martedì 31 marzo 2020

DALLA CANTINA: Brewfist La Trinidad El Vasco 2015


Non ci avevo fatto caso ma l’ultima apparizione sul blog di Brewfist è datata 2014. Non che sia un fatto voluto, è semplicemente capitato: del resto la scena della craft beer è sempre più affollata, bisogna dar spazio un po' a tutti e la ragion d'essere di unabirralgiorno è presentare sempre qualcosa di nuovo. Non avrebbe molto senso postare la stessa birra ogni anno o ogni tre mesi: per questo i birrifici operativi da un po' di tempo (2010, nel caso di Brewfist) sono maggiormente penalizzati rispetto ai nuovi arrivati. Il birrificio lodigiano non è neppure particolarmente fecondo se parliamo di novità: in dieci anni d'attività ha prodotto una settantina di diverse etichette. Numeri che molti birrifici alla moda (tristemente) raggiungono in un anno o poco più. Scelte strategiche, ovviamente. Del resto il cuore pulsante di Brewfist è la  bella taproom Terminal 1, ora proprio adiacente al birrificio, con una ventina di spine per dissetarsi e accompagnare taglieri, primi, fritti, secondi di carne e pesce.
Ma dal suo ultimo passaggio sul blog di novità ce ne sono state molte: sopratutto il bel programma dedicato agli invecchiamenti in botte che sta diventando sempre più ricco. Tralasciando la primogenita Spaghetti Western (11.1%),  Imperial Stout invecchiata in botti di grappa che fu seguita dalla Madame Galaxie (7%), saison invecchiata in botti di Chardonnay, oggi l'offerta Barrel Aged  di Brewfist include la "trinità" dei Barley Wine El Pedro (13.8%, un anno in botti di Pedro Ximenez), El Vasco  (11.7%, un anno in botti di Porto) ed El Fernando (14.4%, lievito Saison ed un anno in botti di Porto); la saison al farro Lady Peach (5.9%), passaggio in botte Chardonnay con aggiunta di polpa di pesca nelle ultime settimane precedenti all’imbottigliamento; Sentenza (9.4%), Imperial Stout con fermentazione acetica in botti ex-grappa; Dr Ray (10%) blend di Porter invecchiata in botti di Nebbiolo e fresca con aggiunta di bacche di vaniglia; The Pilgrim (14.4%) Barley Wine con lievito Saison invecchiato un anno in botti di Marsala. Chiudiamo la rapida carrellata con le tre Imperial Stout La Leggenda: Sam (12%) invecchiata in botti di rum giamaicano, Victor (12%) rum Martinica, Elijah (12%) Bourbon. 

La birra. 
Malto Maris Otter e luppolo East Kent Golding: la ricetta del Barley Wine El Vasco (11.7%) è la più classica e la più semplice possibile. Del resto la magia dovrebbe arrivare dall'invecchiamento per un anno in botti che avevano in precedenza ospitato Porto.  Dalla cantina, risorsa ormai abituale in questo periodo di emergenza Coronavirus, stappo quella che dovrebbe essere una bottiglia del primo lotto prodotto: correva l'anno 2015. 
Nel bicchiere si presenta di color ambrato piuttosto torbido, mentre la schiuma dopo cinque anni di cantina impressiona per compattezza e generosità. L'aroma è intenso e caldo, zuccherino, ricco di porto, uvetta, prugna e frutti di bosco: in secondo piano accenni di legno e di mela. La sensazione palatale è perfetta, sembra una birra nata da pochi mesi: nessun cedimento, corpo medio-pieno, morbida e avvolgente. Al palato domina il Porto portandosi dietro uvetta, prugna, ciliegia e frutti di bosco: ma sul palco c'è anche posto per biscotto e caramello, mela al forno. La bevuta è piuttosto dolce ma il tutto viene contrastato da una leggera acidità e dalla componente etilica che riesce ad "asciugare" bene la componente zuccherina. Il percorso termina con una suggestione amara (radice o tannini?) ed una lunghissima scia di Porto, elemento che la caratterizza in lungo e in largo. El Vasco è una birra che scalda molto senza mai arrivare a bruciare. Impressionante il modo in cui ha retto al tempo: qualche lievissimo segno di cedimento al naso ma al palato è potente, pulita, sontuosa. Una compagna ideale d'una fredda serata d'inverno. 
Formato 33 cl., alc. 11.7%, lotto 6185, scad. 12/2025, prezzo indicativo 7.00-9.00 euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 26 marzo 2020

Tempest Red Eye Bourbon Barrel


Sta facendo proprio un bel percorso di crescita il birrificio scozzese Tempest, fondato nel 2010 dallo scozzese Gavin Meiklejohn e dalla moglie neozelandese Annika a Kelso, Scozia, a poche miglia dal confine sud-orientale con l’Inghilterra. I due si erano conosciuti alla fine degli anni ’90 in Canada dove Gavin stava lavorando come cuoco;  fu l'incontro con la craft beer revolution statunitense a spingerlo verso l’homebrewing nel periodo in cui si trovava in Nuova Zelanda assieme alla futura moglie per continuare il suo percorso di chef. A Sidney frequentò un corso professionale per la produzione della birra e, rientrata in Scozia, la coppia ha aperto il gastropub The Cobbles a Kelso: nei momenti di pausa dalla cucina, Gavin continuava con l’homebrewing sotto la  spinta dalle richieste sempre più pressanti dei clienti che desideravano bere una birra fatta sul posto.   
Nell’aprile 2010, nei locali un tempo occupati da un caseificio, nacque Tempest Brewing Company: si  parte  con un impianto da 800 litri in parte costruito recuperando attrezzature usate dall’industria casearia che viene poi sostituito due volte per aumentare la produzione. Quello attuale (30 hl) si trova nella nuova sede al Tweedbank Industrial Estate di Galashiels, ad una ventina di chilometri da Kelso, inaugurata nel 2015. Partito timidamente con una piccola gamma di stili classici, Tempest ha pian piano allargato i suoi orizzonti dimostrando di voler stare al passo coi tempi: nel 2018 sono arrivate le prime lattine, prima nel classico formato in inglese da 44 centilitri e, a partire allo scorso gennaio, in quello da 33 che è stato anche accompagnato da un restyling grafico delle etichette. 
Per qualche strano motivo ho bevuto sino ad ora molte poche birre “quotidiane” di Tempest privilegiando invece quelle dal contenuto alcolico piuttosto robusto: mi prometto di esplorare al più presto il lato più’ easy del birrificio scozzese ma anche la birra di oggi picchia forte. E’ arrivata lo scorso novembre 2019 e si chiama  Red Eye Flight Bourbon Barrel: è la versione potenziata della Red Eye Flight, robusta porter al caffè (7.4%) della quale vi avevo parlato in questa occasione. Non so se quest’ultima sia ancora prodotta, il sito del birrificio attualmente non la elenca tra le birre disponibili.

La birra.
Il termine "red eye flight" viene usato in inglese per indicare quei voli aerei che partono la sera tardi, verso mezzanotte, ed arrivano a destino all’alba con una durata di solito inferiore alle sei ore, quelle che consentirebbero un normale periodo di sonno/riposo;  gli “occhi rossi” sono appunto quelli dei passeggeri stanchi e assonnati.  La Red Eye Flight Mocha Porter veniva prodotta con caffè brasiliano e polvere di cacao, mentre per la sua versione Barrel Aged (nove mesi in botti ex-bourbon) è stata utilizzata una varietà proveniente dall’isola di Sumatra (Indonesia). La ricetta si completa con malti Golden Promise, Chocolate, Monaco e Crystal, avena e frumento, luppolo Columbus, lievito California Ale: i chicchi di caffè e le fave di cacao sono state infuse all’interno delle botti e ulteriore caffè è stato aggiunto prima della messa in fusto/bottiglia.  
Non è forse completamente nera ma ci manca davvero poco: la schiuma è cremosa, fine, compatta ed ha buona persistenza. L’aroma è intenso, pulito e molto espressivo: il caffè è protagonista ma lascia che sul palcoscenico appaiano anche profumi terrosi e di tabacco, cioccolato fondente, fondi di caffè, legno e cenere, bourbon, qualche accenno di vaniglia. Difficile chiedere di più. Si potrebbe invece alzare l'asticella del mouthfeel: okay, è una imperial porter e chi crede fermamente nella differenza tra porter e stout sa di aspettarsi un po’ più di leggerezza. In effetti non ci sono particolari densità o viscosità, la birra è gradevole ma qualche carezza in più l’avrebbe resa ancor più memorabile. Il livello di questa Red Eye Bourbon Barrel è comunque elevatissimo molto elevato: senz’altro tra le migliori imperial porter/stout al caffè barricate europee che mi sia capitato d’assaggiare. La bevuta è ricca di caramello, frutta sotto spirito e bourbon, componenti molto ben amalgamate con le loro controparti amare di caffè, tostature e cioccolato fondente. L’alcool (12%) è dosato come meglio non si potrebbe: è una birra che scalda senza far male e che si sorseggia con enorme piacere. Chiude con delicate suggestioni di vaniglia e una lunghissima scia di caffè corretto al bourbon. Una sorta di KBS scozzese (non a caso usano la stessa varietà di  caffè), ma ancor più elegante e sincera: birra riuscitissima, comprare subito. 
Formato 33 cl., alc. 12%, lotto 11/2019, scad. 12/2024, prezzo indicativo 7,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 25 marzo 2020

Extraomnes Wit

Belgian Ale, Dubbel, Tripel, Quadrupel, Saison: tra gli stili più popolari della tradizione belga l’unico che ancora mancava in casa Extramones era quello delle blanche o delle witbier, se preferite il fiammingo. Un’assenza che viene colmata nel 2018 quando Luigi D’Amelio, deus-ex-machina del birrificio di Marnate, annuncia al sito Agrodolce: “ho sempre detto che non l’avrei mai fatta, perché è una tipologia che non mi piace. Di solito la propongono nei pub ai clienti, spesso di genere femminile, a cui non piace l’amaro. L’ho sempre considerata l’anello di congiunzione con l’aranciata: troppo ruffiana per me e poi non amo particolarmente il frumento. Beh, ho deciso di produrla anche io, per due motivi: primo perché ora abbiamo il nostro locale e dobbiamo venire incontro a tutti e poi perché la vivo un po’ come una sfida”. 
La Wit di Extraomnes debutta in estate in un’interpretazione piuttosto singolare: frumento e coriandolo, elementi classici dello stile, sono presenti ma nella ricetta ci finiscono anche degli agrumi mediterranei (arancia, mandarino e limone) a rafforzare quel carattere solare, dissetante e rinfrescante che una blanche/wit deve obbligatoriamente avere.  Dopo aver debuttato in fusto la Wit è stata la protagonista della lattina numero tre di casa Extraomnes, dopo Iconic e Guld: c’è voluto oltre un anno (ottobre 2019) e anche una nuova veste grafica astratta, completamente rivisitata rispetto a quella originale.

La birra.
Il bicchiere si tinge di giallo paglierino opalescente, in controluce appare anche qualche riflesso verdognolo: la schiuma è candida, abbastanza fine ed ha buona ritenzione. Al naso un leggero panificato/cereale viene subito sovrastato da un tourbillon di spezie, fiori e frutta: il coriandolo dovrebbe essere l’unica spezia “ufficiale” ma il lievito regala anche suggestioni di zenzero, cardamomo, noce moscata. La banana, delizia o (per me) croce di ogni Blanche/Wit è qui rintanata in un angolo: sul palcoscenico brillano arancia, mandarino, cedro, limone. Il naso è pulitissimo e molto espressivo: un giorno mediterraneo di pieno sole nel bicchiere. Al palato la trovo abbastanza più corposa di una tipica Wit belga: le bollicine sono comunque vivaci e la scorrevolezza è ottima. Il gusto ricalca l’aroma ponendo però in primo piano gli agrumi e rilegando in secondo piano cereali, spezie e banana. Il risultato, si potrebbe dire, è una “not ordinary Wit”, intensa e molto fruttata, con un finale secco e amarognolo di breve durata ma di buona intensità, zesty e terroso, che non t’aspetteresti di trovare in uno  stile che spesso produce birre blande e anonime che si spengono in evanescenti finali acquosi. Non è la prima Wit ben luppolata italiana: mi viene in mente l’altrettanto ottima Bere Nice di EastSide, ad esempio. 
Dietro ad un’apparente semplicità c’è una bella complessità che si lascia decifrare senza sforzi: la Wit di Extraomnes è già pronta per la prossima estate.
Formato 44 cl., alc. 5%, lotto 275/19, scad. 02/10/2020, prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 24 marzo 2020

Great Divide S'mores Yeti


Del birrificio Great Divide di Denver, Colorado, vi avevo già parlato in questa occasione.  Fondato nel 1994 dall’ex-homebrewer Brian Dunn, Great Divide ha festeggiato nel 2019 il proprio venticinquesimo compleanno con una bella festa all’aperto ad Arapahoe Street, strada dove Dunn aveva preso in affitto gli edifici di un vecchio caseificio in disuso. Il birrificio è andato via via ingrandendosi su quel terreno fino a quando è stato possibile: nel 2013 è stato costretto a trasferirsi nel River North Art District (RiNo) di Denver dove è stato inaugurato il nuovo stabilimento da 6000 metri quadri. 
Great Divide produce oggi circa 35.000 barili all’anno, in leggero calo rispetto al picco del 2015: una flessione che ha colpito quasi tutti i grossi birrifici artigianali americani, incalzati da molte nuove realtà locali di dimensioni più contenute e quindi dotati di una maggior flessibilità produttiva, elemento fondamentale per seguire le regole del mercato. Dunn ha comunque già messo in atto i cambiamenti necessari per invertire la rotta: alcune birre sono state mandate in pensione (Nomad Pilsner, Lasso Session IPA e Hoss Rye Lager) e sono state rimpiazzate soprattutto da IPA dal livello di amaro più contenuto. L’etichetta più venduta rimane tuttavia sempre la Titan IPA, seguita da Colette Farmhouse Ale, Denver Pale Ale e dalla Yeti Imperial Stout. Titan e Yeti nacquero nel 2004 in occasione dei festeggiamenti del decimo compleanno: allora si chiamavano Maverick IPA e Maverick Imperial Stout, ma dopo qualche anno furono costrette a cambiare nome in seguito alle minacce di un birrificio californiano che utilizzava già il nome Mavericks. 
Il 22 giugno 2019 Arapahoe Street venne chiusa al traffico e iniziarono i festeggiamenti al ritmo di musica (Wildermiss, The Patient Zeros e Giant Walking Robots), food truck e birra: il biglietto d’ingresso (35 $) vi consentiva di bere senza limiti la maggior parte delle birre.  Furono disponibili anche ben 14 varianti di Yeti Imperial Stout: oltre alle classiche versioni Oatmeal e Chocolate Oak Aged (già disponibili ogni anno come birre stagionali) debuttarono  la Maple Pecan Yeti e la S’mores Yeti affiancate da Chocolate Cherry Yeti, Velvet Yeti (nitro),  Vanilla Oak Aged Yeti e Chai Yeti. La birra dell’anniversario fu invece doppia: una versione potenziata della Yeti  (25th Big Anniversary Yeti 13.5% anziché 9.5%) e della Hazy IPA (Double Hazy, 8%).

La birra.
Terminati i festeggiamenti di giugno 2019 la S'mores Yeti  ha fatto un gradito ritorno in ottobre, questa volta disponibile per tutti in una generosa lattina da 57 centilitri. L’etichetta indica l’aggiunta di cioccolato, marshmallow e delle non precisate spezie.  L’idea è ovviamente quella di replicare uno S’more, dolce americano che consiste in un marshmallow riscaldato e poi posizionato tra due biscotti (graham crackers) e uno o due  strati di cioccolato.

Il suo vestito è completamente nero, la schiuma è cremosa, compatta ed ha ottima persistenza. Al naso emergono profumi di fondi di caffè, cacao, vaniglia, caramella mou, biscotto, qualche accenno di cenere: il bouquet è intenso, mentre l’eleganza è discreta. C’è un leggero sentore d’artificialità che proprio non vuole sparire. Al palato non ci sono particolari viscosità: il mouthfeel è comunque morbido, a tratti leggermente setoso, e la bevibilità è davvero ottima. La bevuta ricalca perfettamente l’aroma: vaniglia, caramello/mou, un tocco di frutta sotto spirito danno il via ad un percorso dolce che viene poi bilanciato da un finale amaro di caffè, cioccolato fondente e torrefatto. Paragonandola alla Yeti “normale”, imperial stout dal carattere forte, torrefatto ed amaro, la sua versione S’mores è ovviamente più mansueta e si congeda con un retrogusto che vede un ritorno dolce di vaniglia/marshmallow.  
Una birra che si beve con piacere, un bel divertissement di una delle imperial stout americane più classiche: la sua componente dessert non brilla per finezza ma riesce comunque a mantenere a debita  distanza l’effetto merendina piena di aromi artificiali. Ne consiglierei l’acquisto anche a chi, come me, non ama particolarmente il genere pastry.

Formato 56,8 cl., alc. 9.5%, IBU 75, imbott. 17/09/2019, prezzo indicativo 20,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 18 marzo 2020

Boyne Brewhouse Imperial Stout Sherry


La famiglia Cooney lavora in Irlanda nel settore bevande da oltre quarant’anni: nel 1974 Patrick J. Cooney rilevò la M&J Gleeson, un piccolo imbottigliatore e distributore di Guinness, per trasformarlo nel Gleeson Group, confezionatore, produttore dei marchi Tipperary Water e Finches (soft drinks), nonché maggior distributore irlandese di vino, birra e alcolici. La crisi economica irlandese del periodo 2008-2012 mise il gruppo in difficoltà e lo portò ad accumulare debiti ps, sidro Bulmers e Magners, per intenderci) che oltre a farsi carico dei debiti staccarono un assegno da 12  milioni. Con il ricavato il  settantenne Cooney decise di dar forma a quello che è sempre stato il suo sogno: una distilleria. 
Siamo nei dintorni di Drogheda, antica città irlandese, affacciata sul fiume Boyne, una quarantina di chilometri a nord di Dublino: nelle vicinanze c’è anche Newgrange, una delle più affascinanti aree archeologiche d'Europa, dichiarata Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco e meta turistica irrinunciabile. Con un investimento da 20 milioni di di sterline Cooney  e sua moglie Marie Cooney, along with their family; Sally-Anne, Calestine, Peter, Patrick e  James  desiderano “regalare” un futuro ai figli Sally-Anne, Calestine, Peter, Patrick Jr. e  James: nasce la distilleria Boann (whiskey e gin) affiancata dal birrificio Boyne Brewhouse, con annesso ristorante e visitor centre. Entrambi i marchi fanno parte del nuovo gruppo Na Cuana, posseduto dalla famiglia Cooney e proprietario anche del sidro Adams e della crema di whiskey Merry’s,  entrambi ereditati del vecchio gruppo Gleason. 
Se per i Cooney il whskey non è una novità, visto che già operavano come blenders, per la città di Drogheda è la rinascita  di un’industria che si era fermata cinquant’anni fa: per quel che riguarda la birra bisogna invece risalire al 1960, anno in cui si chiusero definitivamente i cancelli della Cairnes Brewery, acquistata dalla Guinness. Nel periodo di massimo splendore in città erano attivi ben nove birrifici. A guidare il birrificio (35 ettolitri) è stato chiamato il birraio Richard Hamilton, prelevato dal birrificio Craftworks di Dublino che operava principalmente per conto terzi, aiutato da Bill, proveniente dalla Redemption di Londra. Boyne ha suddiviso la sua produzione nelle gamme Legend (Amber Ale, Pale Ale, Lager, Saison, Oatmeal Stout e IPA),  lattine (American Pale Ale, Vienna Lager, Session IPA) e Limited Edition (Belgian Dubbel, Imperial Stout, Winter Ale).


La birra.
Strano a dirsi, il birrificio Boyne non ha un’imperial stout “base”: l’unica che produce è invece invecchiata in botti di whiskey irlandese che avevano in precedenza contenuto sherry. Una scelta quasi ovvia visto che birrificio e distilleria vivono sotto lo stesso tetto e la reperibilità di botti usate è immediata. 
Nel bicchiere è perfetta: quasi nera, schiuma a trama fine, cremosa e compatta, dalla buona persistenza. Caramello bruciato, caffè, whiskey, fruit cake, accenni di cioccolato e tostature compongono un aroma molto fine, pulito e preciso, dall’intensità discreta.  Un bell’inizio che trova conferme anche al palato, a partire da un mouthfeel leggermente viscoso che permette a questa imperial stout di scorrere senza intoppi. La bevuta è perfettamente bilanciata, priva di eccessi ma con una bella profondità. Si spazia dal dolce di caramello, fruit cake e liquirizia all’amaro del cioccolato, del caffè e del torrefatto. Ma sono i dettagli a fare la differenza e mi riferisco a quei leggeri richiami di sherry che si fanno sentire in secondo piano: ci vuole un po’ di attenzione (e di suggestione!) per coglierli, ma ci sono. L’alcool (10.8%) è gestito in maniera impeccabile e fa sentire la sua presenza solo nel lungo finale nel quale whiskey, caffè e cioccolato si fanno compagnai a vicenda. 
Devo ammettere che non avevo molte aspettative per questa imperial stout di Boyne che avevo in cantina da un anno e mezzo. Ieri era San Patrizio ed ho colto l’occasione per stappala: era l’unica stout irlandese che avevo a disposizione. Uun piccolo gioiello, una birra educata e pulita con un sapiente passaggio in botte che non la sovrasta ma le aggiunge una bellissima complessità. Non ci sono fuochi d’artificio ma semplicità, finezza e una straordinaria bevibilità. 
Formato 33 cl., alc. 10,8%, lotto B21201HCT6, scad. 21/02/2023, prezzo indicativo 5,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 marzo 2020

Struise Ypres Reserva 2011


Ypres (frances), Yper (fiammingo), Ieper (olandese): questa cittadina belga nelle Fiandre Occidentali iniziò a prosperare nel dodicesimo secolo come centro per la produzione ed il commercio dei tessuti, grazie anche alla propria posizione strategica sulla strada che collegava Bruges a Lille e sul fiume Yser. I battelli lo risalivano per portare in città la lana dalla costa, dove venivano  allevate le pecore. Il suo coinvolgimento in numerose guerre (Francia, Inghilterra) e la peste nera del 1347 misero fine alla sua prosperità. 
Ypres tornò ad essere tristemente famosa nel corso della prima guerra mondiale. Nell’ottobre del 1914, nel tentativo di fermare la corsa delle truppe tedesche verso il mare,  l’esercito belga decise di inondare le campagne aprendo le chiuse marine di Nieuwpoort: Ypres divenne allora l’ultimo caposaldo dell’esercito inglese prima del fango e delle paludi e teatro di quattro devastanti battaglie. Le seconda battaglia di Ypres  (aprile-maggio 1915) divenne tristemente famosa per l’utilizzo di gas asfissianti a base di cloro: il gas mostarda, poi rinominato Iprite. Un tentativo tecnologico per sfuggire all’immobilità della trincea: il gas colpiva polmoni ed occhi causando problemi respiratori e cecità; essendo più denso dell'aria tendeva a raccogliersi sul fondo delle trincee, forzando gli occupanti ad abbandonarle. I sopravvissuti fuggirono in massa dalle trincee: anche l’esercito tedesco fu sorpreso dall’efficacia del gas e non disponeva di un numero di truppe sufficiente per sfruttare l’occasione. Il vento soffiava in favore dei tedeschi e quindi una vera e propria ritirata non sarebbe servita a molto: gli alleati decisero allora di avanzare usando come primitive maschere dei fazzoletti imbevuti di urina (l'ammoniaca in essa contenuta neutralizzava il cloro) e riuscirono a ripristinare il fronte. 
La terza battaglia di Ypres (luglio 1917) si svolse in un clima perennemente piovoso che ridusse l’intera zona ad un paesaggio lunare e spettrale; moltissimi soldati furono vittima del fango e degli elementi naturali avversi, ancor prima delle mitragliatrici e dei cannoni. L’ultima battaglia, quella che lasciò Ypres completamente distrutta, si svolse tra marzo ed aprile del 1918: le campagne circostanti ospitarono 170 cimiteri militati e ci vollero quarant’anni per ricostruirla completamente.


La birra.
Sono quindici i chilometri di strada che separano il birrificio De Struise da Ypres: alla cittadina teatro di sanguinose battaglie, la cui devastazione è raffigurata in etichetta, “gli struzzi” dedicano una FOB, acronimo che sta per Flemish Oud Bruin. La sua prima edizione (7% ABV, 2009) venne messa in vendita nel 2013 dopo due anni d’invecchiamento in botti di Borgogna e due in botti di bourbon (Wild Turkey). 
Io vi parlerò invece della Ypres Reserva 2011, commercializzata nel 2014 dopo quattro anni passati in botti ex-Bourgogne. Il suo vestito è di color ebano scuro accesso da profonde venature rosso rubino; la schiuma, cremosa e compatta, ha ottima persistenza. Al naso emergono note acetiche, di frutti rossi come ribes e marasca; c’è una bella controparte dolce che richiama l’aceto balsamico, la ciliegia sciroppata. Il bouquet si completa con accenni di vinosi, di legno e  di “cantina umida”.  Ottima e morbida la sensazione palatale: corpo medio, avvolgente, consistenza leggermente oleosa: è forse la Oud Bruin più densa (prendete questo aggettivo con le pinze) che mi sia mai capitato d’assaggiare. La bevuta parte dolce è ricca di ciliegia e frutti di bosco sciroppati, vino marsalato e aceto balsamico, mentre la controparte richiama di nuovo note acetiche, l’asprezza dei frutti rossi. Annoto anche delle suggestioni effimere di vaniglia e cioccolato, un bel carattere legnoso e una bella secchezza finale, accompagnato dal lieve amaro dei tannini.  Una birra quasi rinfrescante che sembra poi smentire sé stessa con retrogusto tiepido donato da un alcool che sino ad allora si era nascosto. 
E’ un bel percorso questa Ypres degli Struise: profondo, intenso, bilanciato: c’è inverso qualche spigolo acetico di troppo ma è un piccolo sacrificio che vale la pena fare.
Formato 33 cl., alc. 8%, IBU 20, lotto 692951132011, imbott. 09/2014, scad. 15/09/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 13 marzo 2020

Oskar Blues Barrel-Aged Jefe’s Horchata

The Darkest Day, il giorno più buio: con questo evento il birrificio americano Oskar Blues  celebrava il solstizio d’inverno 2018. La festa si tenne il 21 dicembre alle taproom degli impianti di Boulder e Longmont, in Colorado,  e per l’occasione vennero rivelate al pubblico cinque nuove imperial stout invecchiate in botti ex-bourbon. Si trattava di due birre nuove e di tre varianti di Ten Fidy, l’imperial stout della casa che già ogni anno viene messa in vendita nell’edizione Barrel Aged.
Le prime due sono la Jefe’s Horchata  (con aggiunta di vaniglia e cannella) e la Santa’s Beer Breath (menta e cacao); le varianti di Ten Fidy sono invece la Chocolate Hazelnut Praline Barrel-Aged (con aggiunta di cioccolato e nocciola, per ricordare una  ganache belga), la Hot Buttered Rum Barrel-Aged (doppio passaggio in botti ex-bourbon ed ex rum) e la Salted Caramel Barrel-Aged.
Andiamo in dettaglio sulla Jefe’s Horchata Barrel-Aged Imperial Stout (12.8%), una ricetta elaborata in collaborazione con Jefe’s Tacos & Tequila,  ristornate messicano in tacos e tequila bar di di Longmont.  L’idea è quella di replicare una delle infinite varianti di Agua Fresca, un infuso analcolico realizzato  con acqua fresca e frutta, verdura, fiori, cereali o altri ingredienti che viene anche bevuto durante i pasti per aiutare il palato a contrastare il piccante della cucina messicana. Nello specifico si tratta di una variante con vaniglia e cannella che, se prodotta con riso e latte, viene chiamata El Agua de Horchata.

La birra. 
La deriva “pastry” rende oggi davvero difficile sapere cosa aspettarsi da un’imperial stout prodotta con vaniglia e cannella: i due ingredienti possono essere usati in maniera educata ed intelligente oppure smodata per cercare di emulare una sorta di dessert o, nella peggiore delle ipotesi, una merendina. In questo caso mi fido della reputazione del produttore Oskar Blues e decido di tentare la sorte. 
Nel bicchiere è nera, la schiuma è cremosa, compatta ed ha ottima ritenzione.  Se conoscete bene Ten FIdy, l’imperial stout di casa Oskar Blues, l’aroma vi risulterà piuttosto familiare: fruit cake, cioccolato, accenni di torrefatto e di legno. In questo caso s’aggiungono profumi di vaniglia, bourbon e accenni di cannella, questi ultimi molto lievi. Un bene, per chi come me non la ama troppo. Corpo medio-pieno, consistenza oleosa, qualche bollicina di troppo: il mouthfeel è gradevole, la birra è densa ma non particolarmente morbida: a voler essere pignoli si potrebbe fare di meglio. Al palato c’è grande coerenza con l’aroma: pulizia, intensità ed equilibrio non mancano. Bourbon, vaniglia, prugna disidratata e uvetta, fruit cake iniziano un percorso dolce che viene progressivamente bilanciato dall’amaro del cioccolato, da qualche richiamo di caffè. Il passaggio in botte è particolarmente evidente nella seconda parte di una bevuta che termina molto calda e avvolgente, asciugata dalla componente etilica e dai tannini. Ottima.
Chi ama le pastry resterà un po’ deluso, chi ama la birra può dormire sonni tranquilli; nella Jefe’s Horchata di Oskar Blues vaniglia e cannella sono usate con intelligenza e parsimonia ed il risultato è assolutamente gratificante. 
Formato 56,8 cl., alc. 12.8%, lotto 12/12/2018, prezzo indicativo 13-18 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 12 marzo 2020

Nix Hallerbos

Della beerfirm Nix Beer vi avevo parlato un paio di anni fa: progetto dell’instancabile birraio Nicola Grande, in arte Nix, che dopo le esperienze con Birrificio Settimo e Birrificio Etnia è sceso in campo in prima persona mettendo il proprio soprannome e il proprio volto stilizzato sulle etichette. Nix Beer ha debuttato a maggio del 2017 con cinque etichette tutte ispirate alla tradizione belga, quella con cui Grande ha già dimostrato di sapersi destreggiare con successo: Xelles (hoppy blond ale), Dangar  (Belgian Pale Ale con luppoli australiani), Malle (tripel), Witwit (imperial witbier) e Hellerbos (quadrupel). Nel 2018 sono arrivate Streek (Spéciale Belge) , Volturno (Pils), Blazzatopp (American IPA) e il Barley Wine PhilMath; nel 2019 è toccato alla Session IPA Responsabilmente, alla Double IPA Imperial Danger e all’American IPA Baby Blues. In questi giorni ha debuttato invece la Dubbel chiamata Nixieland 
Ricordo che a Pavia (via Volturno 14) potete trovare tutte o quasi queste birre al piccolo ma accogliente locale Nix Beer: ad accompagnare le bevute una cucina semplice e informale che comprende toast, pucce e pizzette, taglieri d’affettati e altri prodotti tipici pugliesi, regione d’origine di Grande. Non manca neppure l’accompagnamento musicale dal vivo e alle spine vengono anche ospitate etichette di birrifici amici. 

La birra.
Il suo nome (Hallerbos) è quello della cosiddetta Foresta Blu  che si trova ad Halle, in un’area delle Fiandre al confine con la Vallonia, ad una mezz’ora da Bruxelles: deve la sua fama alla Hyacinthoides non-scripta, una sorta di campanula che in aprile sboccia e crea un suggestivo manto di colore blu che ricopre tutto il terreno. Il bosco offre diverse possibilità di escursioni a piedi e in bicicletta (ça va sans dire, siamo in Belgio); chi non riesce ad assistere alla fioritura può comunque ammirare faggi, querce, aceri e tigli. 
La Quadrupel di Nix si veste di un color piuttosto ambrato che a voler essere romantici ricorda il legno della foresta di Halle; ad oltre due anni dall’imbottigliamento la schiuma è ancora generosa, compatta e cremosa. Al naso emergono profumi di pera e amaretto, frutta secca a guscio, uvetta, caramello, una delicata speziatura, qualche accenno di mela. Pulito, caldo, intenso: un bel preambolo ad una bevuta dolce ricca di caramello, uvetta e prugna, spunti vinosi e liquorosi, frutta secca (nocciola), suggestioni di cioccolato che si fanno più concrete in un finale amaricante nel quale c’è anche qualche nota torrefatta. Simile alla fievole luce di una candela l’alcool (11.3%)  rimane pericolosamente sottotraccia per poi culminare in una lunga chiusura liquorosa, calda ed etilica, confortante per il corpo e per lo spirito. 
Gran bella Quadrupel quella di Nix: pulita, precisa, bel lavoro del lievito, morbida e – strano a dirsi – sin troppo facile da bere. Meglio autoimporsi la giusta lentezza necessaria per assaporarla e notare i suoi cambiamenti al variare della temperatura nel bicchiere. Questa bottiglia è tecnicamente scaduta ad ottobre 2019 ma il tempo non le ha fatto nulla di male, anzi.   Ringrazio il beershop on-line Ubeer
che mi inviò qualche anno fa la bottiglia d’assaggiare; per chi volesse provare un lotto più recente ecco un utile link all’acquisto diretto.
Formato 33 cl., alc. 11.3%, lotto 10817, scad. 28/10/2019,  5,00 Euro

NOTA: Prezzi indicativi (beershop). La descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 11 marzo 2020

DALLA CANTINA: Deschutes The Abyss 2016

Nel 2005 il fondatore di Deschutes (Oregon, USA) Gary Fish sfidava i propri birrai a creare una birra estrema e potente, quella che ancora mancava ad un birrificio che faceva già fatica a soddisfare le richieste dei clienti per le birre in produzione regolare. Da un concorso interno vari birrai ne uscirono vincitrici due Imperial Stout: una prodotta con l'aggiunta di liquirizia, l'altra con melassa nera. Dal blend di queste due birre nasceva la base per quella che diventerà poi The Abyss: oltre a melassa e liquirizia, vengono aggiunti corteccia di ciliegio e baccelli di vaniglia. La sua preparazione è abbastanza laboriosa in quanto è necessario realizzare due mash separati che vengono poi portati nello stesso bollitore; ci sono poi 360 bastoncini di liquirizia da scartare a mano, uno ad uno.  Nel 2006 alla Deschutes il marketing non era certamente una delle priorità è l'uscita del primo lotto di Abyss avvenne in sordina; il passaparola tra gli appassionati fu però velocissimo e già l'anno successivo le richieste superarono di gran lunga la disponibilità. Entrata nel circolo delle cosiddette "birre culto" americane, ogni anno viene commercializzata a novembre e spariva rapidamente dagli scaffali dei negozi. 
Il mercato è da allora profondamente cambiato e quasi nessun beergeeks metterebbe oggi Deschutes sulla sua wishlist: il risultato è che le bottiglie di Abyss vengono distribuite anche al di fuori dell’Oregon e rimangono sugli scaffali per molto più tempo del previsto. Per portare nuova linfa al prodotto The Abyss, nel 2015 Deschutes ha allora iniziato a produrne diverse varianti caratterizzate principalmente dalle uso di botti per l’invecchiamento. 
Qui trovate le mie impressioni su una bottiglia di The Abyss 2013 bevuta nel 2016. A quel tempo sia Ratebeer che Beer Advocate la elencavano tra le 50 migliori birre al mondo: trentanovesima per il primo (e ventisettesima miglior Imperial Stout), quarantaseiesima per il secondo (ventesima miglior Imperial Stout). Oggi solo il Beer Advocate (di recente acquisito da Untappd) annovera The Abyss nella Top 50 (numero 37) delle Imperial Stout.

La birra.
Nel 2016 The Abyss  fu commercializzata in tre versioni: oltre a quella standard ci furono le edizioni Scotch e Brandy, ovvero la birra base invecchiata al 100% in botti degli omonimi distillati.  La Abyss normale (11.1%) nasce invece da un blend di birra fresca (50%) e invecchiata in botti ex-bourbon (21%), ex-Pinot Nero dell’Oregon (21%) e nuove (8%); la ricetta della imperial stout base dovrebbe includere malti Pale, Black, Chocolate, Black Barley, Roasted Barley e frumento; luppoli Millennium, Nugget, Styrian e Northern Brewer; melassa nera, liquirizia, baccelli di vaniglia e corteccia di ciliegio tardivo. 
Nel bicchiere è perfetta: un nero abisso sul quale si staglia una sontuosa e minacciosa testa di schiuma, cremosa e compatta. Il naso è piuttosto pulito ed elegante e permette di cogliere tutte le diverse sfumature derivanti dai passaggi in botte: bourbon, vino, melassa, legno, accenni di vaniglia. Ma non è finita qui: fruit cake, caffè,  cioccolato, tabacco, una punta d’affumicato. E’ un percorso molto complesso ed intrigante. Al palato è morbida, dal corpo medio-pieno, ma non particolarmente viscosa: non ci sono molte “coccole” per il palato.  Melassa, fruit cake, liquirizia e bourbon iniziano un percorso dolce arricchito da note vinose, frutti di bosco. Inizialmente la controparte amara, ricca di caffè e torrefatto, sembra viaggiare in sordina ed in parallelo, ma il finale è tutto suo. L’ottimo livello di pulizia permette di cogliere con grande definizione le due anime di questa birra che non riescono però mai a fondersi completamente tra loro. La chiusura è calda, ricca di bourbon e da un intenso torrefatto che viene ammorbidito da qualche tocco di vaniglia e da una piacevole nota fumé.  
La ritrovo come l’avevo lasciata nel 2016: rileggendo i miei appunti di bevuta sull’Abyss 2013 trovo una corrispondenza pressoché perfetta, nonostante il miei gusti e il mio palato sia inevitabilmente cambiati in tutti questi anni. La ritrovo e la bevo con grande soddisfazione: è una birra che non suscita più l’interesse dei beergeeks e che sono riuscito a trovare in un negozio negli Stati Uniti dieci mesi dopo la sua uscita commerciale. Speriamo che qualche bottiglia arrivi un giorno anche in Europa, sarebbe bello poterla bere con frequenza quasi annuale.
Formato 65 cl., alc. 11.1%, IBU 86, lotto 11/2016, pagata 17,00 dollari

NOTA: Prezzi indicativi (beershop). La descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 10 marzo 2020

American Solera Old Dishoom 2016

Il nome Chase Healey non dovrebbe suonare nuovo a qualsiasi appassionato: fu lui a fondare nel 2012 a Tulsa, Oklahoma, la beerfirm Prairie Artisan Ales per poi cederla nel 2016 allo stesso birrificio (Krebs) sui cui impianti produceva le birre. Il successo del marchio Prairie richiedeva investimenti e un impegno che Healey sentiva di non poter più sopportare: “volevo continuare a far birra, non gestire un numero sempre più grande di persone; volevo produrre birre acide e fermentazioni miste, birre invecchiate in legno ed era impossible farlo quando hai vincoli contrattuali e scadenze da rispettare, come Prairie. Inoltre nessuno voleva mettere in pericolo (contaminazione, ndr.) tutte quelle botti usate di bourbon che avevamo”.  Qualcuno forse ricorderà che Healey aveva già provato a lanciare uno spin-off di Prairie nel 2014, quel progetto chiamato Brouwerij Okie che non riuscì però a decollare dopo aver prodotto un paio di lotti imbottigliando ed etichettando a mano. 
Nell’estate del 2016 si aprono così le porte di American Solera in un piccolo fabbricato nella periferia ad ovest (1803 S. 49th West Avenue) di Tulsa nel quale sono stati stipati sedici fouders di legno: “non c’è quasi spazio per muoversi.  Con questo nome volevo creare un marchio che celebrasse quello che cerco di ottenere. L’aggettivo American è forse un po’ forte, ma se penso ai birrai che ho incontrato in Scandinavia, Belgio e Germania…  sono tutti fieri del loro paese. Volevo quindi dire a tutti che noi siamo orgogliosi di essere in un paese dove si producono attualmente alcune delle migliori birre al mondo”. Solera fa ovviamente riferimento al metodo usato per produrre vini fortificati e distillati: “utilizzo un blend di birra fresca e birra invecchiata per le mie birre. Riempio di continuo le botti più vecchie. Il punto era di fare qualcosa di diverso da quello che facevo con Prairie, altrimenti non avrebbe alcun senso. Sostituite le parole ‘sherry’ e ‘vino’ con ‘birra’ ed otterrete American Solera". 
La nuova avventura di Healey inizia in un vecchio stabile che inizialmente non ha neppure l’autorizzazione per aprire la taproom: i beergeeks apprezzano e nel 2017 Ratebeer elegge American Solera come il nuovo miglior birrificio americano del 2016 e come secondo nuovo miglior birrificio al mondo. Per aumentare la produzione Healey prende in affitto uno dopo l’altro altri tre edifici adiacenti e se ne fa costruire un quarto:  “devo solo capire come gestire la produzione. Con foeders e botti le possibilità di blend sono infinite: nei prossimi quattro mesi potrei far uscire una ventina di birre diverse, ma sarebbe troppo”. Arrivano le prime birre acide, le fermentazioni spontanee, le wild ales invecchiate in botti di vino con aggiunta di frutta. 
Nell’estate del 2017 cambiano le leggi dell’Oklahoma e ai birrifici viene concesso di somministrare direttamente al pubblico, nei propri locali, anche birre con gradazione alcolica superiore al 4%: per l’occasione Healey inaugura un secondo piccolo locale a Tulsa chiamato SOBO (abbreviazione del quartiere South Boston).  Dopo 12 mesi arriva l’annuncio dell’acquisto un vecchio edificio costruito un secolo fa nel quartiere di Kendall Whittier, 1300 metri quadri da ristrutturare e trasformare nella nuova casa di American Solera: i lavori sono andati un po’ oltre le previsioni e l’inaugurazione è avvenuta a settembre 2019.  A pochi passi di distanza ci sono i birrifici Marshall's, Cabin Boys e OK Distilling: appena un po’ più in là gli edifici di Nothing's Left e Heirloom Rustic Ales vanno a completare quello che è già stato rinominato il nuovo Tulsa Brewing District.

La birra.
Non ho trovato praticamente nessuna informazione su questa Old Dishoom (8.5%), una delle prime birre (2016) uscite dagli impianti di American Solera: sappiamo solo che si tratta di una Old Ale invecchiata in botti di Sherry con aggiunta di un mix di diverse colture di brettanomiceti. 
Il suo vestito  è di color ambrato piuttosto carico, simile alla tonaca di frate: la schiuma è abbastanza compatta ed ha una discreta persistenza.  I profumi di sherry sono in bella evidenza la naso, accompagnati da note legnose e di vaniglia, ribes, marasca e lampone, qualche accenno acetico. La bevuta risulta altrettanto variegata ma è forse meno compiuta: un’altalena che oscilla continuamente tra il dolce del caramello, dello sherry, dell’uvetta e della prugna disidratata e l’asprezza dei frutti rossi. Le due componenti non sono però del tutto integrate tra loro e l’impressione è di spostarsi continuamente da un estremo all’altro. Qualche accenno acetico di troppo mette ulteriormente in discussione la rotondità di una birra aspra e quasi rinfrescante che chiude poi il suo percorso con un finale caldo ed etilico, caratterizzato da una bella nota di tannini. 
Dishoom pare essere una parola di origine indiana che risale agli anni ’70: la Bollywood cinematografica utilizzava questo termine per il rumore di una pallottola sparata in aria o di un colpo ben assestato (l’equivalente di “POW!”, “BAM!”). Non ci sono clamori in questa bottiglia ma il risultato è comunque godibile anche se non facilissimo da inquadrare. 
Formato 37,5 cl., alc. 8.5%, lotto 2016, 12,00 Euro

NOTA: Prezzi indicativi (beershop). La descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 4 marzo 2020

Cierzo Tronada

Cierzo Brewing ha debuttato nell’agosto del 2018 ma non è esattamente un nome nuovo nella scena della birra artigianale iberica. Siamo a Caspe, piccolo comune spagnolo nella comunità autonoma di Aragona che si trova un centinaio di chilometri a sud di Saragozza: qui nel 2011 il birraio Sergio Ruiz aveva aperto assieme all’amico David Laguarda le porte del microbirrificio Populus dopo essersi cimentato tra le mura domestiche per quasi quindici anni. Il cambio di nome in Cierzo è dovuto all’arrivo di alcuni soci che hanno portato le risorse finanziarie necessarie per far partire un business plan molto più ambizioso: l’ampliamento degli impianti di Caspe e la contemporanea apertura di un brewpub, con impianto e ristorante annesso, nel centro di Saragozza. 
Al progetto Cierzo partecipano i proprietari della Hoppy Craft Beer House (birreria con quindici spine e buona offerta culinaria a Saragozza) e del beershop online a lei collegato chiamato Cerveceo; i proprietari di Gourpass, importatore per la Spagna di birra artigianale canadese ed europea, i proprietari di Lupulus, un altro distributore della penisola Iberica. 
Il nome scelto, Cierzo, è quello del vento tipico della valle dell’Ebro: simile al Mistral, soffia  principalmente in autunno e inverno e si caratterizza per l’assenza di umidità.  Come logo è stata scelta quella freccia che in meteorologia viene usata per indicare forza e direzione del vento: il logo su ogni etichetta viene orientato per  rappresentare il contenuto alcolico (forza) e al livello di amaro (direzione) della birra. E’ stato ideato dalla collaboratrice e grafica Eva Felipe Coloma, autrice anche di tutte le etichette ed appassionata di birra: confessa di amare le etichette semplici e minimaliste usate da Cloudwater e Wylam. In diciotto mesi d’attività Cierzo ha già sfornato una quarantina di birre, la metà della quali appartenenti alla famiglia IPA (Session, Double, New England). Il popolo di Ratebeer, portale che da tempo s’è incamminato sul viale del tramonto, lo ha di recente eletto come miglio nuovo birrificio spagnolo del 2019. Il più frequentato Untappd lo inserisce tra i migliori dieci birrifici spagnoli.

La birra.
Alla meteorologia si ispira anche il nome dell’american IPA Tronada (7.4%), un temporale che promette riversare su di voi una violenta pioggia di Citra, Simcoe, Mosaic e Ahtanum; la ricetta si completa con malto Extra Pale, frumento e fiocchi d’avena.  Nel bicchiere si presenta di color oro carico, velato, con una testa di schiuma biancastra abbastanza compatta e persistente. Per una IPA inlattinata ad inizio gennaio l’aroma è davvero poca cosa: intensità bassa, qualche accenno resinoso e di agrumi. Un inizio sottotono che si riscatta solo parzialmente in bocca: la bevuta è tutt’altro che esplosiva ma per lo meno qualcosa c’è: miele e frutta tropicale danno il via ad un percorso dolce che vira progressivamente verso un amaro resinoso di discreta intensità (90 IBU ?) e durata. La chiusura non è molto secca e sul palato rimane sempre un lieve patina dolce reminiscente di frutta tropicale: è qui che l’alcool fa sentire un po’ la sua presenza. IPA che svolge il suo compitino senza sussulti evidenziando un’eccessiva timidezza: c’è un buon livello di pulizia ma per farsi notare in un mercato sempre più affollato bisogna fare di più.
Formato 44 cl., alc. 7.4%, IBU 90, lotto 08/01/2020, scad. 08/06/2020, prezzo indicativo 6.00-7.00 euro (beershop)

NOTA: Prezzi indicativi (beershop). La descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 3 marzo 2020

Hoppin' Frog / Lervig Bourbon Barrel Aged Sippin' Into Darkness


Nel 2016 il birrificio dell’Ohio Hoppin' Frog, per il quale non ho mai nascosto il mio amore quasi incondizionato, ha festeggiato il suo decimo compleanno con un breve tour europeo che lo ha portato a collaborare con alcuni birrifici del nostro continente: i danesi della Dry &  Bitter per una Baltic Porter, la beerfirm To Øl (SS Stout),  gli inglesi di Siren (la piccante 5 Alarm) e i norvegesi di Lervig con la massiccia Sippin Into Darkness Imperial Stout. Ve ne avevo parlato in questa occasione
Si tratta di una birra ispirata al Chocolate Martini, un cocktail inventato da Rock Hudson ed Elizabeth Taylor quando si trovavano a Marfa (Texas) per le riprese del film “Il Gigante”. Correva l’anno 1955 e i due attori, che vivevano in villette adiacenti, diventarono amici e si ritrovavano spesso la sera a far tardi con un bicchiere in mano. “Eravamo così giovani – ricordava Hudson – potevamo mangiare e bere tutto quello che volevamo e non sentivamo mai il bisogno di dormire. Una sera inventammo il miglior drink che mi sia mai capitato di bere, un Martini al cioccolato fatto con vodka, sciroppo di cioccolato Hershey's e Kahlúa (un liquore messicano al gusto di caffè). Non so come siamo riusciti a sopravvivere.”  Anche se tecnicamente non era un Martini, la bevanda inventata quella sera divenne molto popolare a Hollywood ispirando poi la nascita di una serie di miscelati al cioccolato: moltissime le varianti che vengono oggi chiamate Chocolate Martini, quasi tutte basate su vodka e un liquore al cioccolato ai quali vengono poi aggiunti ingredienti a fantasia, come ad esempio vaniglia, menta, lamponi, panna.  
I birrai Mike Meyers (Lervig) e Fred Karm (Frog) si trovarono a Stavanger, Norvegia, per realizzare Sippin' into Darkness, una imperial stout con aggiunta di lattosio, fave di cacao e vaniglia: la birra (12%) prodotta sugli impianti di Lervig è arrivata nei negozi europei a luglio 2016, mentre la sorella americana (10%) prodotta in Ohio fu presentata a metà ottobre. Entrambe le versioni sono poi finite ad invecchiare in botti di bourbon ed il risultato è stato imbottigliato l’anno successivo; questa volta entrambe le birre hanno la stessa gradazione alcolica (12%). Visto che avevo in cantina una bottiglia di entrambe ho pensato di fare un confronto assaggiandole contemporaneamente per vedere similitudini e differenze: il risultato è stato abbastanza netto.

Le birre.
Non sono riuscito ad assaggiare la Sippin' into Darkness “base” prodotta da Hoppin Frog, ma quella di Lervig si spingeva pericolosamente in un territorio a me poco gradito, quello “pastry”, essendo dominata da vaniglia e cioccolato al latte. La sua versione barricata prosegue ovviamente in questa direzione. Il suo vestito è quasi nero e la schiuma si dissolve immediatamente: al naso dominano vaniglia e cioccolato al latte, oscurando praticamente ogni altro elemento. I profumi sono intensi ma poco eleganti: immaginate di scartare una merendina. Il corpo è pieno, le bollicine sono poche ma riescono comunque e dare fastidioso pizzico. La bevuta è fortunatamente un po’ più variegata: l’asse vaniglia-cioccolatte è parzialmente interrotto dalla frutta sotto spirito e nel finale arriva un po’ di bourbon ad “asciugare” una birra che a me risulta quasi stucchevole.  Non c’è tuttavia una gran profondità, la pulizia non è impeccabile  e l’effetto merendina è sempre dietro l’angolo. A qualcuno magari piacerà molto, ma una sorta di infuso alla vaniglia non è la birra che fa per me.


In Ohio sembrano pensarla come il sottoscritto e la versione Barrel Aged realizzata da Hoppin’ Frog è di tutt’altra pasta. Basta guardare come la birra si presenta nel bicchiere: nera, sormontata da una bella testa di schiuma cremosa e dalla buona persistenza. In evidenza al naso troviamo bourbon e i cosiddetti dark fruits (prugna, uva passa di Corinto, frutti di bosco): in secondo piano emergono cioccolato, tabacco, vaniglia, fico caramellato. L’intensità non è molto elevata ma questa “mancanza” è compensata da un bel livello di finezza ed eleganza. Splendido il mouthfeel: pieno, denso ed oleoso, la carbonazione è media ma non disturba affatto. In bocca Sippin' Into Darkness di Hoppin’ Frog è inizialmente ricca di melassa, dark fruits, liquirizia e cioccolato ma il bourbon prende progressivamente il comando delle operazioni portando l’equilibrio necessario in un’imperial stout nella quale torrefatto e caffè sono praticamente assenti. Nel retrogusto affiorano piacevoli ricordi di vaniglia e cioccolato.   Un’interpretazione completamente differente rispetto a quella di Lervig: qui è la componente birra a dominare lasciando il resto in secondo piano. Nel bicchiere c’è tutto il DNA delle imperial stout di Hoppin’ Frog: una birra potente e dura, ben marcata dal passaggio in botte. Il livello è piuttosto alto e la “gara” è vinta in partenza, per quel che mi riguarda.  
Decidete voi cosa preferite bere: se amate il genere pastry la versione di Lervig fa per voi, se invece avete voglia di bere una birra virate su quella prodotta negli Stati Uniti.
Nel dettaglio:
Lervig Sippin' Into Darkness Barrel Aged,  33 cl., alc. 12%, lotto 10/01/2018, scad. 10/01/2028,  9-10 Euro
Hoppin' Frog Sippin' into Darkness Bourbon Barrel-Aged, 65 cl., alc. 12%, lotto e scadenza non riportati, 19-20 euro

NOTA: Prezzi indicativi (beershop). La descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 2 marzo 2020

Basqueland Brewing Project: Palmtree Piñata IPA, All That Glitters NEIPA, Mucho Caliente Double NEIPA


Il primo ad arrivare a San Sebastián è stato  Kevin Patricio, un americano classe 1975 di origine filippina nato nel Maryland e trasferitosi nei Paesi Baschi per motivi sentimentali. Sfruttando la sua esperienza come cuoco a New York Kevin apre nel 2011 le porte del La Madame, un ristorante con ottima selezione di cocktail:  San Sebastián è una piccola capitale gastronomica  che vanta il maggior numero di stelle Michelin pro capite al mondo, i Paesi Baschi e la Rioja Alavesa sfoggiano una tradizione vinicola importantissima. Ma al ristoratore americano manca ancora qualcosa, un pezzo di casa: quella birra artigianale che negli Stati Uniti ha provocato una rivoluzione. Kevin ne discute assieme al proprio fornitore di vino Benjamin Rozzi, un altro americano (Ohio) che lavora nei Paesi Basch: i due abbozzano senza crederci troppo una piccola carta delle birre da proporre ai clienti del ristorante utilizzando le poche artigianali disponibili nella zona. In poche settimane nove clienti su dieci alla Madame ordinano birra artigianale anziché industriale. Patricio e Rozzi vedono un grosso potenziale e provano a portare un pezzo di craft beer americana anche nei Paesi Baschi: nessuno di loro ha però esperienza nlla produzione e quindi decidono di affidarsi ad un amico  di Rozzi, il birraio Benjamin Matz che sembra perfetto: californiano (San Diego), biondo, classe 1979, amante del surf e con esperienze presso Pizza Port e Stone Brewing prima di trasferirsi in Messico alla Wendlandt. Ricorda Matz: “a Ben feci solo due domande: c’è l’Oceano? Ci sono le onde? Sì? Allora forse vengo”. 
I tre americani fondano Basqueland Brewing Project che debutta come beerfirm nel febbraio del 2014. “Siamo partiti con delle birre facili da bere e dal basso contenuto alcolico in modo da non sconvolgere il palato di coloro che si avvicinavano alla birra artigianale” (una Blanche -Belgian Blonde Ale, la Aupa All United Pale Ale e la Arraun Amber Ale) ma “abbiamo subito scoperto che stavamo sottostimando i nostri clienti. Ad una festa di matrimonio portammo sette cartoni di una delle nostre birre sperimentali, pensando che sarebbe stata ignorata dalla gente impegnata a bere vino e bollicine. Ma le donne, alcune di loro dell’età di 75 anni, si contendevano le bottiglie di birra. In quel fine settimana conoscemmo anche due dei nostri principali finanziatori per l’acquisto dei nostri impianti”. 
Basqueland  opera infatti come beerfirm per poco più di un anno e a settembre 2015 diventa birrificio a tutti gli effetti con l’inaugurazione dell’impianto a Hernani, dieci chilometri a sud di San Sebastián e un milione di dollari d’investimento. Il 2016 si chiude con 160.000 litri di birra prodotti. Il contabirre di Untappd segna oggi quota 113: a dominare sono IPA, Session IPA, NEIPA e Double IPA, oggi distribuite in tutta Europa rigorosamente in lattina.

La birra.
Passiamo in rassegna tre luppolate di Basqueland. Partiamo da  Palmtree Piñata (6%), classica West Coast IPA, stile che oggi si è dovuto inchinare alla moda del New England: purtroppo, aggiungo io. Per l’occasione sono stati usati Amarillo, Mosaic e Cryo Columbus, anche in dry-hopping. Colore perfettamente californiano, tra il dorato e l’arancio, schiuma biancastra compatta e persistente. L’aroma è poco intenso, poco variegato e si dovrebbe pretendere di più: domina il carattere dank, in sottofondo s’avverte qualche traccia di pompelmo. Per fortuna la bevuta fa qualche passo in avanti: pane, miele, leggeri richiami dolci di frutta tropicale e un bell’amaro finale dank-resinoso che ci porta finalmente sulla West Coast. Intensità e pulizia sono ad un buon livello, la personalità un po’ latita e ci vorrebbe un po’ più di enfasi per quel che riguarda l’accoppiata tropicale-pompelmo, pur senza avventurarsi in territorio New England. Benino, ma ci sono ampi margini di miglioramento.

Spostiamoci sull’altra costa, quella che va oggi di moda, per stappare una lattina di All That Glitters (6%), NEIPA che vede come protagonisti Mosaic, Citra e Vic Secret. Nel bicchiere ricorda un bel succo di frutta ACE, la schiuma è abbastanza compatta e anche la ritenzione è tutto sommato soddisfacente. Il naso è molto intenso, sfacciato: un’esplosione dolce di mango, papaia, ananas, pesca percoca, arancia zuccherata. C’è anche una controparte aspra di passion fruit, pompelmo, lime e limone. L’aroma è la massima espressione di questa DDH NEIPA il cui carattere fruttato al palato non riesce a mantenere lo stesso livello di potenza e di espressività. Non ci si piò comunque lamentare: mango e ananas non mancano, gli agrumi bilanciano il dolce e nel finale c’è anche una breve incursione amara resinosa. NEIPA ben fatta e molto godibile, con pochissimi spigoli e con l’alcool nascosto benissimo.

Chiudiamo con i fuochi della Mucho Caliente, Double NEIPA (8%) e collaborazione con un nome alla moda della scena craft newyorkese: Finback. Per l’occasione sono stati usati Citra, Azacca e Vic Secret. E’ un succo di frutta alla pesca sul quale si forma una testa di schiuma biancastra. Mango, ananas, pesca, albicocca e papaia formano un naso dolce ed intenso che viene disturbato da qualche leggerissimo accenno di cipolla. La sensazione palatale è ottima: corpo medio, la sensazione “chewy” è molto morbida, setosa, quasi impalpabile. Anche in questa birra il gusto non eguaglia l’aroma ma si mantiene comunque a livelli elevati: manca un po' di definizione e la bevuta si risolve in una sensazione  tropicale dolce molto godibile alla quale si contrappone un breve passaggio amaricante resinoso finale di buona intensità che a voler essere pignoli gratta un pochino in gola. Niente di grave. L’alcool si fa sentire solo in questa fase e lascia un delicato tepore, timida avvisaglia di una gradazione alcolica molto ben mascherata. Una Double NEIPA molto ben fatta, intensa e facile da bere, che gestisce con buona maestria i passaggi delicati dello stile. Promossa in pieno. 
I lettori del blog di lunga durata forse ricorderanno che in questi anni non ho mai nutrito un grande amore per la birra artigianale proveniente dalla penisola iberica. Niente di personale, si tratta(va) solo di un movimento che stava muovendo i primi passi e che era ancora un po’ acerbo; non vedevo la necessità di andare a cercare birre che mi riportavano al livello della scena italiana di un decennio fa. Vedo che in Spagna stanno facendo grossi progressi, anche se a dirla tutto bisogna notare come molti dei birrifici che stanno avendo successo sono guidati da birrai americani. 
Nel dettaglio:
Palmtree Piñata, 44 cl., alc. 6%, IBU 62, lotto 194605, scad. 12/2020, 7.00 euro (beershop)
All That Glitters, 44 cl., alc. 6%, IBU 30, lotto 194802, scad. 12/2020, 7.00 euro (beershop)
Mucho Caliente, 44 cl., alc. 8%, IBU 25, lotto 195006, scad. 12/2020, 8.00 euro (beershop)
Prezzi indicativi.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.