sabato 29 aprile 2017

Dry & Bitter Fat & Fruity

Fino a qualche tempo fa la Danimarca della craft beer era principalmente la terra delle beerfirm: Mikkeller e To Øl e Beer Here (ed Evil Twin, prima del trasferimento negli Stati Uniti) hanno per anni dominato una scena che vedeva attivi un centinaio di microbirrifici principalmente dediti a seguire la tradizione tedesca e le basse fermentazioni. Le uniche eccezioni erano rappresentate da Hornbeer, Fanø e soprattutto Amager: è allora bello veder spuntare della facce nuove, sopratutto se associate a prodotti qualitativamente validi. Tra questi devo citare i birrifici Alefarm e Dry & Bitter, quest'ultimo già incontrato in questa occasione.
Tecnicamente anche Dry & Bitter sarebbe una beerfirm, visto che produce sugli impianti della Ølkollektivet: ma siccome i proprietari del birrificio sono gli stessi della beerfirm (nonché del Fermentoren, pub con 24 spine dedicate al craft a Copenhagen) direi che in questo caso si può anche chiudere un occhio e considerare Dry & Bitter un birrificio che ha debuttato nella primavera del 2015. Cinquanta birre realizzate nel primo anno di vita, al solito ritmo frenetico che soddisfa la ricerca di novità dei beer-raters. A queste se ne aggiungono altre sei prodotte nel 2017: l'American Pale Ale Body Pillow, le IPA Fat & Fruity e Disobedience, la sour Pale Blue Dot e le collaborazioni con i birrifici Cloudwater (UK) e Beer Garage (Spagna).

La birra.
La IPA Fat & Fruity viene presentata lo scorso marzo come la sorella "più leggera" di un'altra IPA chiamata Dank & Juicy: sono stati utilizzati avena e frumento per dare una sensazione palatale più cremosa e morbida. I luppoli che scendono in campo sono Mosaic, Simcoe, Eukanot e Citra.
Il suo colore velato è dorato, sormontato da una cremosa e compatta testa di schiuma bianca dall'ottima persistenza. Il naso evidenzia fragranza, pulizia e quella freschezza derivante dalla messa in bottiglia avvenuta poco più di un mese fa; ananas, litchi e mango, cedro e lime, un tocco dank in sottofondo. La sensazione palatale è davvero ottima: l'avena la rende morbida, quasi cremosa, la scorrevolezza non è mai intralciata, le bollicine sono in quantità giusta. I malti (pane e miele) non reclamano un ruolo da protagonisti ma svolgono solamente la funzione di supportare una luppolatura che apporta inizialmente un bel fruttato tropicale (ananas e mango) per poi evolvere in un finale amaro che passa dal pompelmo alla resina. Molto pulita e caratterizzata da un buon livello di eleganza, la Fat & Fruity è una IPA che non regala molte emozioni ma che è sicuramente ben fatta. Secca, fruttata e succosa con criterio, ovvero senza avvicinarsi agli estremi del succo di frutta, regala una bella bevuta ricca di soddisfazioni. Se amate le IPA italiane di Hammer, vi sentirete abbastanza a vostro agio anche nello stappare questa di Dry & Bitter.
Formato: 33 cl., alc. 6.2%, imbott. 16/03/2017, scad. 16/03/2018, prezzo indicativo 4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 28 aprile 2017

HOMEBREWED! Birrificio del Molino: Flamethrower - Chili Red IPA

Ritorna dopo una pausa di un semestre HOMEBREWED!,  lo spazio dedicato alle vostre produzioni casalinghe. Assenza dovuta esclusivamente alla mancanza di materia prima, ovvero birra: rinnovo quindi l’invito a chiunque abbia voglia di partecipare e spedire qualche bottiglia prima del caldo estivo. 
Oggi ringrazio il “Birrificio” del Molino per aver riportato in vita la rubrica ed avermi inviato qualche bottiglia da assaggiare. Prima di bere, un po’ di storia. Il birrificio casalingo nasce a novembre 2013  in un piccolo paesino in provincia di Ascoli Piceno. Mi confessa Leonardo Tufoni, promotore dell’homebrewing assieme a quattro alcuni amici, di aver iniziato in casa con i kit quasi nello stesso momento in cui si appassionava di birra “artigianale”, senza aver quindi grossa esperienza a riguardo: ad introdurlo in questo mondo è stato l’amaro trovato in una una bottiglia di  Nøgne Ø #100 bevuta ad un festival locale. I primi tentativi con i kit non vanno molto bene,  le birre sono quasi imbevibili (“la prima sapeva di vino, la seconda di morte”) e la maggior parte dei compagni di homebrewing decidono d'abbandonare la nave;  ma Leonardo e l’amico Matteo Catalini non si perdono d’animo e decidono di perseverare documentandosi su libri, forum e Youtube. Le produzioni in kit iniziano a migliorare e allora si passa all’E+G e poi rapidamente all’All Grain, metodo BIAB:  per mettere assieme il budget necessario all’acquisto delle attrezzature e delle materie prime arriva ad aiutarli l’amico Matteo Pulcini. 
Nei tre anni d’attività il birrificio casalingo realizza oltre 60 cotte cimentandosi su moltissimi stili,  alternando agli inevitabili insuccessi anche le soddisfazioni che arrivano dai riconoscimenti nei  concorsi per homebrewers ai quali iscrivono le birre: 2° posto a Brassare romano 2015, 1° posto a Brassare romano 2016, 2° posto al concorso 2016 organizzato da Birrando S’Impara,  2° posto alla Guerra dei cloni 2016 di Mobi (con il clone della Fleur Sofronia di MC-77), 2° posto alla prima tappa del campionato nazionale Mobi 2017 (con la Red IPA Flamethrower). Ed è proprio questa birra che vado a stappare.

La birra.
Malti  Pilsner, Carared, Carafa III special, luppolo Chinook e lievito Fermentis US-05: quiesti gli ingredienti utilizzati per una Red IPA che vede però come vero protagonista il peperoncino jalapeño. 
La fotografia la rende molto più scura di quanto non sia nella realtà: il suo colore è ambrato carico con riflessi ramati e rossastri, mentre la schiuma ocra, cremosa, fine e compatta, rivela un'ottima persistenza. I tre mesi e mezzo passati dall'imbottigliamento hanno forse un po' ridotto l'intensità dell'aroma che è comunque pulito: al piccante del peperoncino risponde il dolce della frutta tropicale con papaia, passion fruit, pompelmo e, in sottofondo, bubblegum alla fragola/lampone. Al palato è piuttosto gradevole: corpo medio, il giusto livello di bollicine, scorrevolezza  che non sacrifica del tutto la morbidezza. Nel bicchiere c'è una "Chili Red Ipa" di nome e di fatto: il "rosso" oltre al piccante parla del caramello che, assieme al dolce della frutta tropicale, costituisce l'antagonista ad un peperoncino che entra in scena a metà bevuta senza farsi pregare. La birra diventa subito calda e piccante, mentre in sottofondo si fa strada l'amaro resinoso del luppolo e delle delicate tostature (pane). Ammetto di non amare il piccante e di non mangiare quasi mai piccante: nella birra tuttavia non mi dispiace, e questa Flamethrower prende dei rischi ma funziona proprio bene. Il dolce della frutta tropicale è un azzeccato contrasto al piccante del jalapeño, l''amaro rimane in sottofondo senza rubare la scena al peperoncino ed il finale è una lunga scia calda e piccante che riscalda bocca, esofago e stomaco.
Nessun difetto e buon livello di pulizia in una birra davvero ben fatta: per il mio gusto il piccante va un po' oltre il limite, ma ovviamente la mia percezione dell'intensità è influenzata dal fatto di non frequentarlo quasi mai. I miei complimenti a Leonardo ed amici per una birra molto buona ed i miei ringraziamenti per avermela fatta assaggiare.
Questa la  valutazione su scala BJCP:  38/50 (Aroma 8/12, Aspetto 3/3, Gusto 15/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 8/10). 
Formato: 33 cl., alc. 7%, imbottigliata 15/01/2017.

giovedì 27 aprile 2017

Ironfire Vicious Disposition

San Diego è una delle capitali mondiali della birra “di qualità” ma è anche un luogo piuttosto saturo e competitivo per chi vuole aprire un birrificio: meglio spostarsi un po’ lontano, magari un centinaio di chilometri a nord. E’ quello che hanno deciso John Maino e Greg Webb quando hanno elaborato il business plan per il loro birrificio, Ironfire Brewing Company.  Maino, nativo della contea di San Diego, dopo aver terminato il college sceglie d’intraprendere la carriera del birraio trovando posto presso Ballast Point; sei anni passati a lavorare nel team dei birrai di uno dei protagonisti della Craft Beer Revolution.  Webb, nato invece sulla costa ad est, arriva a San Diego nel 2004 iniziando a fare il barista presso un brewpub: dal servire la birra al provare a farla – anche tra le mura domestiche - il passo è breve. Anche lui viene assunto da Ballast Point e in sei anni fa un percorso analogo a quello di John: inizia come lavafusti per poi passare in sala cottura. I due diventano amici e nel 2011 ritengono di aver maturato l’esperienza necessaria per mettersi in proprio. 
Da San Diego quindi un pezzo di Ballast Point si sposta a Temecula, una città che non è ancora affollata di birrifici e che si trova comunque sempre nella Contea di San Diego: a quel tempo era presente solamente Black Market, attiva dal 2009. Aiutati dal birraio Alec Clifton aprono nella primavera del 2012 le porte della Ironfire Brewing che dispone di un impianto Premier Stainless da circa 20 ettolitri:  nel giro di dodici mesi a Temecula arrivano anche Refuge Brewing, Aftershock, Wiens, Garage Brewing, Relentless e una succursale-brewpub  di Karl Strauss.  
Il nome scelto deriva dal modo di dire “iron in the fire”, che equivale al nostro “molta carne al fuoco”: un riferimento agli anni passati da Maino e Webb ad elaborare il loro business plan.  In quattro anni d’attività il birrificio realizza un’ottantina di etichette delle quali solo cinque vengono prodotte regolarmente tutto l’anno: oltre alla flagship 51/50 IPA ci sono la 6 Killer Stout, la Gunslinger Gold, la Synner Pale Ale e la Vicious Disposition porter che andiamo a stappare.

La birra.
Ironfire ha scelto il “western” per la propria identità visiva, decorando a tema la propria taproom e scegliendo uno scheletro travestito da cowboy come protagonista di tutte le etichette stampate al laser sulle bottiglie: ogni immagine raffigura diversi momenti della vita di questo cowboy “morto”. 
Vicious Disposition è una imperial porter (9%) che viene prodotta con aggiunta di miele d’avocado. Nera, forma nel bicchiere una bella testa di schiuma cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. L’aroma è ricco, dolce e goloso: nocciola, frutta secca, cioccolato al latte, orzo tostato, caffèlatte, miele e melassa, accenni di vaniglia; intensità e pulizia ci sono, l’eleganza non è la sua caratteristica principale ma è comunque una birra molto gradevole da “annusare”.  Al palato viene privilegiata la scorrevolezza senza cercare un mouthfeel particolarmente morbido o cremoso: corpo medio, poche bollicine, consistenza leggermente oleosa che è forse un po' troppo debole in un birra dal contenuto alcolico importante. Il gusto è un po’ meno ricco rispetto all’aroma e, soprattutto, indugia molto meno sul dolce: rimangono in sottofondo caramello e cioccolato al latte a supportare caffè e tostature la cui intensità cresce rapidamente sino a farle diventare protagoniste della bevuta.  Il finale è lungo e amaro, ricco del torrefatto dei malti e del terroso dei luppoli e riscaldato da un delicato tepore etilico.  Convince di più al naso che al palato, anche per quel che riguarda la pulizia, ma la Vicious Disposition di Ironfire è comunque una imperial porter facile da bere, bilanciata e piuttosto soddisfacente, anche se avara nel dispensare emozioni.
Formato:  65 cl., alc. 9%. lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 13,00-15,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 26 aprile 2017

Birrificio WAR: Babau & Zelda

WAR, non “guerra” ma acronimo di We Are Rising ovvero “ci ribelliamo”: questo il nome scelto dal birrificio che apre le porte negli ultimi mesi del 2016 a  Cassina de’ Pecchi, una ventina di chilometri ad est di Milano. WAR viene fondato da Francesco Radaelli all’interno dell’azienda agricola che la famiglia gestisce da sei generazioni, la Cascina San Moro. I lavori di ristrutturazione dei fabbricati rurali iniziati nel 2005 hanno dapprima visto la nascita dell’agriturismo San Moro che offre in affitto camere ed appartamenti in un contesto tranquillo dotato di ampi spazi comuni all’aperto, inclusa una bella piscina. Quello che un tempo era il capanno degli attrezzi è l’edificio scelto per ospitare il microbirrificio  con impianto Eco Brew Tech di Conegliano Veneto:  sala cottura di 5 hl, tre fermentatori dalla capacità di 10 hl, una sala di rifermentazione ed una cella frigo per lo stoccaggio. Il ruolo di birraio è stato affidato a Davide Galliussi, udinese classe 1988 che, dopo il diploma alla VLB di Berlino ha lavora come birraio in un brewpub inglese. 
L’azienda Cascina San Moro produce anche l’orzo che viene poi maltato ed utilizzato per la produzione della birre, e sono al momento sei quelle disponibili:  Fuji (American Amber Ale), Amen (IPA), Miami82 (Golden Ale), Zelda (Bitter), Babau (Porter) e Helleboro (Blanche). Le grafiche semplici ma ben curate sono state realizzate da Elisa Previtali.

Le birre.
Partiamo dalla Babau, una porter che colora il bicchiere di ebano scurissimo impreziosendolo con lucenti riflessi rossastri; la schiuma è cremosa e compatta ed ha una buona persistenza. Al naso orzo tostato  e caffè, in secondo piano gli esteri fruttati (mirtillo) e qualche accenno “fumoso” di cenere:  il tutto viene realizzato con pulizia ed un buon livello d’intensità.  Il gusto segue abbastanza fedelmente l’aroma, riproponendo generose tostature e caffè sostenute da una base dolce caramellata; in secondo piano liquirizia e cioccolato fondente compongono una bevuta intensa a fronte di un contenuto alcolico contenuto (5%). Abbastanza bene la pulizia, un pochino sottotono il finale nel quale la birra perde un po’ di vigore e evidenzia una leggerissima astringenza: una porter comunque di buon livello, con intense tostature e un’ottima bevibilità. Da affinare ulteriormente pulizia ed eleganza, ma credo sia un fatto quasi inevitabile considerando che il birrificio è partito da pochi mesi.

Mi convince invece di meno la bitter chiamata Zelda, uno stile che (purtroppo) in Italia non è molto frequentato dai birrai:  ben vengano le classiche bitter inglesi! Ambrata con venature più chiare ramate, forma una discreta testa di schiuma color ocra, cremosa e compatta.  Accanto ai tradizionali profumi di biscotto e frutta secca, al naso c’è una marcata nota di cereale (immaginate di mettere il naso dentro ad un sacchetto di muesli) e, in sottofondo, un filo di gomma bruciata. Il cereale è piuttosto invadente anche in bocca, accompagnando sempre caramello, biscotto, marmellata d’agrumi e qualche accenno di frutta tropicale; anche qui c’è una leggera astringenza nel finale amaro caratterizzato da note terrose e di frutta secca. Nel retrogusto, manco a dirlo, ritorna il cereale.  Il profilo aromatico è abbastanza sporco e di bassa intensità, meglio il gusto dove in mezzo al cereale s’intravede una buona idea di bitter. Per quello che ho assaggiato in questa bottiglia ci sono però ancora molte cose da rivedere per dare forma compiuta ad una session beer da pub che ti può tenere compagnia per tutta la serata, pinta dopo pinta, senza mai stancarti. 

Nel dettaglio:
Babau, formato 33 cl., alc. 5%, IBU 25, lotto 217, scad. 31/12/2017, prezzo indicativo 4.00-4.50 euro (beershop).
Zelda, formato 33 cl., alc. 4.2%, IBU 40, lotto 316,  scad. 31/12/2017, prezzo indicativo 4.00-4.50 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 25 aprile 2017

Nomad Choc-Wort Orange

Il birrificio australiano Nomad Brewing l'avevamo incontrato per la prima volta giusto un anno fa. Un progetto nato dall’incontro tra Leonardo Di Vincenzo (Birra del Borgo), Kerrie Abba e Johnny Latta di Experience It Beverages, importatore di bevande con sede a Sidney; la coppia australiana viveva in Italia ed aveva iniziato un'attività di importazione di vini italiani nell'emisfero australe, venendo poi in contatto anche con la nostra scena brassicola. Birra del Borgo è uno dei primi marchi che gli australiani decidono di aggiungere alla propria gamma. Di Vincenzo venne invitato in Australia a partecipare ad alcuni eventi tra i quali la Good Beer Week di Melbourne, finendo con l'innamorarsi della terra dei canguri.  Tra una pinta e l'altra, tra Di Vincenzo ed i Latta nasce l'idea di mettere in piedi un microbirrificio a Brookvale, sobborgo che si trova quindici chilometri a nord di Sidney. L'annuncio della nascita del progetto Nomad Brewing viene dato a febbraio del 2014 e la prima birra viene ufficialmente spillata a fine luglio 2014. Alla guida dell'impianto c'è il birraio Brooks Caretta - birraio nomade - ex di Birra del Borgo e responsabile anche della "partenza" delle birrerie a Eataly New York ed a Eataly Roma, progetti che vedono entrambi Di Vincenzo come socio. 
Per chi di voi se lo stesso domandando, il birrificio Nomad è rimasto estraneo alle vicende commerciali che hanno visto protagonista Birra del Borgo nell'aprile dello scorso anno, ovvero la vendita alla multinazionale Ab-Inbev: da quanto ne so Di Vincenzo continua ad esserne socio per ricoprendo contemporaneamente la carica di amministratore delegato di Birra del Borgo.

La birra.
A Clockwork Orange, Arancia Meccanica: libro (1962) di Anthony Burgess e film (1971) di Stanley Kubrick. Mettete in una imperial stout della scorza d'arancia ed otterrete una Choc-Wort Orange, almeno secondo le intenzioni di Nomad: è la prima imperial stout prodotta dal birrificio australiano ed è una produzione occasionale, ossia non disponibile tutto l'anno. D'impatto è l'etichetta disegnata da Alex Latham, giovane artista emergente di Sidney: le teste dei quattro drughi di Arancia Meccanica qui sono state sostituite da arance.
Il suo colore è pressoché nero e forma una generosa testa di schiuma compatta e cremosa, dall'ottima persistenza. L'aroma non è tuttavia altrettanto "goloso" quanto l'aspetto: l'intensità è molto modesta, la pulizia è poca e si fa davvero fatica a trovare quello che il nome della birra promette, ovvero  cioccolato ed arancia. Ci sono tostature, qualche traccia di caffè, cenere, forse liquirizia: siamo davvero ai minimi termini. Al palato le cose vanno un pochino meglio, ma anche qui la pulizia è tutt'altro che eccellente: un po' di caramello ed un accenno d'arancia supportano le decise tostature che caratterizzano la spina dorsale di una imperial stout per nulla ingombrante e che scorre piuttosto bene. Se cercate però una sensazione palatale morbida, cremosa e avvolgente non è la birra che fa per voi: considerata la gradazione alcolica (9.5%) avrei gradito un po' più di presenza a livello tattile. L'amaro è protagonista assoluto del finale: alle tostature s'aggiungono caffè, cioccolato fondente ed il terroso del luppolo. La notevole intensità non va tuttavia a pari passo con l'eleganza e il sorseggiare di questa imperial stout è, almeno nella mia esperienza, rallentato più che dall'alcool (ben nascosto) dalla scarsa pulizia e dalla monotonia di una birra che regala molti sbadigli: quella noia che i drughi di Burgess combattevano con l'ultraviolenza.
Formato: 50 cl., alc. 9.5%, lotto B163, scad. 06/2019, prezzo indicativo 8.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 21 aprile 2017

Modern Times Haunted Stars


Torniamo a parlare del birrificio Modern Times, fondato da Jacob McKean nel quartiere Point Loma di San Diego e che avevamo ospitato proprio un anno fa con un paio di ottime produzioni. 
Blazing World (Amber Ale), Fortunate Island (American Wheat), Black House (Coffee Stout) e Lomaland (Saison) sono le quattro birre che vengono prodotte in lattina durante tutto l’anno; a queste s’affiancano le bottiglie (65 cl) della IPA Orderville, della Gose all’albicocca Fruitlands, e della Stout City of the Dead.  Oltre a queste vi è un ampio numero di produzioni stagionali ed occasionali che hanno contribuito a far lievitare a quasi 200 il numero delle etichette prodotte da maggio 2013 ad oggi. Modern Times presenta ogni anno un calendario con il quale viene annunciata la nuova birra speciale che sarà messa in vendita per ogni mese. La novità di novembre 2016 era rappresentata da una imperial porter (8%) alla segale chiamata  Haunted Stars. Una ricetta che prevede un solo luppolo (Northern Brewer) e un ricco parterre di malti che include Optic, Munich, Crystal 20, Crystal 60 e Midnight Wheat; per quel che riguarda la segale vengono utilizzati Flaked Rye e Chocolate Rye.

La birra.
Nel bicchiere è splendida, quasi nera e sormontata da un’abbondante e cremosa testa di schiuma nocciola che mostra una buona persistenza. La ricetta non prevede utilizzo del caffè (una della specialità del birrificio di San Diego) ma i suoi profumi sono ugualmente dominano l’aroma. Non c’è molto altro, a dire il vero: tostature, una delicata speziatura donata dalla segale, qualche accenno di carne. Il naso è onestamente un po’ deludente ma è una birra che si riscatta al primo sorso. 
La sensazione palatale è perfetta: poche bollicine, corpo medio, una cremosità ed una morbidezza davvero notevoli se si considera l’utilizzo della segale e, secondo quanto dichiara l’etichetta, l’assenza di avena.  La scorrevolezza è altrettanto sorprendente: le tostature sono molto intense, s’intrecciano alle note di caffè e a quelle terrose apportate dai luppolo. Il dolce è davvero ridotto ai minimi termini, c’è giusto quel velo di caramello necessario in sottofondo ma la bevuta procede dritta e spedita nel territorio del torrefatto regalando solo qualche suggestione di cioccolato fondente. Nessun fronzolo, quasi un trionfo del “less is more”: la grande pulizia e l'eleganza dei pochissimi elementi in gioca fanno sì che la bevuta non diventi mai noiosa. L’alcool è ben dosato  e riscalda quanto basta senza mai rallentare il ritmo dei sorsi: una imperial porter che non fa gridare al miracolo me che è davvero ben fatta e si beve con grande soddisfazione, rispettando gli standard elevati tipici del birrificio di San Diego.
Formato: 65 cl., alc. 8%, imbott. 18/10/2016, prezzo indicativo 16,00-18,00 Euro (beershop)


NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 20 aprile 2017

Birra Kashmir: Lamortesua & Dulcamara

Debutto sul blog per Birra Kashmir, operativa dal 2012 a Filignano, piccolo comune in provincia di Isernia, Molise: i fondatori sono Romain Verrecchia e Roberto Castrataro. La birra, e non parlo dei soliti prodotti industriali, accompagna la loro gioventù; Romain è cresciuto in Francia e Roberto aveva molti parenti in Belgio:  bottiglie di gueuze, kriek, biere de garde accompagnavano spesso i loro pasti e le serate nei locali senza che a quel tempo – ammette  Romain – loro sapessero molto di birra. 
La passione cresce e i due amici iniziano i primi esperimenti con l’homebrewing, un modo come un altro per passare le domeniche: anche le vacanze sono spesso a tema birrario, con incursioni in Germania, Belgio e Regno Unito. Nel 2011 Romain ritorna in Italia, dopo un soggiorno in Scozia nel corso del quale ha fatto esperienza presso il birrificio Ayr, deciso ad aprire un microbirrificio in Italia. A convincere Roberto ci vuole pochissimo, mentre si rivela molto più difficoltoso reperire i fondi necessari e sbrigare tutte le pratiche burocratiche: Kashmir (il riferimento è ovviamente ai Led Zeppelin) parte allora come beerfirm nel 2012 (“con alti e bassi” ammettono) appoggiandosi a  birrifici come Karma, Amiata, Sannita. Nel 2016 ha finalmente termine il calvario burocratico e vengono inaugurati gli impianti sulle montagne molisane: l’ispirazione che guida quasi tutte le birre è quella anglosassone, con uno sguardo più all’innovazione statunitense che alla tradizione del Regno Unito. Molte le declinazioni del “verbo” IPA: Dulcamara (Red IPA), Winterline (West Coast), No Quarter (IPA al frutto della passione), Felix (al mango),  Lamortesua (Double IPA) e The Bride (White IPA). Completano la gamma la stout Pallas, la golden ale Goldilock, l’American Wheat Nuit Blanche, una Irish Red Ale,  le American Pale Ale Apaloosa e Bside e per finire l'Italian Grape Ale chiamata Veritas.

Le birre.
Prima di passare dalla teoria alla pratica un ringraziamento al birrificio Kashmir che mi ha inviato qualche bottiglia da assaggiare. Partiamo da Lamortesua, una Double IPA con poche settimane di vita che per questo lotto è stata luppolata con Amarillo, Mosaic, Cascade e Simcoe. 
Il suo colore è un dorato carico e forma una cremosa e compatta schiuma biancastra che ha una buona persistenza. L’aroma non è molto intenso ma è comunque pulito: in primo piano pompelmo e resina, qualche accenno dolce di caramello e frutta tropicale emerge man mano che la birra si scalda. Molto buona è la sensazione palatale: birra morbida, davvero gradevole dal punto di vista tattile, corpo medio. L’interpretazione di questa Double IPA non prevede concessioni ruffiane o moderne (leggi “succo di frutta”) ma punta dritto all’amaro, quello resinoso e pungente. A sorreggerlo una base maltata per nulla invadente (biscotto, lieve caramello) con un velo di frutta tropicale che si scorge in lontananza solamente quando la birra si scalda. La chiusura è abbastanza secca, anche se si potrebbe osare di più, ma la cosa che va un po’ oltre le righe in questa birra è la componente etilica, evidente dall’aroma sino alla fine della bevuta: l'alcool aiuta sicuramente a rafforzare i muscoli della birra, a potenziare la nota pungente e quasi “pepata” dell’amaro ma al tempo stesso ne limita un po’ la scorrevolezza e la frequenza di sorsata. Una IPA comunque pulita e abbastanza ben fatta, alla quale ritengo gioverebbe un bouquet olfattivo un po’ più ampio, un pelino in più di frutta al palato e un miglior controllo della componente etilica. Per il resto, se avete bisogno d’amaro, la bevuta vi risulterà soddisfacente. 

Dulcamara è invece il nome scelto per una Red IPA che mette ben in evidenza il suo colore sin dall’etichetta: nel bicchiere la sensualità si fa da parte per lasciar parlare i muscoli. Ammetto di non essere un amante delle IPA basate sull’accoppiata resina-caramello, ma in questo caso le intenzioni sono ben dichiarate e devo riconoscere che quello che c’è nel bicchiere funziona. 
Ambrata carica, riflessi ramati e rossastri, schiuma ocra cremosa e compatta dall’ottima persistenza. Bottiglia “nata” alla fine dello scorso gennaio che mette in mostra un naso ancora fresco nel quale domina la frutta matura, soprattutto mango e melone, il pompelmo “zuccherato”. Aghi di pino e caramello in sottofondo completano un aroma che ha buona intensità ma non eccelle per quel che riguarda pulizia e finezza. Caratteristiche che ritrovo al palato in una bevuta dall’intensità notevole per un ABV tutto sommato contenuto (6.5%): caramello e frutta tropicale iniziano un percorso che si sposta rapidamente e definitivamente sul versante amaro, resinoso e pungente, restandoci sino alla fine. Anche in questa birra l’alcool non si nasconde e forse si fa sentire anche più di quanto dichiarato in etichetta: liberata la potenza, per fare un’ulteriore salto di qualità secondo me rimangono da migliorare pulizia ed eleganza, soprattutto al palato. C’è un bel fruttato tropicale ma la percezione dei frutti non è così “netta” come dovrebbe/potrebbe essere, l’amaro è importante ma finisce per raschiare un pochino il palato: è un dettaglio, non dà troppo fastidio ma si sente. 
Per Kashmir due birre vigorose e di livello abbastanza buono che consiglierei soprattutto a chi cerca l’amaro: qui ne troverete in abbondanza, per una soddisfazione che presuppone la rinuncia ad un po' di eleganza e finezza. Il birrificio è giovane, ma le due birre assaggiate mi sembrano già avere   personalità.

Nel dettaglio:
Lamortesua, 33 cl., alc. 7.8%, IBU 85, lotto 02/17, scad. 12/2017
Dulcamara, 33 cl., alc. 6.5%, IBU 66, lotto 02/2017, scad. 01/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 19 aprile 2017

Struise Blue Monk Special Reserve (Vintage 2013)

Mike Shatzel è uno dei protagonisti della scena craft di Buffalo, la seconda città più popolosa dello stato di New York: sin da bambino ha iniziato ad aiutare i propri genitori nei bar di proprietà della famiglia, dapprima come semplice lavapiatti. Nel 1998, terminati gli studi a San Diego, Shatzel ritorna a Buffalo per gestire il locale Cole’s: “dopo un paio d’anni arrivò un venditore a proporci la birra artigianale. Il primo fusto che ordinai fu la Sawtooth Ale di Left Hand e la settimana dopo mi portarono la  IPA di Harpoon: a quel tempo neppure sapevo che cosa fosse una IPA. Ma tutto iniziò davvero a prendere piede con la Sierra Nevada Pale Ale, della quale io stesso divenni un fan. Arrivarono anche le birre di Stone e gradualmente passammo da 18 a 24 e poi a 30 spine: mio padre ed i miei colleghi pensavano che io fossi impazzito, ma mi ero innamorato della craft beer. Nel 2007 andai con un amico ad Amsterdam a vedere i Black Crowesricorda - scoprimmo questo bar chiamato Gollem che aveva tutte le birre trappiste; m’innamorai dell’atmosfera di quel locale e mi venne subito voglia di aprirne uno simile a Buffalo. Ritornato negli Stati Uniti iniziai subito a cercare la location giusta, che trovai nel quartiere di Elmood;  venni a sapere che il proprietario era il padre di Kevin Brinkworth, un mio vecchio amico d’infanzia. Diventammo soci ed  inaugurammo nel 2010 il Blue Monk Cafè, focalizzato soprattutto sulla tradizione belga: il locale cambiò per sempre la scena di Buffalo, ne divenne un punto di riferimento, iniziammo ad ospitare numerosi birrai che arrivavano anche da molto lontano. Per quasi sei anni io e Kevin lo gestimmo con successo, eravamo amici da sempre ma come partner commerciali non eravamo molto compatibili".
Il 16 aprile 2016 il Blue Monk di Buffalo ha chiuso i battenti proprio a causa delle divergenze di vedute tra i sue soci: Mike spera di poterlo un giorno riaprire, magari dopo aver vinto la causa legale attualmente in atto per l’utilizzo del nome. Nel frattempo la famiglia Shatzel continua a gestire il ristorante Cole’s  a Buffalo e Mike, assieme ad alcuni soci, i locali Moor Pat nel sobborgo di Williamsville,  l’ABV - Allen Burger Venture ad Allentown e ha da poco inaugurato con il socio Rocco Termini il brewpub Thin Man Brewery nel quartiere di Elmood, a pochi isolati da dove un tempo si trovava il Blue Monk.

La birra.
Tutto questo che cosa c’entra con la bevuta di oggi?  Nel ottobre 2015 ad un festival organizzato in Florida da Shelton Brothers, importatore americano di molti birrifici belgi, Mike Shatzel incontra Urban Coutteau degli Struise. “Mi presentai per dirgli che le sue birre riscuotevano un ottimo successo nel mio locale - racconta Shatzel - e gli allungai un biglietto da visita del Blue Monk”.  “Fu come un’illuminazione – ricorda Urban -  su quel biglietto c’era la mano di un monaco, colorata di blu, che faceva il gesto dell’assoluzione. Io nel 2013 avevo fatto una birra che avevo chiamato Blue Monk e che da allora era ferma ad invecchiare in botti di vino rosso dello Château Haut Breton Larigaudière di Margaux, Francia. Di solito noi invecchiamo le birre per un anno, ma quella era ancora nelle botti perché non avevamo ancora trovato l’etichetta giusta. Feci una rapida ricerca in internet e rimasi ancora più sorpreso: Mike stava promuovendo da anni la birra belga di qualità, come un ambasciatore. Era troppo bello per essere vero, e gli chiesi se potevo usare il logo del suo locale come etichetta per la mia birra. Era come chiedere a qualcuno di prestarti il suo bene più prezioso, ma lui rispose subito di sì, che potevo fare quello che volevo. Tornato in Belgio, mostrai ai miei soci il biglietto da visita del Blue Monk e tutti furono d’accordo con me: Mike nominato ambasciatore degli Struise per l’anno 2016”. 
La Blue Monk degli Struise è una quadrupel (Sint Amatus?) che è stata prodotta ad ottobre 2013 ed imbottigliata nel gennaio 2016 dopo aver quindi passato poco più di due anni in botti di vino rosso.  I primi fusti sono disponibili per l’assaggio presso il birrificio degli Struise dagli ultimi mesi del 2015; le bottiglie arrivano a febbraio 2016 in Europa e qualche mese più tardi anche negli Stati Uniti. Per ironia della sorte, il locale Blue Monk di Buffalo ha già chiuso al momento del debutto ufficiale della birra sul territorio americano. 
Nel bicchiere si presenta di color ebano scuro con intensi riflessi rosso rubino; la schiuma, cremosa e abbastanza compatta, non è troppo generosa e abbastanza rapida nel dissolversi. Si parte da un aroma piuttosto complesso ed interessante: ci sono le caratteristiche di una quadrupel (uvetta, prugna, zucchero candito) alle quale s’affianca un netto carattere vinoso. In sottofondo un tocco d’affumicato, poi legno, tabacco, carne ed una remota suggestione di cioccolato. L’eleganza non è la caratteristica principale ma è comunque un bouquet aromatico piuttosto interessante e molto piacevole. La sensazione palatale è secondo me perfetta: corpo tra il medio e il pieno, poche bollicine, consistenza che trova un mirabile equilibrio tra morbidezza, presenza tattile e scorrevolezza tipica della tradizione belga. Al palato incontriamo biscotto, caramello, zucchero candito, prugna e uvetta; quella che sembrerebbe una quadrupel “normale” si porta però dietro un netto carattere vinoso, note di legno e di frutti di bosco, d’affumicato. L’alcool è presente e scalda senza mai andare oltre le righe, la chiusura è sorprendentemente secca e introduce un lunghissimo retrogusto caldo e vinoso, ricco di frutta sotto spirito e qualche accenno di tostatura (pane? Frutta secca?). 
Quadrupel ricca e complessa, avvolgente, appagante: il suo dolce è molto ben bilanciato dall’alcool, da una lieve asprezza vinosa e da una buona attenuazione. Più intensa che elegante, ma comunque un’ottima birra da sorseggiare in tutta tranquillità che personalmente colloco tra i lavori meglio riusciti che gli Struise hanno sformato negli ultimi anni. E ad un prezzo ancora affrontabile.
Nel dettaglio: formato 33 cl., lotto 12/10/2013, imbott. 15/01/2016, scad. 11/01/2029, prezzo indicativo 5,50-6,50 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 13 aprile 2017

CRAK NEIPA (Citra, Mosaic, Motueka)

Ritorna dopo poche settimane sul blog il birrificio CR/AK, fresco di una bella esperienza come ospite al Hunahpu's Day 2017 organizzato dal birrificio Cigar City Brewing a Tampa, Florida, nel corso del quale ha presentato le proprie birre della serie Cantina. Noi torniamo invece a parlare di New England/Cloudy/Juicy IPA: la prima prodotta da CR/AK è nata dalla collaborazione con il birrificio norvegese Nøgne Ø e ne avevamo parlato in questa occasione. 
La scelta commerciale di CR/AK vuole che accanto ad un ristretto nucleo di birre prodotte tutto l’anno ce ne sia un numero molto più elevato che vengono prodotte solo occasionalmente: mi riferisco alla “Hop Series”, ovvero diverse declinazioni dello stile IPA che di volta in volta sono realizzate con diverse tipologie di luppolo. Non so se l’intenzione sia di applicare lo stesso modello anche alla New England IPA (NEIPA): fatto sta che la collaborazione con Nøgne, prodotta con luppoli Citra, Galaxy ed Ekuanot, ha già subìto una variazione nella sua nuova edizione. Scompare nei “crediti” d’etichetta il birrificio norvegese e il risultato è una NEIPA 100% CR/AK prodotta con Citra, Mosaic e Motueka "nella più grande quantità mai utilizzata", dicono da Campodarsego : 30 grammi al litro.  Il suo debutto avviene lo scorso 27 marzo, la stessa data d’imbottigliamento riportata in etichetta: allo spaccio del birrificio, imitando quello che accade negli Stati Uniti, viene imposto un limite d’acquisto: sei bottiglie per ogni persona, con nuova veste grafica a spezzare il legame con la precedente NEIPA collaborativa. In etichetta c’è un tetrapack a simboleggiare il carattere “succoso” della birra.

La birra.
Il look è quello tipico delle New England IPA, quello che fino ad un paio di anni fa avrebbe fatto inorridire anche la maggior parte dei beer-geeks che oggi venerano queste birre: arancio pallido torbidissimo e schiuma appena “sporca”, scomposta e saponosa, abbastanza veloce nel collassare nel bicchiere. L’aroma è un gradevole cocktail di frutta tropicale, intenso e pulito: ananas e pompelmo, mango e cedro con altre declinazioni di agrumi (arancio, mandarino) che il variare della temperatura fa emergere. La finezza non è solitamente la caratteristica principale delle Juicy IPA ma in questo caso direi che si è raggiunto un discreto livello. 
Per quel che riguarda il mouthfeel, devo ripetere quanto detto in occasione della NEIPA realizzata con Nøgne: la sensazione palatale è gradevole benché non particolarmente morbida o cremosa come vorrebbero invece i dettami di questo sottostile di IPA. Il gusto segue con buona corrispondenza l’aroma, regalando un analogo cocktail succoso e fruttato (ananas, mango, pompelmo rosa, arancia, mandarino) molto intenso e nel quale l’alcool (7.5%!) è praticamente inesistente; la bevibilità ne trae ovviamente giovamento e si spinge livelli molto alti. Pulizia e secchezza sono altre caratteristiche positive di una Juicy IPA molto gustosa, per nulla cafona e con qualche ambizione verso un’eleganza che sembra ancora difficile da raggiungere. L’amaro è piuttosto contenuto, un breve passaggio a fine corsa al quale fa subito seguito il ritorno nella frutta tropicale. E’ quel lieve raschiare dell'amaro, quel lieve pizzicare in gola che rimane dopo ogni sorso il tallone d’Achille di molte di queste New England / Juicy IPA: anche questa interpretazione di CRAK non se lo fa mancare, sebbene la sua presenza non sia particolarmente fastidiosa. Rimane comunque una bella bevuta e secondo il mio gusto anche un pelino “migliore” rispetto alla collaborazione con Nøgne.
Formato: 33 cl., alc. 7.5%, imbott. 27/03/2017, scad. 27/06/2017, prezzo indicativo 5.50/6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 12 aprile 2017

Stiegl Stieglbock 2016

Fondato a Salisburgo nel 1492 come Bräuhaus an der Gstätten, finì in seguito per assumere il nome con il quale lo chiamava abitualmente la gente: Das Haus Bey der Stiegen, ovvero “la casa vicino agli scalini”, con riferimento ad una piccola serie di gradini che si trovavano adiacenti all’edificio. Abbreviato il nome in Stiegl, nel 1863 il birrificio traslocò nel quartiere periferico di Maxglan sotto la guida del nuovo proprietario Josef Schreiner che promosse un ambizioso piano di espansione. Una decina di anni dopo (1875) il birrificio venne distrutto da un grosso incendio e ricostruito in pochi mesi: chi non si riprese dalla tragedia fu Schreiner, deceduto nel 1880. L’attuale proprietaria di Stiegl, la famiglia Huemer-Kiener, è scesa in campo nel 1887 ed ha sapientemente guidato il birrificio attraverso i momenti difficili delle due guerre mondiali.  
Nel 1912 a Salisburgo erano operativi ben 174 produttori di birra dei quali Stiegl era il maggiore, con il record di 130.000 ettolitri raggiunto nel 1914: il consumo pro-capite per ogni cittadino era stimato intorno ai 200 litri all’anno. La prima guerra mondiale bloccò di fatto una produzione che riuscì a ripartire piuttosto lentamente solamente nel 1920 a causa della scarsità delle materie prime. Le confische e i danni provocati dal secondo conflitto misero di nuovo in ginocchio un’azienda che nel 1946 fu in grado di produrre solamente 67.000 litri di una birra molto leggera (2.5%);  ci vollero oltre due anni (e l’aiuto delle materie prime importate dai militari americani) per poter spillare una birra “normale” a Salisburgo. Ma è solamente negli anni ’60 che Stiegl riesce a ritornare ai volumi prodotti prima delle due guerre. Nel 2005 viene inaugurato il nuovo birrificio a Salisburgo che oggi dà lavoro a circa 600 persone.

La birra.
Appuntamento fisso del mese di dicembre è quello con la Stieglbock, una birra dedicata ai mesi più freddi dell’anno e relative festività; la presentazione avviene solitamente a Salisburgo nel corso della Stieglbockbier-Festes, un evento benefico che ha lo scopo di raccogliere fondi e destinarli a diverse iniziative. La bock viene prodotta in agosto e poi lasciata maturare sino a dicembre. 
Nel bicchiere è perfettamente limpida e di un intenso colore dorato; la biancastra schiuma è cremosa e compatta ed ha un’ottima persistenza. Al naso biscotto e pane, qualche nota di miele e di frutta secca, un accenno burroso: fragranza e finezza non sono proprio di casa ma tutto sommato i profumi sono dignitosi nella loro sufficienza, anche se di intensità piuttosto modesta. Bene invece la sensazione palatale: è una birra che sostiene il suo contenuto alcolico (7%) con un corpo medio ed una consistenza morbida senza nessuna deriva acquosa. Il gusto segue fedelmente l’aroma mettendo però in campo una maggiore intensità: biscotto un po’ burroso, crosta di pane, accenni di caramello e miele formano un carattere dolce ben riscaldato da una delicata presenza etilica che accompagna tutta la bevuta, chiusa da un brevissimo passaggio di mandorla amara. 
Devo ammettere che quello che c’è nel bicchiere non è affatto male se contestualizzato come prodotto da un birrificio industriale: non c’è fragranza e non regala nessuna emozione, ma è una birra comunque priva di difetti, discretamente intensa e che costa poco più di 2 euro al litro. Direi che ci si può accontentare, se capita nel bicchiere. 
Formato:  50 cl., alc. 7%, lotto 16 L271A1 H, scad. 27/03/2017, pagata 1,18 Euro (supermercato, Austria).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 11 aprile 2017

Wicked Weed Dark Age Bourbon Stout

Asheville, Carolina del Nord: Walt e Luke Dickinson sono seduti in un bar e accarezzano con la fantasia un sogno, ovvero riuscire un giorno ad aprire un microbirrificio e produrre le birre che amano: le IPA della West Coast e le birre acide del Belgio. Da quella serata del 2009 passano tre anni nel corso dei quali viene redatto business plan che si realizza grazie all’aiuto dell’amico Ryan Guthy e dei suoi genitori Rick e Denise. 
Homebrewer dal 2001, Walt ha poi accumulato esperienza come birraio presso la Craggie Brewery, la Green Man Brewery e la French Broad Brewery. E' stato lui a regalare al fratello Luke un homebrewing kit in occasione del suo ventunesimo compleanno: anche Luke inizia a trafficare con le pentole in garage e, desideroso di saperne di più, si reca a lavorare come volontario al birrificio Dogfish Head, finendo poi per essere assunto nella Tasting Room, dove rimane a lavorare per qualche anno. 
Grazie al finanziamento ricevuto da Rick e Denise Guthy, i fratelli Dickinson riescono ad inaugurare alla fine del 2012 il brewpub Wicked Weed con un impianto da 15 ettolitri che trova spazio all’interno di un edificio degli anni ’30 che un tempo una stazione di servizio della Gulf nel downtown di Ashville: una ventina le spine operative. Ad aiutare Luke e Walt viene assunto il birraio Eric Leypoldt proveniente da Dogfish Head: ma mentre Luke è innamorato di IPA e Imperial Stout, Walt sogna di lavorare con i lieviti selvaggi e gli invecchiamenti in botte. Visto che è pericolosissimo far convivere sotto lo stesso tetto le due cose, nell’ottobre 2014 viene inaugurato il Funkatorium, una seconda unità produttiva con annessa taproom completamente dedicata alle birre acide che si trova nel quartiere South Slope di Asheville. 
A luglio 2015 vengono invece aperte le porte di un nuovo birrificio (capacità 58 ettolitri) ad una quindicina di chilometri da Asheville, un investimento necessario per supportare quella crescita di volumi che il brewpub non poteva più sostenere: la location è attualmente dedicata alla produzione e al confezionamento, ma in futuro dovrebbe essere operativa una taproom.

La birra.
Tra le prime birre prodotte da Wicked Weed, oltre alla flagship Freak of Nature Double IPA c’è anche la massiccia imperial stout chiamata Dark Age ed invecchiata in botti di bourbon che vengono selezionate da tre principali produttori del Kentucky: Blanton's; Buffalo Trace e Four Roses.  E' stata anche la prima birra barricata prodotta dal birrificio. Nonostante la notevole gradazione alcolica (12%) Walt Dickinson garantisce che si tratta di una birra “gentile” alla quale il passaggio in botte ha restituito solamente i sapori del bourbon senza passare la componente alcolica/boozy. Sarà vero? 
Nel bicchiere arriva un viscoso liquido nero che ricorda l’olio motore, e tuttavia riesce ugualmente a formarsi una bella testa di schiuma cremosa, abbastanza compatta, dall’ottima persistenza. L’aspetto è splendido ma il naso non regala esattamente quel ricco bouquet che vorresti trovare in una birra del genere:  il bourbon e la componente etilica sono chiaramente in primo piano e spingono nelle retrovie le tostature, il caffè, il cioccolato. Ancora più nascosti ci sono i profumi di vaniglia, legno, caramello, carne, accenni di salsa di soia. Il mouthfeel è invece perfetto: corpo pieno e poche bollicine per un liquido viscoso che accarezza il palato con garbo, cremosità, sensualità. Tale morbidezza si colloca all'estremo opposto rispetto al gusto; è una imperial stout molto potente che non nasconde assolutamente la sua gradazione alcolica e sembra ostentarla. Al palato c'è tanto bourbon che scalda e brucia un po' obbligando ad un lento sorseggiare: abbiamo caffè, tostature, legno, lontanissimi ricordi di cioccolato supportati da una base di caramello bruciato e frutta sotto spirito. La bevuta è ben bilanciata tra dolce e amaro, ma il finale ricco di bourbon provvede comunque a spazzare via qualsiasi residuo di gusto per riprendersi la scena e non abbandonarla più. 
Una imperial stout nella quale la potenza prevale sull'eleganza e sulla complessità: il risultato non rientra nella mie corde, con il bourbon molto in evidenza e l'alcool che obbliga a troppe pause per finire il bicchiere. Il risultato è buono ma non eccelso, e visto che parliamo di 40 euro al litro personalmente non posso ritenermi soddisfatto.
Formato: 37.5 cl., alc. 12%, imbott. 22/03/2016, prezzo indicativo 15.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 10 aprile 2017

Bzart Session Triple 2013

Le cosiddette Bières Brut (sarebbero “birre-champagne”, ma fate molta attenzione ad utilizzare la seconda parola in ambito commerciale) non sono di certo una novità in Belgio, basti pensare alla Deus di Bosteels o alle Mahleur, tanto per citare le più famose: e se applicassimo il  metodo  “Classique/Traditionnelle/Champenoise” al lambic? E' l'idea che è venuta a Gert Christiaens, colui che ha salvato Oud Beersel (uno degli ultimi produttori di lambic ancora in attività)  dall’estinzione rilevandolo nel 2007; una storia un po’ romantica, quella di un appassionato bevitore che non poteva tollerare di veder scomparire la propria amata bevanda, che vi avevo riassunto in questa occasione.  
Il romanticismo è bello ma non sempre coincide con il fatturato: per Oud Beersel, rinato solamente come assemblatore del lambic prodotto da Frank Boon, si trattava di trovare rapidamente il modo di far tornare i conti e iniziare a guardare al futuro con più ottimismo. La Bersalis Tripel permise nel 2005 di racimolare i fondi necessari per ripartire ed ampliare la capacità del magazzino dove mettere nuove vasche e botti necessarie per la fermentazione, la maturazione e l’assemblaggio finale del lambic; l’isteria per il lambic proveniente soprattutto dagli Stati Uniti è sicuramente un fattore che potrà aiutare il fatturato di Oud Beersel, anche se per il momento il nome non ha ancora l’appeal di Cantillon o 3 Fonteinen. E fortunatamente (per il portafoglio). 
Gert Christiaens ha pensato alla continuità della tradizione ma anche all’innovazione. Nel 2011 ha lanciato sul mercato il marchio Bzart, in collaborazione con Luc Dirkx, appassionato “attivista” olandese di vini e di birre; è lui a mettere in contatto Christiaens con l’amico Guy Geunis, proprietario di uno dei più antichi vigneti olandesi a Borgloon, nella regione del Limburgo. Geunis è noto alle cronache per avere commercializzato per molti anni i suoi vini frizzanti con il nome Champinnot, salvo poi essere costretto a cambiarlo in  Optimbulles in seguito alle minacce legali del CIVC - Comité Interprofessionnel du vin de Champagne
Il lambic, dopo essere stato invecchiato per circa un anno nelle botti della cantina di Oud Beersel, viene imbottigliato seguendo il metodo classico, ossia viene ossia aggiunto il liqueur de tirage, che contiene gli zuccheri ed i lieviti da champagne necessari alla rifermentazione in bottiglia. A questo punto le bottiglie riposano per circa nove mesi sulle pupitres (supporti di legno con fori dove sistemare le bottiglie a testa in giù) e vengono periodicamente girate a mano (remouage) per favorire l’amalgama di zuccheri e lieviti  e far depositare le fecce del lievito verso il tappo,  che vengono poi eliminate con il degorgement, ovvero la "sboccatura” che viene effettuata da Guy Geunis a Borgloon. Contrariamento a quello che avviene per lo champagne, Oud Beersel dichiara che per le Bzart non viene però effettuato il rabboccamento  con il liqueur d’expedition.   
Le prime 1300 bottiglie di Bzart Lambiek vanno rapidamente esaurite nonostante il prezzo elevato e convincono Christiaens a proseguire nel progetto che ben presto s’arricchisce con Bzart Kriekenlambiek (alle ciliegie), Bzart Oude Geuze e Oude Kriek, Bzart Session Triple e Bzart Triple Forte, Bzart Geuze e Kriek Cuvée.

La birra.
Non ho trovato molte informazioni su questa bottiglia di Bzart Session Triple, se non che la base di partenza è la Bersalis Kadet, ovvero una Belgian Ale che vorrebbe replicare la stessa intensità di sapori di una Tripel a fronte di una gradazione alcolica del 4.5%. La birra sarebbe poi sottoposta alla rifermentazione in bottiglia con liqueur de tirage  per un periodo di circa un anno nel corso del quale viene effettuato il remouage e che termina con il degorgement. A dirla così sembrerebbe una classica Belgian Ale riferimentata in bottiglia con lieviti da champagne, ma l’assaggio mostra l’inconfutabile presenza di lieviti selvaggi; da nessuna parte ho tuttavia trovato informazioni su un eventuale invecchiamento della birra in botti di legno prima dell’imbottigliamento, e neppure su di un eventuale blend con del lambic al momento dell’imbottigliamento. 
Detto questo, l’etichetta della Bzart Session Triple indica una messa in bottiglia avvenuta nell’ottobre 2013 e un degorgement del novembre 2014; solamente cinquecento gli esemplari prodotti. All’aspetto è di un bel colore dorato, leggermente velato e sormontato da un’esuberante schiuma pannosa che obbliga ad una lunga attesa prima di potere comporre un bicchiere di birra; nel frattempo bisogna attrezzarsi per tappare la bottiglia dalla quale continua ad uscire la schiuma, lenta ma copiosa. Terminata l’operazione, ci si può concentrare sull’aroma, piuttosto complesso ed interessante: ai classici “profumi” del lambic (lattico, sudore, carte da gioco vecchie, pelle di salame etc etc.) si affiancano note floreali, scorza di limone, uva acerba e, in sottofondo, un gradevolissimo velo di dolce di ananas e pesca. Nessuna sorpresa al palato, dove il mouthfeel è quello perfetto per una bière brut: corpo medio, vivaci bollicine, scorrevolezza e secchezza esemplari. La bevuta ricompone minuziosamente il puzzle aromatico: lattica, aspra di frutta acerba (uva, ribes, limone) e funky con un velo dolce a richiamare la frutta a pasta gialla. Alcool impercettibile, grande seccchezza e chiusura di mandorla amara, scorza di limone e lattico a ripulire perfettamente il palato. 
Buona complessità e grande facilità di bevuta per una birra acida indubbiamente di grande livello che ricorda effettivamente i vini spumati pas dosé o dosaggio zero e che si beve con grande soddisfazione. Impossibile però non parlare dei prezzi di tutta la linea Bzart, della quale la Session Triple credo rappresenti l'alternativa più economica; a seconda di dove le acquistate le Bzart oscillano tra i 15 ed i 35 euro a bottiglia, e a questi prezzi si riesce ad acquistare già dello champagne di qualità. Non ha forse molto senso confrontare birra e champagne, ma il contesto lo impone: a voi la scelta se orientarvi verso un'ottima birra il cui lungo processo produttivo non giustifica comunque del tutto il prezzo del biglietto.
Formato: 75 cl., alc. 6.3%, imbott. 11/2014, scad. 11/2020, pagata 14,75 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 9 aprile 2017

Collective Arts: Gose & Papaya Saison

Debutta sul blog il birrificio canadese Collective Arts fondato da Matt Johnston e Bob Russell, entrambi provenienti da esperienze lavorative nel marketing per altri birrifici. Nel settembre 2013 i due soci aprono le porte di quella che è inizialmente una beerfirm che produce presso gli impianti della Nickel Brook di Burlington, Ontario: tutte le banche interpellate avevano infatti negato i finanziamenti necessari all'acquisto di sito ed impianti produttivi.
Collective Arts nasce attorno al concetto "la creatività nutre la creatività": se l'artigiano della birra può essere considerato nel suo piccolo un artista, perché non metterlo in contatto con altri creativi? Disegno, fotografia, illustrazione, musica e cinema sono le forme d'arte che Johnston e Russell vogliono far interagire con le proprie birre. Ogni sei mesi la beerfirm indice infatti un concorso aperto a chiunque voglia inviare i propri lavori che vengono poi selezionati da un panel di "esperti": i vincitori vedranno i propri lavori sulle etichette delle bottiglie e delle lattine, riceveranno in premio 200 dollari canadesi e manterranno il diritto d'autore. Dai seicento partecipanti alla prime edizione del 2013 si è arrivati agli oltre duemila artisti che hanno inviato i propri lavori per la sesta edizione: sessantotto i vincitori scelti.
Ma le birre oltre che "belle" devono anche essere buone: Ryan Morrow è il birraio al quale viene affidato questo compito ed i risultati gli danno ragione.  Rhyme & Reason è una Pale Ale che diventa una delle craft bier più vendute dal Liquor Control Board dell'Ontario ed il birrificio Nickel Brook non può supportare un'ulteriore crescita di Collective Arts che si trova di fronte ad un bivio: trovare altri birrifici dove far produrre le proprie birre o dotarsi d'impianti propri.
Ma visto che anche Nickel Brook stava pensando di espandersi, Johnston e Russell decidono di unirsi a quel progetto: una banca concede ai due birrifici sette dei dieci milioni di dollari necessari per acquistare e ristrutturare a Burlington l'edificio dove un tempo operava la Lakeport Brewery, acquisita dalla Labatt e poi chiusa definitivamente nel 2010. 
Inaugurato nel novembre 2015, la Arts & Science Brewing produce oggi birre sia per Collettive Arts che per Nickel Brook: nei suoi spazi anche una galleria d'arte, dove sono in mostra oltre duecento bottiglie di birra con le relative etichette realizzate dai vari artisti, un Biergarten, la taproom ed una sala da concerti che può ospitare quattrocento persone. 
E scaricando l'applicazione gratuita chiamata Blippar, potete utilizzare la realtà aumentata per visualizzare sul vostro telefono informazioni sull'artista che ha realizzato l'etichetta, vedere filmati ed ascoltare musica collegata alla birra che state bevendo.

Le birre.
Tim Barnard è uno degli artisti che nel 2015 è stato selezionato per dare vita all'etichette delle due birre che mi accingo a stappare. 
Partiamo da una Gose la cui ricetta prevede malti 2 Row e Pilsner, frumento, coriandolo, sale rosa dell'Himalaia e luppolo Saaz. Dorata e leggermente velata, schiuma bianca un po' grossolana e alquanto rapida nel dissiparsi. L'aroma mette in evidenza la scorza d'arancia, l'asprezza del limone e delle albicocche acerbe, il pompelmo rosa; in sottofondo una nota salina, accenni di coriandolo e di acido lattico. Anche al palato c'è un bel profilo fruttato che ricalca in pieno l'aroma: la bevuta è aspra e lievemente acidula, molto rinfrescante e dissetante. Limone e arancia, albicocca acerba, un velo dolce in sottofondo di pompelmo rosa zuccherato e pesca bianca. Finisce con l'amaro della scorza d'arancia, di breve durata, ed un tocco di sale. Più aspra che acida, questa Gose di Collective Arts è una bella sorpresa: molto gradevole, vivacemente carbonata, intensità elevata a fronte di una facilità di bevuta impressionante. Secchissima, evapora dal bicchiere in pochissimi minuti: il suo habitat naturale è dunque l'estate.

Le cose non vanno altrettanto bene quando si versa nel bicchiere la Papaya Saison: oltre all'omonimo frutta, la ricetta vuole frumento, malti Pilsner e Munich 1, luppolo Citra anche in dry-hopping. Assolutamente limpida e dorata, forma l'atteso e abbondante capello di schiuma cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. La nota acidula del frumento apre le danze di un'aroma che ospita anche banana, mango, arancia e ovviamente papaia. Il bouquet è gradevole e pulito, ancora fresco. Molto meno convincente è purtroppo il gusto; frutta praticamente assente, se si eccettua la lieve presenza di papaia, appena sopra la soglia di percezione. La bevuta passa dal biscotto e dal miele dei malti al finale terroso e vegetale, con una marcata astringenza a renderla molto meno dissetante di quanto dovrebbe essere. Ma è soprattutto una Saison priva di una qualsiasi componente rustica e che non regala nessuna emozione: bevuta e dimenticata.
Nel dettaglio:
Gose, formato 35,5 cl., alc. 5.2%, imbott. 08/2016, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)
Saison, formato 35,5 cl., alc. 6%, imbott. 08/2016, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 7 aprile 2017

Crooked Stave Progenitor

Ritorna sul blog Crooked Stave, il birrificio della "doga piegata": il perché del nome è presto detto, mettere la birra dentro le botti è quello che al fondatore Chad Yakobson piace fare. La sua seconda passione sono i brettanomiceti, al punto d'aver dedicato a questi lieviti selvaggi la sua tesi di laurea all'International Centre for Brewing and Distilling dell'Università di Edimburgo, in Scozia. Ritornato negli Stati Uniti, Yakobson ha fondato Crooked Stave che ha debuttato come beerfirm a cavallo tra il 2010 ed il 2011, in attesa di riuscire a reperire i fondi necessari per installare i propri impianti. 
Chad fa maturare la birra in botti e foeders situati in un magazzino nel quartiere industriale di Sunnyside, inaugurato a settembre 2012. L’anno successivo viene aperto il locale The Source, ovvero la “taproom ufficiale”, all’interno di una ex fabbrica di mattoni del 1880:  l’idea di era di riuscire a installare il proprio impianto all’interno di questo complesso già entro la fine del 2013 ma qualcosa è andato storto e i suoi piani per passare da beerfirm a produttore hanno subito un forte rallentamento. E’ solo lo scorso gennaio 2016 che Crooked Stave  ha potuto tagliare il nastro del proprio impianto da 25 ettolitri. 
Ma torniamo a febbraio 2015, quando il birrificio annuncia la nascita della Progenitor, una birra acida prodotta con un “mix” di lieviti selvaggi e batteri e sottoposta poi ad un intenso dry-hopping. Il perché del nome “progenitore” è presto spiegato: è un ritorno alle origini della birra, quando era una bevanda acida prodotta con lieviti selvaggi.  “Progenitor è stata fermentata con il nostro particolare mix di lieviti creato appositamente per realizzare una base acida “funky” ma pulita per permettere la massima espressione delle componenti aromatiche del luppolo  - disse Chad -  Ci piace spingerci sempre oltre i limiti e riformulare continuamente il concetto di birra acida: questo è il nostro tributo alla birra primitiva, reinterpretata in chiave moderna ed originale grazie ad un’abbondante dry-hopping” 
A dire il vero non si tratta di un’assoluta novità in casa Crooked Stave.  Qualche mese prima, a novembre 2014, Yakobson aveva annunciato la nascita di una Dry Hopped Sour Ale chiamata Primitif.  Peccato che il birrificio Trinity di Colorado Springs stesse già producendo la Red Swingline Primitif IPA, prodotta con brettanomiceti e lactobacilli; alla Trinity non gradiscono la somiglianza e spediscono a Crooked Stave  la Cease & Desist Letter con la quale si intima di abbandonare subito il nome scelto pena l’inizio di un procedimento legale. Yakobson decide così di rinominare la birra “60 batch” visto che si trattava del sessantesimo lotto prodotto: il nome non è ovviamente il massimo se si vuole continuarla a fare anche in futuro ed ecco il cambiamento in Progenitor, senza però riferimenti ufficiali al fatto che si tratti sempre della stessa birra chiamata per un breve periodo Primitif.

La birra.
L’etichetta riporta luglio 2015 come data d’imbottigliamento: i quasi due anni trascorsi sono ovviamente deleteri per apprezzare in pieno l’effetto del dry-hopping, ma consentono comunque d’apprezzare altre caratteristiche di questa ottima Sour Ale. Dorata e leggermente velata, forma una bella testa di schiuma pannosa, un po’ scomposta ma dall’ottima persistenza. Al naso c’è una elegante macedonia di frutti; profumi delicati e molto raffinati, ben lontano da esibizionismi opulenti e cafoni: pesca nettarina, ananas, mango costituiscono il lato dolce al quale risponde l’asprezza del limone e del pompelmo rosa. Acido lattico e note floreali in secondo piano completano un bouquet molto ben assemblato. Al palato le proporzioni s’invertono e la componente aspra e lattica è molto più evidente rispetto a quella dolce: ne risulta una bevuta secchissima e molto rinfrescante, molto fruttata e ricca di limone, ribes ed uva acerba con un sottofondo dolce di ananas e pesca. Il suo essere elegante non le preclude comunque un carattere “gentilmente” funky e rustico: la chiusura è moderatamente amara (lattica, zesty,  terrosa) seguita da un sorprendente retrogusto dolce e fruttato di ananas e frutta tropicale. 
Livello molto, molto alto quello della Progenitor di Crooked Stave: vivace al palato, mouthfeel perfetto, impressionante potere dissetante e rinfrescante. Facilissima da bere ma, considerato il prezzo  non esattamente economico, meglio sorseggiarsela con calma e gustarne tutte le sfumature. 
Formato: 37,5 cl., alc. 6.2%, imbott. 07/2015, prezzo indicativo 10.00-13.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 6 aprile 2017

Amager The Sinner Series Lust

Hanno indubbiamente contribuito al successo del birrificio danese Amager quella serie di  birre uscite nell’ambito della “Sinner Series” a partire dal 2012: sette birre a rappresentare i sette vizi capitali. 
La lussuria prende la forma di una robusta (9.2%) dolce Belgian Strong Ale: il birrificio ammette di non volersi assumere la responsabilità per le conseguenze che potrebbero accadere nel caso la faceste assaggiare alla vostra ragazza nel corso di una romantica cena. L’ira è invece rappresentata da un’apparentemente innocua Saison (6.5%): l’averla però messa ad invecchiare in botti che avevano contenuto Pinot nero potrebbe far scatenare l’ira per il mancato rispetto della tradizione. Ad una potente Double IPA (9.4%) il compito di dare forma al terzo vizio, la gola: il peccato commesso qui è ovviamente l’uso esagerato di luppoli;  il vizio opposto, quello dell’accidia, è invece rappresentato da una “semplice” American Pale Ale (6%) prodotta con un solo malto ed un solo luppolo. La superbia (Pride) viene trasformata nella forma liquida di una massiccia (10%) imperial stout, lo stile che rende maggiormente fieri/orgogliosi le persone di Amager. Per realizzare la birra dell’avarizia venne invece chiesto il consiglio del responsabile marketing, e la sua risposta fu semplice e immediata: “facciamo quello che fanno tutte le grandi aziende, ovvero una birra a basso costo e vendiamola ad un prezzo premium”. Ecco quindi una Pilsner sulla cui etichetta viene raffigurata una caricatura dell’avido business man. La serie non poteva non includere una IPA, la quale viene abbinata al vizio dell’invidia: il sentimento nasce dal non essere stati i primi ad “inventare” lo stile che maggiormente li entusiasma, ovvero le West Coast IPA. 
Nei cinque anni trascorsi dal 2012 Amager si è affermato come una delle più interessanti realtà europee, soprattutto grazie a numerose collaborazioni con birrifici americani e , ovviamente, ad interpretazioni degli stili più frequentati dai beergeeks: IPA e DIPA, Imperial Stout/Porter. Livello effettivamente alto per queste produzioni, come ad esempio le IPA Batch 1000 e Todd - The Axe Man, l’american Pale Ale Arctic SunStone e la Double IPA Shadow Pictures – Skyggebilleder.  Ma quando si tratta di affrontare il Belgio?

La birra.
Lust, ovvero lussuria, ovvero una robusta Belgian Strong Dark Ale prodotta con malti Caramunich 2, Chocolate, Melanoidin, Pilsner e frumento; Hallertau Mittelfrüh e Chinook, quest’ultimo una scelta al di fuori della tradizione, i luppoli utilizzati. Lievito Trappist, zucchero Demerara, sciroppo di zucchero candito chiaro e scuro. 
La fotografia non rende giustizia ma il suo colore è effettivamente erotico e passionale: ambrato molto carico con intense ed accese venature rubino. L’esuberante schiuma è piuttosto generosa e va a formare un cremoso e compatto cappello color ocra. Al naso caramello e biscotto, zucchero candito, una delicatissima speziatura che viene quasi offuscata dalla presenza dominante di esteri fruttati, soprattutto ciliegia e prugna. Caratteristica che si ritrova anche al palato: il gusto è molto dolce e ricco di frutta sciroppata, la cui intensità finisce per sbilanciare la bevuta e mettere troppo in secondo piano i malti (caramello, biscotto) e lo zucchero candito. Attenuazione (buona), alcool (ben percepibile), bollicine (vicaci) e un breve passaggio amaricante vegetale finale hanno il compito di non rendere la birra troppo stucchevole;  il mouthfeel è invece ben riuscito, riuscendo a trovare un mirabile compromesso tra vivacità e morbidezza. E’ effettivamente un sensuale e lussurioso liquido caldo quello che avvolge il palato, ma il risultato non è dei migliori:  l’alcool non è nascosto nel modo in cui sanno fare i belgi, l’espressività del lievito non restituisce quella complessità e profondità che le grandi Strong Dark Ales belghe sanno regalare. Esteri troppo “sparati”, tanta ciliegia e prugna in una discreta bevuta che tuttavia non convincerà i puristi della tradizione belga.
Formato: 50 cl., alc. 9.2%, lotto 1032, scad. 05/2017.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.