazione.
Personalmente pensare alla birra come ad un prodotto di lusso, che viaggia al fianco di costosi Champagne e caviali, mi provoca una sorta di orticaria già provata in questa occasione. Meglio allora appellarsi ad una più ampia accezione della parola "lusso", non più sinonimo di "costoso" ma piuttosto di  "qualità", anche se i prezzi della birra in Italia (ed i prezzi di alcune birre, non necessariamente italiane) stanno lentamente portando alcune birre davvero nell'ambito del costoso/lussuoso. In verità ho comunque trovato questa "18.80 Chiara" ad un prezzo molto concorrenziale rispetto al costo medio (10 Euro al litro ed oltre) della birra "artigianale" nei beershop ed in altri negozi italiani. Il perché del nome (18.80) è presto svelato, e riguarda la composizione stessa della birra: 18% di malto d'orzo e luppolo, 80% di acqua e 2% di altre spezie, sebbene l'etichetta non ne indichi la presenza.
Nel bicchiere è di un rassicurante color giallo pallido, quasi paglierino, abbastanza velato; la schiuma, bianchissima, è fine e cremosa ma dalla persistenza abbastanza limitata. L'aroma ha una buona intensità ed un buon livello di pulizia: ci sono sentori di miele millefiori, floreali, cereali e pane, una lieve nota pepata e qualche reminiscenza di agrumi (mandarino). In etichetta viene definita una birra dal "buon corpo", e qui devo aprire una piccola parentesi: ho riscontato più di una volta, sia sulle etichette che sui siti di alcuni birrifici, delle note gustative che descrivono birre palesemente scorrevoli e facili da bere come birre "dal buon corpo o dal corpo pieno". Sembra quasi che ci si vergogni di dichiarare che la propria birra ha poco corpo (che non significa affatto con poco gusto!) e che è leggera! Corpo (body) e "consistenza" (mouthfeel, ovvero acquosità, oleosità, "sciropposità" e cremosità) non vanno sempre di pari passo: una birra dal corpo leggero può essere anche abbastanza "morbida" e cremosa in bocca, ed una Imperial Stout dal corpo pieno non è per definizione una birra "masticabile" ma può anche avere una consistenza "acquosa" al palato.
Chiusa la parentesi, questa 18.80 Birra Chiara ha chiaramente un corpo leggero ed è correttamente "watery" e scorrevole per essere bevuta con grande facilità: il gusto ricalca quasi in fotocopia l'aroma, anche se l'intensità è un po' minore: note di pane e cereali, miele, qualche accenno di agrumi. La secchezza non è esemplare, la bocca rimane leggermente "impastata" ed il finale è un po' timido, per una birra che, come rassicura l'etichetta, vuole essere "non eccessivamente amara"; il risultato è però un po' troppo sotto tono, con qualche leggero sentore erbaceo amaricante che lascia un po' insoddisfatti. Mi tocca ripetere la parola "rassicurante", ma è quella che mi viene spontaneamente da associare a questa 18.80 Birra Chiara: un prodotto che va incontro al palato di chi s'avvicina alle birre "artigianali" e che è ancora abituato al gusto standardizzato delle industriali da supermercato; 18.80 rappresenta senz'altro un deciso passo qualitativo in avanti che tuttavia non sconvolge il palato del neofita con una tempesta di luppolo, di spezie o di altri sapori "inusuali". A chi invece naviga già da tempo nel mondo delle birre "di qualità" questa "Franciacorta" risulterà probabilmente un po' troppo timida ed anonima e, soprattutto, vittima del suo stesso nome.  Ci sono numerosi esempi di birre prodotte con lieviti da spumante, ci sono le birre-champagne, e leggera Franciacorta in etichetta crea indubbiamente delle aspettative in quell'ambito che finiscono per essere deluse.
Formato: 75 cl., alc. 5.3%, lotto non riportato, scad. 01/05/2015, pagata 5.50 Euro (drink store Italia).

lunedì 28 aprile 2014

Buxton Rednik Stout

Ritorno dopo un po' di tempo ad avere tra le mani una Buxton, birrificio del Derbyshire, alle porte del Peak District National Park ,che avevo incontrato per la prima volta nel 2011, dietro consiglio del proprietario di un beershop inglese, quando (credo) ancora non era ufficialmente importato in Italia. Nel frattempo noto che le etichette del birrificio fondato da Geoff Quinn nel 2009 hanno subito un leggero restyling, probabilmente grazie all'arrivo di Denis ‘Anorak’ Johnstone (marketing), la capacità degli impianti produttivi è stato di recente triplicata (32 ettolitri) ed ecco che, finalmente, le Buxton sono reperibili in Italia con facilità. C'è anche stato un avvicendamento in sala cottura: l'head brewer non è più l'ex campione di homebrewing neozelandese (ed ex-Thornbridge) James Kemp, che ha lasciato Buxton per il ruolo di "brewing advisor" alla SPL. Il nuovo birraio da Aprile 2013 è Colin Stronge, alle spalle nove anni di lavoro alla Marble di Manchester e, più di recente, due alla scozzese Black Isle.
Ma quello che più importa constatare è che tutti questi cambiamenti non hanno assolutamente modificato il livello qualitativo (già elevato) del birrificio inglese. Ulteriore prova ne è questa Rednik Stout, una birra poco muscolare (4.1%) capace però di regalare grandissime soddisfazioni.
E' nata in origine con il nome di Kinder Stout, e Rednik infatti altro non è che Kinder scritto al contrario; non ho trovato informazioni sul perché il nome sia stato invertito, ma immagino che il fatto non abbia nulla a che vedere con l'omonimo marchio di cioccolato al latte. Si presenta di un bel color marrone scurissimo, con "due dita" di schiuma beige fine e compatta, cremosa, dalla buona persistenza. L'abito in questo caso fa anche il monaco, perché il naso, pulito ed elegante, profuma di orzo tostato e caffellatte, con qualche sfumatura di mirtilli, cenere e caffè in grani. Di bene in meglio in bocca: il corpo è leggero, ma questa Rednik Stout riesce ad essere sorprendentemente morbida e cremosa per la gradazione alcolica che dichiara. Poco carbonata, avvolge il palato di eleganti tostature, note di caffè, caramello e melassa, con leggere note di prugna. Nel finale cresce l'amaro delle tostature ma c'è la l'acidità del caffè a mantenere in equilibrio la bevuta, regalando anche qualche lieve sfumatura di cenere/affumicato. Con un ABV di solo 4.1%, questa è una session beer straordinariamente intensa e morbida, che regala soddisfazioni non molto diverse da quelle di stout ben più "robuste" o "imperiali"; proprio l'intensità delle sue tostature non la rende forse adatta a bevute seriali, ma la sua collocazione ideale potrebbe essere quella di "fine sessione", quando potete chiudere la serie di pinte "chiare" con una "scura" intensa e "caffettosa" che non appesantirà più di tanto il tasso di alcool nel vostro sangue. Un piccolo miracolo, una dimostrazione di come si possono fare ottime birre dal contenuto alcolico modesto; è la stout che vorrei sempre trovarmi nel bicchiere, ogni volta che ordino una stout.
Formato: 33 cl., alc. 4.1%, lotto 09/2013, scad. 01/09/2014, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

domenica 27 aprile 2014

Birra del Carrobiolo O.G. 1048

Il nome non è di quelli che si ricordano con facilità, visto che fa semplicemente riferimento alla densità iniziale del mosto (Original Gravity); ma la O.G. 1048 di Birra del Carrobiolo/Fermentum è la prima birra prodotta dal birrificio brianzolo nel non troppo lontano 2008. Nel 2011 ne venne realizzata una versione speciale per festeggiarne il terzo compleanno e nel 2013, per celebrare il quinto, la OG 1048 venne affinata per tre mesi in botte di Rhum della Martinica e rinominata Pedrhum Cuvée.
Classificata come Brown Ale (dal birrificio) o come (Best) Bitter da Ratebeer, vede comunque l'utilizzo di un ceppo di lievito anglosassone, luppoli Perle ed East Kent Goldings, ed oltre ai malti (tostati, Pale e Caramel) c'è anche, come nella maggior parte delle birre del Carrobiolo, il frumento brianzolo "Spiga e Madia".
Nel bicchiere è di color ambrato molto carico, quasi tonaca di frate, con dei bei riflessi rosso rubino; forma un discreto cappello di schiuma beige chiaro, cremosa e dalla buona persistenza. Il naso porta un gradevole benvenuto di caramello, frutta secca e lieve tostature; più in secondo piano ci sono anche delle leggere sfumature di ciliegia e di cacao. 
In bocca è molto leggera e poco carbonata con una spiccata consistenza watery che da un lato la rende facilissima da bere, dall'altro fa (almeno per quel che mi riguarda) desiderata un pelino in più di morbidezza e di "presenza". Il gusto è comunque molto pulito: passano in rassegna note di biscotto, caramello e di prugna, dolci, che sono poi bilanciate dall'amaro delle tostature, della frutta secca e da qualche lieve nota terrosa. Chiude leggermente astringente,  con un retrogusto che a temperatura ambiente dà il meglio di se, affiancando alle tostature anche qualche piacevole sfumatura di caffè e di affumicato. E' una (quasi) session beer pulita che non sacrifica l'intensità e si rivela molto ben equilibrata tra una prima parte dolce e caramellata ed un finale amaro e torrefatto; può accompagnarvi per tutta la serata nei mesi meno caldi dell'anno, quando magari desiderate ricolmare più volte la pinta con una birra che si presta ad essere bevuta quasi a temperatura ambiente. Il birrificio la consiglia anche in abbinamento a "piatti delicati e leggermente affumicati, quali un carpaccio di branzino o di pesce spada, un petto d'oca tagliato sottile con bacche di pepe rosa, un caprino con un filo d'olio al crudo o ancora un piatto di ostriche o altre crudità di mare". A voi la scelta.
Formato: 50 cl., alc. 4.9%, lotto 140, scad. 02/2015, pagata 5.10 Euro (food store, Italia)

mercoledì 23 aprile 2014

Fantôme Santé 16!

Ogni anno, in Agosto, presso la Brasserie Fantôme a Soy si tiene il Goeddoelweekend, ovvero una due giorni a scopo benefico organizzata con l'aiuto degli Heikantse Bierliefhebbers (un gruppo di entusiasti birrofili belgi) che ha lo scopo di raccogliere fondi da devolvere poi a diverse associazioni. Nel weekend a Soy ci sono gruppi musicali, grandi barbecue e vengono organizzate visite in bicicletta ed a piedi ad alcuni produttori di cioccolato e di formaggio. L'occasione, per i birrofili, è però quella di poter assaggiare una birra che ogni anno il birrificio di Dany Prignon produce appositamente per l'evento, ed i cui profitti derivati dalla vendita andranno interamente devoluti in beneficenza. Così accade dal 1997, da quando la prima "Santè" (questo il nome della birra) è stata prodotta, sino ad arrivare alla numero diciassette, edizione 2013. Se avete voglia di partecipare all'edizione di quest'anno, tenetevi liberi ed organizzatevi per il weekend di ferragosto 2014. 
Io faccio qualche passo indietro e ritorno alla Santè 16, creata in occasione del Goeddoelweekend 2012, tenutosi  tra l'11 ed il 12 Agosto ed organizzato, oltre che dai già citati Heikantse Bierliefhebbers, anche dai De Leuvense Biertherapeuten e dagli De Aarschotse Bierwegers. Il ricavato dalla manifestazione viene devoluto all'associazione Siddartha di Baal (Tremelo).  Dany Prignon è solitamente restio a rivelare quello che mette in pentola, ma per l'occasione dichiara addirittura in etichetta la semplice lista degli ingredienti: acqua, malto Pale Ale, zucchero di canna candito, caramello, lievito e luppolo Columbia.
L'apertura della bottiglia avviene, come per ogni Fantôme, con cautela e con qualche preghiera che tutto vada bene: l'esito è positivo, non c'è nessuna "fontana" di birra anche se un po' di schiuma tende ugualmente a fuori uscire dal collo dopo aver parzialmente versato la birra. La Santé 16! si presenta di color arancio opaco, con piccole particelle di lievito in sospensione che vengono trasportate dalla vivace carbonazione: la schiuma nel bicchiere è molto abbondante, la trama non è particolarmente fine ma ha comunque un'ottima persistenza. Il naso, dopo due anni, è ancora molto pronunciato: la speziatura (sopratutto pepe) è addirittura esuberante all'inizio, ma quando la schiuma inizia a dissolversi ecco emergere dei gradevoli sentori floreali (camomilla), di arancio, pera e di frutti a pasta gialla (pesca ed albicocca), con qualche sfumatura di caramello. In bocca il percorso gustativo si rivela molto ben costruito e dall'ottima intensità: l'inizio è dolce con note di biscotto e di caramello, seguito da note di pesca ed albicocca sciroppata. Ma c'è subito una bella acidità a bilanciare, ad alleggerire ed a velocizzare la bevuta, fino ad un finale amaricante un po' terroso e con qualche nota di mandorla amara. Vivacemente carbonata ma gradevole e quasi "morbida" al palato, ha un corpo medio; il finale non è molto secco, e la bocca rimane un po' "impastata" di dolce a fine corsa, ma è comunque una sensazione gradevole, caratterizzata da un lieve warming etilico, una prima avvisaglia del fatto che nel bicchiere abbiamo una birra molto facile da bere ma con la gradazione alcolica (7%) ben oltre la soglia della "session beer". Pulita ed intensa, è una birra molto ben fatta e soddisfacente che, nella sua "normalità", risulta molto atipica per un birrificio come Fantôme che, tra paradiso ed inferno brassicolo, alterna spesso capolavori ad altre birre praticamente imbevibili. Per una volta, quindi, ci accontentiamo e godiamo a pieno di questa Santé 16, ben fatta e anormalmente normale.
Formato: 75 cl., alc. 7%, lotto 2012, scad, 08/2014, pagata 13,17 Euro (beershop, Belgio).

Birrificio Settimo Aes

L’Aes del  Birrificio Settimo è probabilmente l’unica  “Spéciale Belge” italiana,  ma anche nella madre patria belga non sono moltissime le birre che affollano questa categoria stilistica. Le sue origini  risalgono al 1904, quando la Unie van Belgische Brouwers (oggi Belgische Brouwers, ovvero l’associazione  dei birrifici belgi) organizza un concorso per la creazione di una “nuova” birra popolare che potesse far concorrenza a quelle – sempre più di successo – che verso la fine del diciannovesimo secolo venivano importate da Inghilterra, Germania e Cecoslovacchia. Le linee guida del concorso furono volutamente molto generiche: qualsiasi ingrediente era ammesso, a patto che il contenuto alcolico fosse compreso tra tra il 4 e il 5%. I risultati del concorso vengono resi noti l’anno successivo, nel corso della Exposition Universelle et Internationale di Liegi;  tra i 73 partecipanti, a vincere è la Belge du Faleau della (oggi defunta) Brasserie Binard di  Châtelineau (Hainaut). Una “ambrata” facile da bere che – pare – ben si distinse tra una moltitudine di birre di frumento o ben più “scure” di colore. La Belge du Faleau ottenne un buon successo e molti birrifici si mettono a produrre una “Spéciale Belge di color ambrato, con una buona base maltata, leggermente fruttata e dal finale non eccessivamente amaro”. Nel 1931 arriva la Spéciale di De Koninck, forse ad oggi quella più famosa, che servita nel suo bicchiere chiamato “bolleke” divenne col passare degli anni  “la birra“  di Anversa; la versione – altrettanto famosa – della Palm arriva un po’ più tardi, nel 1928. Tra quelle apparse più recentemente mi piace ricordare la Very Special Belge della Brasserie De La Senne e soprattutto la prima birra-collaborative realizzata negli oltre 150 di storia dalla Brasserie Dupont, che assieme agli americani di Iron Hill decide di fare proprio una Spéciale Belge.  
Il Belgio definisce oggi queste birre uno streekproduct, ovvero “prodotto regionale” e, da quanto leggo, si sta aspettando la delibera della Comunità Europea per ottenere l’Indicazione di Origine Protetta. Dopo la seconda guerra mondiale alcuni birrifici iniziarono anche a produrre la “Dubbel Speciale Belge", una versione più alcolica, fruttata e “caramellosa” della “normale”.  La popolarità di entrambe le “speciali”  venne però progressivamente affossata negli anni dalla diffusione delle lager/pils; ma mentre oggi è ancora abbastanza facile riuscire a bere una “Spéciale Belge”, il discorso si fa molto più complicato per la  defunta “Dubbel Spéciale”: il birrificio  De Glazen Toren dovrebbe essere stato ad oggi l’unico a tentare di riesumarla con la “Cuvée Angelique Dubbel Special”. Questo il breve “excursus” storico reperito in internet da diverse fonti; mi scuso in anticipo per eventuali lacune o inesattezze ma non ho a disposizione il tempo necessario per fare un’approfondita ed accurata ricerca sull'argomento e per verificare l'esattezza delle fonti dei link sopra evidenziati. Eventuali correzioni sono sempre ben accette.
Aes di Birrificio Settimo, dunque: all'aspetto è ambrata e velata, con un modesto cappello di schiuma biancastra, dalla trama fine, cremosa e dalla media persistenza. L'aroma non è particolarmente intenso, ma è comunque molto pulito: s'avvertono sentori di crackers, cereali, miele, caramello/toffee, frutta secca. In bocca è poco carbonata, con corpo medio-leggero ed un buon compromesso tra l'essere scorrevole/watery e mantenere comunque una discreta presenza e morbidezza al palato. Sono le note del malto, del biscotto e del caramello e guidare il percorso, con lievi note fruttate e di miele; se la prima parte della bevuta si mantiene abbastanza dolce, la seconda bilancia il tutto con un virata amara che ospita note erbacee, terrose e di frutta secca. La contraddistingue un ottimo livello di pulizia, caratteristica che sino ad ora ho riscontrato in tutte le birre prodotte da Settimo; dopo due birre (Prius e Prius Exxtra) nelle quali i luppoli erano indiscussi protagonisti, questa Aes rappresenta un'ottima alternativa a chi invece preferisce una birra più equilibrata e con una maggior presenza dei malti. Semplice ma non banale, è ben fatta e facilissima da bere; per una volta potete essere soddisfatti anhe senza i profumi di un abbondante dry-hopping e la sensazione di aver bevuto un succo di agrumi o di frutta tropicale. Coraggiosamente controcorrente.
Formato: 33 cl., alc. 5.7%, IBU 43, lotto 03813, scad. 12/2014, pagata 3.90 Euro (beershop, Italia).

mercoledì 16 aprile 2014

De Dolle Lichtervelds Blond

La Lichtervelds Blond è una birra che il birrificio belga De Dolle di Kris Herteeler dedica a Karel Van De Poele, un ingegnere elettronico nato a Lichetervelde (Fiandre) il 27 Aprile 1846; dopo essersi trasferito con i genitori (il padre era ebanista) prima a Burges e nel 1864 in Francia, a Lille. Appassionato di elettronica, è però "costretto" a studiare di notte perché di giorno cerca di assecondare il desiderio del padre che lo vuole intento a lavorare con il legno. Nel 1869 contro la volontà dei genitori decide di emigrare negli Stati Uniti, e si stabilisce a Detroit; la fervente industria automobilistica ed il supporto di una cospicua comunità fiamminga lo convincono a restare. Trova occupazione con il legno, dove rispolvera le sue capacità di falegname e costruisce diversi arredi per una chiesa, senza però smettere di sperimentare con l'elettricità, la sua vera passione. Nel 1875 riuscì ad installare una sorta di illuminazione natalizia nella chiesa dello Spirito Santo di Detroit; è un prototipo di lampadina ad arco, sviluppata qualche anno prima di quella ad incandescenza poi brevettata da Thomas Edison. Nel 1881 fonda la Van de Poele Electric Light Company, produttrice di alternatori e di generatori elettrici che si mette in competizione proprio con  Edison. Tra gli oltre 200 brevetti depositati da Van De Poele, il più famoso è quello del "trolley pole" ovvero una sorta di asta/palo di legno o metallo (non trovo il nome in italiano) che serve a trasferire l'energia ad una vettura da un cavo elettrico sovrastante. Muore a Lynn (Massachusetts) il 18 Marzo 1892. 
Ma a Lichtervelde si celebra ogni due anni (pari), in settembre, la Folklorefeesten; è proprio per questo evento, che dichiara Els, moglie di Kris Herteeler che De Dolle produce la Lichtervelds Blond; l'80% della produzione verrebbe infatti mandata a Lichtervelde, mentre il restante viene messo in vendita solo al birrificio e, come spesso accade, qualche cartone finisce inevitabilmente in qualche beershop. Le date coincidono, visto che il tappo riporta una data d'imbottigliamento che risale all'agosto del 2012, quindi un mese prima del sopracitato festival. La apro quindi colpevolmente con oltre un anno di ritardo, quando forse sarebbe invece più opportuno aspettare ormai l'edizione 2014.
Perfetta nel bicchiere, di un affascinante color oro antico velato con riflessi ramati; la schiuma è biancastra, "croccante", fine e compatta, cremosa e molto persistente. L'aroma è decisamente dolce e zuccherino, quasi di "pasticceria", con una lieve speziatura e soprattutto sentori di miele, cedro ed arancia canditi, uva bianca, pera; è molto pulito, ed ancora molto forte. Al palato ti aspetteresti uno scenario più o meno simile, ma la conferma dura solo per pochi secondi: l'inizio è effettivamente dolce di canditi, ma c'è subito una lieve acidità ad abbassarne il livello e un finale secco, con una nota amara tra l'erbaceo ed il terroso; affiorano anche accenni di uva e di mela. Il corpo è medio, la birra - come molte altre di De Dolle - tende a nascondere molto subdolamente la gradazione alcolica (9%) e a risultare molto facile da bere. La carbonazione è vivace, i lieviti movimentano piacevolmente la bevuta che finisce quasi secca; non vorrei scomodare un ardito paragone con qualche spumante (di buona struttura), ma è una sensazione che (a me) viene mentre si beve questa Lichtervelds. La bevuta procede con pericolosa velocità, per una birra che si dimostra molto funzionale ad alzare il livello etilico del festival per il quale viene appositamente prodotta. A proposito di "etilico", ce n'è subdolamente davvero poca traccia se si esclude un tiepido warming nel retrogusto. Che le danze abbiano inizio, allora.
Formato: 33 cl., alc. 9%, lotto 08/2012, scad. 08/2014, pagata 4.47 Euro (beershop, Belgio).

martedì 15 aprile 2014

Luppolajo Rosae

Festeggerà il suo secondo compleanno il prossimo giugno 2014, l’Agribirrificio Luppolajo di Castelgoffredo, Mantova. Si trova ubicato all’interno dell’azienda agricola della famiglia Treccani, fondata nel 1911 da Enrico Treccani. Il birraio è Enrico,  omonimo pronipote del fondatore e perito agrario che – ammette –  preferiva sfogliare i libri di birra durante le lezioni di viticoltura ed enologia.  Nel 2008 Enrico entra “ufficialmente” nell’azienda agricola di famiglia e propone di avviare un microbirrificio; del resto arriva da qualche anno di homebrewing, ha un impianto pilota sul quale sperimentare le ricette ed ha frequentato diversi corsi in Italia. La spinta decisiva viene dal decreto ministeriale 212/2010 che nell’agosto del 2010 introduce il concetto di birra/birrifici agricoli. Non è un problema destinare cinque dei quasi trenta ettari posseduti alla coltivazione di orzo distico per ricavare quel 51% (almeno) di malto necessario per godere dei numerosi vantaggi destinati ad un birrificio agricolo, a partire da regime iva e tassazione sul reddito agevolata. Il problema risulta più che altro individuare  quale tipo di orzo si adatti meglio a crescere nella valle del Po, da far poi maltare all’estero.  I tempi di costruzione e la burocrazia permettono però l’inaugurazione solamente a giugno del 2012.  
Luppolajo (ovvero il campo di luppolo) è il nome scelto per il locale di 400 metri quadri che ospita impianti produttivi, spazio per gli assaggi e la vendita diretta al pubblico; circa 350 gli ettolitri prodotti all’anno. Ma un vero e proprio Luppolajo è stato anche avviato nei terreni dell’azienda:  le prime prove, con varietà britanniche, sembrano aver dato ottimi risultati, anche se la quantità modesta del raccolto può rendere al momento possibile solamente la produzione di una  sorta  di “harvest ale” solamente una volta l’anno.  Le birre prodotte  sono cinque e tutte ad alta fermentazione: una Koelsch (Bucolica), una aromatizzata all’Erba di San Pietro (Castellana), un'American IPA  (Eneide – “ottima come birra da meditazione” (sic)), una Blanche (Georgica) ed una India Pale Ale d’ispirazione inglese, chiamata Rosae, che andiamo a stappare.  
Malti Pilsner (da orzo autoprodotto), CaraRed, e due luppoli non propriamente “inglesi” come lo sloveno Dana ed il Cascade. Si presenta di colore oro carico, velato, con un bel cappello di schiuma bianca, fine e cremosa, molto persistente.  L’aroma non è molto pronunciato e non particolarmente entusiasmante per una IPA; c’è comunque buona pulizia: crosta di pane e cereali, qualche sentore erbaceo e di mandarino ed arancio. Al palato è leggera con una carbonazione abbastanza sostenuta, una consistenza “watery”  la rende scorrevole ma non sfuggente o “annacquata”.  L’ingresso è maltato (pane, cracker) con a seguire le noti dolci e agrumate tipiche del cascade (pompelmo, arancia); sorprende il finale, con un bel taglio secco ed un  amaro erbaceo e leggermente speziato, tipicamente da luppoli “nobili”.  IPA delicatamente amara e quindi un po’ timida, se paragonata agli standard cui siamo ormai abituati. Non so se la ricetta sia recentemente cambiata, il sito del birrificio riporta “birra ambrata di ispirazione inglese, schiuma avorio, con grana fine. Sentori di caramello, agrumi e resina”.  Ora, quella bevuta non è ambrata (ma dorata), caramello e resina non sono pervenuti; sinceramente faccio fatica a riconoscere l’ispirazione inglese, non trovo quelle note “biscottate” o terrose che dovrebbero esserci in una classica IPA inglese. Detto questo,  in un periodo in cui spopolano le birre “cockatil di frutta” e quelle ricolme di scorza di agrumi vari, la bevuta di questa Rosae è stata una gradevole sorpresa. Sebbene l’aroma sia sottotono, in bocca c’è una bella pulizia, c’è la giusta intensità e soprattutto c’è un percorso ben definito nel quale il birraio sembra guidarti, partendo da note di pane, ad un lieve e gradevole agrumato di Cascade e un finale secco, erbaceo ed un po’ speziato che ricorda (non troppo) alla lontana quello di una pils.  Lasciando quindi da parte un eventuale aderenza allo stile dichiarato, Rosae è una piacevole alternativa “amara” a tutta quell’abbondanza di agrumi che sta attualmente popolando la scena birraria; gradazione alcolica contenuta, buona intensità, molto facile da far evaporare dal bicchiere. Fuori dallo stile, ma anche positivamente fuori dalle mode. Bene.
Formato: 33 cl., alc. 5%,  IBU 40, lotto 13827, scad. 24/10/2014, pagata 3.50 Euro (gastronomia, Italia).

lunedì 14 aprile 2014

Slottskällans Imperial Stout 2012

Viene fondato nel 1997 ad Uppsala, in Svezia, il birrificio Slottskällan: è il periodo (la seconda metà degli anni novanta) in cui si gettano le basi per la rinascita della birra “artigianale” in Svezia. Dopo decenni segnati solamente dalla chiusura di birrifici e dalla conquista del mercato da parte di poche (multi)nazionali che acquistano marchi per poi sopprimerli, appaiono anche in Svezia i primi microbirrifici come Oppigårds, Jämtlands, Nils Oscars (inizialmente chiamato Kungsholmens Kvartersbryggeri) e Nynäshamns Ångbryggeri. A questi si aggiunge anche la Slottskällans Bryggeri, parola che - smentitemi o confermate - voglia dire il birrificio "della fonte del castello".
Non è facile reperire in Internet informazioni sulla storia di questo birrificio; gli svedesi se la cavano notoriamente piuttosto bene con la lingua inglese, ma la maggior parte di blog e siti informativi sono in svedese ed assemblare informazioni con il semplice ausilio di Google Translator non è il modo migliore di procedere. Da quanto ho capito il birrificio è stato fondato da Hans Finell e Urban  Nilsson, ma è soltanto a partire dal 2009, quando viene rilevato da Anders Slotte, che le ricette iniziano ad essere più elaborate e ad andare oltre il semplice cliché di birra chiara/ambrata/scura. Anzi, la Slottskällans inizia pian piano ad incamminarsi sui binari delle birre "one-shot", degli immancabili invecchiamenti in botte e di alcune produzioni che strizzano l'occhio ai beergeeks. E' il caso ad esempio della Zero, una IPA con IBU teoriche pari a zero, rilasciata nel 2012, per lanciare la sfida alla tendenza del mercato di produrre invece IPA con un numero sempre più elevato di IBU.
Immancabile, per un produttore scandinavo, cimentarsi con una Imperial Stout, uno stile particolarmente amato dai birrofili del nord europa. Quattro tipi di malto (pilsner, chocolate, cara e black, tre luppoli: Northern Brewer, Fuggle ed E.K. Goldings. Di colore marrone scurissimo, con riflessi mogano;  la schiuma è poco generosa, di colore beige chiaro, cremosa e non molto persistente. L'inizio è poco entusiasmante, con un aroma sottotono, quasi assente: il torrefatto ed il caffè sono insolitamente in secondo piano rispetto a sentori di ciliegia sotto spirito, frutti rossi (fragola ?) e caramello. Il corpo è meno solido del previsto (medio), ma è comunque una birra dalla consistenza (quasi) masticabile, viscosa, molto poco carbonata. La bevuta inizia dolce, con caramello, prugna ed uvetta sotto spirito, fruit cake; l'amaro si fa attendere ancora un po', ma c'è comunque un finale di tostature, liquirizia caffè e e cioccolato, con una lieve presenza di luppolo (erbaceo). L'intensità è di buon livello, ma il sapore non rappresenta il massimo dell'eleganza: caramello e frutta danno a volte l'impressione di una "cola", e la birra ha un inizio quasi stucchevole per poi virare in territorio "scuro" con tostature e caffè di finezza non certo memorabile. Imperial stout un po' grezza, che riscalda ma si sorseggia senza grossa difficoltà. 
Formato: 33 cl., alc. 9%, lotto SIS 1204, scad. 14/11/2022, pagata 7.17 Euro (Vinmonopolet, Norvegia).

domenica 13 aprile 2014

Brussels Beer Project Delta

Sono due giovani intraprendenti (ed homebrewers) belgi a dare vita, nel giugno del 2013, al Brussels Beer Project: Olivier da Brauwere e Sébastien Morvan si rivolgono ad appassionati ed entusiasti birrofili o beergeeks per un progetto che si fonda sulla condivisione, sui social network e sulla partecipazione. La base di partenza è stata il finanziarsi attraverso un crowfunding chiamato #beerforlife e lanciato attraverso i social network: versando 140 Euro vi vengono garantite dodici birre all'anno, per il resto della vostra vita (o almeno finché il progetto resta in vita, suppongo).  In soli sei mesi viene racimolato un budget di più di 50.000 Euro; le ricette di quattro birre vengono messe a punto in un garage, e vengono organizzati diversi incontri, in vari bar di Brussels, ai quali partecipano quasi un migliaio di persone. Lo scopo è di far scegliere al "popolo" quale dei quattro prototipi verrà poi messo in produzione appoggiandosi ad un birrificio vero e proprio. Nessun segreto, ricetta "open" e totale trasparenza sulle birre prodotte è quanto si propongono di fare i due ragazzi, come spiegato in questo bel video.
Tutte le birre vengono prodotte dalla Brouwerij Anders di Halen ed il voto avviene ovviamente tramite Facebook: al "referendum" partecipano Alpha (una belgian ale speziata con coriandolo e scorza d'arancia e Brettanomyces bruxellensis), Beta (una saison con bacche di ginepro e semi di papavero), Gamma (belgian ale con cardamomo, zucchero candito e Brettanomyces bruxellensis) e Delta (una IPA con challenger,  citra e smaragd). A vincere (sorpresi?) è la IPA, che entra in produzione regolare mentre le altre tre, da quanto ho capito, non vengono più prodotte ma sono ancora reperibili sino ad esaurimento. Qualche mese dopo si aggiunge una Black IPA chiamata Dark Sister (ovvero la sorella "scura" della Delta) e a gennaio 2014 arriva una chocolate porter chiamata Babeleir de Saint-Jean, in collaborazione con la Microbrasserie du Lac Saint-Jean, in Canada. Al momento ci sono in fermentazione quattro nuovi prototipi di birra per un nuovo referendum popolare da tenersi nei prossimi mesi. 
Il crowdfunding in ambito birrario non è una novità, ma forse lo è per il Belgio; il prossimo progetto annunciato dai due imprenditori belgi è quello di aprire un vero e proprio birrificio a Brussels. Le loro intenzioni sono quelle di mettere in piedi una "open brewery", ossia sempre aperta al pubblico, dove la gente possa venire a visitare gli impianti ed a bere le birre senza appuntamento e senza vincoli. Sono attualmente alla ricerca di uno spazio di almeno 500 metri quadri in zona centrale. Tutto bene o quasi; Brussels Beer Project  dichiara esplicitamente sul proprio sito di produrre al momento le birre presso il birrificio Anders, ma l'informazione non è presente sull'etichetta della birra, dove  compare invece solo un generico "produced for"; se si grida ai quattro venti la trasparenza, perché non metterla anche in pratica? Niente da dire invece sulla visual identity scelta dal birrificio; video promozionali molto ben assemblati, logo efficace, etichette minimali, forse un po' fredde, ma molto ordinate e di ottimo impatto visivo; il bicchiere "ufficiale" è il teku.
Ecco Delta, allora, una Belgian IPA biologica, 100% malto Pale e luppolatura affidata come già detto a challenger, smaragd e citra. E' a metà strada tra il dorato e l'arancio, opaco;  si forma una testa di schiuma biancastra, cremosa, molto persistente. Il naso è intenso ed ancora fresco, con pungenti sentori di agrumi, lime, limone e pompelmo; c'è solo qualche accenno dolce di frutta tropicale, per una aroma molto pulito e dominato dagli agrumi. L'imbocco al palato (crosta di pane) è l'unica "tregua" che questa Delta concede: si vira subito verso l'aspro, la scorza d'agrumi che attacca i lati della lingua e che viene bilanciata da una parte più dolce (ma è sempre arancio) un po' sciropposa. L'effetto è quello di una spremuta d'agrumi, ma la birra è comunque pulita ed intensa, e riesce ad essere convincente. Il finale è secco ed amaro, ovviamente zesty con qualche richiamo erbaceo, mentre nel retrogusto ritorna a far capolino un po' della (sciropposa) polpa d'arancio. Belgian IPA solo di provenienza (brassata in Belgio), perché la massiccia luppolatura copre qualsiasi altra caratteristica belga che il bevitore si sforza di  trovare; il risultato è una IPA "moderna", di quelle ruffiane e fruttatissime, come "vanno" adesso. L'aroma ammalia, i primi due sorsi stupiscono, ma non è una di quelle birre che berresti per tutta la serata e che risulta alla fine molto simile a tante altre. Abbastanza ben fatta, rinfrescante e dissetante: il popolo l'ha votata ed il popolo se la beve.
Formato: 33 cl.,  alc. 6%, IBU 45, scad. 10/2015, pagata 4,78 Euro (beershop, Belgio)

sabato 12 aprile 2014

Barley BB10° 2010

E' "l'ammiraglia" del birrificio sardo Barley, guidato dal birraio Nicola Perra; BB10°, ovvero Birrificio Barley e 10 gradi alcolici, per un barley wine che vine prodotto con l'utlizzo di una piccola percentuale (2%) di sapa (mosto cotto) d'uva Cannonau. Segnalo per dovere di cronaca le altre produzioni del birrificio sardo che vedono l'utilizzo di mosto di vino: la BBevò, con sapa da uve Nasco e la BB9  (eccola qui) , con uve Malvasia.
E' lo stesso Nicola Perra a raccontare la genesi della BB10° in un interessante articolo del 2008 di Fermento Birra: i primi esperimenti partono nel 2003, con sapa da uva Nuragu che però non soddisfa completamente il birraio, alla ricerca di un profilo aromatico che ben s'accompagnasse con la birra che aveva in mente. Proprio per questo (aroma) la sapa da Cannonau viene aggiunta a fine bollitura, e le bottiglie riposano per almeno sei mesi prima di essere messe in commercio. Così spiega Nicola Perra la scelta di questo "ingrediente": "è un prodotto tipico che noi utilizziamo per aromatizzare ad esempio il pane durante le festività, quello che noi chiamiamo il pan di sapa. Una volta era lo zucchero dei poveri, si otteneva dalla bollitura del mosto di uve di scarto, non raccolte durante la vendemmia. La nostra sapa è molto ristretta e necessita di una cottura lenta che comporta una riduzione del volume di quasi un quinto. Quando diventa densa come il miele allora è pronta per essere aromatizzata con la scorza di arancia amara.  Io poi ottengo la sapa con il mosto del vino del contadino, che utilizza uve più mature perché vuole un vino ancora più corposo."

Riserva (vendemmia) 2010, commercializzata nel 2011, per una bottiglia che ha quindi riposato in cantina all'incirca tre anni. All'aspetto si presenta di color tonaca di frate, opaco, con riflessi ambrati; la schiuma è sorprendentemente generosa, ancora abbastanza fine e cremosa, se si considerano sia la gradazione alcolica che "l'età" della birra. Al naso uvetta, datteri e prugna, mela cotta, zucchero candito, caramello; c'è anche una lieve presenza di sentori di cuoio, ed un discreto carattere di vino liquoroso. Il corpo è "soltanto" medio; pochissime le bollicine, consistenza oleosa, birra avvolgente ed abbastanza morbida che mantiene però un discreto livello di scorrevolezza. Non si tratta certo di una birra che va bevuta a grande velocità, ma che va sorseggiata ed assaporata lentamente, nonostante l'alcool sia molto ben nascosto. Il gusto è dolce e ricalca l'aroma; leggermente ossidata e liquorosa, offre un percorso molto raffinato che si snoda tra prugna, uvetta e frutti di bosco, qualche nota di cioccolato e liquirizia. L'inizio marcatamente dolce è magistralmente bilanciato da lievissime note aspre di amarena, da una leggera acidità ma soprattutto da un bellissimo finale tannico; il palato è asciutto, e si può assaporare un lungo retrogusto di vino liquoroso, caldo e morbido, che lascia completamente soddisfatti.
Il (lungo) ed elaborato processo produttivo si riflette purtroppo sul prezzo di una grande birra che non può certamente essere bevuta con grande frequenza, ma che meriterebbe l'acquisto di un cartone all'anno da mettere in cantina per assaporarne l'evoluzione del corso del tempo. Può essere una straordinaria compagna da dopocena o, come consiglia Kuaska nelle note di etichetta, per "accompagnare al meglio il rinomato bollito misto alla piemontese, contrastare un sapido pecorino e al momento del dessert accrescere il piacere del cioccolato e di dolci alla ricotta".
Formato: 75 cl., alc. 10%, lotto 06-11,  scad. 03/2016, pagata 17.00 Euro (beershop, Italia).

venerdì 11 aprile 2014

De la Senne / Montegioco Taras Runa

Lo scorso 10 Gennaio la Brasserie De le Senne  pubblica sul proprio profilo Facebook un breve video di una cotta; gli italiani riconosceranno subito Riccardo Franzosi del Birrificio Montegioco alle prese con un grosso sacco di malto. E’ la realizzazione di un’idea – dicono - nata qualche tempo primo dopo un incontro alla Brasserie Cantillon tra Franzosi, Bernard Leboucq e Yvan De Baets. Il nome scelto per la collaborazione, Taras Runa,  è un chiaro riferimento a due note birre:  Taras Bulba (De la Senne) e la Runa di Montegioco, la “Blonde” che peraltro viene già utilizzata da Franzosi come “base” per diverse sue creazioni, come Garbagnina, Mummia, Quarta Runa e Mac Runa. Prodotta a Bruxelles, porta una classica e bella etichetta a marchio “De la Senne”; la presenza di Montegioco è rintracciabile tra le note e soprattutto nei tre monoliti che uno stilizzato ed adirato robot sembra voler scagliare fuori  dal tempo e dallo spazio. Non è semplice decifrare i diversi alfabeti runici, ma per chi vuole provare a leggere quanto è scolpito sui massi, mi sembra che la prima lettera a sinistra (per chi guarda) è una “F”, una lettera presente anche sul corpo del robot che invece solleva un masso con la lettera “G”. Su quello più a destra c’è invece la lettera “S”.     
Passiamo alla sostanza di questa "extra hoppy birra", come si autodefinisce in etichetta la Taras Runa. Imbottigliata il 06 Febbraio 2014, bottiglia con due mesi di vita sulle spalle e quindi decisamente fresca. 
Colore arancio pallido, opalescente; la schiuma è bianca e cremosa, abbondante e soprattutto molto, molto persistente. L'aroma è fresco e pulito, elegante, e dà il benvenuto con sentori di crosta di pane e cereali, scorza di arancio e di limone che si mescolano a note più dolci di frutta a pasta gialla come pesca ed albicocca. La gradazione alcolica è lievemente superiore a quella di una "session beer", ma la Taras Runa ha tutte le caratteristiche che servono per essere bevuta serialmente ed in grande quantità: corpo leggero, carbonazione media ed un equilibrio pressoché perfetto tra scorrevolezza/acquosità ed una morbida presenza al palato. Pulito ed intenso, il percorso in bocca inizia segue quello anticipato dall'aroma: base di pane e cereali, frutta gialla dolce ed un crescendo amaro finale molto elegante e raffinato, ricco di note erbacee e di scorza di limone che dapprima punzecchiano i lati della lingua per impossessarsi rapidamente di tutto il palato. La chiusura è molto secca (ma non asciutta), con un riuscitissimo retrogusto che ha il sapore dell'erba appena tagliata e della scorza di limone appena grattugiata. E' ufficialmente una collaborazione, ma è facile dimenticarsi di Montegioco mentre si beve questa Taras Runa e pensare alla Taras originale (Bulba) o alla Zinnerbir del birrificio belga, birre che peraltro sono diventate una sorta di punto di riferimento quando si tratta di Belgian Ale moderne e molto luppolate. E' una (quasi) session beer che si lascia bere con commuovente facilità e che sa essere ruffiana e piaciona quanto basta per portarti alla dipendenza; onestamente non mi sembra aggiungere molto al già notevole curriculum di De la Senne, mentre rappresenta senz'altro qualcosa di completamente inedito per Montegioco che si muove abitualmente su territori molto differenti. Per questo credo che sia forse uscita con l'etichetta sbagliata, troppo "Sennocentrica"; si fosse almeno vestita di Montegioco, almeno noi italiani la vedremmo in una luce completamente diversa. Dissertazioni a parte, si candida già ad essere la birra dell'estate 2014; prendetene e riempitene il frigorifero. 
Formato: 33 cl., alc. 4.8%, lotto 02084, imbott. 06/02/2014, scad, 06/02/2016, pagata 4.00 Euro (beershop, Belgio).

giovedì 10 aprile 2014

Struise Black Damnation IV Coffee Club

Per parlare della birra di oggi mi tocca ritornare a questo post di un paio di mesi fa; Black Albert, sontuosa Imperial Stout prodotta dai belgi di De Struise; una birra molto ben riuscita della quale gli Struise intravedono il potenziale (anche economico) e la mettono al centro di un progetto biennale (chiamato Black Damnation) che prevede la realizzazione di dodici diverse varianti. Si va dai più ovvi e semplici invecchiamenti in botte ai blend con altre imperial stout (soprattutto  di De Molen) a versioni estremamente alcoliche (22 e 39%). Il progetto è evidentemente andato bel oltre le intenzioni, visto che al momento Ratebeer riporta ben ventidue diverse edizioni di Black Damnation; a voi l'opzione di impersonare un vero beergeek e provarne quante più possibili, con un notevole esborso economico.
Nel bicchiere c'è ora la Black Damnation IV - Coffee Club, che invecchia per 6 mesi in botti che hanno ospitato rum e, come il nome sembra suggerire, forse riceve una qualche aggiunta di caffè ? Bottiglia prodotta nel 2011, minaccioso teschio in etichetta e birra che si presenta assolutamente nera come la "mamma" Black Albert; la schiuma è marrone scuro, compatta e cremosa, ed ha un'ottima persistenza. 
Al naso il rum è abbastanza netto, con sentori di legno umido e, più leggeri, di vaniglia, amaretto e salsa di soia. L'intensità è buona, ma niente a che vedere con la ricchezza e la complessità della Black Albert. Decisamente meglio in bocca, dove ritrovo quel sontuoso "mouthfeel" caratteristico della Black Albert: corpo pieno, pochissime bollicine, una consistenza cremosa, vellutata, morbidissima e quasi "masticabile", che avvolge tutto il palato. Ci sono caffè, tostature, cioccolato amaro, fruit cake e rum; molta frutta sotto spirito (uvetta, prugna) ed in secondo piano delle sfumature di cuoio e di tabacco, ma anche una lieve nota salmastra. Il gusto è decisamente dolce, con una po' di amaro (caffè e tostature) che s'affaccia brevemente solo nel finale; le manca un po' quella lieve acidità finale che aveva la Black Albert, necessaria per alleggerire un attimo l'intensità della (dolce) bevuta. Qui il sorseggiare è ugualmente appagante ma procede forse un po' più lentamente; chiude lunghissima, con un caldo retrogusto di caffè, prugna sottospirito e rum. Una ben riuscita variazione alla Black Albert, della quale ne ripropone praticamente tutti gli elementi aggiungendo delle interessanti sfumature (rum) che mettono maggiormente in evidenza la componente etilica; potente ma morbida,  con l'unico aspetto un po' deludente che è quello dell''aroma.
Non si trova in negozio molto spesso; in questi ultimi mesi ho visto arrivare in Italia le nuove bottiglie da 75 cl., vendute a 30 Euro e dintorni. Al di là del prezzo, è una scelta di formato abbastanza incomprensibile, per una birra molto sostanziosa che si beve senza grossa difficoltà ma che risulta già ampiamente sufficiente per il consumo individuale nel formato da 33.
Formato: 33 cl., alc. 13%, lotto 4634011011, scad. 29/12/2016, pagata 6.50 Euro (beershop, Italia).

mercoledì 9 aprile 2014

Birra del Borgo 7 IPA (H)ops


Appuntamento fisso ormai da qualche anno, in autunno, è quello organizzato a Borgorose presso Birra del Borgo e chiamato “I Giorni dell’IPA”; è chiaramente una manifestazione focalizzata sullo stile brassicolo che è stato più di moda negli ultimi anni, anche qui in Italia. L’edizione 2013, che va in scena sabato 9 Novembre vede la partecipazione di ospiti come Toccalmatto, Opperbacco, Extraomnes, Brewfist, Free Lions e Baladin, oltre ovviamente al padrone di casa Leonardo Di Vincenzo. La giornata prevede una cotta pubblica in mattinata seguita dal pranzo con i birrai e l'apertura delle spine nel tardo pomeriggio, assieme ad una degustazione guidata da Luca Giaccone.
In questa pagina potete trovare una piccola galleria fotografica che mostra i birrai in azione; il risultato di questa collaborazione a più mani è ovviamente, vista la giornata a tema, una India Pale Ale prodotta con sette varietà di luppolo: columbus, hallertau magnum, simcoe, cascade, ella, victoria secret e summer. Per la maggior parte dei birrai presenti non è certo una novità cimentarsi nella produzione di una IPA; curiosità invece per Baladin (un birrificio molto poco "amaro") ed Extraomnes, che sebbene produca alcune birre generosamente luppolate, ha radici ben salde nella  tradizione belga e non in quella anglosassone. Ricapitolando: sette luppoli, 7% il contenuto alcolico in percentuale, sette birrai coinvolti... non ho il numero delle IBU, ma spero che siano 70 o 77 per coerenza.
Birra nel bicchiere, di un bel color dorato velato; la schiuma, bianchissima, ha trama fine ed è cremosa, compatta e molto, molto persistente. I pochi mesi di vita sulle spalle si riflettono in un aroma molto fresco e pungente, anche se non "esplosivo": grande fantasia di agrumi (pompelmo, lime, limone e arancio), con i toni aspri che sono bel bilanciati da una parte più dolce di ananas e mango, pesca sciroppata, che emergono una volta che la schiuma si è dissipata. A dominare è comunque la scorza di limone, con una grande pulizia ed una notevole eleganza generale. Il gusto mantiene le ottime premesse, con un imbocco quasi dolce che passa per la crosta di pane, la pesca ed il mango, seguito da un riuscitissimo crescendo amaro che parte dai lati della lingua per poi impossessarsi, gradualmente, di tutto il palato. C'è di nuovo abbondanza di scorza di pompelmo e di limone, con sfumature erbacee e ancora più lievi di resina. E' ovviamente molto secca e dissetante, ruffiana e piaciona al punto giusto; anche il gusto è molto pulito, con un amaro deciso ma non aggressivo, sempre ingentilito da richiami dolci di frutta tropicale. L'alcool è molto ben nascosto e la birra sorprende in positivo per la sua morbidezza al palato, che la rende più cremosa che acquosa, ma ugualmente scorrevole; corpo e bollicine sono nella media. IPA molto riuscita, fresca e pungente, che si beve con grande soddisfazione e lascia un retroguso abbastanza lungo ricco di scorza d'agrumi, note erbacee e qualche sfumatura resinosa. 
L'unica mia obiezione riguarda la data di scadenza, due anni; oggi la 7 IPA è ottima, ma tra due anni cosa sarà rimasto di tutti questi luppoli ? Bevetela adesso, dunque.
Formato: 33 cl., alc. 7%, lotto LS 315 13B, scad. 01/2016, pagata 4,90 Euro (food store, Italia).

martedì 8 aprile 2014

Westmalle Extra

Non è questa la birra più conosciuta prodotta dai monaci trappisti dell'Abbazia di Nostra Signora del Sacro Cuore di Malle, meglio nota a tutti come Westmalle. I monaci producono birra dal 1836 per il consumo interno e dal 1870 hanno iniziato a venderla, dapprima solo nell'adiacente villaggio; tre le birre prodotte, Tripel e Dubbel le più note e reperibili (devo tornarle ad ospitare al più presto, su queste pagine) e, occasionalmente, la Extra.
Parliamo proprio di quest'ultima, ovvero la birra che viene prodotta dai monaci solo due volte nel corso dell'anno e che serve principalmente per il consumo interno, quotidiano, durante il pranzo. La potete trovare, quando disponibile, al Café Trappisten che si trova nei pressi dell'abbazia, oppure in bottiglie che occasionalmente vengono commercializzate, con una gradazione alcolica leggermente superiore a quella destinata al consumo interno.
Nel bicchiere arriva di color oro pallido, opaco, con una splendida "testa" di schiuma bianca, fine e cremosa, molto persistente. Il bicchiere d'ordinanza trappista è bello ma non è certo il massimo per apprezzarne i profumi; meglio ripiegare su un più pratico teku. 
Fortunatamente la bottiglia dovrebbe avere pochi mesi di vita e regala un bel naso fragrante, di pane e cereali, con eleganti sentori floreali (margherita), arancio e di frutta a pasta gialla (albicocca); c'è anche una leggerissima nota pepata a stuzzicare l'acquolina. Delicatissima in bocca, con una leggerezza che non va però a discapito dell'intensità: carbonatazione vivace, molto scorrevole, ripropone le note di pane e di cereali dell'aroma, qualche accenno di miele e note di agrumi. Il lievito le dona una leggerissima speziatura, il finale è splendidamente secco con un bel carattere erbaceo fresco, che ricorda l'erba appena tagliata, che si porta in dote anche qualche lieve traccia di scorza d'agrumi. Una birra-elogio della semplicità ma non per questo banale; pulitissima ed elegante, sembra quasi rappresentare lo spirito monastico: niente orpelli o inutili abbellimenti, ma sobrietà e rigore. Ha tutto quello che serve per essere una fragrante birra quotidiana, facile da bere in qualsiasi momento, dissetante  e rinfrescante ma anche capace di regalare soddisfazioni se sorseggiata in tutta calma. 
Vale sempre la pena ricordare la prescrizione che i monaci di Westmalle scrissero su una brochure commemorativa nel 150esimo compleanno del birrificio: "due bicchieri di trappista al giorno, riducono lo stress del 50%". Considerando che i monaci hanno diritto solo ad un bicchiere di Extra a pranzo, a noi non resta che portare a termine il compito con una Dubbel o una Tripel la sera.
Formato: 33 cl., alc. 4.8%, lotto 4 005914, scad. 10/12/2014, pagata 6.37 Euro (beershop, Belgio).

lunedì 7 aprile 2014

Brasseria Alpina D'or Dublé

Secondo appunatamento con la Brasseria Alpina di San Germano Chisone (Torino). Dopo la Gran Truc bevuta qualche mese fa, una birra abbastanza semplice che può senz'altro favorevolmente impressionare il palato di chi, abituato alle lager industriali, si avvicina alla cosiddetta "birra artigianale", è il momento della D'or Dublé, una birra molto più sofisticata, di quelle capaci di far esclamare, ad un palato ancora assopito dai (non) sapori industriali, frasi come "ma questa è una birra"?
La base di partenza è effettivamente una birra, credo dovrebbe trattarsi di una Strong Ale d'ispirazione belga, che viene poi messa ad invecchiare per 20 mesi in botti di rovere che hanno ospitato Barbaresco di Gaja.
Si presenta di colore ambrato scarico, con delle belle sfumature dorate e ramate; la schiuma, biancastra, è fine e cremosa ma non molto persistente. Al naso c'è un bouquet abbastanza complesso che offre sentori di caramello, miele, zucchero candito ed evidenti tracce del passaggio in barrique: sentori legnosi, di cedro candito, vaniglia ed uva. In bocca ci sono poche bollicine, corpo medio ed una consistenza più oleosa che acquosa. 
Il gusto appare all'inizio un po' confuso, con un dualismo birra-vino abbastanza irrisolto, quasi due elementi che tendono a respingersi: da un lato i malti (caramello e miele) che sono predominanti a birra fresca, mentre man mano che la  temperatura si alza la "birra" tende quasi a scomparire per lasciare il terreno ad un vino dolce da dessert. Il risultato, abbastanza zuccherino, sorprende anche chi è familiare con le birre prodotte con mosto d'uva (Loverbeer, Montegioco); qui ovviamente non c'è utilizzo di mosto, la pulizia non è esemplare ma la lunga permanenza in botti di vino ha comunque donato alla birra un carattere nettamente vinoso, dove l'alcool (8.5%) è assolutamente impercettibile e questa D'or Dublé si beve con buona facilità. Il finale è leggermente acidulo e quasi rinfrescante, con una leggera nota amaricante di mandorla. Devo dire che dopo diverse centinaia di birre ospitate su queste pagine è forse per la prima volta che mi trovo in difficoltà nel farmi un'opinione su quello che ho appena bevuto: se il parametro è solamente quello del gusto, della gradevolezza, la D'or Dublé è  una "birra" piacevole, che - una volta prese le misure - si beve con gusto. Se vogliamo invece andare oltre il gusto, mi sembra invece una birra barricata nella quale il vino si è quasi "bevuto" la birra, o forse la base di partenza (ossia la birra) non era quella più appropriata. Non è una birra che porta in dote delle gradevoli sfumature donate dai mesi passati nella botte,  ma piuttosto una birra che il passaggio in botte ha pesantemente modificato, sbilanciato, quasi annullato; l'aroma offre ancora un buon compromesso, ma in bocca la deriva vinosa è evidente ed un po' fuori controllo. Il risultato, ripeto, è abbastanza atipico e tuttavia gradevole, per chi scrive. A voi la scelta della prova, e la possibilità di farvi la vostra opinione. 
Formato: 50 cl., alc. 8.5%, IBU 20, lotto 001, scad. 31/12/2014, pagata 8.00 Euro (stand birrificio).

domenica 6 aprile 2014

Piccolo Birrificio Seson

Ritorna dopo qualche tempo su queste pagine Lorenzo Bottoni, il birraio attualmente attivo con il "progetto" Laboratorio Piccolo Birrificio; la sua avventura come produttore inizia però nel 2004 con il Piccolo Birrificio d'Apricale, chiuso nel 2010 per poi passare in Svizzera al Bad Attitude, dove rimase sino al 2012. A marzo dell'anno scorso Bottoni annunciava la nascita del Laboratorio Piccolo Birrificio, "ideale prosecuzione del Piccolo Birrificio d'Apricale", al momento ancora sotto forma di "beerfirm", ovvero noleggiando impianti altrui.
E proprio dal periodo di Apricale, Bottoni si è portato dietro questa birra chiamata Seson, sorella "maggiore" della Sesonette assaggiata in questa occasione; come il nome suggerisce, si tratta di una Saison prodotta con ginepro, coriandolo e, soprattutto, scorza di chinotto; non a caso l'etichetta riporta la scritta "est. 2004", un riferimento all'anno di nascita  del Piccolo Birrificio di Apricale. A quel tempo veniva utilizzato il chinotto del presidio Slowfood di Savona, credo per la prima volta in Italia in una birra; ma chi è attento alla scena brassicola italiana, chi frequenta alcuni blog e forum, non sarà sicuramente sorpreso nel sapere che sull'etichetta di questa saison si parla solamente di "chinotto", senza alcun riferimento a Slowfood. Se la vostra scelta è per il presidio, credo che al momento dobbiate indirizzarvi su quella prodotta dal Birrificio Scarampola.
A proposito dell'etichetta, è completamente in inglese (inclusa la misura del contenuto: 11.2 once fluide) per cui immagino si tratti di una bottiglia in origine destinata esclusivamente all'esportazione negli Stati Uniti, che è stata prodotta presso gli impianti del birrificio Opera di Pavia.
Nel bicchiere è di color dorato con riflessi arancio, velato; si forma un buon cappello di schiuma biancastra, fine e cremosa, molto persistente. Il naso è abbastanza elegante senza però tralasciare quel carattere "rustico" che non dovrebbe mai mancare in una saison: effettivamente si nota la presenza delle spezie dichiarate in etichetta (ginepro e coriandolo); ci sono anche sentori di banana e di agrumi (scorza d'arancio/chinotto). Le premesse sarebbero buone, ma in bocca questa Seson non riesce ad essere altrettanto convincente: bene il corpo medio-leggero, bene il suo essere scorrevole e "watery", mentre i punti dolenti sono il livello di pulizia ed un'eccessiva "burrosità" che le nega quella secchezza dissetante che mi aspetterei di trovare in una saison. La base maltata è di biscotto e pane, c'è una parte fruttata di buona intensità con chinotto e banana, ed un finale un po' troppo timido, dove la bocca rimane un po' "imburrata" e con un breve retrogusto di banana e di scorza di chinotto. Un piccolo passo indietro rispetto alle altre nuove produzioni del Laboratorio Piccolo Birrificio che mi erano parse molto più convincenti.
Formato: 33 cl., alc. 6%, lotto 59/2013, scad. 30/10/2014, pagata 2.50 Euro (beershop, Italia)

sabato 5 aprile 2014

Jandrain-Jandrenouille Belga Corner

Alexandre Dumont e Stéphane Meuleman, due ex-compagni d'Università (ingegneria) fondano nel 2007 la Brasserie de Jandrain-Jandrenouille in un'imponente fattoria risalente al diciottesimo secolo chiamata la "Féculerie", probabilmente perché un tempo in quel luogo si produceva la fecola, estraendola dai tuberi. Un birrificio di piccole dimensioni (55.000 bottiglie prodotte l'anno, dichiarano) che però ha da subito suscitato grossi entusiasmi; i due fondatori lavorano anche nella sede europea (a Louvain-La-Neuve) della Yakima Chief, uno dei maggiori produttori ed esportatori di luppolo americano proveniente dalla omonima vallata dello stato di Washington. Rispettivamente, Alexandre è "Business Development Manager" mentre Stephane occupa la poltrona di Senior Vice President of Sales; non c'è dunque da meravigliarsi se i luppoli americani sono stati protagonisti nelle loro (poche) birre prodotte sin da subito ed in tempi non sospetti (2007), prima che il loro uso iniziasse a diffondersi sempre di più tra i birrifici del Belgio. Leggo su quello che è al momento l'unico sito "ufficiale" che l'attività della Brasserie è ora portata avanti esclusivamente da Alexandre Dumont.  L'entusiasmo degli esordi è andato un po' scemando nel corso degli anni, con un livello qualitativo delle birre che non si è purtroppo mantenuto sempre costante. 
Solamente tre le birre prodotte sino ad ora, più altre prodotte per locali e o per altri birrifici; per una volta, saltiamo le birre "originali", con la promessa di ritornarci al più presto, e partiamo con la Belga Corner, una birra che Jandrain-Jandrenouille produce appositamente per l'omonimo ristorante belga che si trova a San Paolo, Brasile.
Si presenta nel bicchiere di color arancio pallido, opalescente; la schiuma è un po' grossolana, bianca, di buona dimensione ma dalla persistenza molto scarsa. Il naso non è particolarmente entusiasmante, ed offre un bouquet discretamente elegante di arancio e banana, qualche sentori di miele, pane e cereali, leggermente rustico. In bocca è leggerissima, discretamente carbonata, con una consistenza spiccatamente watery che la rende molto scorrevole ma anche un po' sfuggente. Se l'inizio è tutto sommato discreto, con note di pane e cereali, arancio, pera e banana, l'intensità della birra va purtroppo a scemare nel corso della bevuta sino quasi a spegnersi nel finale, dove l'acqua diventa protagonista. Praticamente assente l'impronta caratterizzante del lievito belga, è per lo meno molto dissetante e rinfrescante, grazie anche ad una buona acidità che ben bilancia il dolce della frutta. Una bevuta tutta in discesa, che parte con buone intenzioni ma si indebolisce sempre di più sino a quasi scomparire, senza lasciare un gran ricordo di sé. 
Formato: 75 cl., alc. 6.5%, lotto e scadenza non riportati, pagata 6.06 Euro (beershop, Belgio).

venerdì 4 aprile 2014

Menaresta San Dalmazzo

Dopo le Menaresta "moderne", realizzate negli ultimi anni dal birraio Marco Valeriani (Due di Picche, GiB, e 22 La Verguenza) è tempo di fare qualche passo indietro e di scoprire anche le "classiche". E' ad esempio il caso della San Dalmazzo, in produzione sin dall'anno di nascita di Menaresta (2007) e che trovo definita su molti siti come "un incrocio tra una IPA ed una bionda d'abbazia"; meglio attenersi a quanto dichiara invece il birrificio, ovvero una ricetta che prevede un ceppo di lievito belga ed un mix di luppoli tedeschi, cechi ed americani. Come quasi tutte le altre birre, anche la San Dalmazzo è legata alla storia del birrificio; racconta Marco Rubelli che "San Dalmazzo è il nome di una chiesetta ligure dove facevamo scampagnate da piccoli e dove cresceva il luppolo spontaneo". La ricetta ha sicuramente subito la sua evoluzione nel corso del tempo; purtroppo non ho avuto l'occasione di assaggiarla negli anni scorsi, ma quella attuale è una birra assolutamente "contemporanea", che trova comodamente posto accanto alle più recenti creazioni di Valeriani.
Nel bicchiere arriva di colore oro pallido, leggermente velato; la generosa schiuma bianca che si forma ha una buona ritenzione ed è compatta e cremosa. L'aroma, leggermente fenolico, non nasconde la matrice belga del lievito, con qualche spezia (chiodi di garofano), banana ma soprattutto sentori floreali (geranio) e di agrumi (limone). 
Vivace ed abbastanza carbonata in bocca, è leggera e "scattante", scomparendo dal bicchiere con la velocità di una session beer, anche se la gradazione alcolica è leggermente superiore alla soglia del 4.5%; c'è un veloce imbocco maltato di crosta di pane, qualche suggestione di miele e di frutta gialla, prima che la bevuta viri verso la generosa luppolatura che porta in dote scorza di pompelmo e limone, note erbacee ed una leggera pepatura, che proseguono anche nel retrogusto, amaro, pulito ed elegante. E' una birra semplice e ben congeniata, profumata e pulita, rinfrescante e che chiede di essere bevuta a grandi sorsi senza grosse riflessioni: è perfetta per i mesi più caldi dell'anno, dove la sua secchezza è lì apposta per dissetare e ri-assetare. Si colloca nella (ormai molto frequentata) categoria di Blond belghe un po' ruffiane ed abbondantemente luppolate, senza mostrare assolutamente il segno dei sette anni passati dal suo debutto. 
La bottiglia in questione era aveva già dodici mesi sulle spalle ma si è rivelata ancora profumata di fresco e fragrante in bocca. Segnatevi anche questa sulla lista degli acquisti da fare per la prossima estate. 
Formato: 33 cl., alc. 5.2%, IBU 33, lotto 47, imbott. 04/2013, scad. 04/2014, pagata 3.10 Euro (beershop, Italia).