sabato 31 gennaio 2015

Birranova Negramara Extra

Ritorna dopo un po' di tempo il birrificio pugliese Birranova guidato da Donato Di Palma, tra l'altro fresco del quarto posto ottenuto al "concorso" di Birraio dell’Anno 2014. E' stata di nuovo l'ultima edizione del Salone del Gusto di Torino a darmi la possibilità di riassaggiare qualche produzione di Birranova, birrificio che altrimenti trovo molto di rado sugli scaffali dei rivenditori nella mia zona.
Birraio in una regione ricca di vini, come tante altre in Italia, Di Palma ha scelto per una birra un nome che ricorda il più diffuso vitigno a bacca nera pugliese: non si tratta però di una birra prodotta con il mosto dell'uva, che in casa Birranova è stata chiamata Moscata.
Negramara Extra è invece un'american strong ale generosamente luppolata che ha, tra i diversi riconoscimenti, ottenuto il primo posto nella categoria 10 (Alta fermentazione, alto grado alcolico, d’ispirazione angloamericana) e 11 (Strong Ale d’ispirazione angloamericana) alle ultime due edizioni (2013 e 2014) di Birra dell'Anno.
La fotografia non rende purtroppo molta giustizia al colore: in realtà la Negramara Extra è di color ambrato carico, velato, con intensi riflessi rossastri: la schiuma è molto persistente, cremosa fine e compatta, inappuntabile. Il bouquet aromatico include caramello e biscotto, ciliegia, frutta secca e un timido ricordo di frutta tropicale (mango, passion fruit).
Il gusto prosegue inizialmente in linea retta riproponendo un ingresso dolce di caramello, biscotto e  polpa d'arancio, per poi deviare su un amara abbastanza intenso e pungente, quasi balsamico, di resina, frutta secca e terroso. In bocca viene comunque sempre mantenuto un buon livello di equilibrio, con una sensazione palatale davvero molto morbida, quasi cremosa, che limita un po' la scorrevolezza; il corpo è medio. Si tratta comunque di una birra dal contenuto alcolico rispettabile (8%) che non è quindi nata per essere bevuta serialmente.
Più pulita al naso che in bocca, dove ci sono ancora margini di miglioramento, è comunque un'american strong ale ben fatta ed intensa e mai sopra le righe, sia per quel che riguarda il livello di amaro che per la percezione dell'alcool, il cui apporto è quello di regalare un discreto tepore che ben interagisce con le note speziate del luppolo. 
Formato: 33 cl., IBU 40, alc. 8%, lotto L1488, scad. 01/04/2016, pagata 4.00 Euro (birrificio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 30 gennaio 2015

Wild Hops - Kill Me in The Morning Pt. III

Fedele al proverbio “non c'è due senza tre” ecco la terza edizione di Kill Me in The Morning, birra prodotta dal Birrificio Oldo di Cadelbosco (Reggio Emilia) in collaborazione con il beershop Wild Hops di Reggio Emilia. Sei le mani che ci lavorano, come per le precedenti due edizioni: oltre a Francesco Racaniello (birraio di Oldo), ci sono l’homebrewer Raffaele Ferrarini e Giovanni Iotti, proprietario del Wild Hops. Viene presentata lo scorso 8 dicembre  come “l’ultimo capitolo della saga”, e quindi ne deduco che almeno per il momento non sono previste nuove cotte. Stesso lievito (T58), gradazione alcolica (5.5%) a metà strada tra i primi due episodi (5.3 e 5.8%); i malti sono gli stessi della Kill Me I (Pils e Maris Otter) mentre il parterre dei luppoli, oltre a quelli utilizzati per le precedenti edizioni (Perle, EK Goldings,  Apollo e Chinook) vede l’aggiunta del nobile Saaz.   
Nel bicchiere è di color arancio, opalescente, con un discreto cappello di schiuma avorio, a trama fine e cremosa, dalla buona persistenza. L’aroma non è particolarmente intenso ma è abbastanza pulito con predominanza di agrumi ed un contorno fatto di sentori erbacei , di spezie, cereali e biscotto. In bocca assoluto protagonista è il luppolo: leggerissima la base maltata (pane e lieve biscotto), qualche note di polpa d’arancia e poi il palato è catturato da un lungo ed intenso amaro vegetale, lievemente speziato, con qualche sfumatura di scorza d’agrumi. 
Discretamente carbonata, ha una consistenza “tattile” al palato un  po’ pesante che risulta alla fine un po’ in contrasto con il suo voler essere leggera e facile da bere; abbastanza pulita, chiude con una bella secchezza lasciando un lungo ed intenso retrogusto amaro, quasi balsamico, che accompagna per diversi minuti il bevitore.  In questa Belgian Ale dal carattere belga surclassato dalla generosa luppolatura non c’è molto equilibrio e la bevuta si sposta rapidamente sul bordo della spremuta di luppolo, un po’ fuori controllo. Mentre la prima Kill Me In The Morning risultava una Belgian Ale moderna e piacevolmente “hoppy” (echi di De La Senne?), questo episodio conclusivo soddisferà forse i malati (cronici) di luppolo ma lascia un po’ troppo amaro in bocca - è il caso di dirlo -  a chi cerca invece una birra facile da bere in grosse quantità.  Il ritmo di bevuta risulta infatti molto più lento di quello che il contenuto alcolico (5.5%) potrebbe  far sperare ed il palato necessita di qualche pausa defaticante - da luppolo - in più del dovuto per terminare il bicchiere. Ringrazio il beershop Wild Hops Rubiera per avermi dato la bottiglia da assaggiare. 
Formato: 75 cl., alc. 5.5%, lotto AD054, scad. 15/10/2015.  

giovedì 29 gennaio 2015

Weihenstephaner Korbinian

Non si hanno molte notizie su Corbiniano di Frisinga, se non quelle riportate dal suo successore vescovo Arbeone  di Frisinga (Friesing) nel libro Vita Corbiniani scritto nel 760. Secondo queste quando riportato, a volte con molta fantasia, Corbiniano nacque  in Francia a Chátres (oggi Arpajon); fin dalla più giovane età avvertì l'inclinazione alla vita monacale e, alla morte della madre, si ritirò in un eremitaggio che lui stesso fece costruire a fianco della chiesa di San Germano nella sua città natale. Ben presto una ventina di compagni lo seguirono in questo stile di vita, mentre la sua fama di santità si arrivava alle regioni vicine.  
La sua devozione a San Pietro lo spinse ad intraprendere un pellegrinaggio a Roma dove papa Gregorio II, colpito dalla sua spiritualità, lo consacrò vescovo e gli affidò la missione di evangelizzare i territori della Baviera. Nel 716 Corbiniano giunse in Baviera assieme a dodici compagni e nel 725 fondò la chiesa di Santo Stefano su di una collina (Nahrberg) nei pressi di Frisinga (Friesing, quaranta chilometri a nord di Monaco).  La chiesa fu prima trasformata in un monastero di agostiniani (anno 821 ) e  poi in un’abbazia benedettina (1021). 
Secondo i documenti storici rinvenuti, la produzione di birra iniziò probabilmente nel 768, e nel 1040 un birrificio fu effettivamente autorizzato dalla città di Frisinga. E’ questa la data che consente oggi alle birre prodotte a Wehienstephan di vantare in etichetta il titolo del “birrificio più antico al mondo”. Nel corso dei secoli l’abbazia fu più volte devastata da incendi ed invasioni barbariche, fino ad essere sciolta ufficialmente nel 1803 nel corso del processo di laicizzazione della Baviera voluto da Napoleone Bonaparte: i terreni, gli immobili ed il birrificio annesso divennero così proprietà dello stato bavarese. Dal 1923 il birrificio è stato rinominato Bayerische Staatsbrauerei Weihenstephan (Birrificio di Stato Weihenstephan) ed è gestito in collaborazione con l'Università Tecnica di Monaco.   
Ma torniamo a San Corbiniano, al quale è dedicata Korbinian la doppelbock prodotta da Weihenstephan; il suo culto è stato negli ultimi anni rinnovato da Benedetto XVI,  lui stesso successore di Corbiniano in quanto arcivescovo della diocesi di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982.  Il Papa, inoltre, reca raffigurato nella cappa del proprio stemma l'orso di San Corbiniano, che troviamo anche nell’etichetta di questa birra. L’immagine si riferisce al pellegrinaggio verso Roma descritto in precedenza: Corbiniano partì con due cavalli, per poterli cavalcare a turno, ma durante una notte di riposo sulle montagne del Tirolo fu svegliato improvvisamente dal nitrire dei suoi cavalli che erano stati assaliti da un orso. Il Santo balzò in piedi e comandò all’orso di lasciare il collo della sua bestia, ma era troppo tardi: uno dei due cavalli era già morto. Corbiniano legò allora il cadavere dell’animale a mo’ di fagotto, lo caricò sul dorso dell’orso assieme ai propri bagagli, e ordinò a quest’ultimo di seguirlo sino a Roma, dove poi lo lasciò libero.   
E la birra?  La Weihenstephaner Korbinian si veste di un bel color marrone scuro, riflessi ambrati e un croccante cappello di schiuma beige chiaro, cremosa e molto persistente. Al naso, pulito, ci sono pane nero, ciliegia sciroppata e qualche leggero sentore di orzo tostato e frutti di bosco. Tutto procede regolare anche in bocca, con caramello, pane nero e liquirizia, orzo tostato ed un finale un po’ appiccicoso e lievemente imburrato. Impressiona il modo in cui l’alcool (7.4%) è nascosto, facendo sentire un po’ la mancanza di un lieve tepore etilico che, in una doppelbock, io personalmente vorrei trovare. Tutto ciò va chiaramente a vantaggio di una grandissima scorrevolezza e facilità di bevuta, aiutata dalla bassa carbonatazione; il gusto risulta un po’ meno pulito dall’aroma, senza per questo rendere meno gradevole la bevuta di una birra molto ben bilanciata da un finale elegante, leggermente amaro di frutta secca e lieve cioccolato. Morbida al palato, senza nessun off-flavor, scorrevolissima  e verrebbe quasi da dire “di una precisione tedesca”:  un bel bere che però alla fine risulta un quasi esercizio di stile, un po’ freddino da non  riscaldare a sufficienza le fredde serate invernali. 
Formato: 50 cl., alc. 7.4%, scad. 14/01/2016, pagata 3.00 Euro.

mercoledì 28 gennaio 2015

Baladin Xyauyù Etichetta Oro 2008 (vs. Donnafugata Ben Ryé 2008)

Eccellenza della produzione Baladin, la Xyauyù è, per riassumere in poche parole, una straordinaria creazione, a tutt’oggi il capolavoro, di Teo Musso. E’ una birra unica, la cui idea generatrice ed il conseguente processo produttivo sono – attendo smentite – unici al mondo;  non starò a fare il poco interessante elenco delle medaglie che la Xyauyù  (assieme alle compagne della linea “Cantina Baladin”,  Terre e Lune) ha raccolto nel corso degli anni o della sua posizione nei siti di beer rating.  
Meglio parlare della sua genesi, in parte già descritta al tempo della bevuta della Lurisia 12 e già splendidamente raccontata da Alberto Laschi in questo articolo.  Gli esperimenti partono nel 1997 quando Teo, figlio di un viticoltore e appassionato di vini passiti e maderizzati o ossidati, inizia a pensare a come poter creare un vero legame tra birra e vino. Cinquecento litri di Super Baladin finiscono in un fusto d’acciaio coperto in cortile, e nel 1999 viene imbottigliato il risultato: il calore del sole aveva fatto evaporare la maggior parte dell’alcool, e il risultato è una birra dal bassissimo tenore etilico (2.6%) ma dal grande profilo aromatico. L’esperimento viene ripetuto nel 2000, quando nel fusto ci va una birra più alcolica (11.5%) che era in precedenza stata per tre mesi in botti usate di vino: nasce la XU 2000. Nel 2003 si replica con la Xiao Mei, 11 gradi alcolici e un risultato che non soddisfa molto Teo Musso:  “berla era un po’ come succhiare una caramella di malto caramello”, dirà poi. 
La strada è però ormai tracciata, e nel 2004 nasce la prima  Xyauyù,  così battezzata dalla figlia di Teo (cinque anni, a quel tempo) con lo stesso nome  che la bambina ha dato alla sua  figlia immaginaria. Sono tre le produzioni che avvengono ogni anno, ognuna seguita da sei mesi di fermentazione primaria e maturazione a freddo e quindi da diciotto mesi di ossidazione; inizialmente la Xyauyù viene commercializzata in tre etichette (oro, rame, argento)  a seconda del livello di ossidazione. 
Nasce così la “birra da divano” secondo Baladin, che prende forma proprio attraverso l’utilizzo di uno dei più grandi nemici dalla birra, la (macro) ossidazione; il risultato è una birra a tutti gli effetti che ha però poco in comune con la birra che la maggior parte delle persone è abituata a bere, risultando più simile a vini passiti e liquorosi, Porto, Madeira, Sherry/Xerez.  
Questa in sintesi la nascita della Xyauyù, con possibile errori ed omissioni: chiaramente non pensiate che basti mettere della birra all’ombra in cortile dentro ad un tino di acciaio non sigillato per replicarla. Nel corso degli anni la Xyauyù (che ora viene commercializzata solamente con l'etichetta “oro”) è apparsa anche in interessanti variazioni: Barrel (maturata in botti di rovere ex-rum), Kentucky  (infusione a freddo di tabacco Kentucky in barrique di rovere) e Fumè, con dodici mesi di matruazione in botti da whisky scozzese delle Islay, da non confondere con la Baladin X-Fumé (un sorta di prototipo) che invece fu ottenuta mediante l’infusione di tè affumicato Lapsang Souchong. 
Il suo colore assomiglia al tonaca di frate, impreziosito da belle sfumature rossastre: non è ovviamente presente la schiuma, sostituita da quelli che si chiamano “archetti (o lacrime) del vino”. Lasciati stemperare i fumi dell’alcool che danno il benvenuto al naso, l’aroma è davvero straordinario: molto dolce e zuccherino, con l’ossidazione che ha portato delle elegantissime note di uvetta, prugna e dattero, ciliegia sciroppata, canditi. In sottofondo delle sfumature di cuoio e di legno (sebbene la Xyauyù in questione non faccia botte); nel complesso è un aroma vinoso, che effettivamente ricorda un porto, un vino liquoroso. Completamente piatta, è morbida ed elegante al palato, oleosa ma scorrevole e, soprattutto, nasconde molto bene il suo importante contenuto alcolico (14%). Passano in rassegna uvetta, dattero, prugna e albicocca disidratata;  ci sono note di ciliegia, di miele e di zucchero caramellato (quasi un’impressione di creme brûlé) mentre è interessante seguire il percorso dell’alcool. Quasi impercettibile all’ingresso, ha una crescita morbida e graduale che irrobustisce la bevuta e cerca di asciugarne un po’ (assieme ad una lievissima acidità) il dolce, per poi diventare protagonista del lunghissimo retrogusto, dolce e liquoroso, ricco di frutta sotto spirito e con una suggestione di cioccolato. Il risultato è quello di una straordinaria birra (sì, è birra) da sorseggiare con grande calma dopocena, o abbinare ad un dessert.  
La sua laboriosa, geniale e complessa creazione ha dato come risultato una birra che risulta invece facilmente fruibile, i cui profumi e  sapori ricordano in buona parte quelli di un Porto, di un Madeira, di un passito.  Viene quindi del tutto naturale, per chi beve, paragonare la Xyauyù a un vino, giusto o sbagliato che sia: del resto, creare un legame concreto tra la birra ed il vino era l’obiettivo dichiarato di Teo Musso.  
Il suo processo produttivo, basato sull’ossidazione, la renderebbe forse più adatta con un confronto  con vini ossidati come Madeira, Porto e Sherry.  Non avendoli a disposizione, ho optato per un confronto “sbagliato”, almeno in teoria: Passito di Pantelleria. Il vino passito viene prodotto come tutti gli altri vini, con la unica differenza che le uve devono essere sottoposte ad un periodo di appassimento (direttamente sulla vite o dopo la raccolta), prima della vinificazione. Non si parla quindi di ossidazione, che rimane una caratteristica assolutamente non gradita in un vino passito. 
Doveroso disclaimer: non mi intendo di vino e confesso la mia grande ignoranza in materia, indi di vino non dovrei proprio parlare. Riesco giusto a distinguere un vino buono/cattivo che mi viene servito nel bicchiere;  la presenza di un vino su questo blog è solamente per un simpatico confronto con una birra ispirata proprio dal mondo del vino. Mi si dirà che non esiste il passito, ma esistono “i passiti”:  ho semplicemente approfittato della presenza in cantina di una bottiglia di Ben Ryé (che mi dicono essere un più che dignitoso Passito di Pantelleria) della  stessa annata della Xyauyù: 2008.  Prodotto da Donnafugata, azienda siciliana di proprietà della famiglia Rallo, che a partire dal 1989 è sbarcata anche sull'isola di origine vulcanica di Pantelleria. Il nome Ben Ryé, significa in arabo "figlio del vento" ed è un omaggio al vento che soffia costantemente tra i vigneti di Pantelleria.
Prodotto con uve Zibibbo (100%), fermenta in vasche di acciaio a temperatura controllata; al mosto in fermentazione si aggiunge - a più riprese - l’uva passa sgrappolata a mano. L'affinamento avviene in vasca per 4-5 mesi e successivamente per almeno 6 mesi in bottiglia.
Limpido nel bicchiere, ambrato con sfumature di rame, apre sorprendendomi con intensi profumi di erbe aromatiche (origano? rosmarino?) che poi svaniscono lasciando il posto agli agrumi canditi (mandarino, arancia), al miele d’arancio, allo zucchero caramellato; in sottofondo mi sembra di avvertire anche una leggerissima presenza di vaniglia.
Morbido e rotondo in bocca, oleoso, ha un gusto spiccatamente dolce che continua il percorso aromatico: miele d'arancio, fichi e datteri disidratati, agrumi canditi, zucchero. C'è però un'acidità molto più marcata che nella Xyauyù a bilanciare il dolce, assieme ad una sorprendente freschezza data da note di frutta quasi fresca (pesca e albicocca). Devo annotare anche delle gradevoli note minerali, con una lievissima salinità; l'alcool è davvero molto ben nascosto, ancora di più che nella birra: la gradazione alcolica in percentuale è praticamente identica. Chiude lasciano un retrogusto dolce e caldo di miele d'arancia, canditi e frutta secca.
Il confronto è sbagliato, quindi?  Sì, lo è, perché la Xyauyù non è un'imitazione di un vino liquoroso; sebbene ne riproponga alcune delle caratteristiche, rimane tuttavia una (birra) creazione unica. Ho bevuto il Ben Ryé dopo la birra ed è stata evidente la sua maggior freschezza e scorrevolezza, esente da ossidazioni. Ho bevuto ancora un po' di Xyauyù dopo il vino, avvertendone quasi il peso degli anni e delle ossidazioni, che la rendono meno snella ma più potente, dal punto di vista etilico.
In conclusione, è inevitabile affrontare l'argomento prezzo. La Xyauyù è una birra che richiede tempo e quindi molto costosa,  e  si trova attualmente a 60.00 Euro/litro. Non è senz’altro una birra da bere tutti i giorni (anche essendo già ossidata potete consumarla nell'arco di più giorni) e allo stesso prezzo, o quasi, vi potreste probabilmente concedere un buon Porto, Madeira o Passito.
Ne vale allora la pena ?  Assolutamente sì, almeno ogni tanto, almeno una volta nella vita. Per assaggiare, con enorme soddisfazione, una straordinaria creazione di un birraio italiano, a volte (giustamente) criticato per le sue birre "regolari" non sempre al top della forma, ma capace di inventare, partendo dal nulla, una birra unica in Italia, unica al mondo.
Insomma, se volete fare un bel regalo (Natale, compleanno) a qualcuno che ama la birra e avete voglia di spendere più del solito, una bottiglia di Xyauyù è probabilmente una delle cose migliori a cui potete pensare.
Baladin Xyauyù Etichetta Oro 2008
Formato: 50 cl., alc. 14%,  scad. "fino alla fine del mondo", pagata 24.90 Euro (foodstore, Italia)
Donnafugata Ben Ryé 2008
Formato 37.5 cl., alc. 14.5%, pagata 26.00 Euro (enoteca, Italia)

martedì 27 gennaio 2015

Bevog Deetz Kölsch

Anche l’Austria  - come quasi tutti i paesi europei – sta vedendo la nascita di alcuni microbirrifici che cercano di proporre qualcosa di alternativo alla tradizione ed ai prodotti industriali; che poi quel “qualcosa” coincida quasi sempre con la produzione di birre ispirate dagli Stati Uniti, IPA e APA, è un altro discorso. I primi microbirrifici austriaci che ho avuto modo di assaggiare (Gusswerk e BierZauberei) non sono in verità stati particolarmente interessanti. 
Ma nel caso del birrificio odierno, la Brauhaus Bevog, l’Austria è stato solo un fine per raggiungere lo scopo. Bevog è infatti Vasja Golar, volenteroso ex-homebrewer residente a Gornja Radgona, cittadina slovena separata dall’Austria solamente dalle rive del fiume Mura sul quale si affaccia. Vasja vuole aprirci un birrificio/brewpub, ma la burocrazia slovena non fa altro che mettergli davanti ostacoli e rallentare l’esecuzione del progetto. Per caso qualche italiano ci si ritrova in questa situazione ? 
Stanco di aspettare, attraversa il fiume e nel giro di poche settimane ottiene dall’Austria tutte le autorizzazioni necessarie per aprire a Bad Radkersburg, in Stiria, a tre chilometri da casa. Le operazioni partono ad inizio 2013 in un bell’edificio nella zona commerciale del Gewerbepark, dove potete anche mangiare; a  gennaio 2014 Ratebeer nomina già Bevog come terzo miglior nuovo birrificio al mondo, dietro a Arizona Wilderness e Siren,  quest’ultima arrivata anche in Italia. Al tempo stesso la Bevog Ond Smoked Porter  viene proclamata la miglior birra austriaca prodotta nel 2013. 
Ignorando la tradizione tedesca, l’impianto da 15 hl di Bevog non produce Marzen, Lager o Pils ma  e IPA e derivati (DIPA, BIPA), Oatmeal Stout, Brown Ale, perfezionando le ricette che Vasja aveva un tempo elaborato come homebrewer. A giugno dello scorso anno Bevog ha raddoppiato, con l’apertura di un Ristopub  (Pivohram Golar) sulla sponda slovena del fiume a Gornja Radgona dove – coerentemente con la filosofia produttiva del birrificio – non potrete mangiare la classica Schniztel (cotoletta) ma qualcosa di più moderno. 
Vasja dichiara che i nomi scelti per la birre (Baja, Deetz, Kramah, Ond, Tak..) non significano assolutamente nulla e sono solamente quelli che aveva dato alle produzioni casalinghe; le etichette propongono invece delle strane creature a metà strada tra il mitologico ed il fantastico ispirate agli scritti del nonno, un poeta/scrittore abbastanza conosciuto a Gornja Radgona.   
Importate anche in Italia, tra le produzioni Bevog, la Deetz è forse l’unica birra che mantiene ancora un legame con la tradizione tedesca. Si tratta infatti di una Kölsch generosamente luppolata anche se, visto che siamo a ben più di cinquanta chilometri da Colonia, il nome Kölsch non potrebbe essere utilizzato. 
Quasi limpida e dorata, forma una discreta testa di schiuma bianca, fine e cremosa, dalla buona persistenza. Mi si scuserà il mancato utilizzo del classico bicchiere a cilindretto nel quale andrebbero servite le Kölsch, ma la sua forma non è esattamente l’ideale per esaltare l’aroma di una birra. Il naso è gradevole, elegante e molto pulito, anche se non particolarmente intenso: sentori di fiori gialli, miele, lieve presenza di mandarino e arancio, ancora più lievi richiami erbacei. All’insegna della delicatezza e della finezza è anche la prima parte della bevuta, con pane e crackers, un tocco di miele e di agrumi; il “problema” di questa birra è annunciato nel suo nome, in quell’ “hoppy Kölsch” che in questo caso sta a significare un piede che pesta con decisione sul pedale dell’amaro, con un finale abbastanza sgraziato con note erbacee, pepate e leggermente zesty. Fino a quel punto, in bocca c’era un bell’equilibrio tra tutte le varie componenti che davano forma ad una birra leggera e scorrevole, mediamente carbonata; le cose ovviamente peggiorano man mano che la birra si scalda. 
Finale a parte, la Deetz di Bevog è comunque una birra godibile e ben fatta, dissetante e rinfrescante:  se la trovate bevetela fresca (parlo della temperatura) per limitarne un po’ la deriva amara. Compito abbastanza facile, visto che è una birra che non ci mette molto a sparire dal bicchiere. 
Formato: 33 cl., alc. 4.8%, IBU 27, scad. 03/06/2015, pagata 2.30 Euro (beershop, Germania).  

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 26 gennaio 2015

Fantôme Hiver

Fantôme Printemps, Fantôme d'Eté, Fantôme Automne e Fantôme Hiver sono le quattro birre che l’estroso birraio Dany Prignon, Brasserie Fantôme, dedica alle stagioni dell’anno. Queste “Saison d'Erezée”, in onore dell’omonimo paese nei pressi di Soy, dove ha sede il birrificio, vengono realizzate di volta in volta secondo la fantasia di Dany o, dicono i maligni, semplicemente con quello che trova nei campi vicino a casa. Chi beve con regolarità Fantôme sa benissimo che questa è una caratteristica tipica non solo di queste birre  "stagionali" ma quasi di ogni altro prodotto Fantôme: di nuovo i maligni dicono che Prignon imbottigli qualsiasi cosa produca senza far troppa attenzione alle etichette che ha a disposizione. 
Potreste così trovare nella bottiglia una birra che è in verità un’altra; fino a poco tempo fa il birrificio non indicava in etichetta neppure il lotto di produzione, mentre nelle ultime Fantome che ho acquistato è per lo meno presente questa indicazione, utilissima nel caso vi sia capitata una bottiglia in particolare “stato di grazia” e desiderate riacquistarla.  Per tornare alle birre dedicate alle stagioni, si noti che la gradazione alcolica (8%) è identica per tutte e quattro, sia che ci sia la necessità di riscaldare o rinfrescare chi beve, e che la gradazione è la stessa della Fantôme Saison, nonché della Chocolat (non pensate ad una birra scura, però) e alla Brise-BonBons!. Volete malignare e insinuare che si tratti sostanzialmente delle stessa birra, alla quale Dany aggiunge ogni volta qualche ingrediente segreto buttandolo nel “pentolone”?   
La Fantôme Hiver si presenta di color arancio opaco, con una bella testa di schiuma biancastra, compatta e quasi pannosa, molto persistente. Al naso c’è una netta presenza di acido lattico, formaggio e sudore, nonché qualche nota ancora meno gradevole che farebbe venir quasi in mente lo stallatico; dopo qualche minuto la birra si apre, sorprendendoti, ed affiorano come per incanto sentori di fiori bianchi, legno umido, arancio, persino di pasticceria! Un po’ meno spiazzante il gusto, dove attorno alla sempre presente acidità lattica gira un piccolo mondo fatto di biscotto,  uva bianca, mela verde, polpa d’arancio, un accenno di miele; l’alcool è molto ben nascosto, e tutto sommato si crea un buon equilibrio tra tutte le diverse componenti.  Chiude leggermente amara, con un mix di yogurt, erbe officinali e nocciolo di pesca. Gradevole in bocca, mediamente carbonata e corpo medio, questa bottiglia di Hiver appare un po’ confusa e ci sarebbe da stupirsi del contrario, quando si parla di Fantome; ma quella che sembrerebbe un birra con parecchi difetti risulta alla fine una buona e soddisfacente bevuta, anche se questa volta  non avviene quel piccolo miracolo - di emozioni – che a volte Dany Prignon riesce a mettere in una bottiglia. 
Formato: 75 cl., alc. 8%, lotto BJ13, scad. 12/2016, pagata 7.60 Euro  
 
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio. E visto che parliamo di Fanrtome, prendete questo "disclaimer" MOLTO sul serio.

domenica 25 gennaio 2015

Buxton Saison

Chi segue regolarmente il blog e ha letto il post riassuntivo sulle migliori birre bevute nel 2014 avrà senz'altro notato il nome di Buxton, birrificio dell'omonima cittadina del Derbyshire fondato nel 2009 da Geoff e Debbie Quinn  e da me incontrato per le prima volta nel 2011. L'anno scorso Buxton è arrivato in Italia con buona regolarità e con bottiglie valorizzate da una grande freschezza; ma il merito della crescita di Buxton è senz'altro da attribuire anche al birraio Colin Stronge che nel corso del 2013 ha rimpiazzato James Kemp. Dopo aver passato nove anni alla Marble di Manchester e due alla Black Isle in Scozia, Colin è arrivato al birrificio che, a suo dire, produce una della sue birre preferite, la Axe Edge IPA. Studente di architettura a Liverpool, si manteneva lavorando in un brewpub; il birraio del locale si licenziò improvvisamente ed il proprietario chiese a lui, che lavorava da più tempo di tutti nel pub ma che non aveva assolutamente nessuna esperienza, se fosse interessato ad imparare a fare il birraio.
Colin accettò soprattutto perché aveva bisogno del denaro e, sebbene affascinato dal nuovo mestiere, dopo qualche anno decise di trasferirsi a Manchester per studiare giornalismo e sociologia. Alla ricerca di una lavoro part-time, trovò un impiego come barista al pub Marble Arch del birrificio Marble; non passò molto tempo che gli fu chiesto di sostituire in sala cottura a turno i vari birrai nel periodo delle loro ferie. E, segno del destino, il giorno stesso in cui terminò l'università ricevette una telefonata dalla Marble; uno dei loro birrai aveva appena dato le dimissioni e gli fu chiesto di sostituirlo permanentemente.
Negli ultimi anni la gamma di Buxton si è notevolmente ampliata, andando oltre i classici stili anglosassoni e arricchendosi di collaborazioni con altri birrifici, affinamenti in botte di produzioni in stile belga, inclusa qualche birra acida. 
Ecco quindi la saison secondo Buxton, ovvero una New World Saison con utilizzo di luppoli extraeuropei non specificati: Stati Uniti? Oceania? 
L'aspetto è classico, un bel arancio velato con qualche riflesso dorato e la generosa schiuma che si forma è molto persistente, bianchissima, quasi pannosa. L'aroma è davvero molto invitante: accanto ad una ben assortita macedonia di frutta fresca (ananas, melone retato, pompelmo, lime) c'è una delicata rusticità che richiama la campagna (fiori bianchi, paglia, erba tagliata), una lieve speziatura (sopratutto pepe) ed una leggera asprezza che suggerisce la mela acerba, l'uva bianca. In bocca è quasi perfetta, vivacemente carbonata,  con un corpo medio ed il giusto livello di acquosità per renderla scorrevolissima. Il gusto offre una leggera variazione dell'aroma, ospitando la crosta di pane, qualche nota di biscotto e sopratutto agrumi: passano in rassegna pompelmo, cedro e limone, mentre è la polpa dell'arancia a portare un po' di dolcezza. La generosa luppolatura le dona un finale decisamente amaro, un po' ruspante e ruvido, con note erbacee, di scorza d'agrumi ed un po' pepato: alcool molto ben nascosto, molto attenuata, la Saison di Buxton disseta il palato per poi riassetarlo. Pulitissima, molto ben bilanciata tra acidità e dolcezza, va un po' oltre gli standard dello stile per quel che riguarda l'amaro: a birra fresca la situazione è ancora sotto controllo, ma quando la temperatura si alza i luppoli catturano la scena tendendo ad eclissare gli altri elementi. Ma la vera sfida è quella di riuscire a far scaldare gli insufficienti trentatré centilitri, visto la velocità con la quale quest'altra ottima birra di Buxton scompare dal bicchiere.
Formato: 33 cl., alc. 6.3%, lotto 22/07/2014, scad. 22/04/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 24 gennaio 2015

Croce di Malto Piedi Neri

Ritorna a distanza di un paio d'anni il birrificio novarese Croce di Malto, che peraltro gode di una buon distribuzione a livello nazionale ma che mi capita di bere abbastanza raramente. Rimediamo subito con una delle ultime creazioni, in ordine temporale, del birraio Alessio Selvaggio. 
Si tratta della Piedi Neri, una imperial stout che ha debuttato a dicembre 2013 a Birre Sotto l'Albero a Roma. La Guida alle Birra d'Italia 2015 la definisce una "grande birra" che, al Mondial de la Biere Gourmand 2013 di Montreal, ha ottenuto il secondo posto. 
Ma la birra ha anche un forte legame con il territorio circostante, visto che la ricetta include riso venere e castagne del novarese, oltre all'avena. 
Vestita completamente di nero, ha un bel cappello di schiuma nocciola, generosa e cremosa, compatta, molto persistente. L'aroma, pulito e discretamente intenso, offre profumi di pane nero, orzo tostato, caffè macinato, liquirizia e marron glacé, con qualche lieve sentore di cuoio. In bocca si presenta oleosa, con poche bollicine ed un corpo tra il medio ed il pieno; la sua morbidezza al palato cerca di bilanciare il gusto, che invece si rivela fin da subito amaro e un po' ruvido. 
Abbondano liquirizia, caffè ed orzo tostato, con l'alcool che non si nasconde e va ad irrobustire subito la bevuta, dettando il ritmo che corrisponde ad un lento sorseggiare. Il gusto batte sempre sugli stessi tasti, e a tratti si sente un po' la mancanza di una controparte dolce (presente nell'aroma) all'amaro del caffè e delle tostature. L'acidità finale del caffè alleggerisce un po' il carico di una birra comunque intensa e pulita, che termina con un lungo retrogusto amaro nel quale, oltre al caffè ed alle tostature ci sono note terrose e di liquirizia. Man mano che la birra si scalda l'alcool diviene sempre più protagonista, con il risultato di una birra che a tratti mostra un tenore etilico più alto di quello dichiarato in etichetta, tenendo occupato il bevitore, con buona soddisfazione, per quasi tutta la serata.
Formato: 33 cl., alc. 8.75, IBU 99, lotto 12112212314, scad. 09/2015, pagata 4.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 23 gennaio 2015

Giesinger Untergiesinger Erhellung

Del microbirrificio di Monaco di Baviera Giesinger Bräu vi avevo già parlato in questa occasione. Fondato nel 2006 da Steffen Marx e Tobias Weber nel garage di un condominio del quartiere di Giesing, il birrificio ha di recente traslocato grazie al denaro raccolto tramite crowdfunding in una più decorosa location dotata dell’irrinunciabile Biergarten nello stesso quartiere. 
Anche se può sembrare essere difficile capire che ci sia in una bottiglia semplicemente chiamata  Untergiesinger Erhellung , basta leggera le scritta  “Naturtruebes Kellerbier” per avere le idee più chiare e prepararsi all’acquisto di una Kellerbier non filtrata. La ricetta indica malti Pilsner, Vienna e CaraHell ed una delicata luppolatura a base di Hallertauer Tradition, Hallertauer Mittelfrüh e Saphir. 
Sul blog spesso ospito birre dagli ingredienti inusuali, birre viscose e muscolose dall’alta gradazione alcolica, birre passate in botte dal costo piuttosto elevato. Ma non bisogna dimenticare che c’è anche la birra semplice, che dovrebbe costare poco, quella da bere senza farsi quasi nessuna domanda, la silenziosa compagna di chiacchierate o di serate passate in compagnia di amici:  e (spesso) sono proprio queste le birre più difficili da fare. 
Si presenta del classico color oro, in questo caso velato, con una perfetta e bianchissima testa di schiuma, compatta, cremosa, molto persistente.  Il naso apre con un leggero sulfureo che fortunatamente scompare dopo pochi minuti assieme alla schiuma: emergono allora profumi di fiori bianchi e di fiori secchi, cereali e crosta di pane, con una lievissima ed appena percepibile speziatura. 
Nonostante il birrificio sul suo sito la descriva come una classica Helles di Monaco, è sufficiente un sorso per accorgersi dell’enorme differenza con una delle Helles prodotte dalle sei sorelle Augustiner, Hacker Pschorr, Hofbräu, Lowenbräu, Paulaner e Spaten-Franziskaner. Poco miele, niente burro, dolcezza molto contenuta e soprattutto una fragranza che non troverete mai in quelle grandi produzioni industriali. E’ una birra che ti (ri)concilia con gli elementi che la compongono: l’acqua, il malto, il luppolo. Pulitissima e fragrante come una pagnotta appena sfornata, delizia il palato con un bel mix di cereali (a tratti quasi di muesli), di crosta e di mollica di pane, un lievissimo accenno di miele, ed un bel finale corto e lievemente amaro (erbaceo) a bilanciare il tutto. Il corpo è leggero, la scorrevolezza – non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo – è clamorosa e le bollicine sono poche. Lascia un piacevole retrogusto di pane e di cereali, a ricordarti quanta piacevolezza e quanto gusto ci può essere nella semplicità e nella fragranza.
Il birrificio produce poche birre, in piccola quantità e a scadenza brevissima (3-4 mesi, con grande onestà) che, mi dicono, vanno esaurite abbastanza in fretta. Se capitate a Monaco di Baviera, fatevi un favore: lasciate perdere le trappole per turisti, lasciate stare i soliti nomi e fate un salto nel quartiere di Giesing, per bere una birra meritevole di essere chiamata con questo nome e capace di smentire tutti gli stereotipi (vedi questo recente caso) sulla birra tedesca, noiosa e poco emozionante. 
Formato: 50 cl., alc. 5.3%, scad. 03/2015, pagata 1,48 Euro (beershop, Germania).

giovedì 22 gennaio 2015

A Magara Magarìa

Con un po’ di ritardo rispetto al resto della penisola, anche le regioni del sud Italia hanno finalmente visto crescere il numero di birrifici  (e beerfirm), nonché di locali con una buona offerta della cosiddetta “birra artigianale”;  la limitata e difficile reperibilità al centro-nord costituiscono ancora il principale ostacolo alla loro diffusione, ed è spesso solo grazie a qualche evento speciale che chi abita lontano riesce ad assaggiarle. Grazie all’ultimo Salone del Gusto di Torino sono riuscito ad acquistare una bottiglia del giovanissimo birrificio calabrese 'A Magara. Nato ad inizio 2014, ed inaugurato ufficialmente a marzo, ha sede a Nocera Terinese (CZ) e dietro le quinte vede l’operato dei fratelli Marco e Federico Ferrini con le rispettive compagne (Asun Yanutolo e, Nicoletta Ziosi), già proprietari dell’Azienda Agricola Fangiano e dell’agriturismo Calabrialcubo, affiancati dal birraio Eraldo Corti, titolare anche del beershop con cucina Nabbirra di  Cosenza ed ex-homebrewer già passato nel mondo dei professionisti con la sua birra Riuli, prodotta se non erro presso gli impianti del birrificio Aeffe. 
Le magare sono figure della tradizione popolare calabrese che si potrebbero a grandi linee far coincidere con le streghe o le fattucchiere: coerentemente con il nome scelto, è viene utilizzato il dominio  AlchimiaCalabra.it come sito internet del birrificio: le magare sono anche le stilizzate protagoniste delle etichette.  Al momento credo siano quattro le birre in produzione, tutte ad alta fermentazione:  una (sweet?) saison chiamata Trupija, una Pale Ale chiamata Jumara, la Hefeweizen Trilla e le robust porter Magarìa che, nelle recente  Guida alle Birre Slow Food 2015 è già stata insignita del riconoscimento di "Grande birra".   
Eccola dunque nel bicchiere, di colore marrone scurissimo; la schiuma, abbastanza generosa, è compatta e fine, abbastanza cremosa ed ha una discreta persistenza. Robust Porter dice l’etichetta, ma in realtà si potrebbe tranquillamente aggiungere l’aggettivo “smoked”, visto che è l’affumicato a dare il benvenuto a chi avvicina il naso al bicchiere. Il profumo è “grasso”, per intenderci quello di pancetta o carne affumicata, accompagnato da sentori più lievi di nocciola, di cenere, caramello e pane tostato; c’è anche una discreta luppolatura che fa capolino, regalando delle sfumature di pompelmo.  Abbastanza bene la pulizia, discreta l’intensità, preludio ad un gusto che prosegue nella stessa direzione dell’aroma offrendo tostature, affumicato, caramello e pompelmo, con qualche leggera nota di caffè (e la sua acidità) a snellire la bevuta che procede molto facile e scorrevole. Il corpo è tra il medio e leggero, le bollicine sono poche, la chiusura è abbastanza amara di caffè e di tostature, con una lieve presenza di cenere ed una delicata luppolatura (pompelmo, terra) a chiudere il cerchio. Birrificio molto giovane ma che realizza una porter gradevole e facile da bere senza sacrificarne l’intensità: gli aromi ed i sapori sono quelli giusti, si può ancora migliorare per quel che riguarda l’eleganza e la pulizia, ma la partenza è avvenuta con il piede giusto. 
Formato: 75 cl., alc. 5.5%, lotto 11/14, scad. 31/12/2015, pagata 7.00 Euro (birrificio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 21 gennaio 2015

HOMEBREWED! Il Piccolo Birrificio di Via Romacolo - Stars 'n Stripes APA

Primo appuntamento del nuovo anno con la rubrica HOMEBREWED!, dedicata alle produzioni casalinghe, dopo la pausa delle festività che ha visto come protagoniste soprattutto le birre natalizie. Il 2015 viene inaugurato dal secondo appuntamento con   "Il Piccolo Birrificio di Via Romacolo", ovvero l’homebrewer Andrea Panzetti, dalla provincia di Bergamo, del quale vi avevo presentato lo scorso novembre la Belgian IPA  “Saint Houblon”.   
Questa volta è invece il turno di un’American Pale Ale chiamata Belgian IPA chiamata Stars 'n Stripes, una All-Grain prodotta con metodo Biab: vengono utilizzati malti Maris Otter e Carared, luppoli Chinook, Cascade e Citra, con un dry-hopping di questi ultimi due. 
Due parole sull'etichetta, davvero molto ben fatta per essere stata realizzata in casa al computer; indiscutibilmente migliore di molte etichette professionali che si vedono sule bottiglie di molti birrifici italiani (e non).
Il colore è oro carico, velato, con un bel cappello di schiuma bianca fine e compatta, cremosa e dall’ottima persistenza. L’aroma mostra ancora una discreta freschezza, ma l’intensità ad essere un po’ sottotono: troviamo pompelmo e arancio, aghi di pino, ed in secondo piano qualche sentori di caramello e di marmellata d’agrumi. Nel gusto c’è inizialmente un buon equilibrio tra malti (biscotto, caramello e qualche nota “nutty”, per dirla all’inglese), pompelmo ed una leggera presenza di marmellata d’agrumi;, mentre il finale è invece decisamente amaro, tra l’erbaceo e la scorza di pompelmo. 
Poche bollicine, corpo medio: è una APA abbastanza morbida ma al palato la sento un po’ troppo ingombrante, a livello di “sensazione tattile”, e secondo me andrebbe alleggerita. L’intensità è molto buona, non ci sono passaggi a vuoto, ma un altro aspetto fondamentale sul quale cui secondo me c’è da lavorare è quello della pulizia e  della finezza/eleganza:  soprattutto l’amaro finale, che oltre ad essere probabilmente un po’ troppo in evidenza per i parametri di una APA, risulta un po’ sgraziato e “pesante”. 
La (semiseria) valutazione su scala BJCP è di 28/50 (aroma 6/12, aspetto 3/3, gusto 10/20, mouthfeel 3/5, impressione generale 6/10). 
Ringrazio Andrea per avermi spedito e fatto assaggiare la sua produzione, e vi do appuntamento alla prossima "puntata" di Homebrewed! E ricordate che la rubrica è aperta  a tutti i volenterosi homebrewers!  
Formato:  33 cl., alc. 5.4%, IBU 37, imbottigliata 04/10/2014.

martedì 20 gennaio 2015

St. Austell Big Job

Ritorna dopo qualche anno di assenza  St. Austell, birrificio che si trova in Cornovaglia ed è dal 1863 ancora di proprietà dei discendenti del fondatore Walter Hicks.  Nonostante la sua birra più venduta continui ad essere una bitter chiamata Tribute, negli ultimi anni il birrificio ha saputo aprirsi alle tendenze dettate dal cosiddetto movimento craft.  
La presenza di una India Pale Ale (o di una American Pale Ale, a seconda di dove si voglia incasellarla) non è di certo una novità: nasce nel 2005 la Proper Job, presentata al Celtic Beer Festival organizzato dal birrificio e così chiamata in onore del Trentaduesimo Reggimento della Cornovaglia, premiato dalla Regina Vittoria per aver eseguito un “lavoro ad arte” (“Proper Job”) durante i moti indiani del 1857. La Proper Job è stata poi rinominata Cornish IPA per la distribuzione presso i negozi di Marks & Spencer, ed ha visto nascere una sorella “scura” (la Proper Black IPA) e una sorella “maggiore”, chiamata Big Job.   
La compongono malti Maris Otter, Lager e frumento maltato, luppolatura affidata a Nugget, Centennial, Citra e Cascade, mentre la Proper Job utilizza Cascade, Chinook,  Willmette ed il solo Maris Otter; il contenuto alcolico del debutto (8.5%) è stato attualmente ridotto a 7.2%. 
Riempie il bicchiere di un colore tra il dorato e l’arancio, velato, con un cappello di schiuma fine e cremosa ma non molto persistente. Ancora fresco, elegante ed abbastanza variegato l’aroma: accanto a profumi di fiori bianchi (gelsomino?) ci sono quelli del cedro, del pompelmo e del mandarino, della pesca bianca e del melone bianco. 
Una birra che sembra annunciare il suo elevato potere dissetante sin dal naso:  la freschezza si ritrova anche in bocca, in una sorta di cocktail  di frutta dove dominano gli agrumi, soprattutto quelli a buccia gialla, bilanciati da qualche sfumatura di polpa d’arancio. Il gusto è quasi sciropposo, ma la sua freschezza lo mantiene ancora pungente e lontano da qualsiasi rischio di ”effetto marmellata”. Sorregge l’abbondante luppolatura una base maltata di pane e lieve biscotto mentre l’alcool, davvero ben nascosto, consente un ritmo di bevuta elevato: ottima anche la sensazione palatale: poche bollicine, corpo medio, consistenza acquosa quanto basta per (s)correre senza dare l’impressione  di fuggire via. La chiusura è molto secca, con un amaro spiccatamente zesty, pulito e moderatamente intenso; ben lontana da estremismi amari (resinosi) o etilici, Big Job è una Double IPA agrumatissima che viaggia un po’ sul bordo della spremuta d’agrumi, ma che risulta una bevuta molto appagante e rinfrescante, particolarmente adatta ai mesi più caldi dell’anno. Siamo ancora in pieno inverno, ma prendetela in considerazione se volete già abbozzare una lista degli acquisti per la prossima estate.    
Formato: 50 cl., alc. 7.2%, lotto 14195 21:14, scad. 14/07/2015, pagata 3.07 Euro (food store, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 19 gennaio 2015

Buskers Devochka Barrique

Devochka è la birra che il  progetto itinerante Buskers di Mirko Caretta (Bir&Fud) e Marco Chiossi (beershop Ebrius) ha realizzato in collaborazione con il  birrificio Extraomnes; ve l’avevo già descritta in questa occasione.  Un omaggio al film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick nel quale, secondo il personale linguaggio dei drughi kubrickiani, "devochka" significa "ragazza".  
Una robusta (8.8%) Belgian Strong Ale generosamente luppolata (l'E.K. Goldings per l'amaro e Centennial in dry-hopping) che ha trovato anche la strada  dell’invecchiamento in botte; non sono però riuscito a capire, dalle informazioni disponibili in rete, la tipologia del legno utilizzato. 
Nessun cambiamento nell’etichetta, rimane la splendida opera di Felideus, storico collaboratore di Buskers, che trasfigura il simbolo di Extraomnes (il Cirneco)  in un’immaginaria creature natante (o volante, vista la luna in sottofondo) a due teste e tentacoli; viene solamente apposto il bollio “barrique” sul collo della bottiglia.   
Classico l’aspetto, di colore arancio carico opaco, con alcuni riflessi dorati; impeccabile la schiuma, biancastra, fine e cremosa, molto persistente.  Il naso è ovviamente “belga”, zuccherino, con miele, canditi (soprattutto cedro e arancio), marmellata d’agrumi e qualche sfumatura di pesca; in sottofondo c’è una leggerissima presenza di legno e – mi sembra – un tocco di vaniglia. 
Ma è forse il gusto l’aspetto che ha maggiormente subito dei cambiamenti rispetto alla Devochka originale; ritroviamo anche qui biscotto ed agrumi canditi, qualche nota di pesca sciroppata ed albicocca disidratata, mentre la generosa luppolatura si è ovviamente ammorbidita con il trascorrere del tempo. Il risultato è secondo me una birra molto più bilanciata, mansueta e raffinata rispetto ad una Devochka fresca; l’amaro non è il protagonista del finale, ma va solamente ad equilibrare la bevuta con note di scorza d’agrumi e di terriccio umido. Anche l’alcool è molto ben nascosto, facendosi avvertire solamente alla fine con un discreto calore e contribuendo ad asciugare il dolce della birra. Il passaggio in botte non è assolutamente invadente, ma impreziosisce solamente la birra con delle leggere sfumature di legno e di vaniglia. Il risultato finale è una birra davvero molto pulita, facile da bere e gradevole in bocca, discretamente carbonata ma ugualmente morbida, dal corpo medio; davvero molto bilanciata, potrebbe secondo me soddisfare sia chi non ama le strong ale belghe  “perché troppo dolci” che chi non sopporta invece le interpretazioni troppo luppolate/amare dello stile.   
Formato: 33 cl., alc. 8.8%, lotto 154 13, scad. 30/06/2015, pagata 4.90 Euro (food store, Italia).


NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 18 gennaio 2015

Green Flash Grand Cru

Nuovo appuntamento con il birrificio californiano Green Flash, ma questa volta non si tratta della solita IPA/IIPA. Fondato nel 2002 da Mike Hinkley Lisa Hinkley, già proprietari di un pub ma - caso quasi raro nella scena craft statunitense - senza nessuna esperienza di homebrewing alle spalle; la fortuna di Green Flash è senz'altro dovuta all'abilità del birraio Chuck Silva, arruolato nel 2004 e ancora alla guida dello stabilimento di Vista, una settantina di chilometri a nord di San Diego. Il nome (Green Flash, o Raggio Verde) si riferisce a quel raro fenomeno ottico che si può a volte notare, spesso sul mare, quando il sole sta tramontando.
Nel 2013 Green Flash ha annunciato investimenti per 20 milioni di dollari nell'apertura di un nuovo birrificio in Virginia, sulla costa ad est, pur non rinunciando ad aumentare la capacità produttiva di quello californiano, oggetto di un ampliamento che ha comportato (forse solo temporaneamente) una rivoluzione nella gamma delle birre prodotte, suscitando qualche malcontento tra i birrofili americani. Sono apparse nuove birre "luppolocentriche", meno impegnative da produrre, e sono invece scomparse alcune birre che si rifacevano alla tradizione belga, come ad esempio la Saison Diego o l'ottima Rayon Vert. Tra le birre dismesse c'è anche la Grand Cru, una Belgian Strong Dark Ale stagionale che debuttò a novembre 2008 alla sesta festa di compleanno del birrificio, diventando poi un appuntamento classico stagionale, disponibile ogni anno a partire da dicembre.
Si autodefinisce in etichetta una Mysterious Dark Ale, e si presenta nel bicchiere di un bel color ambrato molto carico, con riflessi rubino e marrone, cui la foto non rende decisamente giustizia. La schiuma beige chiaro è molto compatta, cremosa ed ha un'ottima persistenza. Al naso arrivano subito profumi di prugna, uvetta e datteri, ciliegia sciroppata, con in sottofondo qualche nota di vino liquoroso, forse di porto. Bene intensità e pulizia. Il birrificio della contea di San Diego è famoso per le sue generose luppolature, ed anche questa Belgian Strong Ale non ne è evidentemente stata esentata. La prima parte della bevuta è classicamente belga riproponendo, sebbene con minore pulizia rispetto all'aroma, caramello, uvetta, prugna e datteri. La seconda parte è invece amara, leggermente resinosa e piuttosto spiazzante per chi credeva di avere nel bicchiere un pezzetto di Belgio. La bottiglia si è fatta due anni di cantina ma la luppolatura è ancora protagonista del finale, c'è solo da immaginare come fosse questa birra appena imbottigliata. L'unione tra Belgio e luppoli americani, in questo caso, non la trovo particolarmente azzeccata: l'amaro resinoso fa un po' a cazzotti con il dolce del dattero e dell'uvetta e con le lievi note di vino liquoroso che ogni tanto fanno capolino. La leggera ossidazione si porta però dietro anche qualche sfumatura meno gradevole di cartone bagnato. L'alcool (9.1%) è davvero molto ben nascosto, riscaldando tiepidamente solamente il retrogusto di una birra comunque solida ed intensa, dal corpo medio e discretamente carbonata.
Bevuta irrisolta, almeno per me, quasi spezzata in due: bene la prima parte "belga" e dolce, meno bene "l'americanata" finale. Il colore scuro ed il generoso contenuto alcolico sono solitamente due caratteristiche ideali per la messa in cantina: ma a due anni dall'imbottigliamento questa Grand Cru mostra già qualche segno di cedimento.
Formato: 35.5 cl., alc. 9.1%, lotto 30/10/2012, pagata 5.60 Euro (beershop, Italia).


NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 17 gennaio 2015

Maxlrainer Pils

Nuovo appuntamento con il birrificio bavarese Maxlrain, sito nel vistoso castello dell'omonima località che si trova a circa cinquanta chilometri a sud-est di Monaco.
Dopo Festbier, Schloss Trunk e Schwarzbier, ecco una classica Bavarian Pils, prodotta con luppoli provenienti dalla regione dell'Hallertau e malti bavaresi. Dorata pallida e limpida all'aspetto, forma una bella testa di bianchissima schiuma cremosa, fine e compatta, molto persistente. Lo stile non prevede ovviamente un'aroma particolarmente complesso, ma quella fragranza ed eleganza che invece ci si aspetterebbe di trovare risulta assente; bassa anche l'intensità dei sentori erbacei, di fiori secchi, miele e camomilla. Leggera e scorrevole al palato, poco carbonata, ripresenta caratteristiche pressoché identiche a quelle dell'aroma: pane e cereali, un accenno di miele ed una discreta secchezza che sopperisce alla mancanza di fragranza/freschezza. Non molto elegante il finale, con un amaro erbaceo un po' sgraziato che non lascia un bel ricordo di sé.
Birra che svolge la sua funzione primaria (dissetare e rinfrescare) senza infamia e senza lode. Chissà quante volte avrete sentito in giro il "mantra" della della birra tedesca definita "noiosa e poco emozionante"; lo stereotipo non corrisponde certamente  sempre al vero, ma in questo caso tocca annotare sul taccuino una bevuta accademica ma fredda, che non entusiasma e non fa venire voglia di avere di nuovo il bicchiere pieno, dopo che si è svuotato.
Formato: 33 cl., alc. 4.9%, lotto 08:39, scad. 29/06/2015, pagata 0.77 Euro (supermercato, Germania).


NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 16 gennaio 2015

Miguel Serse Imperial IPA

Arrivato in Italia dal Messico – dove era famoso e rispettato -  il gangsta-rapper Miguel Serse si è stabilito nella tranquilla Campogalliano (comune di 8000 anime in provincia di Modena), diventandone il poco tempo il “monarca” e trasformandola, secondo le sue parole, dalla “monnezza dell'Emilia Romagna, il peggio del peggio” ad un tranquillo luogo dove condurre la propria esistenza. Dichiaratamente e sfacciatamente ricco, Miguel risiede oggi in una lussuosa villa e si circonda di tutto quello che non deve mancare ad un uomo di successo, incluso belle macchine e belle donne. I (tanti) soldi a sua disposizione gli hanno anche permesso di perseguire la sua passione per la musica, pubblicando alcuni singoli che ironizzano (soprattutto) su alcuni rappers italiani che a loro volta tentano di imitare le grandi star americane: se non li avete mai visti, date un’occhiata ai video di "Ho più soldi di te (e non solo di te)"  e di “Ho il Mercedés” dai titoli piuttosto significativi.   
Mi accorgo di essere decisamente fuori dal giro (complice l’età?) in quanto sono venuto a conoscenza di questo personaggio soltanto grazie alla birra. Guardando pochissima TV, non ero ad esempio conoscenza della sua tumultuosa partecipazione ai provini di X-Factor,        nella quale Miguel, dopo essere stato rifiutato, non ha esitato a manifestare il suo disappunto ai giudici della trasmissione, rivendicando in seguito di essere lui la causa della decisione di Morgan di abbandonare lo show ed autoeleggandosi vincitore morale del programma.   
Mi dicono che Serse sia anche un appassionato birrofilo, e cosa succede quando un birrofilo “che ha più soldi di te, e non solo di te” ha voglia di bere un birra?  La va forse a comprare? No, ne commissiona direttamente una cotta. Ecco che una ricetta “segreta” del nonno di Miguel, Carlos Serse, viene realizzata con la collaborazione del Birrificio Oldo di  Cadelbosco di Sopra (RE) e del beershop Wild Hops Rubiera. Non si tratta però di una umile Mexican Lager ma ovviamente di qualcosa d’imperiale”. 
Prodotta in sole 500 bottiglie e da lui presentata con lo slogan “tutto il resto è piscia”,  la Miguel Serse Imperial IPA è andata quasi subito esaurita.  La sua limitata reperibilità le ha credo impedito di scalare le classifiche di Ratebeer e di piazzarsi ovviamente tra le migliori birre al mondo. Ma da quanto leggo sulla pagina ufficiale di Serse, dovrebbe essere già in programma una nuova edizione della birra che sarà distribuita in tutto il mondo ed acquistabile a anche on-line. La situazione richiederebbe quindi di proclamare questa Imperial IPA già come la miglior bevuta del 2015, anche se siamo solo nella terza settimana dell’anno, senza neppure averla bevuta; ma l’obiettività e (l’onestà) del blog ne impongono invece l’assaggio allo scopo di fornirne un’onesta descrizione. 
Etichetta appropriata, con impostazione grafica classica ad incorniciare Miguel Serse nel suo tipico pellicciotto bianco. Nonostante la vicinanza del Messico a San Diego, patria delle migliori Imperial IPA americane, il colore di questa birra non ricorda molto quelle della West Coast:  ambrato, con qualche riflesso ramato, ed una cremosissima e compatta testa di schiuma biancastra, dalla buona persistenza. L’aroma è fresco, pulito ed abbastanza elegante, un dolce bouquet fruttato che si compone di mango e passion fruit, ananas, melone retato. In sottofondo qualche sentori di aghi di pino e, man mano che la birra si scalda, di caramello. Scenario abbastanza diverso in bocca, dove la frutta cede il passo all’amaro:  a parte una leggera presenza di agrumi (pompelmo), la base maltata (biscotto e caramello) è a sostegno della generosa luppolatura che morde subito il palato con note resinose, vegetali e  leggermente pepate. L’alcool c’è e non si nasconde, irrobustendo la bevuta con una discreta sensazione di warming. Il corpo è medio, con una sensazione palatale comunque morbida e gradevole, grazie anche ad una carbonazione modesta. Chiude con una buona secchezza, ed un lungo retrogusto molto intenso e molto amaro (sul limite del raschiante), resinoso, vegetale. 
Una birra pensata da/per Miguel non poteva altro che essere una birra “dura”, dal gusto spiccatamente amaro, senza nessuna concessione ruffiana di (dolce) frutta tropicale.  Il risultato è intenso e pulito, ma anche piuttosto sbilanciato sul versante amaro, con un gusto che alla lunga satura il palato e dal quale ne deriva una bevibilità molto più limitata di quel che il contenuto alcolico (7%) può portare a pensare. Detto questo, potete pensare a questa birra se avete voglia di una spremuta di luppolo il cui amaro vi tenga compagnia anche per qualche ora dopo averla finita.
Miguel Serse ringrazia in etichetta se stesso ed i suoi soldi (ovviamente), oltre al Wild Hops Rubiera; mi associo a quest’ultimo ringraziamento al beershop per avermi dato la birra da assaggiare. 
Formato: 50 cl., alc. 7%, lotto AD053, scad. 23/10/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 15 gennaio 2015

Lervig Kringly Kris Juleporter

Ultimi strascichi natalizi, ed ecco la proposta del birrificio norvegese Lervig  guidato da Mike Murphyper le festività.   Si tratta di una (Jule)porter   (una porter “festiva”)  prodotta, secondo le note in etichetta, con fave di cacao, lattosio e spezie. Nessun’altra informazione reperibile sul sito del birrificio: la severa legge norvegese sugli alcolici non consente infatti di pubblicare nessuna informazione sulle birre, per lo meno in lingua norvegese. Lervig non ha al momento un sito “parallelo” in lingua inglese come invece hanno altri birrifici norvegesi. 
All’aspetto è del classico color marrone scuro, con un generoso “cappello” di schiuma beige, cremosa e dalla buona persistenza. L’aroma vede le classiche tostature molto in secondo piano, e in evidenza c’è piuttosto l’evidente e generosa luppolatura alla quale questa porter è stata sottoposta. Molto pompelmo, con in sottofondo qualche sentore di the e floreale (lavanda). Non pervenute invece la spezie, in particolare la cannella che è uno dei descrittori utilizzati in etichetta. 
La gradazione alcolica (4.7%) è quasi sessionabile, e la birra in bocca è ovviamente leggera e discretamente carbonata; nessuna pretesa quindi di essere un “winter warmer“, ma la bevuta non trasmette ugualmente molta atmosfera natalizia. Assenti le spezie, il gusto che non brilla particolarmente di pulito mette di nuovo in evidenza i luppoli (pompelmo) con una leggera presenza di tostature e di caffè che si porta dietro anchee una lieve acidità; chiude un po’ astringente, con un accenno di the e di lavanda, ed un retrogusto amaro a metà strada tra il terroso ed il resinoso. 
Una “hoppy porter” che sinceramente non ho ben compreso, si beve facilmente ma, alla fondamentale domanda “la ricompreresti?”, questa volta mi tocca rispondere con un no. 
Formato: 33 cl., alc. 4.7%, lotto KL 11:56, scad. 01/01/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 14 gennaio 2015

Theresianer Birra d'Inverno 2014

Birra Natalizia,  o Birra d’Inverno, anche per Theresianer, birrificio che vi ho presentato in questa occasione.  Come ogni anno, arriva in un’elegante bottiglia serigrafata sempre diversa con tappo in sughero, contenuta all’interno di una scatola di cartone: l’edizione 2014 raffigura un paesaggio innevato ed un simpatico pupazzo di neve. 
Si presenta di color ambrato molto carico, ai confini del marrone, con piacevoli sfumature rossastre; la schiuma, beige chiaro, è fine e cremosa ed ha una buona persistenza. L’aroma non è particolarmente intenso, ma denota una buona pulizia: il bouquet dei profumi si compone di frutta secca, toffee, prugna ed amaretto, con una lievissima speziatura donata dal lievito. Il gusto procede nella stessa direzione senza cambiamenti: la birra è gradevole e morbida in bocca, con poche bollicine ed un corpo medio. Toffee e biscotto, prugna ed uvetta, qualche nota di liquirizia con un finale leggermente amaricante di frutta secca, in una bevuta prevalentemente dolce dove l'alcool (9%) è molto ben nascosto regalando un lieve ma gradevole calore etilico. Lascia un delicato retrogusto, dolce, di frutta sotto spirito.
La natalizia (o invernale) di Theresianer si porta dietro buona parte delle caratteristiche delle altre tre birre assaggiate in precedenza: corretta, ben fatta, pulita, priva di difetti e facile da bere ma, nonostante l'elegante abito che la veste, un po' carente di personalità. La bevuta è comunque gradevole, anche se non particolarmente emozionante o coinvolgente; azzeccato l'abbinamento con il cioccolato fondente.
Il curato packaging la identifica come una birra per le occasione “speciali” o "da regalo", ma probabilmente incide un po’ troppo sul rapporto qualità prezzo; sul sito del birrificio viene venduta a 13.00 Euro, indicativamente il doppio del costo (italiano) di numerose birre natalizie belghe che vengono solitamente stappate nel periodo natalizio.
Un ringraziamento al birrificio per avermi inviato la bottiglia da assaggiare.
Formato: 75 cl., alc. 9%, scad. 05/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.