lunedì 28 dicembre 2020

Great Divide Yeti Imperial Stout - Barrel Aged 2019

L’ultima Imperial Stout dell’anno che sta per concludersi è una birra che avevo sempre voluto assaggiare ma che in Europa/Italia era sempre arrivata di rado e, in quelle occasioni, a prezzi molto poco amichevoli.  Parliamo della Barrel Aged Yeti di Great Divide, birrificio di Denver, Colorado, del quale vi ho già parlato in più di un’occasione. Fondato nel 1994 dall’ex-homebrewer Brian Dunn nei capannoni un vecchio caseificio in disuso, il birrificio è andato via via ingrandendosi su quel terreno fino a quando è stato possibile: nel 2013 è stato costretto a trasferirsi nel River North Art District (RiNo) di Denver dove è stato inaugurato il nuovo stabilimento da 6000 metri quadri.  Great Divide produce oggi circa 35.000 barili all’anno, in leggero calo rispetto al picco del 2015: una flessione che ha colpito quasi tutti i grossi birrifici artigianali americani, incalzati da molte nuove realtà locali di dimensioni più contenute e quindi dotati di una maggior flessibilità produttiva.
A guidare le vendite sono comunque ancora tre classici senza tempo:  Titan IPA, Denver Pale Ale e Yeti Imperial Stout. Titan e Yeti nacquero nel 2004 in occasione dei festeggiamenti del decimo compleanno: sino ad allora si erano chiamate Maverick IPA e Maverick Imperial Stout, ma le minacce di un birrificio californiano che utilizzava già il nome Mavericks obbligarono Dunn a cambiare: “viaggiai per tre mesi tra India, Nepal e Cina e mi innamorai della leggenda dello Yeti, una creatura straordinaria con tutto il folklore  che lo  circonda. Quel nome mi rimase impresso e così nacque la Yeti Imperial Stout”
Nel corso degli anni Yeti è diventato un vero e proprio brand all’interno della gamma Great Divide che include ormai oltre una ventina di varianti. Dalla sorellina Velvet Yeti (5% ABV, nitro) a quella prodotta con avena (Oatmeal Yeti) o cioccolato (Chocolate Oak Aged) disponibili ogni anno stagionalmente; la moda del pastry ci ha poi regalato la Maple Pecan Yeti e la S’mores Yeti;chi vuole restare sul classico può invece optare per la serie Oak Aged, ma attenzione alle parole (e al prezzo). Oak Aged (chips di rovere) non significa Barrel-Aged.
Il 2019 è stato un altro anno particolare per l’abominevole uomo delle nevi: i festeggiamenti del venticinquesimo compleanno di Great Divide sono culminati in una festa a Arapahoe Street, dove il birrificio fu fondato, nel corso della quale vennero servite ben 14 varianti di Yeti e per l’occasione è stata prodotta la 25th Big Anniversary Yeti  (13.5% anziché 9.5%). Qualche mese dopo, a novembre, la Barrel Aged Yeti Imperial Stout ha abbandonato il classico formato Bomber per fare il suo debutto in lattina.

La birra.

Sono almeno dodici i mesi che la potente Yeti trascorre in botti che avevano in precedenza ospitato whiskey; non ci vengono date ulteriori informazioni e quindi apriamo questa lattina 2019, disponibile come sempre solo nei mesi che vanno da novembre a gennaio.
Minacciosamente nera e viscosa,  forma un glorioso cappello di schiuma cremosa e compatta dall'ottima persistenza. Torrefatto, tabacco, fondi di caffè, cacao fondente: al naso si ritrovano le caratteristiche tipiche della Yeti affiancate da note di distillato, accenni di legno e vaniglia, un filo di fumo, ricordi di fruit cake e liquirizia. Il suo splendido aspetto non trova piena corrispondenza del mouthfeel, anche se non ci si può lamentare: il suo look “catramoso” regala solo una leggera oleosità ma nessuna particolare densità o morbidezza. Melassa, fudge, frutta sotto spirito (uvetta, prugna) e accenni di vaniglia disegnano una bevuta molto più morbida e docile rispetto all'aggressività (anche luppolata) di una giovane Yeti.  Non manca comunque l’amaro del torrefatto, del caffè e del cioccolato fondente, prologo ad un lungo retrogusto potenziato dal distillato. L’alcool (non dichiarato in etichetta, ma siamo al 12.5%) riscalda con vigore ma non è affatto difficile sorseggiare questa Barrel Aged Yeti. L’apporto della botte non è forse dei più raffinati o profondi, il distillato prende il sopravvento rispetto a tutte le altre sfumature ma la bevuta regala comunque belle soddisfazioni con un rapporto qualità prezzo piuttosto positivo, per i tempi che corrono.
Formato 47,3 cl., alc. 12%, lotto 24/10/2019, prezzo indicativo 10-12 Euro (beershop)

mercoledì 23 dicembre 2020

DALLA CANTINA: De Dolle Drie Mussen 2015

I polder sono una fascia costiera al di sotto del livello dell'alta marea che è stata sottratta al mare da opere di bonifica; tramite dighe e canali, il terreno viene isolato e poi reso coltivabile. I primi esperimenti furono realizzati nel XII secolo intorno alla città di Bruges e furono poi perfezionati nei secoli successivi dagli olandesi che, all'epoca dei primi polder nel 1600, aspiravano l’acqua anche con l’aiuto di pompe idrovore azionate dai mulini a vento ed eliminavano poi il sale di cui era impregnato il terreno coltivando il cavolo cappuccio, ortaggio che ha grande capacità di assorbimento del sale. I polder furono anche usati per scopi militari; aprire le dighe per allagare rapidamente vasti aree di terreno era una tecnica usata per rallentare l’avanzata dell’esercito nemico. E’ quello che accadde in Belgio nel corso della prima guerra mondiale: lo scopo fu raggiunto, ma l’impossibilità di spostarsi originò una lunga guerra di trincea nella quale moltissimi soldati furono vittima del fango e degli elementi naturali avversi, ancor prima delle mitragliatrici e dei cannoni. 
Il polder Drie Mussen (“i tre passeri”) si trova in Belgio nella valle Handzame tra Diksmuide, Beerst e Vladslo: un’area agricola di 78 ettari per la quale a partire dal  2011 il governo fiammingo ha finanziato opere volte a recuperarne ed a preservarne la biodiversità: scavi di drenaggio, pulizia dei canali e delle d’acqua pozze per facilitare l’abbeveramento degli animali, piantumazione. Un progetto pilota, al quale lavorano agricoltori ed associazioni naturaliste, che ha già dato ottimi risultati: alcune specie di uccelli sono tornate a ripopolare i campi e gli agricoltori hanno notato grandi miglioramenti nella qualità dell’acqua e nel drenaggio dei prati nei periodi più umidi dell’anno.
E’ stato inoltre creato il “sentiero dei tre passeri” (Drie Mussenwandeling),   una bella camminata di quattro chilometri che dal Grote Mark di Diksmuide vi conduce al quartiere di Beerst-Keizerhoek dove si trova il caffè De Drie Musschen, l’accesso all’area del polder e un moderno ponte pedonale dal quale potete ammirare i campanili delle chiese di Diksmuide, Esen, Vladslo e Beerst.
Esen: agli appassionati di birra belga questa parola dovrebbe subito scaldare il cuore. E’ in questo piccolo paese delle fiandre che ha infatti sede il birrificio De Dolle. A gennaio 2015 per promuovere il turismo nell’area, la municipalità di Diksmuide ha voluto creare alcuni prodotti gastronomici a marchio Drie Mussen. Al caseificio biologico Dischhof è stato commissionato un formaggio (Drie Mussenkaas) prodotto con il latte del bestiame che pascola libero nella zona del polder. Al birrificio De Dolle, che si trova ai margini della zona, è invece toccato il compito di realizzare il suo abbinamento perfetto, la Drie Mussenbier. 

La birra.

Ricordo il mio stupore quando nell’estate del 2015 avvistai una bottiglia di Drie Mussen (8%) in un piccolo negozio di alimentari di Diksmuide. Non ne avevo mai sentito parlare e pensavo d’aver messo le mani su una specie di rarità, ma qualche ricerca in Internet mi fece poi tornare rapidamente con i piedi sulla terra. Sembra infatti essere una semplice rietichettatura della Arabier, anche se questo articolo del 2015  parla di una “versione speciale della Arabier”. Impossibile pretendere di conoscere la verità quando c’è di mezzo De Dolle; il “birraio pazzo” Kris Herteleer ha anche voluto trovare un curioso aneddoto da abbinare al nome. Come detto, De Drie Musschen è il nome di una locanda il cui proprietario aveva tre giovani figlie “così piccole e magre che avrebbero potuto volare via da dietro il bancone, proprio come tre passeri”.  
L’Arabier di De Dolle è una Belgian Strong Ale generosamente luppolata e dalla bevibilità assassina; non è ovviamente una birra da far invecchiare ma da bere fresca. Partendo dal presupposto che questa Drie Mussenbier sia solo un’Arabier mascherata, ho deciso volutamente di dimenticarla per cinque anni in cantina per togliermi la curiosità di vederne l’evoluzione.  
Il suo colore arancio velato è ovviamente un po’ più scuro rispetto a quello di una Arabier giovane; l’esuberante schiuma pannosa è quasi indissolubile e regala subito forti esteri fruttati, vagamente sciropposi, non facili da definire. Pensate a frutti di bosco, lamponi, ad una mela rossa matura, alla ciliegia sciroppata: bisogna attendere molti minuti che la schiuma collassi per sentire profumi più convenzionali che richiamano il biscottato, la frutta candita e quel magico profumo del lievito belga che per certi versi può ricordare alcuni champagne. Il timore che sia una birra terribilmente dolce ed ossidata svanisce fortunatamente al primo sorso: la bevuta è molto più armonica, bilanciata tra accenni di caramello e biscottati, pesca e albicocca candita, uvetta gialla e qualche nota vinosa che inizia a ricordare il marsalato. Ma la vera magia di questa Drie Mussen/ Arabier avviene nel finale, con un bel taglio acidulo a ripulire il dolce e un finale secchissimo, con punta amaricante di frutta secca a guscio che nuovamente suggerisce affinità con il mondo dello champagne. (Lo scenario descritto vi suona familiare? Qualche Stille Nacht con un paio d’anni sulle spalle, forse ?) 
La sua generosa luppolatura è scomparsa, l’alcool scalda con raziocinio e le bollicine non hanno l’aggressività tipica di una Arabier fresca: certo, il corpo mostra qualche lieve cedimento ma è una birra che si beve bene e che impressiona per la sua tenuta nel tempo. Non posso dire di preferirla ad una Arabier giovane, ma non ne farei un dramma se scoprissi di essermi dimenticato in cantina qualche bottiglia.
Per vostra informazione la Drie Mussen viene ancora prodotta con un'etichetta un po' meno amatoriale e un bicchiere - il classico Oerbier di De Dolle - serigrafato appropriatamente. 
Formato 33 cl., alc. 8%, scad. 05/2017, pagata 2,02 Euro (Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 22 dicembre 2020

Vento Forte Pale Ale

Inaugurato agli inizi del 2014 il birrificio laziale Vento Forte si è subito imposto tra i migliori produttori nazionali di birre luppolate. Ve ne avevo parlato proprio a qualche mese dal debutto, avvenuto con la Starter IPA. Lo fonda Andrea Dell’Olmo assieme alla sorella Fabiana: la sua avventura nel mondo della birra era iniziata nel 2007 quando, studente universitario con la passione per il surf, viene a contatto per la prima volta con la Craft Beer Revolution americana. A quel tempo Roma era avamposto nazionale del luppolo USA grazie soprattutto al lavoro di Alex Liberati che alla Brasserie 4:20 ospitava i grandi birrifici della California, organizzando anche incredibili tap takeover: qualcuno ricorderà quelli di Port Brewing, con i fusti fatti arrivare via aerea per preservarne la freschezza. 
E sembra sia stata proprio la Port Brewing Anniversary Ale, a conquistarlo:  del resto, in etichetta vi sono tre tavole da surf e sullo sfondo la spiaggia di San Diego. Dopo due anni di homebrewing nel seminterrato della propria casa, a pochi passi dal mare, il progetto birrificio sarebbe già pronto ma la burocrazia italiana non vuole farsi da parte. Il debutto viene così rimandato di quasi cinque anni; Andrea vorrebbe un birrificio vicino alla spiaggia ma deve accontentarsi del lago di Bracciano. Il nome?  Sembra un’idea della mamma, un po’ preoccupata dall’amore del figlio per le onde del mare e per il vento che deve soffiare forte. 
Tra gli appassionati romani all’inizio del 2014 c’è grande attesa per il debutto di Vento Forte, al punto che la prima cotta di Starter IPA viene letteralmente prosciugata in un weekend alla spine del Ma che siete venuti a fa’ e di altri locali della capitale.  Sarà questa la strategia commerciale perseguita dal birrificio di Bracciano negli anni a venire:  una crescita lenta, destinata soprattutto al mercato locale, perennemente insufficiente a soddisfare tutta la richiesta. Le prime bottiglie del 2014 che vengono distribuite nel resto dell’Italia sembrano essere quasi dei “campioni commerciali”  per far conoscere il nome: la produzione si concentrerà esclusivamente sui fusti, il 90% dei quali venduti all’interno del Grande Raccordo Anulare e solo a quei locali che ne garantiscono ottimale conservazione e servizio. La distribuzione limitata ha inevitabilmente sempre precluso al birrificio di Bracciano il palco di Birraio dell’Anno, manifestazione nazionale che premia ogni anno i migliori birrai; gli appassionati ricorderanno le polemiche nate sui sociali dopo il quarto posto ottenuto da Andrea Dell’Olmo tra i birrai emergenti  del 2015. Nulla di strano, a pensarci bene: impossibile per la maggior parte dei “giudici” votare un birrificio che non riescono a bere. Io stesso dal 2014 a oggi avrò bevuto Vento Forte quattro-cinque volte, non di più.
Per gli appassionati Vento Forte è il “birrificio del luppolo, delle IPA e delle Double IPA” ma già nel 2013 Dell’Olmo aveva iniziato con gli esperimenti in botte, creando blend di Farmhouse Ales in bottiglia con aggiunta di frutta che hanno avuto bisogno di molti anni di prove e di affinamenti prima di essere rivelate al pubblico.
L’emergenza Covid-19 e la chiusura di molti locali ha inevitabilmente costretto il birrificio di Bracciano a rivedere i propri piani e a rimandare l’apertura della taproom, prevista per la fine del 2020; sono quindi arrivate le prime lattine che il birrificio spedisce anche direttamente in tutta Italia.  Oggi la gamma Vento Forte è composta da quattro birre fisse (Follower IPA, #53 Session IPA, Pale Ale e Pro Follower Double IPA)  affiancate da un ampio numero di etichette occasionali e stagionali. 

La birra. 

Attualmente la Pale  Ale di Vento Forte  (5.1%)  è una birra la cui ricetta varia leggermente  ad ogni cotta in base alla disponibilità dei luppoli. La sua ultima versione vede l’utilizzo di Ekuanot, Nugget, Belma, Columbus, Crystal e Mosaic. Leggermente velata, si presenta di color oro con un bel cappello di schiuma cremosa e compatta che ha ottima ritenzione. Cedro, pompelmo, bergamotto, qualche nota tropicale e dank danno forma ad un naso pulito e fresco, nel complesso gradevole. Lo spettro aromatico non è particolarmente ampio o intenso, caratteristiche tutto sommato accettabili in una Pale Ale che non vuole richiedere particolari attenzioni, ma solo essere bevuta. Il corpo è medio, le bollicine sono quelle giuste e la birra ha ottima scorrevolezza senza trascurare una bella presenza tattile al palato. Pane e crackers, un tocco di miele e qualche accenno tropicale iniziano un percorso che sfuma gradualmente in un amaro dalle tonalità erbaceevegetali che non tralascia qualche ricordo dank e resinoso. E’ una Pale Ale pulita e ben fatta che si beve con piacere ma – devo essere sincero – non m’impressiona per definizione, intensità e personalità. Mi sembra viaggiare un po’ col freno a mano tirato o, contestualizzando, sembra uno di quei pomeriggi in cui il maestrale, vento amato dai surfisti, si fa un po’ desiderare.
Formato 50 cl.,  alc. 5.1%, lotto 06/11/2020, scad. 06/02/2021, prezzo indicativo 8,00 euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

venerdì 18 dicembre 2020

Galaxy Beershop / Brasseria della Fonte Vynile Brown Ale

La rivoluzione della birra artigianale ha salvato alcuni stili dall’estinzione, ne ha nobilitato altri e ne ha inventato di nuovi: Black IPA, New England IPA, Milkshake IPA, Italian Grape Ale o Pastry Stout, giusto per citarne alcuni, hanno avuto o stanno avendo il loro momento di gloria ma chissà se ci ricorderemo di loro tra una decina d’anni o tra un secolo. Di certo la Craft Beer Revoultion non è stata molto clemente con le Brown Ale, nobilissimo stile anglosassone la cui storia si potrebbe riassumere con pochissime parole: prima dell’invenzione delle Pale Ales, tutte le birre in commercio erano scure.  Scriveva John Milton nel suo poema L’Allegro del 1645: “giovani e meno giovani si fanno avanti per giocare in un assolato giorno di vacanza, fino a quando non viene a meno la luce del sole ed arriva il momento per una speziata birra color nocciola” (And young and old come forth to play, On a sunshine holiday, Till the live-long daylight fail, Then to the spicy nut-brown ale).  
A quel tempo il malto veniva essiccato a fuoco vivo: il risultato era ovviamente una birra marrone con un forte carattere affumicato.  Nel 1817 Daniel Wheeler inventò il tostacaffè, una rivoluzione epocale che permise di ottenere malti scuri senza quello spiccato odore e sapore di fumo che non era amato da tutti. I birrifici iniziarono subito ad utilizzarli nelle loro Porter e Stout ed iniziò il rapido declino delle Brown Ales che di fatto scomparvero nel diciannovesimo secolo. Fu necessario attendere quasi altri cento anni: nel 1902 il birrificio londinese Mann, Crossman and Paulin produsse la Mann’s Brown Ale che con una gradazione alcolica solo del 2.7%  sembrò anticipare il  “Great Gravity Drop” imposto dal governo nel periodo della prima guerra mondiale. Il birrificio la promuoveva con lo slogan “la birra più dolce di  Londra”. Non fu un successo immediato e ci vollero quasi vent’anni per convincere altri birrifici a seguire la strada:  nel 1920, nacque la Newcastle Brown Ale che ebbe un grande successo soprattutto nella sua versione in bottiglia spingendo altri produttori ad imitarla, come Samuel Smith (Yorkshire) che lanciò la Nut Brown Ale.  A Londra anche Truman, uno dei maggiori produttori di porter, iniziò a produrre la propria Brown Ale ed a nord Steward & Patteson idearono la Norfolk Brown Ale.
La rinascita di uno stile?  Per lo storico Martyn Cornell non esiste nessuno stile Brown Ale: basta osservare il colore della Mann (quasi nera) e della Newcastle (ambrata) per rendersene conto. La “colpa” sarebbe del beerhunter Michael Jackson che nelle sue guide le aveva sempre raggruppate sotto ad un unico ombrello. Negli anni 70 nel Regno Unito venivano ancora prodotte un centinaio di Brown Ales, numero destinato però a ridursi drasticamente.   Il BJCP definisce oggi una Brown Ale come una “birra maltata di color marrone basata sul caramello ma senza il gusto di torrefatto della Porter. Ampia categoria con diverse interpretazioni possibili: da chiara luppolata a molto scura e caramellata, tuttavia nessuna ha gusti fortemente torrefatti”. La Craft Beer Revolution americana fece qualche tentativo per rivitalizzare lo stile, potenziando ovviamente l’ABV:  notabile in particolare quello di Dogfish Head con la sua Indian Brown Ale che a me era piaciuta parecchio, così come la Board Meeting di Port Brewing
E in Italia? Non sono molti i birrifici che hanno in produzione una Brown  Ale, sia nella classica interpretazione inglese che in quella americana, ovviamente più luppolata. Sul blog trovate Santa Giulia del Piccolo Birrificio Clandestino, la O.G. 1048 di Carrobiolo e soprattutto la convincente Sweet Earth di EastSide ma segnalo anche la Jehol di Bi-Du, la Chester Brown di Dada, la Flebo di Casa di Cura, la Vecchia Volpe di Valcavallina.

La birra.

Quando si fa una birra l’obiettivo principale è ovviamente quello di venderla, necessità che va oltre quelle che sono i gusti personali o la soddisfazione del birraio. Il mercato non chiede le Brown Ale e i birrifici raramente le producono. Personalmente le bevo sempre con grande piacere ogni volta che le incontro, soprattutto nelle versioni “imperial”: quella degli  scozzesi Tempest va un po’ al di fuori degli schemi ma è una delle birre più buone nate negli ultimi anni. Per questo plaudo al coraggio del Galaxy Beershop (da anni indiscutibile punto di riferimento per gli appassionati di Reggio Emilia, Modena e dintorni) e di Brasseria della Fonte di puntare su di una Brown Ale per la loro prima collaborazione, pronta giusto in tempo per le festività natalizie. Una scelta che va oltre la solita IPA, sempre benvoluta dai clienti, o dalla classica Strong Ale (spesso Belgian) speziata che viene prodotta in queste occasioni. 
Vynile è il nome dato ad un’American Brown Ale luppolata con Magnum ed Amarillo ed un abbondante utilizzo di avena maltata e fiocchi d'avena per donarle un mouthfeel morbido e adatto ai mesi più freddi dell’anno. Un’accidentale fotografia scattata durante la produzione (whirlpool) che ricordava i vecchi LP  ha fornito l’ispirazione per il nome: Vynile. Al grafico Andrea Poletti il compito di costruirle attorno un giradischi virtuale. Ne sono state realizzate 400 bottiglie e alcuni fusti distribuiti anche a locali amici. 
Nel bicchiere si presenta di color mogano acceso da vivaci riflessi rosso rubino, la schiuma beige è cremosa, compatta ed ha ottima persistenza. Nonostante sia dichiaratamente un’American Brown Ale i suoi profumi sono spiccatamente british, con quel classico “nutty” accompagnato da note terrose, frutta secca e frutti di bosco; in secondo piano si scorgono accenni di tostature, caffè e cioccolato. L’avena mostra di aver svolto alla perfezione il compito per il quale è  stata chiamata in causa:  la sensazione palatale è morbidissima, a tratti quasi impalpabile. Alla spina l’ho invece trovata leggermente più densa. Caramello, qualche accenno biscottato e frutta secca, soprattutto nocciola, danno il via ad una bevuta calda, ulteriormente ammorbidita da qualche accenno d’uvetta e poi risvegliata da un bel crescendo amaro finale, ricco di note terrose, di richiami al caffè e al cioccolato e da una lieve acidità che pulisce benissimo il palato. L’alcool è davvero ben nascosto ed il mio consiglio è di berla il più possibile prossima alla temperatura ambiente (come si farebbe nel Regno Unito) se volete godere di quelle delicate coccole etiliche necessarie nei mesi più freddi dell’anno. 
Molto ben fatta, intensa ma facilissima da bere: pulita e ben definita ma non priva di un certo carattere rustico, autentico, capace di trasportarti virtualmente in uno vecchio pub di un piccolo paese americano inglese. Pensate al calore che vi trasmette un vecchio disco in vinile rispetto ad un cd digitale quando ascoltate determinati generi musicali. E’ difficile da spiegare a parole, meglio bere. 
Formato 50 cl., IBU 60, lotto   ,  prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)

giovedì 17 dicembre 2020

DALLA CANTINA: O'Hanlons Thomas Hardy's Ale 2008

Per oltre un secolo l’imponente birrificio Eldridge Pope è stato l’edificio più importante di Dorchester e la ruota motrice dell’economia della città inglese. Nel 1837 Charles Eldridge, già proprietario dell’hotel Antelope aveva acquistato anche il piccolo birrificio Green Dragon, espandendone la produzione; la moglie Sarah guidò l’azienda alla morte del marito (1846) assieme al partner commerciale Samuel Mason, un altro produttore di birra.  Sarah Eldridge morì nel 1856 cedendo le sue quote al figliastro John Tizard e Mason si ritirò nel 1870 (si dice a seguito della morte del figlio in un incidente di lavoro nel birrificio) vendendo a Edwin Pope e al cugino Alfred. L’anno successivo, alla morte di Tizard,  la figliastra ed ereditiera Sarah Eldridge decise di vendere la sua quota alla famiglia Pope. Edwin Pope mise subito in atto un grande piano di espansione acquistando terreni adiacenti alla linea ferroviaria e commissionando all’architetto W.R. Crickmay un nuovo edificio, in stile vittoriano, che fu inaugurato nel 1881. La Eldridge Pope & Co. Limited divenne il più grande birrificio nonché datore di lavoro di tutta Dorchester;  lo stabile fu poi seriamente danneggiato da un incendio nel 1922 e la produzione interrotta sino al 1925.  
Le due guerre mondiali fecero scomparire dal mercato le birre dall’alta gradazione alcolica e anche quando il governo tolse le restrizioni, agli inizi degli anni ’50, furono davvero pochi i birrifici che ricominciarono a produrle. Tra questi vi fu proprio Eldridge Pope.   Michael Jackson riporta nella sua World Guide to Beer che nel 1967 alla Eldridge  trovarono per caso duemila bottiglie vuote di epoca vittoriana e si chiesero con che cosa avrebbe potuto riempirle. Proprio in quel periodo a Dorchester si stava organizzando un festival letterario che celebrava il quarantesimo anniversario della morte di Thomas Hardy, poeta e scrittore nato e vissuto a poche miglia di distanza il quale, nel suo racconto The Trumpet Major, aveva dedicato qualche riga alla birra locale: “era del colore più bello che l’occhio di un artista potesse desiderare per una birra: robusta e forte come un vulcano; piccante, senza essere pungente; luminosa come un tramonto d’autunno; dal sapore uniforme, ma, alla fine, piuttosto inebriante. Il popolo l’adorava, la gente per bene l’amava più del vino”. Cecil Pope, nipote di Alfred, chiese al birraio Denis Edwin Holliday di produrre una birra speciale per l’evento e Holliday rielaborò la ricetta del barley wine della casa chiamato Goldie  e lo mise ad invecchiare per sei mesi in botti ex-sherry che venivano ruotate quotidianamente. Il risultato finì poi in bottiglie chiuse da sughero, ceralacca  e chiamato Hardy Ale, birra celebrativa che venduta ad un prezzo che equivaleva a quello di dieci pinte di bitter. Nonostante il costo elevatissimo, quella che doveva essere una birra occasionale ottenne riscontri favorevolissimi convincendo il birrificio a replicarla nel 1974 e da allora una volta all’anno, diventando oggetto di culto degli appassionati che attendevano con ansia l’uscita del nuovo millesimo.
Gli anni ’90 furono caratterizzati da una serie di errate decisioni da parte del management di Eldridge Pope nel tentativo di risollevarsi da una difficile situazione finanziaria: la peggiore  fu probabilmente quella di separare gli assetti produttivi da quelli di vendita, ovvero la catena dei pub di proprietà, le cui spine finirono rapidamente in mano ad altri distributori. Alcune fonti riportano che nel 1996 il birrificio smise di produrre le proprie birre lavorando solamente per conto terzi. Nel 1997 il management del birrificio acquistò dai Pope il marchio, mentre impianti e sito produttivo rimasero in mano alla famiglia che lo aveva fondato: la nuova società fu rinominata Thomas Hardy Brewery & Packaging e l’anno successivo rilevò un altro birrificio a Burtonwood formando la Thomas Hardy Burtonwood. La produzione riprese ma, nonostante il nome scelto, tra le prime decisioni del management ci fu quella (1999)  di sospendere la Thomas Hardy’s Ale, ritenuta una birra troppo costosa da produrre. 
Nel 2003 la Thomas Hardy Brewery fece un offerta ai Pope di 8 milioni di sterline per acquistare il birrificio di Dorchester: la famiglia la rifiutò e preferì invece cedere il complesso alla Landworth Properties che aumentò immediatamente il contratto d’affitto costringendo di fatto la Thomas Hardy Brewery alla chiusura definitiva ed al licenziamento di 57 dipendenti, nel luglio dello stesso anno. L’anno successivo la famiglia Pope cedette per 40 milioni di sterline e 42 milioni di debiti tutti i pub ancora di proprietà all’imprenditore Michael Cannon, abilissimo a trasformarli nella catena Que Pasa Bar, poi rivenduta nel 2007 al gruppo Marston’s per 155 milioni di sterline.  Il vecchio birrificio Eldridge Pope rimase abbandonato sino alla trasformazione, completata nel 2013,  nel complesso chiamato Brewery Square che oggi accoglie negozi, ristoranti, cinema, appartamenti e un hotel. 
La scomparsa della Thomas Hardy’s Ale gettò subito nello sconforto gli appassionati, molti dei quali si trovavano negli Stati Uniti. E fu proprio grazie ad uno di loro che la birra riuscì a rinascere: una storia l’avete già sentita? E’ più o meno quello che accadde con la Extra Double Stout.  Questa volta il merito va attribuito a George Saxon, proprietario della la Phoenix Imports, Maryland, che dal 1986 importava in esclusiva sul suolo americano la preziosa birra, solitamente in bottiglie da 33 centilitri (in Inghilterra era più frequente il formato 18 o 25). Saxon rilevò la proprietà  del marchio e si mise a cercare un birrificio in Inghilterra che potesse ricominciare a produrla: la scelta cadde su O’Hanlon, un piccolo produttore nel Devon. Il 2003 fu la prima annata della nuova Thomas Hardy’s, ricreata in ogni dettaglio: etichetta, numero lotto e prefisso lettera identificativo, tappo e collo della bottiglia ricoperti da un lamina  dorata, piccolo medaglione ornamentale. La maggior parte degli appassionati fu soddisfatta ma non mancarono i sostenitori del “non è più la birra di una volta”: affermazione perlomeno prematura, visto che si tratta di una birra da bere dopo almeno tre anni di cantina, come suggerivano sin dall’inizio alla Eldridge Pope. 
La nuova avventura O’Hanlon non durò però molto, giusto il tempo di raccogliere qualche medaglia nei concorsi e di rimpolpare le cantine degli appassionati. Nel 2009 Liz O'Hanlon, direttore commerciale del birrificio, annunciava di aver gettato la spugna: “non è una decisione facile, ma non ne vale più la pena. Le vendite sono buone ma non giustificano gli sforzi che ci vogliono per produrla. A fare le nostre birre ci mettiamo due settimane; iniziamo invece a produrre la Thomas Hardy a gennaio e possiamo imbottigliarla solo in settembre. Dobbiamo poi incartare le bottiglie, numerarle ed appendere a mano i medaglioni al collo. Auguro ogni fortuna a Saxon, ma non credo sarà facile”. 
La stampa inglese di settore provò a sondare il terreno con due birrifici che già producevano riedizioni di birre storiche. Alla Marston’s dissero di poter prendere in considerazione l’ipotesi solo in caso di volumi superiori a 10.000 ettolitri all’anno. John Keeling di Fuller’s, che si era già preso a cuore le sorti della Gaze Pride Old Ale,  disse di sì, ma solo se gli fosse stato venduto anche il marchio: “non possiamo fare tutti quegli sforzi produttivi per una birra che non è neppure nostra”.
Per qualche anno non si venne a sapere nulla sul futuro della mitica Thomas Hardy’s Ale: fu necessario attendere l’agosto del 2012 quando a sorpresa,  i fratelli Vecchiato del colosso distributivo nazionale Interbrau, annunciavano di aver acquistato il marchio da Saxon. La notizia riempì d’orgoglio tutti gli appassionati italiani, ma per i Vecchiato la parte più difficile doveva ancora venire: trovare qualcuno affidabile in grado di produrla rispettando minuziosamente la ricetta originale. Riesumare un marchio dal pegidree così importante senza rispettarne la tradizione sarebbe stato un imperdonabile errore.  I Vecchiato si recarono  subito alla O'Hanlon alla ricerca di preziose informazioni ma i proprietari, che stavano vendendo il birrificio, non furono molto amichevoli e i birrai che avevano lavorato alla ricetta se n’erano già andati. Neppure le chiacchierate con alcuni vecchi dipendenti di Elrdige Pope furono molto utili. Decisero allora di sondare il terreno con uno dei loro partner commerciali, il birrificio Meantime, del quale Interbrau è importatore per l’Italia. Il birrario Alastair Hook era una garanzia ed era grande amico di Micheal Jackson: a lui il beerhunter lasciò in eredità la sua collezione personale di bottiglie, con ovviamente numerose annate di Thomas Hardy.
La nuova Thomas Hardy debuttò nel 2014 con una “Preview Edition” non destinata al commercio: verrà recapitata solo ad alcuni addetti ai lavori, giornalisti del settore e fatta assaggiare nelle fiere.  L’anno ufficiale del ritorno fu il 2015, proprio l’anno in cui Meantime veniva venduto all’industria (prima SAB Miller, poi Asahi). Alastair Hook fa ancora parte di Meantime e la Thomas Hardy, per quanto ne so, continua ad essere prodotta su quegli impianti.

La birra.

Nel 2008 ero già appassionato di birra, ma in modo diverso: ero solo curioso di bere qualsiasi cosa non avessi ancora provato, non sapevo esistesse la birra artigianale. Mi trovavo a Londra, ricordo ancora gli scaffali del supermercato Waitrose al piano interrato del centro commerciale Westfield: cercavo qualcuna di quelle bottiglie che avevo visto sulle guide e sugli atlanti generali della birra che si trovavano in libreria. La Bombardier di Wells, la Pedigree di Marstons, la Bass Pale Ale: non sapevo cosa fosse la Thomas Hardy’s Ale ma evidentemente quella curiosa bottiglia con il medaglione appeso al collo attirò la mia attenzione e la misi in valigia. Fu solo per caso che non la stappai appena tornato a casa: forse cercai qualche informazione e venni a sapere che era una birra mitologica, da mettere in cantina e da bere dopo molti anni. Meglio così. Noto ora che l’etichetta ha anche una piccola cornice in lingua italiana con ingredienti e data di scadenza.
In questi dodici anni ho resistito più volte alla tentazione di aprirla; avevo sempre la paura che fosse presto e che la birra potesse ulteriormente migliorare. Sono in parte stato facilitato dal peso della storia; raccontarla sul blog in modo appropriato significava sobbarcarsi un lavoro di ricerca lungo, impegnativo e quindi ho sempre rimandato. Non potevo tuttavia concludere la più che decennale avventura di Unabirralgiorno (iniziata proprio in quegli anni!) senza  la Thomas Hardy’s Ale.  
Il suo colore non è esattamente quel “tramonto d’autunno”  delle Strong Ales del Wessex decantate da Thomas Hardy: è ambrato molto carico e piuttosto torbido, la schiuma è comprensibilmente evanescente. L’aroma regala subito spiccate sensazioni di Porto e di Sherry: annoto anche mela al forno, ciliegia, frutti di bosco, uvetta, prugna, datteri e fichi disidratati. L’intensità è piuttosto buona, l’ossidazione è del tutto positiva: non si dovrebbe mai usare l’aggettivo “dolce” nel caso dell’aroma ma la sensazione che avverto è zuccherina, sciropposa, quasi una marmellata. Il corpo è ancora degno di nota, non ci sono grossi cedimenti dovuti all’età e le bollicine sono ancora ben percepibili.  La bevuta ripropone in maniera molto più educata e armonica l’aroma, senza quegli sbuffi sciropposi che vanno un po’ oltre le righe: s’avverte ancora una flebile componente maltata che richiama il caramello, la frutta sotto spirito è molto meno in evidenza e la sensazione è davvero di avere nel bicchiere un vino fortificato. E’ dolce ma ben attenuata, il tanto temuto cartone bagnato si avverte a fatica solo andandolo a cercare. L’alcool  (11.7%) dà il suo contributo senza mai andare oltre le righe: scalda il palato e scalda il cuore. Una birra invecchiata benissimo la cui bevuta è accompagnata da inevitabili emozioni derivanti da un viaggio indietro nel tempo, poco importa se questa non è una delle bottiglie di Eldridge Pope. 
Il bicchiere ormai vuoto è inevitabile sorgente di malinconia. Barley Wine? Old Ale? Semplicemente Thomas Hardy’s Ale.  Devo però essere sincero: nei miei ricordi e nel mio cuore non riesce però a scalfire la Harvest Ale di J.W. Leesvetta per me irraggiungibile. La producono ancora ogni anno e per comprarla non bisogna svenarsi su Ebay: in pochi la cercano… meglio così. Ne rimane di più per me.

Formato 27,5 cl., alc. 11.7%, , lotto 2008, scad. (italiana) 31/12/2016

martedì 15 dicembre 2020

Tripel de Garre

Birra, cioccolato e merletti sono le cose che non potrete evitare di acquistare nel corso di una visita a Brugge. A noi interessa ovviamente la prima: il libro “Around Bruges in 80 Beers” (l’ultima edizione è  del 2013, purtroppo) vi dà solo una vaga idea dell’offerta che la splendida e affollata città delle fiandre offre.  Anche Brugge non sfugge al cliché delle “trappole per turisti della birra”: chi cerca semplicemente una birra d’abbazia o una bella triplo malto non avrà problemi a soddisfare la propria voglia con spine e bottiglie di marchi industriali o di beerfirm. Il Beer Wall  sarà una delizia per i vostri occhi e i piccoli negozietti del centro storico saranno un pericolo per il vostro portafoglio. Uno dei vantaggi di recarsi in Belgio è di poter acquistare bottiglie a prezzi irrisori, se paragonati a quelli italiani: bene, non fate allora acquisti a Brugge e dirigetevi in qualche Drankenwinkel nei dintorni. Ma Brugge può stupire anche gli appassionati di birra meno ingenui: è sorprendente scoprire come in un normale negozietto di generi alimentari potete comprare una bottiglia di quella rara Westvleteren che i (furbi) monaci vendono esclusivamente al proprio monastero previa prenotazione.
Come ogni meta turistica anche Brugge ha i suoi tesori nascosti e in questo caso l’aggettivo nascosto è più che mai appropriato. Non capiterete mai davanti alla Staminee De Garre per caso, nonostante si trovi in linea d’aria a poche decine di metri dal Grote Mark, la piazza principale. Per raggiungere questo piccolo bar/birreria dovete infatti imboccare un minuscolo vicolo, una specie di passaggio segreto che parte da un piccolo arco di Breidelstraat. La mappe di Google non vi aiuteranno ma le difficoltà nel riuscire a raggiungerlo sono parte integrante della gratificante esperienza De Garre: una volta messi i piedi sul lastricato di ciottoli, spesso umidi, come per magia non avvertirete più il brulichio delle vie più trafficante che avete appena abbandonato. Un ultimo dubbio vi assalirà anche dopo aver imboccato il vicolo: dove si trova il locale? La risposta che state cercando è davanti a voi, quell’anonima porta in cima a quei pochi scalini che sembrerebbero essere solo l’ingresso di un palazzo costruito nel 1700. 
Il locale è piccolo, con pochi tavolini e posti a sedere: oltre dai locali è frequentato da un numero sempre crescente di appassionati provenienti da ogni parte del mondo. Andateci presto se volete essere sicuri di trovare posto e godere delle calde pareti in mattoni a vista, dei lampadari in ferro battuto e del legno che adorna  balaustra e pavimenti delle piccole sale ai piani superiori. E’ un salto indietro nel tempo.  Ad attirarvi qui non è certo l’offerta delle quattro spine (monopolio del birrificio Van Steenberge: Tripel van de Garre, Baptist Witbier, Gulden Draak e Gulden Draak Quadrupel ) o del menù che include circa 150 bottiglie ma nessuna rarità particolare. E neppure il benvenuto che lo staff vi riserverà, tipicamente belga: occasionalmente amichevole, più probabilmente un po’ seccato dalla vostra presenza, soprattutto quando il locale è pieno: evitate di fare troppe domande e siate autosufficienti nella scelta.  La “cucina”  offre solamente qualche snack freddo e informale, il bar serve superalcolici, vino ma anche caffè, tè e cioccolata calda. 
A farvi cercare il vicoletto De Garre è la birra della casa, la Tripel van de Garre: è una delle tante birre che il birrificio Van Steenberge, moderno e completamente automatizzato, produce per conto terzi: locali, distributori, importatori, beer firm. Ricetta originale? Rietichettatura di qualche altra Tripel? Non lo sapremo mai, ma non è questo che conta. E’ importante il modo in cui ve la spillano e ve la portano, in quel bicchiere dalla base tozza che pare più adatto ad un distillato. Lei arriva con un schiuma cremosissima e indissolubile, che vi accompagnerà senza battere ciglio sino al termine della bevuta. Ad affiancarla una piccola ciotola di vetro con alcuni pezzi di formaggio, infilzati da un paio di stecchini di legno. Il tutto vi sarà servito su di un vassoio tondo adornato da un’imitazione in plastica di un merletto. Pensate al paradosso: arrivate in Belgio, patria di tanti piccoli produttori di birra, del lambic, delle Flanders Red e vi ritrovate a bere quella che è sostanzialmente una beerfirm, una birra nata a tavolino. Eppure funziona. L’atmosfera è unica, il servizio rigoroso ma impeccabile, la magia prende forma e voi di dimenticate di tutto il resto. 
Si dice che alla Staminee vi sia concesso di  berne al massimo tre a testa, per poi lasciare il posto ad altri: considerata la gradazione alcolica delle etichette normalmente presenti alle spine, potete comunque prendervela molto comoda. 

La birra.

La Tripel de Garre è (era) disponibile solo alla Staminee, con l’eccezione di un numero limitato di bottiglie magnum (1,5 litri) per l’asporto.  Negli ultimi anni sono stati però avvistati fusti anche in alcuni locali all’estero, inclusa Italia, nell'improbabile tentativo di replicare la magia. Non ci vedo nulla di strano e non è mia intenzione fare il moralizzatore indignandomi che questa birra sia fruibile anche lontano dalla sua casa; qualsiasi appassionato sa quanto la birra sia più buona quando non viaggia e viene bevuta nel luogo in cui viene fatta. A voi scegliere se ordinarla o no. A far “indignare” ulteriormente i puristi qualche tempo fa sono poi apparse in molti paesi europei anche delle più pratiche bottiglie da 33 centilitri. 
Il suo colore è un limpido oro antico, con qualche riflessi ramato: la schiuma biancastra è generosa e abbastanza compatta, ma non sono riuscito a replicare la scultura plasmata dalla spina della Staminee. Al naso emergono profumi di coriandolo, mela e scorza d’arancia, accenni di banana, miele e pasticceria, un pizzico di pepe bianco e qualche ricordo floreale. Al palato scorre piuttosto bene ed è sospinta da una buona carbonazione; la sua gradazione alcolica  (11%) è se non ricordo male leggermente inferiore rispetto a quella in fusto (11.5%). Biscotto, miele, un po’ di canditi ma non troppi, una  delicata speziatura e richiami alla pasticceria guidano una bevuta dove l’alcool parte in sordina (assecondando la “diabolica” tradizione delle letali Strong Ales belghe) per poi alzare progressivamente la testa. La classica domanda da fare agli amici che portate per la prima volta da De Garre è: ”indovina quanti gradi fa questa birra?” .  La risposta di solito oscilla intorno al numero 7: nel caso di questa bottiglia io mi spingerei sicuramente sino al numero 9, ma non ci si può certo lamentare della sua bevibilità. Il suo percorso termina con una punta amaricante di curaçao, lievemente terrosa: cerca di chiudere secca ma  le manca un po' d'acidità e c’è una patina zuccherina che rimane un po’ troppo appiccicata al palato. 
Tecnicamente è una Tripel ben fatta, una delle tante che Van Steenberge sa fare: ma a dispetto della sua gradazione alcolica non riesce a scaldare il cuore.  In sottofondo immagino quel Bolero di Ravel che spesso suona da De Garre quando arriva l’orario di chiusura; in questo caso però la danza della giovane gitana sul tavolo non riesce a sedurre chi è seduto ai tavoli della taverna in Andalusia. 
Formato 33 cl., alc. 11%, lotto 29IT, scad. 29/09/2023, prezzo indicativo 5 Euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 14 dicembre 2020

Lervig Paragon 2018

La birra di oggi è un ottimo esempio di riposizionamento del brand, processo attraverso il quale un prodotto viene immesso nuovamente nel mercato con una diversa identità e, in questo caso, in una diversa fascia di prezzo.  E’ dal 2011 che il birrificio norvegese Lervig produce annualmente il proprio Barley Wine invecchiato in botti di bourbon: la prima cotta di 800 litri fu effettuata dal birraio Mike Murphy su quell’impiantino pilota che era solito usare per i propri esperimenti. A partire dagli anni successivi il Barley Wine è stato realizzato con un blend di birra proveniente da diverse botti e un po’ di birra fresca: il millesimo in etichetta si riferisce sempre al momento in cui la birra viene messa ad invecchiare, quindi all’anno precedente alla messa in vendita.  
Venduto prima nella gamma Lervig Brewers Reserve, poi semplicemente come Barley Wine BA, a partire dall’edizione 2018 la stessa birra è stata rinominata Paragon. La ricetta è rimasta identica (malti Munich, Caramel e Chocolate, luppolo Styrian Goldings) il prezzo no:  se le annate pre-2019 erano vendute a circa 7-8  Euro, il costo della nuova Paragon è più che raddoppiato e l’ultima edizioni in alcuni beershop sfiora i 20 Euro. La “colpa” è in parte dell’art director Nanna Guldbæk:  a lei il compito di rivisitare non solo l’etichetta del Barley Wine ma creare un packaging speciale per una birra speciale, che viene venduta solamente una volta all’anno. Ecco arrivare l’immancabile (e fastidiosissima per quel che mi riguarda) ceralacca e una doppia scatola “bucata” a mo’ di emmental. Tutto molto bello per quel che riguarda l’estetica, ma basta a giustificare l’aumento di prezzo?  Ovviamente no, ma se la birra viene ugualmente venduta alla Lervig hanno fatto ovviamente la scelta giusta. 
Nel frattempo il birrificio di Stavanger ha inaugurato il Lervig Local,  una sorta di taproom che ha aperto le porte lo scorso agosto: una quarantina di spine che ospitano anche birrifici “amici” e una cucina aperta da colazione a cena.  La Guldbæk ha collaborato realizzando alcuni degli arredi e le maniglie delle spine.

La birra. 

Troppo buono per costare poco più di 20 euro al litro?  Sembra proprio di sì: il Barley Wine Paragon 2018, quindi messo in vendita nell’autunno del 2019, ha un colore ambrato molto carico che ricorda la classica tonaca di frate (“trappista”): la schiuma è modesta e poco persistente. Al naso emergono note di bourbon, belle note ossidative che richiamano porto e sherry, frutti di bosco, prugna e uvetta, legno, fruit cake: potente e intenso, per nulla scalfito da qualche lievissimo accenno di cartone bagnato. E’ un Barley Wine piuttosto viscoso, se confrontato con i canoni della tradizione anglosassone, che avvolge il palato in un caldo e morbido abbraccio. Il porto incontra il bourbon, c’è molta frutta sotto spirito (prugna, uvetta, fichi) e, in qualche passaggio, più di un accenno a vaniglia e creme brulée: la componente etilica ne asciuga magistralmente la dolcezza e prima del lungo abbraccio finale del bourbon c’è spazio per qualche nota di legno e tabacco. La mia impressione è che dimostri già più della sua età: quel cartone bagnato che oggi appena si nota non migliorerà col tempo e potrebbe rovinare quella che oggi è una splendida festa. Bottiglia in stato di grazia e già all’apice della sua evoluzione: se ne avete una in cantina io non esiterei a stapparla subito. 
Per quel che mi riguarda rappresenta la vetta della produzione Barrel Aged del birrificio norvegese. Barley Wine di classe, elegante, sontuoso e potente ma non difficile da sorseggiare, ideale compagno di una lunga serata con il bicchiere in mano: peccato che oggi ci vogliano 40-50 euro al litro per goderselo. 
Formato 33 cl., alc. 13.5%, lotto 13/08/2019, scad. 13/08/2029, pagata 14,00 euro (beershop) 

giovedì 10 dicembre 2020

De Dolle XL Pale Ale

Il 15 novembre 2020 il birrificio De Dolle ha compiuto quarant’anni e per festeggiare Kris Herteleer ha voluto regalarsi un birra celebrativa chiamata appunto XL, espressione in numeri romani della propria età: evento più unico che raro, visto che da anni De Dolle produce le stesse etichette senza assecondare quelle dinamiche di una fetta di mercato perennemente in cerca di novità. In verità la storia del birrificio risale al 1835. Ad Esen, paese nelle Fiandre Occidentali dove oggi vivono circa duemila anime, un tempo vi erano un paio di distillerie e sei birrifici. L’unico rimasto ancora in piedi è quello fondato da Louis Nevejan e poi rilevato dopo cinquant’anni da Louis Charles Hector Costenoble: nel 1979 il birrificio è in vendita.
A Roeselare, ad una ventina di chilometri di distanza, ci sono i fratelli  Kris e Jo Herteleer, che da anni si dilettano a fare la birra in casa e che avevano anche vinto un concorso a Brussels. Kris ricorda: “dopo aver terminato gli studi in medicina mio fratello voleva andare in Sud America. Prima della sua partenza decidemmo di finire tutte le birre che avevamo fatto. Erano bottiglie grandi e quindi chiamammo ad aiutarci alcuni amici. Uno di loro conosceva un investitore che voleva aprire un birrificio. Alla fine degli anni ’70 se volevi acquistare un vecchio birrificio non potevi fare ricerche in internet, ma usavi l’elenco telefonico: alla lettera A non c’era nessun birrificio, alla B c’era Bavik, ma era troppo grande. Alla C vi era il birrificio Costenoble, e così andammo a vederlo. Sapevamo fare la birra ma non avevamo mai visitato un birrificio prima. Il birraio ci disse che il birrificio sarebbe stato venduto quel pomeriggio. Ma il potenziale acquirente non si presentò e così noi offrimmo di comprarlo allo stesso prezzo”
Con l’aiuto di alcuni consulenti e professionisti i fratelli Herteleer sistemano il birrificio cercando di far convivere efficienza e funzionalità con il fascino degli impianti che risalgono agli anni ’20, quando Esen fu completamente ricostruita dalle devastazioni della prima guerra mondiale: dopo due anni rileveranno le quote societarie di Romeo Bostoen, quel  mugnaio appassionato di birra che si  era inizialmente unito a loro.  Il 15 novembre 1980 viene effettuata la prima cotta della Oerbier (“la birra primordiale”)  del birrificio De Dolle Brouwers, ovvero “i birrai pazzi”. Il nome scelto è una naturale variante di “Dolle Dravers” ( “i ciclisti pazzi”) un minuscolo circolo di ciclismo al quale appartenevano Kris e Jo. Dei due è Kris ad assumere progressivamente il comando, facendo birra nei weekend e diventandone, dal 2006, l’unico proprietario. Si dice che il fratello Jo stia facendo ancora birra in Sud Africa, dove svolge la sua professione di medico.
Artista, grafico, architetto e birraio, Kris disegna personalmente quasi tutte le etichette e la simpatica mascotte gialla che crea come simbolo del birrificio: una cellula di lievito umanizzata "
ottimista e gentile - dice Kris - che sorride al risultato ottenuto, la birra. Ma per ottenerla c'è voluto lavoro e conoscenza, simboleggiati dalla pala che tiene nell'altra mano".  E lo racconta indossando improbabili giacche, scarpe e quei papillon che adornano anche il collo delle bottiglie delle sue birre.  “Abbiamo messo la scritta ‘Anno 1980’ sul nostro logo perché sapevo che ci avrebbero copiati. Alcuni sostengono che La Chouffe fu il primo microbirrificio artigianale belga. Noi siamo stati i primi. La Chouffe è nata nel 1982. Quelli dell’Abbaye des Rocs dicono di essere arrivati prima di noi ma ho fatto delle ricerche: sono partiti quattro anni dopo. Dopo l’apertura del primo birrificio Hoegaarden di Pierre Celis (1965, nda) ci fu un vuoto di 16 anni. Non era un bel periodo per i produttori di birre speciali, la maggior parte chiudevano e noi siamo stati i primi della rinascita”.

La birra. 

Non ne ho la conferma ma immagino che l’etichetta sia un dipinto di Kris Herteleer; oggi i birrifici celebrano sovente il proprio compleanno con birre complesse e dalla gradazione alcolica importante. Kris è andato invece controcorrente optando per una Pale Ale che ha il contenuto alcolico (6.5%) più basso di tutte le altre De Dolle, se si esclude la Oeral (6%), una hoppy Pale Ale destinata solo al mercato americano, dove viene messa in lattina dall’importatore B. United.  La “session beer” di  casa De Dolle è infatti la Arabier (8%).  La XL Pale Ale è stata realizzata semplicemente con malto Simpson Maris Otter Pale Ale e luppolo Whitbread Golding raccolto nella vicina Poperinge, utilizzato anche in dry-hopping; in fase di bollitura è stata poi aggiunta scorza d’arancia.
Il suo vestito è color arancio velato, la schiuma è generosa, cremosa e compatta come vuole la tradizione belga. Il naso della XL è fresco e regala profumi floreali, erbacei e terrosi, una delicata speziatura che richiama il pepe bianco, scorza d’arancia candita:  in sottofondo c’è qualche ricordo di pasticceria. Tra gli appassionati In Italia, dove De Dolle ha un ottimo seguito grazie all’opera divulgativa di Lorenzo Kuaska Dabove, si è subito aperto un dibattito: la XL è brettata?  Tra convinti e negazionisti c’è anche chi si è preso la briga di analizzare in laboratorio il contenuto della bottiglia che ha evidenziato l’assenza di brettanomiceti. La verità? Probabilmente non la sapremo mai, come non sappiamo esiste un solo lotto di XL o se ne sono stati fatti vari come avviene per la Stille Nacht, i cui asterischi riportati sul tappo fomentano ogni anno discussioni tra i birrofili. La mia percezione è inevitabilmente influenzata da questi rumors ma effettivamente l’aroma nel suo complesso ricorda quello di una Orval giovane.  Il mouthfeel è ottimo, le vivaci bollicine della scuola belga non disturbano e non creano spigoli: è una Pale Ale che attraversa il palato regalando una sensazione di pienezza. Note biscottate e di miele danno il via ad una bevuta che richiama l’aroma nel dolce della frutta candita, sapientemente bilanciata da una bella acidità, da un finale secco e da un amaro zesty, erbaceo e terroso. L’alcool è davvero impercettibile e la XL di De Dolle risulta essere una Pale Ale rustica e ruspante, generosamente fruttata, rinfrescante e dissetante, intensa e facilissima da bere. Poco importa che sia brettata o no: a me è piaciuta molto e bevendola fresca eliminerete alla radici qualsiasi problema derivante dall’eventuale presenza di lieviti selvaggi. Se entrasse in produzione stabile, sarebbe un’aggiunta necessaria alla piccola gamma De Dolle? Probabilmente no: la subdola e più amara Arabier (8% e non sentirli) svolge per “i birrai pazzi” perfettamente la funzione di birra estiva, magari da gustarsi sulle colorate sedie nel patio antistante il birrificio nelle (forse) assolate domeniche delle Fiandre Occidentali. Se volete tuttavia concedervi ben più di un bicchiere, la Arabier è un pericoloso nemico per la vostra sobrietà e per la vostra patente: la XL potrebbe in questo senso rappresentare un’ottima alternativa “low ABV”.

Formato 33 cl.,  alc. 6,5%, scad. 01/10/2022, prezzo indicativo 4,00-5,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 9 dicembre 2020

DALLA CANTINA: Schneider Weisse Aventinus 2020 vs 2014

Quando si parla di birre da invecchiamento lo stile Weizenbock non è sicuramente il primo a cui pensare; a mettere in discussione quelle che erano anche le mie convinzioni ci ha pensato Patrick Dawson, autore del libro Vintage Beer, un manuale davvero utile d’informazioni e consigli soprattutto per chi vuole provare a mettere qualche birra in cantina. Tra le numerose birre che Dawson consiglia c’è per l’appunto anche una Weizenbock, quella prodotta dalla Weissbierbrauerei G. Schneider & Sohn:  Aventinus.  
Del resto alla Schneider reclamano la paternità dell’intero stile: sarebbero stati loro nel 1907 a produrre la prima Doppelbock di frumento. In quel periodo il birrificio era guidato da Mathilde Schneider che nel 1905 aveva preso il comando a seguito della morte improvvisa del trentacinquenne marito Georg III: agli inizi del ventesimo secolo non erano molte le donne a capo di un birrificio, in Baviera. Sotto la sua guida Schneider divenne il più grande produttore di birra di frumento della Germania meridionale negli anni che precedettero la prima guerra mondiale.  In quel periodo il birrificio aveva gli uffici a Monaco in Aventinstraße e forse oggi sarebbe ancora lì se i bombardamenti del secondo conflitto mondiale non avessero costretto a trasferire tutto a Kelheim, sulle rive del Danubio, nei pressi di Ratisbona, utilizzando gli edifici di uno dei tanti birrifici che Schneider aveva inglobato nei primi vent’anni del secolo scorso. La strada era dedicata a Johannes Aventinusstorico della corte bavarese vissuto tra il 1477 e il 1534 nonché autore della prima mappa geografica della Baviera (1523).  Ma la tradizione voleva che una birra dal contenuto alcolico importante come quella di Schneider prendesse il proprio nome da un santo, l’associazione bavarese dei birrai rifiutò quel nome e fu necessario l’intervento del parroco della famiglia Schneider per trovare la soluzione: le sue ricerche mostrarono che esisteva infatti un santo con lo stesso nome, ovvero Sant'Aventino di Troyes.
Della Tap 6 Aventinus vi avevo parlato in questa occasione: era il 2010 e il mio post di dieci anni fa non rende oggettivamente giustizia a quella che considero essere la mia Weizenbock preferita, anche se un po’ atipica rispetto alle altre sorelle tedesche. La sua ricetta, basata sulla Schneider Weisse Original, prevede una percentuale di malti tostati che contribuisce a donarle quello splendido color ambrato scuro accesso da intensi riflessi rubini; il luppolo è Hallertauer Herkules.  La leggenda vuole poi che da un inconveniente invernale – birra ghiacciata  durante il trasporto – nacque poi la sua altrettanto splendida versione Eisbock.

La birra.

Nell’aprile del 2019 la Schneider ha sottoposto tutta la propria gamma ad un restyling stilistico; la bianca etichetta della Tap 6 Unser Aventinus si è colorata dello stesso color viola della Aventinus Eisbock. La classificazione “Tap”, che identificava tutte le birre di Schneider è stata rilegata in un angolo a favore del nome della birra: oggi l’etichetta parla solo di Aventinus. 
Partiamo da una bottiglia recente del 2020, stranamente quasi limpida, di colore ambrato carico ravvivato da riflessi ramati e rosso rubino. Il naso è ricco di banana matura, chiodi di garofano, caramello, uvetta e prugna; in sottofondo la componente fenolica esprime anche un flebile filo di fumo. L’aroma è pulito e intenso, il mouthfeel è perfetto: bollicine vivaci ma non troppo, sensazione palatale morbida, lievemente cremosa, che non pregiudica la scorrevolezza. A voi scegliere se gustarvela lentamente o se lasciarvi ingannare dal suo tenore alcolico, molto ben nascosto, che si rivela solo nel retrogusto. La bevuta replica l’aroma con la stessa intensità  e precisione: uvetta e prugna, caramello, banana matura, un finale leggermente amaricante di  frutta secca a guscio. In questa bottiglia non avverto quei lievi accenni di cioccolato delle migliori Aventinus che mi sia capitato di bere, ma è un dettaglio che non mette in discussione una bevuta di alto livello. 
Passiamo ora ad una bottiglia del 2014, il cui colore è ovviamente molto più scuro e meno brillante: la schiuma è ancora sorprendentemente fine, cremosa e molto compatta. Rispetto alla bottiglia 2020 la banana scivola (molto) nelle retrovie lasciando il palcoscenico a uvetta e prugna disidratata; emergono accenni di frutti di bosco, ciliegia. Fenoli (chiodi di garofano) completamente assenti. L’aroma è meno intenso ma risulta più caldo, se mi passate la forzatura semantica. E’ il mouthfeel a pagare il prezzo più alto dell’invecchiamento: la birra risulta un po’ scarica, qualche deriva acquosa di troppo si porta via la morbidezza dell’Aventinus fresca. Inevitabilmente anche il gusto presenta cali di tensione rispetto ad un esemplare giovane ma – prenda nota chi odia le Weizen – la banana è scomparsa. Rilevo caramello, uvetta e prugna, frutti di bosco,  qualche nota ossidativa che richiama i vini marsalati: c’è quasi tutto quello che si desidera dall’invecchiamento di una birra, ma in tono minore. Anche l’alcool è fin troppo nascosto, negando di fatto quel conforto etilico tipico di una bottiglia giovane. 
Il verdetto?  Sebbene apprezzi la drastica riduzione di banana e chiodi di garofano nell’Aventinus 2015, ci sono troppi cali di tensione per farmela preferire alla bottiglia 2020. Il mio voto va quindi per l’Aventinus fresca, potente e intensa, che negli esemplari migliori regala una complessità davvero degna di nota.  

Nel dettaglio:
Aventinus 2014, 50 cl., alc.8,2%, IBU 16, lotto 18/11/2014, scad. 18/11/2015, pagata 1,17 Euro (supermercato Germania)
Aventinus 2020 , 50 cl., alc.8,2%, IBU 16, scad. 19/06/2021, pagata 3,40 Euro (supermercato Italia)

sabato 5 dicembre 2020

Gigantic Most Most Premium Russian Imperial Stout - Bourbon Barrel Aged 2020

Del birrificio di Portland Gigantic vi avevo già parlato qualche anno fa: lo inaugurarono il 9 maggio 2012 nel distretto Reed di Portland, nelle vicinanze del Reed College, due birrai abbastanza noti in quella città dell’Oregon soprannominata Beervana per la sua alta concentrazione di birrifici e brewpub.  Ben Love aveva iniziato la sua carriera come birraio nel 2003 all’Adler Brewpub di Appleton (Winsconsin) per poi ritornare l’anno successivo in Oregon presso il birrificio Pelican; nel 2007 diventò infine headbrewer alla Hopworks Urban Brewery (HUB) di Portland. Van Having, fiero Alfista (!), aveva cominciato nel 1995 presso la Minnesota Brewing Company per trascorrere sedici anni come headbrewer nei brewpub della Rock Bottom, prima a Minneapolis e poi a Portland. Nel 2010 un diverbio con la proprietà spinse Having a lasciare la Rock Bottom per mettersi in proprio; inizialmente la sua idea era di allontanarsi da Portland ma l’incontro con Ben Love gli fece cambiare idea dando vita al progetto Gigantic, con il supporto finanziario di alcuni amici.  
Nonostante il nome scelto, Love e Having non avevano particolari ambizioni e partirono con un impianto da 15 barili costruito su misura dalla Metalcraft:  “vogliamo essere un birrificio di quartiere con una tasting room dall’atmosfera rilassata dove poter passare qualche ora, piena di clienti abituali e qualche occasionale visitatore. Non saremo mai un birrificio ‘gigante’, anche se ci sentiamo ‘giganti’.”    I birrai organizzano la propria produzione (circa 5500 ettolitri l’anno) su due birre fisse, Gigantic IPA e Ginormous Imperial IPA, affiancate da una grande quantità di birre stagionali, collaborazioni e one-shot; si focalizzarono soprattutto sulle bottiglie, in quanto offrono maggior margine  di guadagno rispetto ai fusti. 
Da subito Gigantic si è fatto notare per le belle etichette: “quando vedi le nostre birre riesci ad identificarle immediatamente - dice Love – Abbiamo uno schema fisso, che ricorda la copertina di un fumetto: non importa quale sia poi il soggetto raffigurato, appena la vedi riesci a capire subito che è una birra di Gigantic.  Non abbiamo budget per la pubblicità, preferiamo piuttosto dare quei soldi agli artisti che disegnano per noi”.  La prima etichetta, quella della Gigantic IPA, fu ad esempio realizzata da Rob Reger, art director e creatore del personaggio Emiliy The Strange. Il successo è immediato, le birre vengono vendute ancora prima di uscire dai fermentatori e a due mesi dall’apertura Love e Having ottengono 400.000 dollari di finanziamento per espandere la taproom e dare il via al programma di invecchiamenti in botte. Nell’agosto del 2019 Gigantic annunciava il progetto di una seconda taproom (Gigantic Satellite) nel distretto Montavilla di Portland, ad una decina di chilometri dal birrificio. I lavori di ristrutturazione del  Rocket Empire Machine, una ex autofficina che ospiterà anche quattro venditori di cibo rendendo così la taproom accessibile anche alle famiglie con bambini, hanno subito forti rallentamenti a causa dell’emergenza Covid-19 e sono attualmente ancora in corso. 

La birra. 
Per l’etichetta della Gigantic Most Premium Russian Imperial Stout fu reclutato Frank Kozik, grafico noto per i poster realizzati negli anni ’90 per i concerti di  gruppi musicali come Nirvana, White Stripes, Green Day, Beastie Boys, Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers; Kozik possedeva anche la piccola etichetta musicale indipendente Man’s Ruin Records.  La ricetta prevede malti Pale, Vienna, Crystal 40, Crystal 80, Crystal 120, Chocolate, Black, zucchero Demerara, orzo tostato, luppoli Magnum e Cascade.  Le sue svariate edizioni Barrel Aged, disponibili ogni anno nei mesi invernali, diventano Most Most Premium Russian Imperial Stout: vediamo la prima della serie, ovvero quella invecchiata in botti ex Bourbon. 

Nera, quasi impenetrabile alla vista, schiuma cremosa e compatta dalla discreta persistenza: il suo aspetto è sontuoso e l’aroma non è da meno, pulito e intenso, complesso. In ordine sparso emergono profumi di vaniglia e cocco, legno, fruit cake, tabacco e caffè, prugna disidratata e uvetta: il distillato è ben presente ed amalgama il tutto, all’orizzonte si scorge anche un filo di fumo. Non è un’imperial stout particolarmente densa e oleosa: bollicine sottili ma vivaci ne compromettono inizialmente la morbidezza, ma il mouthfeel migliora dopo aver lasciato stazionare la birra nel bicchiere.  La bevuta segue l’aroma riproponendolo in buona parte: frutta sotto spirito, fruit cake, vaniglia, caramello, mentre il distillato è ben in evidenza e riscalda con vigore senza mai bruciare. Al  palato latita un po’ la componente caffè/torrefatto, appena percepibile,  la chiusura è calda e lunga, ricca di bourbon e un tocco di legno. Gran bel naso, emozionante e coinvolgente, mentre la bevuta è maggiormente segnata dal passaggio in botte e non ha lo stesso livello di complessità e di definizione: è comunque un’imperial stout di livello che si sorseggia senza difficoltà e con grande soddisfazione.

Formato 50 cl.,  alc. 12%, IBU 60, lotto 2020, prezzo indicativo 18 euro (beershop)

martedì 1 dicembre 2020

DALLA CANTINA: Sierra Nevada Bigfoot Barley Wine 2015

Sono passati giusto quarant’anni da quel 21 novembre del 1980 in cui Ken Grossman, assieme al compagno di home-brewing Paul Camusi, produsse il suo primo lotto di Sierra Nevada Pale Ale, una birra destinata ad entrare nella storia e probabilmente la birra che ha maggiormente influenzato tutti quei birrai che hanno dato il via, dieci anni dopo, all’American Craft Beer Revolution. In quell’anno vi erano solamente 43 birrifici indipendenti in tutti gli Stati Uniti. 
Quel primo lotto non fu però soddisfacente e i due novelli birrai furono costretti a buttare via altre dieci cotte prima di ottenere quello che volevano. Grossman e Camusi avevano preso in prestito dalle rispettive famiglie 100.000 dollari e con quei soldi avevano assemblato un impianto da 14 ettolitri usando componenti di seconda mano. Sino ad allora Grossman aveva riparato biciclette, un’altra delle sua passioni, e faceva birra in casa: nel 1976 aveva aperto a Chico il piccolo Home Brew Shop dando lezioni ai novizi e tra i suoi clienti vi era anche Camusi. Nel primo anno di vita il birrificio Sierra Nevada produsse un migliaio di  ettolitri guadagnandosi lentamente un buon seguito locale, soprattutto tra gli studenti della Chico University: per un paio di anni Grossman e Camusi fecero tutto da soli, cercando di inventare quello che per i microbirrifici ancora non esisteva: canali di distribuzione, potenziali clienti non abituati a bere birre così amare e intense, accesso diretto alle materie prime, soprattutto ai luppoli della Yakima Valley. 
I primi dipendenti furono assunti nel 1983: Steve Dresler, birraio andato poi in pensione nel 2017 dopo 34 anni di attività e Steve Harrison, marketing e vendite: a lui il compito di far conoscere Sierra Nevada ma ci volle un colpo di fortuna per spiccare il volo. La catena di supermercati Safeway aveva un migliaio di punti vendita in tutti gli Stati Uniti: un loro dipendente andava spesso a trovare la figlia che studiava a Chico, fermandosi per una birra. Amava la Pale Ale, divenne amico di Grossman e portò le birre sugli scaffali del supermercato: alla Sierra Nevada arrivarono richieste da altri distributori e improvvisamente il problema, per Grossman e Camusi, non era come vendere la birra ma come soddisfare tutte le richieste. I soldi per espandersi non c’erano e le banche non davano nessun finanziamento ad un microbirrificio: era un business plan nel quale nessuno credeva. I due birrai lavoravano 12 ore al giorno, sette giorni su sette: Grossman prese un aereo e volò in Germania dove riuscì ad acquistare per 15.000 dollari l’impianto da 117 ettolitri di un birrificio fallito e lo spedì in California. Peccato che per metterlo davvero in funzione fossero necessari altri investimenti che sfioravano il milione di dollari: l’impianto resterà per molti anni inutilizzato in un magazzino, mentre Grossman con la saldatrice si costruiva da solo i nuovi fermentatori necessari per aumentare la prodzione. Nel 1987 Sierra Nevada produceva 14.000 ettolitri all’anno e distribuiva in sette stati: in quell’anno finalmente Grossman e Camusi riuscirono ad inaugurare l’impianto tedesco che avevano acquistato quattro anni prima. 
Il resto è una storia che parla di una crescita che per molti anni viaggia al ritmo del +50%, di ettolitri che diventano 117.000 (1993), 300.000 (1997) e 500.000 (1999).  Nel 1997 veniva inaugurato il nuovo impianto da 234 ettolitri e nel 1998 Grossman acquistava da Camusi il 50% delle quote societarie, diventando unico proprietario. Nel 2014 Sierra Nevada superava il milione di ettolitri venduti ed inaugurava un secondo sito produttivo in Nord Carolina. Nel 2015 la rivista Bloomberg aggiungeva Ken Grossman all’elenco dei “miliardari della birra”, ma  l’El Dorado della Craft Beer Revolution stava finendo, almeno per i “padri fondatori” del movimento: il craft non cresceva più esponenzialmente anno dopo anno e i birrifici artigianali che avevano investito milioni di dollari per espandersi vedevano le proprie quote di mercato rosicchiate da tanti piccoli produttori locali. Nel 2016 Sierra Nevada registrava un -6%, nel 2017 un -7% e riusciva ad invertire la tendenza solo nel 2019 (+5%), anno in cui il sessantacinquenne Grossman affidava il ruolo di amministratore delegato a Jeff White andandosi a sedere sulla poltrona presidenziale. Attualmente Sierra Nevada è il terzo produttore craft, dietro a Yuengling e Boston Beer Company, e il decimo produttore americano considerando anche i marchi industriali. 

La birra.

La prima birra prodotta da Sierra Nevada nel 1980 fu una Stout, seguita a ruota dalla Pale Ale. Nell’inverno del 1983 debuttò il possente Barley Wine (9.6%) chiamato Bigfoot che ottenne nel 1987 la medaglia d’oro al Great American Beer Festival. Grossmann e Camusi non pensavano ad una birra da invecchiamento; il loro approccio era lo stesso della Pale Ale, ovvero un’interpretazione americana, generosamente luppolata, della tradizione anglosassone. Bigfoot, prodotta con malti Two-row Pale e caramello, riceve un’abbondante luppolatura di Cascade, Centennial e Chinook e raggiunge quota 90 IBU: fresco, è un barley wine potente ed aggressivo, ricco di note resinose e di pompelmo, secondo i dettami della scuola West Coast.  La sua facile reperibilità e il suo ottimo rapporto qualità prezzo la resero rapidamente una birra da cantina per gli appassionati desiderosi di sperimentare gli effetti dell’invecchiamento. Ricorda il birraio Steve Dresler “a me piace particolarmente a cinque anni dalla messa in bottiglia. Non vale la pena andare oltre. Ma da tre a cinque anni è deliziosa!”.
Seguo le indicazioni di Dresler ed anche quelle contenute nel libro Vintage Beer di Patrick Dawson, lettura che consiglio a chiunque voglia provare di abbandonare qualche birra in cantina. 
Bigfoot 2015 si presenta nel bicchiere di color ambrato torbido: la schiuma ocra è cremosa, compatta ed ha buona ritenzione. Il naso è ricco di fichi disidratati, datteri, mela al forno, frutti di bosco, richiami al vino passito e a vini fortificati, soprattutto Sherry: l’aroma è intenso, pulito, “caldo” e avvolgente. Il mouthfeel è ancora ben solido e potente, non ci sono evidenti segni di cedimento dovuti all’età: in bocca è morbida nel suo percorso di caramello e biscotto, frutta sotto spirito. L’ossidazione regala belle sensazioni di vino fortificato mentre nel finale è ancora presente una generosa luppolatura resinosa, molto gradevole. Ed è questa la nota più positiva che devo sottolineare: i luppoli americani, contrariamente a quelli inglesi, invecchiano molto male e il loro resinoso spesso evolve in sensazioni poco gradevoli al palato.  Chi ha avuto occasione di assaggiare Barley Wine americani d’annata conosce bene quella sensazione. Bigfoot è invece una piacevole eccezione alla regola: a cinque anni dall’imbottigliamento presenta ancora un resinoso gradevole abbinandolo alle note ossidative di sherry e vino passito.
In questa bottiglia non c’è la classe la complessità dei migliori barley wine inglesi d’annata, ma è sicuramente una bella bevuta, ancora potente, sostenuta da un corpo solido e da un bel alcol warming. Tra i migliori vintage american barley wine che mi sia mai capitato di bere.
Formato 35.5 cl., alc. 9.6%, IBU 50, lotto 18/12/2015, pagata 5.00 euro (beershop)