martedì 30 giugno 2015

Buxton Far Skyline

Nell’ormai sempre più vasto portfolio brassicolo di Buxton trova anche spazio la Far Skyline, rilettura in chiave moderna di una Berliner Weisse.  Per chi non fosse molto familiare con questo stile, ricordo brevemente che si tratta di una birra di frumento sulle cui origini ci sono varie ipotesi. Alcuni ritengono che la Berliner Weisse altro non sia che la semplice evoluzione di una birra marrone di frumento ed orzo (Halberstädter Broihans) che veniva prodotta ad Halberstadt  nel XVI secolo; per altri venne invece portata a Berlino alla fine del diciassettesimo secolo da un gruppo di Ugonotti  francesi in fuga dalle persecuzioni del Re Sole.  Nel XIX secolo questa birra era diventata popolarissima nella capitale tedesca, per poi andare incontro ad un progressivo declino: oggi è rimasta solo la Berliner Kindl Brauerei a produrla, ed è quindi l’unico birrificio che potrebbe utilizzare questa denominazione  (Berliner Weisse)  d’origine controllata:  il fatto che Buxton metta ugualmente le due parole in etichettta avrà delle conseguenze? 
Le sue caratteristiche sono l’impiego di una percentuale di frumento che varia tra il 25 ed il 50%, una bassa gradazione alcolica (2,8-3,8%), una vivacissima carbonazione e, soprattutto, una spiccata acidità ottenuta mediante una seconda fermentazione in bottiglia aggiungendo Delbrückii Lactobacillus: pare che Napoleone  occupando Berlino agli inizi del diciannovesimo secolo le definì “lo Champagne del nord”, mentre i più umili nativi si accontentavano di chiamarla “lo spumante dei lavoratori”. La loro forte acidità fa sì che raramente vengano bevute “pure” dai berlinesi: di solito vengono “tagliate” con un bicchierino di sciroppo dolce (Schuss) che, a seconda della varietà, impartisce alla birra un curioso colore verde (sciroppo di asperula) o rosso (lamponi).  Alla Buxton scelgono invece di contrastare l’acidità usando la mano pesante con il luppolo, ovvero “snaturando” uno stile che non vorrebbe la percezione di luppolo né all’aroma né al gusto; la soluzione adottata (dry-hopping) è un buon compromesso che (volutamente) impatta l’aroma senza rendere il gusto amaro.
All’aspetto si colloca tra il dorato e l’arancio, opaco, con una testa di bianca schiuma fine e cremosa, dalla buona persistenza. L’aroma, pulito e ancora abbastanza fresco, è ovviamente quanto di meno ti aspetteresti da una Berliner Weisse, regalando un fruttato bouquet composto da mandarino, arancio e melone retato con qualche nota tropicale di ananas e mango.   Al palato c’è invece una bella acidità (lieve lattico, limone, frumento) che si trova a convivere con il dolce dell’ananas, della pesca e del melone;  il risultato è una birra acida piuttosto accomodante, fruttatissima e  sicuramente fruibile senza traumi anche a chi non ha grossa familiarità con le “sour ales “. Un’invidiabile secchezza garantisce un estremo potere rinfrescante e dissetante, mentre il finale è aspro di limone e lime, ananas acerbo, uva spina, con una punta amara lattica appena percepibile. Il suo unico evidente “difetto” è la mancanza di bollicine: poche, davvero troppo poche anche per  un’interpretazione “moderna” di uno stile che invece ne richiederebbe moltissime.  
Convince? Sì, è una birra ruffiana che convince, prendendosi qualche rischio ma riuscendo ad amalgamare con successo l’acido con quel carattere fruttato che ormai troviamo protagonista in molte birre e che anche in questo bicchiere si ritaglia un ruolo principale;  limate quasi tutte le asprezze e le asperità lattiche, rimane una birra mansueta e leggermente acida che poco ha a che vedere con una Berliner ma che rimane comunque molto godibile e rinfrescante, quindi perfetta per la stagione estiva,. Formato da 33 decisamente insufficiente, perché una volta che entrate nel meccanismo del “dissetante succo di frutta" diventa difficile uscirne. Ah, per la cronaca ne esiste anche una versione (Very Far Skyline) invecchiata in botti ex-Chardonnay.
Formato: 33 cl., alc. 4.9%, lotto G:B138, imbott. 25/03/2015, scad. 25/12/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 29 giugno 2015

Toccalmatto Skianto

Duemilaequindici ricco di novità, per il birrificio Toccalmatto di Fidenza: non solo nuove collaborazioni, come avvenuto nel 2014, ma soprattutto l'inaugurazione del nuovo stabilimento produttivo, che ha significato oltre ad una maggiora capacità produttiva anche il tanto atteso arrivo del formato 33, proprio quello che non troppi anni il "patron" Bruno Carilli dichiarava che non avrebbe mai fatto. Lo scarso successo della cosiddetta "birra artigianale" nei ristoranti e la buona diffusione nei bar, nei pub e nei beershop lo ha evidentemente convinto ad affiancare al classico formato da 75 anche quello più piccolo.  
Tra le prime 33 ad arrivare sul mercato c'è subito una novità, la prima Session IPA targata Toccalmatto, chiamata Skianto (Session e Carnazza) e palesemente dedicata al gruppo capitanato da Roberto "Freak" Antoni, che nel 1978 fece uscire la canzone "Io ti amo da matti", nella quale si inneggiava a "sesso e carnazza", contenuta nell’album chiamato MONO Tono.
Pronta strategicamente in tempo per fronteggiare l’imminente stagione estiva, per la propria “Session IPA” Toccalmatto sceglie una generosa luppolatura di Huell Melon e Equinox: se avete di recente provato la Duvel Tipel Hop 2015 che si trova in questo periodo sugli scaffali di qualche supermercato, troverete profumi familiari.
Sotto ad un bianchissima schiuma abbastanza persistente, il bicchiere si colora di dorato velato piuttosto pallido, quasi paglierino. Bottiglia molto fresca  ed aroma che sprigiona eleganti e pungenti sentori di agrumi gialli e verdi (lime, limone, cedro, limonata) che lasciano spazio solamente ad un tocco di ananas  in sottofondo. Leggerissima in bocca, con le giuste bollicine, ha un gusto che rispetta quasi in pieno i dettami di questo “nuovo” sotto-stile: base maltata (crackers) appena percepibile, tantissima frutta con abbondanza di agrumi che vanno a comporre una sorta di succo di frutta estremamente dissetante e un po’ ruffiano.
Nel caso della Skianto c’è coerenza con l’aroma (limone, lime, cedro e pompelmo) ed  una remota dolcezza (albicocca, ananas) a bilanciare l’intenso agrumato: il  finale è ovviamente zesty e secchissimo, amaro quanto basta. Una birra profumatissima volutamente portata all’estremo punto d’incontro tra birra ed un cocktail di frutta: pur con qualche lieve sconfinamento di troppo nell’acquoso, trova comunque un buon punto d’incontro tra intensità e necessità di essere leggera e scorrevole come l’acqua e portare quel necessario refrigerio nella stagione più calda dell’anno, evaporando rapidamente dal bicchiere.  Risultato che peraltro si può anche ottenere con una “normale” Golden Ale, ma se la moda di chi beve chiama “Session IPA”, per chi produce diventa necessario rispondere e stare al passo dei tempi.
Mantenuti in pieno gli elevati standard del birrificio di Fidenza: ottima pulizia, abbondante luppolatura comunque ben “pensata” (difficile qui parlare di equilibrio) e, purtroppo, fascia di prezzo: i quasi 15 Euro al litro sono palesemente all’opposto del concetto di “bevuta seriale” e fanno sì che la “sessione” sia abbastanza corta. Un problema che riguarda trasversalmente tutta la birra di “qualità” italiana, ma che forse trova in questa “session” di Toccalmatto la punta dell’iceberg: Session o Double IPA che sia, il prezzo rimane più o meno lo stesso. E' sempre difficile fare confronti con altri paesi e l’Italia non rende le cose facili ai nostri birrai, ma secondo me dovremmo utilizzare il termine “session” solo quando anche nel nostro paese avremmo delle birre come queste a dei prezzi simili.  Per adesso, limitiamoci al “poca ma buona”.
Formato: 33 cl., alc. 4.3%, lotto 15019, scad. 15/05/2016, pagata 4.80 Euro (birrificio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 27 giugno 2015

Doctor Brew American IPA & Double IPA


Secondo appuntamento con la Polonia: dopo AleBrowar di qualche giorno fa è il momento di Doctor Brew, un'altra beerfirm (come la maggior parte dei protagonisti dell'avanguardia polacca) che produce presso gli impianti della Browar Bartek a Gołuchów. Doctor Brew è invece nata 150 chilometri  a sud-ovest, a Wroclaw, dove si sono incontrati Marcin Olszewski  e Lukasz Lis, entrambi ex-homebrewer che nel 2013 hanno trasformato il loro hobby in una professione. Che i due "dottori" siano ispirati dalle birre americane non è certo un mistero, basta guardare la lista delle birre prodotte in soli due anni: IPA, Double IPA, Single Hop IPA con qualche (American) Barley Wine ed Imperial Stout.      a rompere la monodia. L'annuale classifica di Rabeer pubblicata ad inizio anno, per quel che vale, ha proclamato Doctor Brew come "Best New Brewery" polacca del 2014; ai festival birrari la beerfirm si fa senz'altro notare per la presenza di infermiere/dottoresse che vi spillano la birra vestite in camice bianco.
Con mia grande sorpresa Doctor Brew mi ha contattato per inviarmi alcune delle loro birre da assaggiare direttamente dalla Polonia: iniziamo  quindi dalla American IPA, che a voler essere pignoli esattamente "americana" non è, almeno nella forma. La sostanza si rivelerà poi corretta. L'unico luppolo a stelle e strisce che la ricetta prevede è infatti il Cascade, affiancato da Galaxy (Austrialia), Magnum (Germania) e Motueka (Nuova Zelada). I malti sono Pale Ale, Caramel e frumento.  
Nel bicchiere arriva ambrata opaca, con qualche riflesso arancio: ottima la persistenza della schiuma biancastra, cremosa e compatta.  La bottiglia è giovane e l'aroma lo riflette, fresco, pungente e carico soprattutto di pompelmo con ananas, resina, caramello e un po' di "dank" in sottofondo; davvero notevole l'intensità, mentre pulizia ed eleganza sono ad un buon livello ma migliorabili. In bocca è morbida e scorrevole, con corpo medio e una carbonazione abbastanza bassa: biscotto e caramello sono la base necessaria per sostenere l'abbondante luppolatura che, dopo il pompelmo ed un leggero fruttato tropicale, accelera con un finale amaro resinoso e lievemente terroso di ottima intensità. Più vicina alle interpretazioni della costa ad est che di quella ad ovest Americana, porta in dota un'ottima freschezza che le fa perdonare una pulizia ed un eleganza che potrebbero essere migliori. E' una IPA che si beve con gusto e con grande facilità: affinandola e limando un po' gli spigoli può davvero diventare ottima.
Il livello sale con la Double IPA, più alcolica (8%) ma comunque lontana da quegli estremismi a doppia cifra che spesso ci vengono proposti. Centennial, Magnum, Cascade, Summer ed Amarillo sono i luppoli impiegati, mentre i malti sono gli stessi della sorella minore; anche l'aspetto è piuttosto simile. Al naso c'è una bella freschezza che permette di apprezzare pompelmo, aghi di pino, ananas, mango, papaia, lampone, litchi e melone: pulizia e finezza sono senz'altro superiori all'American IPA. Il mouthfeel è molto buono, con corpo medio ed una bella morbidezza che però sacrifica qualche bollicina, che invece avrei personalmente apprezzato. Il gusto è un po' meno pulito rispetto all'aroma, ma offre una bella intensità fatta di biscotto e caramello, frutta tropicale (mango, melone), pesca ed un finale amaro resinoso e vegetale. Double IPA molto  equilibrata, in cui la freschezza gioca un ruolo fondamentale: il dolce della frutta bilancia benissimo l'amaro senza sconfinare in dolcioni o in marmellate, ed il palato ne trae giovamento. Molto ben gestito anche l'alcool, che dà il suo contributo solamente a fine corsa, senza mai disturbare la bevuta.
Due birre di buon livello, con la Double IPA indubbiamente più raffinata ed elegante: nata neppure due anni fa, la beerfirm si dimostra interessante e, sebbene di IPA in giro ce ne siano sin troppe, è sempre un piacere berle quando sono fresche e fatte bene. Apprezzato anche il formato da 50 cl., ormai (ahimè) ormai quasi abbandonato dai produttori italiani. Bottiglie in scadenza ma ancora freschissime, a testimonianza di una shelf life molto corta (credo 2-3 mesi) che Doctor Brew giustamente impone a questo tipo di birre. In Polonia mi dicono che finiscono prima di scadere, vista l'elevata richiesta; in Italia, se v'interessa, potete eccezionalmente trovare qualche bottiglia qui.
Nel dettaglio:
American IPA, formato 50 cl., alc. 6.2%, IBU 90, scad. 30/06/2015.
Double IPA, formato 50 cl, alc. 8%, IBU 99, scad. 01/07/2015.

giovedì 25 giugno 2015

Bad Brewer Pale Ale

Il suo indirizzo è "viale D'Annunzio 1, 47838 Riccione", ma non aspettatevi di trovare un suggestivo birrificio di fronte alla darsena della famosa località romagnola: l'indirizzo è solamente quello della sede legale. Chissà, forse un giorno sul lungomare ci sarà la "taproom"?  Come spiegano sul loro sito, senza nascondersi, Bad Brewer è una beerfirm che produce presso impianti altrui: tre le birre realizzate sino ad ora due sono nate sugli impianti del vicino Birrificio Amarcord (Amber Ale e Pale Ale) ed una al Birrificio Del Ducato (California Common).
Il progetto beerfirm è molto ben curato, con una solida presenza sui social network e un bel sito internet: il focus comunicativo è sulla "strada", come vi viene mostrato in questo video. Dal cibo da strada alle birre da strada, "birre da rutto", birre da bere anche a collo, mentre passeggiate, in qualsiasi momento.
Tra le tante (troppe) beerfirm italiane Bad Brewer si distingue in positivo anche per il prezzo particolarmente aggressivo: siamo intorno ai 6 Euro/litro, ovvero la bottiglietta da 33 cl. la trovate a poco meno di due euro.
E' da tempo che vado lamentando come in Italia la birra "di qualità" (evito volutamente il termine artigianale) sia cara, troppo cara: e non mi riferisco a birre barricate o speciali, ma a semplici Pils, American Pale Ale, Golden Ale… Non dico che una birra di qualità debba costare come una lager industriale, ma non è neppure possibile che per una normalissima birra "base" da 33 centilitri si debbano spendere in media dai 4 ai 5 euro. Immaginate di fare una grigliata assieme ad un po' di amici e di volerla accompagnare con un cartone di birra: la vostra scelta obbligata diventa il supermercato, dove con una ventina di euro vi portate a casa due dozzine di bottiglie. Moltiplicate 4 euro per 24 ed ecco, facendo il conto della serva,  quello che vi costerà bere lo stesso cartone di un microbirrificio italiano: 96 euro, alla faccia del termine "session" che adesso va tanto di moda. 
Giusto un anno fa salutai con "felicità" l'arrivo della cosiddetta "artigianale del discount", ma il loro assaggio gettò un bel po' di acqua fredda sull'entusiasmo: il prezzo era interessante, la qualità lasciava invece a desiderare e, seppur qualcuna di loro l'avrei preferite ad una delle tante bottiglie verdi industriali, non mi è venuta tanta voglia di correre alla Lidl a ricomprarle. 
La scorsa settimana ho adocchiato in un Carrefour le birre di Bad Brewer: prezzo leggermente più alto rispetto alla Italian Pale Ale del discount (1.99 anziché 1.49 Euro) ma ancora "sostenibile" in caso di grande acquisto e comunque sempre inferiore del 50% di quasi ogni altra birra "artigianale" italiana.
Ah, se volete malignare, anche l'azienda Target 2000 (quella della Italian Pale Ale del discount) è di Riccione e, guarda caso,  gli ingredienti  della Italian Pale Ale sono esattamente identici a quelli della Pale Ale di Bad Brewer. La ricetta è di Andrea Pausler, da cinque anni birraio da Amarcord e nel suo passato un'esperienza alla Thornbridge in Inghilterra: malti Pils, Vienna e Carmdark, luppoli Magnum, Centennial, Chinook e Ahtanum con Galaxy e Cascade in Dry Hopping. Ammetto di aver pensato subito male e di aver ipotizzato una banalissima rietichettatura della stessa birra, ma all'assaggio le cose si sono dimostrate molto diverse.
Pale Ale di Bad Brewer, dunque, si presenta di color oro carico con qualche sconfinamento nell'arancio velato: la schiuma è bianca e cremosa, compatta, molto persistente. Bottiglia con scadenza giugno 2016, ipotizzo quindi un lotto piuttosto fresco, ragione principale che mi ha spinto al suo acquisto. E l'aroma lo dimostra: non molto intenso ma fresco e soprattutto pulito, i profumi sono quelli del limone e del lime, del mandarino e del pompelmo, del miele millefiori, con qualche suggestione di agrumi canditi. Gli stessi elementi (crosta di pane, agrumi canditi, limone e pompelmo, mandarino) ritornano subìto in bocca per continuare linearmente il percorso. Una leggera nota di miele fornisce poi l'adeguato bilanciamento al finale amaro, che tende a privilegiare la scorza d'agrumi rispetto alle note erbacee e resinose. Benino la secchezza conclusiva dissetante e rinfrescante, anche se non impeccabile: il palato rimane lievemente appiccicoso, piccolo vizio perdonabile. L'intensità è sicuramente migliorabile e un po' carente in alcuni passaggi, ma si tratta comunque di una birra pulita che nonostante un ABV del  6% si beve davvero con la facilità di una session beer, grazie ad un corpo medio-leggero e ad una consistenza correttamente watery. 
Spazio per migliorare c'è, ma il rapporto qualità prezzo paragonato agli standard italiani è indubbiamente positivo. Se dovessi prendere una dozzina di bottiglie da bere in compagnia, da accompagnare una grigliata o da portare in spiaggia questa Pale Ale di Bad Brewer sarebbe in cima alla mia lista. Probabilmente l'investimento economico non è ancora sostenibile, ma se arrivassero le lattine nei supermercati questo prodotto a questo prezzo potrebbe davvero diventare la birra della rivoluzione dei prezzi in Italia.
Formato: 33 cl., alc. 6%, IBU 41, lotto illeggibile, scad. 30/06/2016, pagata 1.99 Euro (supermercato, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 24 giugno 2015

Dark Horse Plead the 5th Imperial Stout

Marshall, piccola cittadina nella contea Calhoun, Michigan, 7000 anime o poco più: negli anni ’90 Bob Morse acquista una stazione di rifornimento in disuso e la riconverte in un Convenience Store; gli affari vanno bene e, oltre ad aprire altri due punti vendita, rileva anche un ristorante chiedendo poi aiuto al figlio Aaron, studente di arti grafiche, su come ridisegnarlo e ammodernarlo.  Aaron, che al college si dilettava con l’homebrewing  (fare la birra costava meno che comprarla) suggerisce di realizzare invece un brewpub. Alla banca che deve concedere il mutuo non piace però la location scelta, troppo poco visibile: il locale viene quindi realizzato al numero 826 di  West Michigan Avenue, con un impianto da sette barili che viene inaugurato nel 1997.  
Il brewpub è però tutt’altro che un successo, essendo la piccola Marshall ben poco interessata alla “craft beer” in un periodo in cui la sua diffusione negli Stati Uniti era molto più limitata di oggi. Aaron Morse decide allora di convertire la licenza di brewpub in quella di “microbrewery”; il ristorante chiude e gli impianti vengono trasferiti sul terreno della vecchio Convenience Store,  dove trova anche spazio la taproom. Date un occhiata con Goggle Street View all’indirizzo “511 S Kalamazoo Ave, Marshall, MI” per rendervi conto della location. 
E’ l’anno 2000 è nasce la  Dark Horse Brewing Co.  Ad aiutare Aaron ci pensa il birraio Brian Wiggs e l’impianto da sette barili arriva ad effettuare 735 cotte all’anno, incapace di tenere il ritmo della domanda: nel 2011 viene acquistato un terreno adiacente  dove nell’edificio esistente viene installato il nuovo impianto da 20 barili.  Quello vecchio rimane in utilizzo per soddisfare il consumo della sola taproom, al cui soffitto è appesa l’impressionante collezione di tazze realizzate da Ryan Dalman; al momento ce ne sono oltre tremila.  Di tanto in tanto le tazze vengono messe in vendita, e acquistandole con un obolo di 46 dollari, guadagnerete l’iscrizione a vita al Dark Horse Mug Club. Ma che cosa ottenete, oltre alla tazza?  Il primo giro di birra gratis, il diritto a lasciare la tazza alla taproom in un apposito ripostiglio e un buono acquisto da 50 centesimi dopo ogni sei bevute; inoltre, la tazza è leggermente più capiente di una pinta americana e quindi con gli stessi soldi riuscirete a bere ogni volta un pochino più di birra dei non membri. 
Nel terreno di proprietà adiacente alla taproom la famiglia Morse aggiunge anche un negozio dove comprare il merchandising del birrificio, uno studio di tatuaggi ed un negozio di skateboard, tutti distrutti in un incendio (doloso, pare) avvenuto nel 2010. Vennero ricostruiti in un paio di mesi e, tra gli attuali progetti di espansione dalla famiglia Morse, c’è la costruzione di un negozio di motociclette, una distilleria, un forno e un negozio di dolci, che andranno idealmente a formare un piccolo “centro commerciale” nella desolante periferia di Marshall, dove le famiglie potranno trascorrere l’intera giornata. 
La Dark Horse è diventata “famosa” nel 2012 (l’episodio risale al 2010 ma si è diffuso in internet con due anni di ritardo) per aver rifiutato di prestare le proprie birre e la propria immagine alla realizzazione di un video musicale del famoso  gruppo rock canadese dei Nickelback, che nel 2008 aveva pubblicato un album chiamato proprio Dark Horse. Il regista intendeva ambientare il video all’interno di un party in un college dove i ragazzi sarebbero stati filmati tenendo in mano le lattine di Dark Horse; la risposta di Morse all’invito fu piuttosto secca: “noi non facciamo lattine, solo bottiglie”, rincarando poi la dose aggiungendo “io odio i Nickelback, fanno del rock di merda e non meritano di essere passati alla radio. Ma non ce lo poteva chiedere un gruppo come gli Slayer?”. Il birrificio rinuncia così a quella che sarebbe probabilmente stato un’ottima pubblicità a livello nazionale, e non solo. 
Ma l’appuntamento con la notorietà è solo rimandato; lo scorso luglio 2014 il canale History Channel ha messo in onda la prima puntata di un reality show ambientato all’interno del birrificio, chiamato Dark Horse Nation
Leggendo vi è venuta sete?  Passiamo alla birra. Ispirati dalla serie di nove stout preparate per l’Annual All Stouts Day  da quello che è forse il birrificio “craft” più famoso del Michigan, il vicino di casa (50 km.)  Bell’s, anche Aaron Morse e  Bryan Wiggs decidono di realizzarne cinque: One Oatmeal Stout, Fore Smoked Stout, Too Cream Stout e Tres Blueberry Stout sono le prime quattro. La chiusura, in bellezza, avviene con una muscolosa Imperial Stout che viene chiamata  “Plead The 5th”; il riferimento è al numero 5, ma l’espressione “appellarsi al quinto emendamento” equivale al nostro “avvalersi della facoltà di non rispondere”. La birra viene prodotta ogni anno in febbraio: per quel che conta, sia Ratebeer che Beer Advocate la elencano (assieme alla sua versione Bourbon Barrel Aged) tra le 50 miglior Imperial Stout al mondo.
Dopo la Crooked Tree IPA bevuta quattro anni fa, ecco Plead the 5th riempire di un viscoso liquido nero il bicchiere, formando una solidissima e cremosa schiuma color nocciola, molto persistente. Aspetto splendido e aroma che risponde con un'opulenza fatta di fruit cake, cioccolato al latte, caramello, caffè e cenere, vaniglia, una leggerissima nota di salsa di soia; l'alcool ricorda il rum, completando un aroma dolce che anticipa quella sorta di dessert liquido in procinto di avvolgere il palato. Poche bollicine, corpo tra il medio ed il pieno, morbidezza ed una buona scorrevolezza per un'imperial stout che marca ABV 11%. Cioccolato al latte, orzo  tostato, liquirizia, caffè, toffee vanno a comporre un gusto davvero molto intenso con l'alcool che dà il suo contributo senza bruciare chi beve. Al palato è ancora più elegante che al naso e chiude sontuosa nel suo equilibrio fatto di caffè, cioccolato amaro e una bella e calda scia etilica; l'impressione complessiva è una sorta di tiramisù liquido, biscotti e caffè leggermente inzuppati nel liquore, qualche frammento di cioccolata. 
Davvero una splendida imperial stout, ricchissima e ben bilanciata tra dolce ed amaro, che consiglio senza dubbio a chi  - come me - ama questa interpretazione dello stile; chi invece preferisce intense tostature e abbondanza di  caffè forse la troverà un po' troppo dolce. Ordinatela a fine pasto in sostituzione del dessert e sorseggiatela con tutta calma: andrete a letto felici, soddisfatti e con la pancia piena.
Formato: 35.5 cl., alc. 11%, IBU 39, lotto 5394-6, imbott. 20/03/2014.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 23 giugno 2015

Castello Intensa


L’appuntamento mensile con la birra industriale, del discount o del supermercato vede protagonista  Castello di Udine Spa - Fabbrica Friulana di Birra, nata nel 1997 dalle “ceneri” dello stabilimento di Birra Moretti a San Giorgio di Nogaro (UD), rilevato da un gruppo di imprenditori da Heineken Italia che lo aveva acquisito solamente un anno prima. Lo stabilimento, uno dei più moderni in Italia, era stato costruito nel 1993.  Nel 2003 l’azionista di maggioranza di Birra Castello diventa il gruppo BSE  (Beverage Service Europe, ora Beverage Network), consorzio nazionale di distributori di bevande con sede a Bergamo.  
Nel 2006 viene acquistato un altro storico stabilimento italiano in crisi, quello di Birra Pedavena, fondato nel 1897 dai fratelli Luciani e rilevato nel 1974 da Heineken: la multinazionale olandese aveva annunciato nel settembre 2004 la decisione di chiuderlo ed esattamente  un anno dopo viene prodotto l’ultimo goccio di birra.  La  mobilitazione nazional-popolare che ne segue (sindacati, politici e personaggi dello spettacolo) porta ad un lungo negoziato che si conclude nel gennaio del 2006, quando Birra Castello lo rileva. Mentre il marchio “Birra Castello” rimane confinato sugli scaffali della Grande Distribuzione, quello Pedavena viene anche indirizzato al canale Horeca (ristorazione, catering, hôtellerie): ai due si affianca poi il marchio “premium” di Birra Dolomiti. Con 130 dipendenti ed una produzione di un milione di ettolitri l’anno, il gruppo Castello è oggi il maggior produttore di birra “italiana”, se si escludono i marchi posseduti dalle multinazionali. 
Tre le birre attualmente commercializzate da Birra Castello: La Decisa (Lager 4.8%), La Forte (Strong Lager 6.7%) e L’Intensa una sorta di Dunkler Bock (6.7%): tutte le etichette sono state sottoposte ad un recente restyling assieme alle bottiglie, ideate da Giugiaro Design. 
Nel bicchiere oggi c’è "L’Intensa", che prima del cambio di etichetta e bottiglia, era semplicemente “Intensa”.
Colore ambrato carico con venature rossastre, perfettamente limpido: la schiuma ocra è cremosa, compatta ed ha una buona persistenza. Al naso c’è una discreta intensità fatta di ciliegia e prugna sciroppata, caramello, frutti rossi e pane nero: domina il dolce, ma i profumi sono un po' troppo artificiosi e ricordano quelli sciroppi zuccherati che accompagnano la frutta in scatola. Non male la sensazione palatale, con una birra dal corpo medio che scorre bene senza scivolare – almeno inizialmente - nell’acquoso: le poche bollicine contribuiscono a renderla morbida. Il gusto è praticamente una fotocopia dell’aroma: l’attacco è deciso e piuttosto dolce e zuccherino ricordando di nuovo lo sciroppo di prugna, ciliegia e mirtillo. Progressivamente l’intensità va poi a calare sempre di più lasciando emergere note di pane nero e, a fine corsa, un timido amaro tra il terroso e l’erbaceo che si porta dietro una leggera ma fastidiosa presenza di cartone bagnato. 
Nel complesso la bevuta risulta un po’ stucchevole e penalizzata da quella fastidiosa sensazione di sciroppo dolce che non la rende né rinfrescante nei mesi estivi né riscaldante in quelli invernali; l’intensità (Intensa)  c’è almeno  all’inizio, peccato che la birra poi termini corta, un po’ annacquata e priva di qualsiasi "warming" etilico.
Ad ogni modo, il mezzo litro si trova indicativamente a 1,75 Euro: personalmente l'ho trovata vicino alla soglia della sufficienza. Siamo ancora lontani dal livello di una Forst Sixtus, tanto per prendere una birra più o meno paragonabile, ma nei supermercati (e non) si trova senz'altro di peggio e spesso ad un costo anche più elevato. 
Formato: 50 cl, alc. 6.7%, lotto SL 246410, scad. 01/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 22 giugno 2015

AleBrowar Rowing Jack

Tra le nazioni europee maggiormente attraversate da fermento brassicolo c’è senz’altro la Polonia, nazione dove a partire dal 2011 sono nati numerosi microbirrifci che hanno rapidamente dato vita ad una vivace scena – forte di un consumo nazionale pro capite capace ben superiore da quello italiano -  capace di organizzare festival di dimensioni importanti: date ad esempio uno sguardo alle 76 pagine di catalogo delle birre presenti all’ultima edizione del Warsaw Beer Festival, che si è tenuto all’interno dello stadio del Legia Varsavia.  In Italia è stato il solito Manuele Colonna a dare la possibilità di assaggiare le prime produzioni polacche, invitando a Roma AleBrowar, Pinta, Artezan e Pracownia Piwa per l’edizione 2014 di EurHop. 
C’è da dire che anche in Polonia, come in molti altri paesi europei, la “craft beer revolution” ha significato principalmente andare dietro alle moda del mercato, cercando di imitare le birre d’importazione (americane e non) che arrivavano nei negozi: perché per vendere bisogna soprattutto fare quello che vuole la gente. Molte IPA e molti luppoli americani, anche se lentamente i birrifici stanno ampliando i propri orizzonti: imperial stout, passaggi in botte, birre acide, barley wine e stili belgi.  Più raramente vengono riproposti gli stili classici (Baltic Porter, Grodziskie/Grätzer, Lager) anche rivisitati con l’utilizzo di luppoli autoctoni. 
La maggior parte dei protagonisti dell’avanguardia polacca sono beerfirm:  soluzione necessaria per partire rapidamente in assenza dei finanziamenti per acquistare locali ed impianti di proprietà. I volumi prodotti sono solitamente piccoli, e la richiesta domestica è alta:  davvero modesta è quindi la quantità che viene esportata con lo scopo di farsi conoscere anche al di fuori dei confini nazionali. Ben venga quindi l’arrivo in Italia di qualche cartone dalla Polonia, opportunità da non perdere.
Il 5 maggio 2012 debutta AleBrowar: sede operativa a Lebork, ottanta chilometri da Danzica, produzione a Sztum, 150 chilometri  di distanza. Bartek Napieraj ha un blog che parla di birre “artigianali” polacche e, soprattutto, straniere.   La sua passione per la birra lo porta a viaggiare alla scoperta dei pochi microbirrifici o brewpub polacchi che producono delle Lager in alternativa a quelle industriali; è proprio grazie al beer-hunting che conosce  Michał Saks, ex-homebrewer ed a quel tempo birraio in un brewpub di Gdańsk. I due si conoscono ed in poco tempo, assieme a  Arkadiusz ‘Arek’ Wenta, gettano le basi per la propria beerfirm AleBrowar. 
Per quel che valgono le classifiche di Ratebeer, la beerfirm parte molto bene: nell’anno del debutto  (2012) viene eletto miglior nuovo birrificio polacco e in seguito miglior birrificio polacco in assoluto del 2014.  L’ultima classifica dei migliori 100 birrifici al mondo secondo Ratebeer ospita anche tre birrifici polacchi, ed uno di questi è AleBrowar. Lo slogan da loro scelto (Hop Heads) la dice lunga sulle birre che vengono prodotte: quattro sono quelle prodotte tutto l'anno (IPA, Black IPA, Amber Ale e Sweet Stout) affiancate da una lunga serie di produzioni stagionali (una birra natalizia, una alla zucca) e diverse single hop IPA che variano a seconda dei luppoli disponibili. Sempre secondo Ratebeer (già che siamo in ballo, balliamo),  la Rowing Jack IPA di AleBrowar è la seconda miglior IPA polacca e la quinta miglior birra polacca in assoluto; la ricetta prevede il classico US-05 come lievito, malti Pale Ale, Vienna, Carapils, Acidulated e frumento, luppoli Simcoe, Chinook, Citra, Cascade, Palisade.
Nel bicchiere arriva di un colore che oscilla tra l'arranco ed il dorato, opaco, sormontato da un compatto cappello di schiuma biancastra, cremosa e fine, dall'ottima persistenza. Aroma fresco e pulito, discretamente intenso, che si compone di pompelmo, arancio e mandarino, aghi di pino, frutta tropicale (melone e ananas) e qualche leggera nota "dank". Il naso promette bene, offrendo un bouquet complesso e ben equilibrato che però non trova il suo corrispettivo al palato. C'è la base maltata (pane e miele) a sorreggere l'abbondante luppolatura che prende subito il comando con le sue note resinose e vegetali; è elegante e pulito, intenso senza mai raschiare. Tutto bene, ma la bevuta si esaurisce qui, senza sorprese, tutta giocata sulla resina amara; inutile descrivervi il retrogusto, credo lo abbiate già indovinato. Birra indubbiamente pulita e ben fatta, ma un po' troppo monocorde, almeno per il mio gusto: se invece vi piacciono le spremute di conifera, probabilmente la amerete.
Una specie di IPA "1.0", classica ma forse un po' datata;  negli Stati Uniti (soprattutto sulla West Coast) spopolano le IPA succose e fruttate, e la stessa Stone manda in pensione alcune sue birre storiche per sostituirle con una versione "2.0", più attuale, più  ruffiana e fruttata, alla moda. Detto questo, il livello di questa Rowing Jack è indubbiamente buono, con un'ottima intensità ed una buona pulizia: non sarà certo originale andare a prelevare in Polonia l'ennesima IPA di cui il mercato è già saturo, ma  finché si beve bene  una birra che arriva da noi piuttosto fresca e ad un buon rapporto qualità prezzo, perché lamentarsi ? 
Formato: 50 cl., alc. 8%, IBU 70, scad. 15/06/2015, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 21 giugno 2015

Tilmans Brown Ale

Secondo incontro con Tilmans Biere, beerfirm di Monaco di Baviera attiva da aprile 2014 e presentatavi in occasione dell'assaggio della Das Helle. Al timone c'è il giovane Tilman Ludwig, nel suo passato un po’ di homebrewing, un diploma da birraio all’università di Weihenstephan, un paio di anni in Svizzera lavorando alla Huus Braui e poi il ritorno a Monaco per da vita alla propria beerfirm. Lo aiutano Ian Pyle, birrario americano emigrato ad  Amburgo alla Ratsherrn Brewery, e Richard Hodges, altro americano che lavora/collabora con  Crew Republic.  
Dopo una buona interpretazione moderna di uno stile classico (la Helle), ecco Tilman alle prese con una Brown Ale che viene prodotta presso la Weissbräu Schwendl am Chiemsee; la tribale etichetta è realizzata dall'artista (disegnatore e scrittore) di Monaco Mikael Ross.
La ricetta prevede un ceppo di lievito inglese, malti chiari e scuri prodotti con orzo coltivato in Baviera (Monaco, Chiemgau, Jura e Alto Palatinato), luppoli americani (Citra e Centennial).
Si presenta di color ambrato carico velato con riflessi più chiari ramati; la schiuma che si forma è compatta e cremosa, con un'ottima persistenza. Il naso è pulito, con passion fruit, papaya, ciliegia e melone a comporre un aroma dolce ma dall'intensità abbastanza sotto tono, caratteristica che purtroppo ritorna anche in bocca. 
La bevuta offre leggero pane tostato, caramello, frutta tropicale dolce a richiamare l'aroma: la pulizia non è impeccabile e la chiusura amara (terra, radici, tostature) un po' troppo timida e corta, lievemente astringente.  Leggera e caratterizzata da una carbonatazione fine ma un po' troppo sopra le righe per lo stile, scorre molto bene come da  tradizione tedesca risultando però un po' sfuggente; in una Brown Ale mi aspetterei di trovare anche una discreta ricchezza e complessità dei malti, che qui invece vengono rilegati in secondo piano. A sua parziale discolpa una data di scadenza piuttosto vicina che però non mi dice molto sulla sua nascita. Anche questa birra mi sembra contagiata da quella specie di "morbo" che affligge molti dei nuovi microbirrifici tedeschi: le loro interpretazioni degli stili anglosassoni sono ancora piuttosto timide e solo lontane parenti degli originali. Meglio, molto meglio quando si cimentano con la loro tradizione, sia riproducendola fedelmente che reinterpretandola con qualche luppolo extra-europeo. 
Formato: 33 cl., alc. 5.8%, scad. 12/08/2015, pagata 1.69 Euro (beershop, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 20 giugno 2015

Montegioco Dolii Raptor 2012

Dolii Raptor, ovvero "il ladro di botti": Riccardo Franzosi, alias Birrificio Montegioco che dal 2005 produce birra in un territorio (i colli Tortonesi) da sempre ricco di vigneti, ma non solo. Pesca di Volpedo, durone di Garbagna sono stati utilizzati da "Riccardino" per produrre birre con uno stretto legame con il territorio circostante: inevitabile che prima o poi anche qualche botte di vino venisse "prelevata" dalle cantine della zona per invecchiare la birra. 
L'occasione è una cotta "sfortunata" di Demon Hunter che si prende un'infezione lattica; invece che buttare via tutto (o realizzare una "sour  edition" al grido de "la volevo fare così") Franzosi recupera una botte  di rovere ex-barbera Bigolla da Walter Massa e ce la mette dentro, applicando il cosiddetto "Metodo Cadrega". Prendi una sedia, aspetta, lascia passare tanto tempo. Il risultato fu estremamente positivo al punto che la birra iniziò ad essere prodotta quasi regolarmente, con un processo controllato. L'infezione accidentale è sostituita da una naturale esposizione a batteri e lieviti selvaggi presenti nell'ambiente e nelle botti; la maturazione "standard" dura dieci mesi, ma sono sempre gli assaggi fatti dal birraio a decidere quando la birra è pronta: la rifermentazione avviene con lieviti da vino bianco e l'imbottigliamento segue i cicli lunari. Di Dolii Raptor ne esiste anche una versione invecchiata in botti ex Calvados, che però è forse più reperibile negli Stati Uniti che in Italia.
Millesimo 2012, poi imbottigliato presumibilmente nel 2014: il suo colore è un bell'ambrato luminoso e quasi limpido con riflessi ramati e rossastri: quella che si forma in superficie non è esattamente una schiuma ma una serie di bolle biancastre.  Il Metodo Cadegra con il quale viene prodotta va anche utilizzato in piccole dosi per berla: versata nel bicchiere necessita di diversi minuti d'attesa per far svanire l'eccesso di solvente. 
Quando si apre emergono i sentori lattici e di aceto di mela, quelli legnosi e tipici dei lieviti selvaggi come cantina e sudore; il bouquet è completato dall'uva, dalle prugne e da frutti rossi, aspri, acerbi. Lasciatela avvicinare alla temperatura ambiente se volete annusare il profumo del miele e dell'uva passa, con suggestioni di vino liquoroso. In bocca è praticamente piatta, morbida e scorrevole, riproponendo in buona parte gli elementi dell'aroma: evidente il suo carattere vinoso, affiancato dall'acidità lattica e in maniera molto minore da quella acetica, da note legnose e di mela verde; riscaldandosi dispensa ricordi di vino liquoroso, di miele, uvetta e prugna. L'alcool (9.4%) è dispensato con equilibrio, quasi con parsimonia: il suo calore viene subito placato dall'acidità rinfrescante del sorso successivo. Chiude con una punta amara di lattico, evocando anche il nocciolo di pesca o le radici. 
Una birra piuttosto complessa ma la cui fruibilità è relativamente facile anche a chi non ha grossa familiarità con le birre acide.  Elegante e raffinata, mostra un meticoloso equilibrio e controllo delle sue diverse componenti: difficile credere a Riccardo Franzosi quando dice con modestia che fanno tutto i lieviti e lui non deve far altro che aspettare seduto. Il prezzo non è ovviamente dei più economici, ma è una birra che vale senz'altro la pena di mettere in cantina e aprire di tanto in tanto.
Formato: 33 cl., alc. 9.4%, lotto 26/14, scad. 31/03/2019, pagata 8.40 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 19 giugno 2015

Fyne Ales Hurricane Jack

Fyne Ales viene fondata nel 2001 da Jonny e Tuggy Delap in un edificio inutilizzato della loro fattoria di Achadunan, nell’Argyllshire: siamo a 70 chilometri a nord-ovest di Glasgow, in Scozia. La prima cotta viene effettuata nel “St. Andrew's Day” (patrono di Scozia) ovvero il 30 Novembre. In sala cottura trova inizialmente posto il birraio Kenny MacKay, poi sostituito nel 2006 da Wil Wood, proveniente dalla Oakham Ales; attualmente l’head brewer è Malcolm Downie, aiutato  da Chris Brooks.  Nel 2009 il fondatore Jonny Delap viene improvvisamente a mancare ed il suo ruolo viene preso dal figlio Jamie: è lui ad inaugurare l’anno successivo il FyneFest, un piccolo festival con musica dal vivo, cibo e birra che diventa un appuntamento annuale capace di radunare qualche migliaio di persone nel cortile del birrificio.
Per festeggiare la sua millesima cotta, nel 2009 Wil Wood realizza una birra celebrativa chiamata One Triple Zero: Wil, che aveva imparato ad amare i luppoli americani durante la sua esperienza da Oakham, realizza una Golden Ale luppolata con Cascade ed Amarillo. La birra ottiene un grande successo e, da one-shot, diventa prima stagionale e poi “permanente” chiamandola Hurricane Jack.
Il nome è tratto da una popolare storia ad episodi pubblicata tra il 1905 ed il 1923 sul Glasgow Evening News scritta da Neil Munro sotto lo pseudonimo di Hugh Foulis. Il principale protagonista è Para Handy, timoniere di un battello a vapore che effettua consegne da Glasgow a Loch Fyne;  Hurricane Jack è uno dei suoi compagni di viaggio. Le storie, ricche di humor scozzese, sono ambientate in un periodo in cui gli spostamenti su strada erano pochi e difficoltosi e la vita della città costiere dipendeva proprio dai battelli che arrivavano periodicamente con il loro carico di merci.
La ricetta della Hurricane Jack oltre ai due luppoli americani citati prevede malti Maris Otter, Pale e frumento. Un po’ troppo limpida nel bicchiere, ma luminosamente dorata con una bianchissima testa di schiuma cremosa  e molto persistente. Nonostante l’utilizzo dei due luppoli americani, l’aroma non è sfacciato e mantiene una certa “discrezione” quasi britannica; il bouquet è agrumatissimo, quasi aspro, con lime, limone, pompelmo, lemongrass. In sottofondo i crackers ed una leggera nota di miele: tra le righe s’avverte anche un lieve sulfureo che dopo qualche minuto fortunatamente scompare. Ad una session beer “dorata” (4.4%)  altro non chiedere che l'esser leggera e facilissima da bere pur mantenendo un buon livello d’intensità, e questa Hurricane Jack risponde presente. Leggero il corpo (crackers), gusto che vira subito sull’agrumato con abbondanza di lime, limone e pompelmo; giusto un frammento dolce di miele, mandarino e canditi in sottofondo. Bollicine quanto basta, bevibilità elevatissima e secchezza garantiscono un elevato effetto rinfrescante e dissetante; una birra solare  che benedirete in un giorno di caldo intenso. Ottima pulizia, finale amaro e zesty perfettamente coerente di lime, limone, pompelmo: nasce in Scozia ma profuma di Mediterraneo.
Formato: 50 cl., alc. 4.4%, lotto 1612 1635, scad. 06/2016, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 18 giugno 2015

Birrificio Finalese India

Nuovo debutto sul blog, quello del Birrificio Finalese, brewpub attivo da Luglio 2012  nel “caruggio” via  Garibaldi di Finale Ligure Marina e guidato dal birraio Piero Cavalleri.  Impianto da cinque ettolitri a vista e birra che viene spillata direttamente dai maturatori all’interno dei locali; la produzione parte con una American  Pale Ale, una ESB Special bitter ed una Hefeweizen; se non erro l’ultima arrivata è invece la India (Pale Ale).  Il brewpub è aperto dal giovedì alla domenica, con la possibilità di acquistare anche bottiglie da asporto. Altre informazioni in rete non ne ho trovate, e quindi passo all’assaggio della India Pale Ale.
Non inganni la foto, lei arriva nel bicchiere di un colore  che si colloca tra l’arancio ed il dorato, opaco; la schiuma biancastra, sebbene un po’ grossolana, è molto persistente. L’aroma non è particolarmente intenso ma è pulito ed offre i profumi dell’arancio e del pompelmo, lasciando in secondo piano quelli erbacei e “vegetali”.  Personalmente non posso che apprezzare la scelta del birraio di realizzare una IPA snella e secca, senza nessun dolcione caramelloso a supportare una generosa luppolatura: anche l’amaro (vegetale, zesty) qui è dosato con parsimonia ma, anziché diventare il protagonista della chiusura, tende un po’ a perdersi. Timido?  Sì, ma è una caratteristica che si potrebbe attribuire a tutta questa birra.
Il corpo molto leggero (pane e miele) e la sua consistenza acquosa massimizzano la facilità di bevuta dando però la sensazione di fuggire un po’ troppo velocemente: dopotutto nel bicchiere non c’è una Session IPA dal 3% ma una birra che di alcool in percentuale ne fa 6.  Perdonabile il leggerissimo diacetile e la lieve astringenza, le idee di realizzare una buona IPA secca e agrumata ci sono, quello che manca è un po’ più di carattere e personalità che – attenzione -  non sono incompatibili con la facilità di bevuta. 
Comprendo la scelta di realizzare una IPA abbastanza docile soprattutto per chi capita nel brewpub occasionalmente e non è ancora abituato a certi livelli di amaro: senz’altro apprezzeranno.  Chi invece naviga già da un po’ di tempo nel mondo della cosiddetta birra artigianale o chi continua ad ordinare “la più amara che c’è” avrà  probabilmente impressioni simili alle mie.
Formato: 75 cl., alc. 6%, lotto 01/15, scad. 02/2016, pagata 8,00 Euro (enoteca, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 17 giugno 2015

Weltenburger Kloster Barock Dunkel

Il monastero benedettino di Weltenburg, la più antica abbazia della Baviera, fu fondato attorno al 600 da monaci di S. Colombano e si trova all'imbocco delle romantiche gole del Danubio, nel comune di Kelheim, a metà strada tra Ingolstadt e Ratisbona. Gli edifici vennero ampliati nell'anno 1000 e completamente rinnovati, nella forma attuale, intorno alla  prima metà del diciottesimo secolo.
In questo suggestivo scenario che vede scorrere il Danubio proprio alle spalle del monastero, a partire dal 1050 si hanno notizie dell'esistenza di un birrificio che si gioca il primato di essere il più antico al mondo ancora in attività con quello di Weihenstephan, del 1040; ma la "battaglia" è ancora aperta, perché in un necrologio del 1035 si parlerebbe della "morte del birraio" proprio in quel di Weltenburg. Dall'undicesimo secolo ad oggi la produzione di birra si è fermata solamente durante il periodo della secolarizzazione (1803-1846). 
L'offerta brassicola è ovviamente quella della tradizione bavarese, senza nessuna eccezione: helles, weizen, bock, dunkel, pils e qualche festbier. Le birre che riportano in etichetta il nome Weltenburger Kloster sono prodotte al monastero, mentre le altre presso gli impianti della Brauerei Bischofshof di Ratisbona.
Il birrificio annuncia la propria Barock Dunkel come la più antica birra scura del mondo; difficile dire se questo sia vero, ma poco importa. Meglio versarla nel bicchiere.
L'aspetto è molto invitante: ambrato carico limpido, con intensi riflessi rossastri ed un compatto cappello di cremosa schiuma ocra, dalla buona persistenza.
Aroma "accademico", con i sentori di pane nero/pumpernickel, ciliegia, caramello, mela. Tradizione tedesca perfettamente rispettata in bocca, per garantire la massima facilità di bevuta: corpo leggero, poche bollicine, consistenza acquosa che non preclude ad una buona presenza palatale. In bocca ritornano il pane nero, il caramello, e qualche accenno di ciliegia: il dolce viene perfettamente bilanciato a fine corsa da un leggero amaro terroso con qualche ricordo di pane tostato. Ci sono solo una lieve astringenza ed una piccola nota metallica a disturbare un po' l'armonia. Poche emozioni nel bicchiere ma tanta funzionalità: questa Barock Dunkel è una birra onesta e tranquillamente sessionabile dalla buona intensità, che svolge il suo lavoro senza imporre la sua presenza, dissetando ed accompagnando chicchere, risate, riflessioni.
Formato: 50 cl., alc. 4.7%, lotto non leggibile, scad. 31/12/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 16 giugno 2015

Prairie Artisan Ales Bomb!

A maggio del  2013, la beerfirm (ora anche birrificio) di Tulsa, Oklahoma,  Prairie Artisan Ales (qui e qui trovate la loro storia) realizza quella che in poco tempo diventa una delle sue birre più apprezzate e ricercate sul mercato: si tratta della Bomb!, una massiccia imperial stout prodotta con chicchi di caffè, fave di cacao, baccelli di vaniglia e peperoncino Ancho. 
Il “birrificio” nato solo dieci mesi prima sceglie per la sua birra più costosa da produrre il caffè  “Espresso Divino” della Nordaggios Coffee, torrefazione di Tulsa; sono ben quarantacinque i chili di caffè utilizzati per la prima cotta. La birra suscita subito l’entusiasmo e l’isterismo che spesso caratterizza parte della craft beer americana, con beergeeks e beer traders in fila ad acquistarne una cassa il giorno della messa in vendita  per poterla bere o scambiare con altre birre ugualmente “ricercate”.  “E’ stata una bomba che ci è esplosa addosso – ammette  Chase Healey – è famosa in tutti gli Stati Uniti e non riusciamo a soddisfare le richieste” .
I primi lotti di Bomb! vanno letteralmente a ruba, e Prairie non perde l’occasione di realizzarne diverse varianti; tra one shot e barricamenti, le più note sono la Pirate Bomb! (invecchiata in botti ex-rum), la Christmas Bomb  (spezie natalizie), la Bible Belt (arricchita con molta avena e poi barricata in botti di brandy),  la Apple Brandy Noir (invecchiata in botti di Calvados), la  Bomb! - Double Chocolate e chi più ne ha più ne metta. 
Ma non è tutto oro quello che luccica;  sui forum iniziano a circolare le lamentele di bottiglie di Bomb! ossidate e malconce;  il principale imputato è la ceralacca (colore diverso per ogni lotto prodotto) fusa sul collo della bottiglia. I bevitori lamentano di aver trovato qualche tappo arrugginito al di sotto della cera e la birra imbevibile; ma anche qualche versione in botte non è esente da quel problema chiamato brettanomiceti. Prairie ufficialmente non rilascia nessuna comunicazione a riguardo, ma a partire da gennaio 2014 la ceralacca non viene più utilizzata.
Eccola qui, sontuosamente nera nel bicchiere con un dito di schiuma nocciola, cremosa e fine, dalla discreta persistenza. Aroma molto intenso, apprezzabile sin dal momento in cui si stappa la bottiglia: un'opulenza fatta di chicchi di caffè, tanta vaniglia, cioccolato al latte, gianduia, mirtilli e chocolate cake. Impeccabile pulizia ed eleganza, senza nessun'avvisaglia di peperoncino o alcool. In bocca c'è il giusto livello di viscosità che vorresti trovare in una imperial stout dal 13% di ABV, con una buona scorrevolezza che non ne rende necessaria la masticazione: il corpo è pieno e le bollicine sono poche. Questa Bomb! è una sorta di dessert liquido che avvolge l'intero palato con un'incredibile intensità fatta di vaniglia e caffè, cioccolato al latte ed amaro, melassa, cenere, tortino di cioccolato, tostature. L'alcool ovviamente si sente ma non brucia, intensificando la sua presenza a fine corsa, per poi passare il "testimone" del calore al peperoncino. Lunghissimo il retrogusto dolce di vaniglia, gianduia, cioccolato e l'amaro del caffè: svaniti i sapori, rimane il calore del peperoncino che riscalda morbidamente tutto il percorso palato-stomaco. Bomba di nome e  di fatto, questa imperial stout di Prairie è pulitissima e ben equilibrata tra dolce ed amaro: splendida compagna di una serata intera, da sorseggiare con tutta calma prima di andare a letto. Il suo posto è lì, tra le migliori imperial stout da me bevute: ogni tanto qualche bottiglia arriva anche in Italia, tenete gli occhi (e il portafoglio) aperto.
Formato: 35.5. cl., alc. 13%, IBU 65, lotto 03315, pagata 11,69 Euro (beershop, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 15 giugno 2015

The Kernel India Pale Ale Nelson Sauvin Simcoe

Primo appuntamento del2015 con The Kernel; sempre un piacere stappare le fresche (!) bottiglie del birrificio londinese fondato da  Evin O'Riordain. Irlandese arrivato a Londra per lavorare presso lo specialista di formaggi Neal’s Yard Dairy, Evin si trasferisce poi per un paio di mesi a New York ad aiutare un cliente di Neal’s che intendeva mettere in piedi un business analogo oltreoceano; le sere passate nei bar di Manhattan gli fanno scoprire la birra “artigianale” americana e da quel momento nulla sarà più lo stesso.  
Rientrato a Londra, si mette a giocare con l’homebrewing e  dopo sei anni, nel settembre del 2009,  con l’aiuto di Toby Munn  e Chrigl Luthy  (quest’ultimo non più in organico) affitta un piccolo spazio sotto le arcate della ferrovia a Bermondsey, poco lontano dal Borough Market e Neal’s Yard Dairy.  Con un impianto da 6.5 ettolitri nasce The Kernel, che in pochi mesi diventa uno dei protagonisti della New Wave brassicola inglese: centinaia sono gli entusiasti bevitori che ogni sabato affollano il birrificio per portarsi a casa qualche bottiglia o per berle in loco.
Il necessario ampliamento arriva nel 2012: The Kernel si sposta un chilometro più ad est, sempre lungo la linea ferroviaria; nei locali trova spazio il nuovo impianto da 32 ettolitri, mentre il vecchio viene venduto al birrificio Partizan.   
Sono circa una dozzina oggi le persone che lavorano con Evin O'Riordain: quasi tutti si scambiano periodicamente i ruoli, in modo da essere coinvolti nel processo produttivo allo stesso modo, dalla pulizia all’imbottigliamento, dal controllo del processo di birrificazione allo spostamento ed al lavaggio dei fusti.  L’aumentata capacità produttiva ha permesso finalmente al birrificio di dedicare una piccola parte della produzione (5%, ammettono) anche all’esportazione: Spagna ed Italia i mercati principali, qualcosina anche in Belgio e Scandinavia; ma il 70% della produzione Kernel viene consumato entro i confini di Londra ed il restante 25% nel Regno Unito. Pochissime partecipazioni a festival, nessuna volontà di mandare le birre in giro per il mondo nonostante le pressanti richieste: Kernel vende subito tutto quello che produce, meglio quindi concentrarsi sui pochi e “fidati” clienti vicino casa che garantiscono un’ottimale distribuzione e conservazione del prodotto; solamente quattro i mesi di shelf life che il birrificio londinese dà alle sue birre più luppolate e delicate. 
E’ davvero caotico orientarsi nella produzione Kernel, visto che la maggior parte delle loro birre riporta solamente il nome dei luppoli utilizzati: personalmente faccio fatica a ricordare quelle che ho già bevuto, ma è un “difetto” facilmente perdonabile visto che la qualità media delle birre è sempre piuttosto elevata. 
La birra di oggi è la India Pale Ale Nelson Sauvin Simcoe, ovviamente prodotta con gli omonimi luppoli:  il suo colore è tra il dorato e l’arancio, opaco, sormontato da un impeccabile cappello di schiuma bianca, compatta, cremosa, molto persistente.  Il generoso dry-hopping e la buona freschezza (in bottiglia dal 21/04/2015)  sono componenti fondamentali dello splendido (e ruffiano) bouquet olfattivo che c’è in quasi ogni Kernel; qui la macedonia si compone di uva bianca, albicocca, ananas, melone retato, pesca, mandarino. Aroma pungente e pulitissimo, nel quale domina la frutta dolce con qualche sentore più aspro di lime e pompelmo.  Lo scenario viene invece capovolto in bocca, dove sono gli agrumi a prendersi il palcoscenico lasciando in sottofondo l’uva e il dolce della frutta tropicale, su di una  leggerissima la base maltata (crackers).  Il gusto è piuttosto “succoso “ e molto agrumato, con il risultato di una IPA molto secca e rinfrescante: la chiusura amara non è particolarmente lunga o intensa, con le note zesty ed erbacee che accompagnano la bevuta sin dall’inizio senza però concedere il “gran finale”. L’alcool (6.8%) è molto ben nascosto, la bevibilità è ottima: soddisfa senz’altro più al naso che in bocca, non è probabilmente la miglior Kernel da me bevuta (riuscissi a ricordare i loro nomi…) ma sto cercando il pelo in una birra che rimane comunque di alto livello. Avercene, così.
Formato: 33 cl., alc. 6.8%, imbott. 21/04/2014, scad. 21/08/2015, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 14 giugno 2015

Left Hand Milk Stout Nitro

Ritorna dopo qualche anno anche il birrificio del Colorado Left Hand Brewing Company, fondato dagli homebrewers Dick Doore e Eddy Wallace; le porte del birrificio di aprirono nel settembre del 1993 con il nome Indian Peaks Brewing Co., che cambiò poi in Left Hand l'anno successivo quando i due scoprirono che Indian Peaks era già utilizzato da un altro birrificio. 
Facciamo ora un grosso salto in avanti al 2011, l'anno in cui Left Hand presenta al Great American Beer Festival la versione "Nitro" della sua ottima Milk Stout, che produce dal 2001: due anni e mezzo di lavoro, (centinaia di) migliaia di dollari spesi per realizzare quella che è a tutti gli effetti la prima birra americana imbottigliata "al nitrogeno/azoto". 
Credo che tutti abbiate ben presente l'"effetto cascata" della stout più famosa  al mondo (la Guinness)  quando viene spillata  in un pub e forma una cremosissima testa di schiuma. L'affascinante fenomeno è diventato uno dei punti di forza del marketing della Guinness: il suo segreto è la spillatura in carboazoto al posto della classica anidride carbonica, che aumenta la morbidezza e la cremosità della birra al palato. Alla fine degli anni '80 la Guinness replicò "l'effetto cascata" anche nelle proprie lattine, completando un lungo studio durato una ventina d'anni: nel marzo del 1989 viene commercializzata la prima lattina con il "floating widget" chiamato "Smoothifier", un'ingegnosa pallina di plastica contenente azoto/nitrogeno introdotta nelle lattine che ottenne anche il Queen’s Technological Achievement Award.
Nel 2011 la Left Hand annuncia con orgoglio di essere il primo birrificio americano  ad aver realizzato una birra "al nitrogeno" senza utilizzare nessuna pallina; la base di partenza è la Milk Stout, che viene però parzialmente "ristudiata" per permettere l'utilizzo dell'azoto sin dal prime fasi di produzione della birra. Fatta la birra, la Left Hand ha inutilmente cercato di proteggere il nome "Nitro" registrandolo: la sua richiesta venne negata inizialmente perché la parola era già stata registrata dieci anni prima da Eli Gershkovitch della Steamworks Brewery di Vancouver. Trovato l'accordo con i canadesi, nel febbraio 2013 Left Hand ottiene effettivamente il copyright della parola "Nitro", suscitando però la mozione d'opposizione di altri birrifici americani che producevano regolarmente birre appositamente studiate per essere poi servite nei pub con la spillatura in carboazoto.  Le proteste dei birrofili americani in internet fanno il  resto e Left Hand finisce per rinunciare al marchio.
Passiamo alla sostanza: la  Milk Stout Nitro è prodotta con l'utilizzo di malti Pale 2-row, Crystal, Munich, Chocolate, fiocchi d'avena e di malto, orzo tostato, lattosio; i luppoli sono Magnum e US Goldings. 
Particolare attenzione va prestata al momento in cui si versa la birra nel bicchiere: questo dev'essere leggermente più ampio del contenuto della bottiglia (35.5 cl.) e questa a sua volta dev'essere versata in modo "aggressivo" ("Pour Hard") perpendicolarmente al bicchiere. Solo in questo modo potete assistere all'effetto cascata provocato dall'azoto che vedete nel video ufficiale: potete anche utilizzare l'hashtag #pourhard per cercare sui social network divertenti video di chi cerca di versare contemporaneamente tre o quattro bottiglie in altrettanti bicchieri.
All'aspetto è di colore ebano scurissimo, quasi nero, sormontato dalla cremosissima testa di schiuma beige dall'ottima persistenza. Bottiglia abbastanza fresca (marzo 2015) ed aroma elegante e pulitissimo nella sua semplicità: caffè e tostature, cioccolato al latte e fondente, qualche sentore di cenere, di vaniglia e di mirtillo. Ma il "climax" della bevuta è ovviamente la sensazione palatale "all'azoto", e il primo sorso non delude le aspettative: birra morbidissima, cremosa, una sorta di vellutato cappuccino che avvolge il palato di cioccolato al latte, caffellatte e orzo tostato, vaniglia. Difficile non emozionarsi, ma questa Milk Stout Nitro non è solo "mouthfeel": ci sono un'ottima pulizia ed un bell'equilibrio. Le eleganti tostature, il lieve dolce del caramello, l'acidità del caffè a chiudere la bevuta assieme alla leggerissima terrosità della luppolatura che pulisce bene il palato e spalanca le porte del retrogusto pulitissimo di caffellatte amaro. Lasciatela scaldare ed emergerà anche una morbida nota etilica, ma è impresa difficile: nonostante la vellutata cremosità, è una birra con finissime bollicine che scorre con grande facilità e finisce molto, troppo rapidamente. Al di là del marketing dell'hard pour e del suo effetto visivo,  è il lussurioso mouthfeel a fare la maggior parte di questa milk stout, che si completa con un'impeccabile pulizia ed un'ottima intensità. Splendida.
Formato: 35.5 cl., alc. 6%, IBU 25, imbott. 12/03/2015, scad. 08/09/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 13 giugno 2015

Monkey Beer Goldie

Il contatore di Microbirrifici.org segna 953 (numero che include anche coloro che hanno cessato attività) ed è dunque impossibile non imbattersi nella novità: il debutto di oggi sul blog è della beerfirm Monkey Beer, aperta nel 2013 da Luca Tassinati. Sei anni di homebrewing alle spalle e partecipazioni a diversi concorsi nonché al campionato italiano di MoBi; per la sua beerfirm Luca mantiene il nome (Monkey) che utilizzava per le birre fatte in casa con le pentole. Impossibilitato ad acquistare impianti propri, trasforma l'homebrewing in professione nel modo più rapido e meno impegnativo dal punto di vista economico, ovvero quello di andare a produrre le proprie ricette presso impianti altrui. Lo "aiutano" il BAV - Birrificio Artigianale Veneziano, Birra Perugia e Rattabrew d Rovigo. La "sede" di Monkey Beer è un punto vendita a Migliarino/Fiscaglia, nella "bassa" ferrarese, zona a me cara per le nebbie (che "ormai non ci sono più come una volta"); all'interno dello spaccio, aperto venerdì e sabato, potete acquistare le birre Monkey ed anche di qualche altro produttore.
Attenzione a non confondere Monkey Beer (Ferrara) con un'altra beerfirm di Ravenna chiamata Monkey Beer Company: fossimo negli Stati Uniti, sarebbero già partite le lettere di diffida.
Quattro sino ad le birre realizzate: l'immancabile American IPA (Freezo), una stout con abbondante uso di luppoli americani (Noir), una belgian strong ale (Goldie) e la nuova arrivata Random, una single hop nella quale il protagonista è il mitico luppolo Cascade.
La birra di oggi è la Goldie, personale interpretazione di una strong ale belga speziata con cardamomo, coriandolo e arancia dolce: viene prodotta presso gli impianti del Birrificio Artigianale Veneziano.
La foto non tragga in inganno: il colore è arancio carico, opalescente, con qualche riflesso ramato: il cappello di schiuma biancastra che si forma è di discreta ampiezza, compatto, cremoso ed ha una buona persistenza. L'aroma ha un buon livello d'intensità e di pulizia: arancia, pesca, albicocca sciroppata, pera; in secondo piano canditi e miele, molto leggera la presenza di spezie (coriandolo).  Il gusto muove i suoi passi sullo stesso percorso, con il dolce dei canditi e della frutta sciroppata, del miele e del biscotto: la pera si fa invece sentire un po' troppo. La birra parte bene, con una bella intensità che però si perde un po' per strada nel corso della bevuta; il corpo è medio, le bollicine potrebbero essere un po' più presenti, mentre l'alcool è molto ben nascosto, dispensando un leggero tepore solo quando necessario. Chiude un po' timida, con una punta di amaro erbaceo e  di curaçao, scivolando un po' nell'acquoso. Buono il livello di pulizia, solo discreta l'espressività del lievito belga, ma è il mouthfeel che delude, con la birra che appare leggermente slegata: gusto da una parte, acqua dall'altra, lieve astringenza.
La beerfirm è ancora giovane e lavorare su impianti altrui dovendo "tarare" le ricette elaborate tra le mura domestiche non è semplicissimo: Goldie è una discreta Belgian Strong Ale, ma le basi su cui lavorare per i necessari miglioramenti ci sono.
Formato: 33 cl., alc. 7.1%, lotto 292, scad. 12/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.