domenica 31 gennaio 2016

Deschutes The Abyss 2013

Purtroppo non arrivano ancora in Europa le birre di Deschutes ed è un vero peccato perché il birrificio dell'Oregon ci sa davvero fare. Fondato come piccolo brewpub a Bend nel 1988 da Gary Fish, il birrificio che prende il nome dal fiume che attraversa la propria città è cresciuto sino a diventare (dati 2014)  il settimo maggior produttore "craft" statunitense ed il dodicesimo se alla classifica aggiungiamo anche i colossi industriali. Oggi però non è il momento di passare in rassegna la storia di Deschutes perché c'è molto da dire sulla birra. 
Nel 2005 Gary Fish "sfida" i propri birrai a creare una birra estrema, potente, quella che ancora mancava a Deschutes, la cui capacità produttiva era costantemente insufficiente a soddisfare la richiesta di tutte le birre "basiche". Da un informale "concorso" interno indetto tra i vari birrai ne escono vincitrici due Imperial Stout; una prodotta con l'aggiunta di liquirizia, l'altra con melassa nera (blackstrap): dal blend di queste due birre nasce la base per quella che sarà poi la definitiva imperial stout chiamata The Abyss: oltre a melassa e liquirizia, vengono aggiunti corteccia di ciliegio e baccelli di vaniglia. La sua preparazione è abbastanza laboriosa in quanto è necessario realizzare due mash separati che vengono poi portati nello stesso bollitore; ci sono poi 360 bastoncini di liquirizia da scartare a mano, uno ad uno. Potete seguire le fasi su questa interessante pagina-diario del birrificio; in alternativa, ecco un video in cui trovate Gary Fish e Ryan Schmiege, il cosiddetto "barrel master" di Deschutes. La ricetta completa prevede malti Pale, Black, Chocolate, Black Barley, Roasted Barley e frumento, mentre i luppoli utilizzati sono Millennium, Nugget, Styrian e  Northern Brewer. Al momento della messa in bottiglia, viene fatto un blend di birra fresca e di birra affinata per dodici mesi in diversi tipi di botti: rovere dell'Oregon, ex-Bourbon, ex-Pinot Nero. 
Nel 2006 alla Deschutes il marketing non era certamente una delle priorità è l'uscita della Abyss avvenne in sordina; il passaparola tra gli appassionati fu però velocissimo e già l'anno successivo le richieste superarono di gran lunga la disponibilità. Entrata nel circolo delle cosiddette "birre culto" americane, ogni anno viene commercializzata a novembre e sparisce rapidamente dagli scaffali dei negozi. E già che parliamo di hype, sia Ratebeer che Beer Advocate la elencano tra le 50 migliori birre al mondo: trentanovesima per il primo (e ventisettesima miglior Imperial Stout), quarantaseiesima per il secondo (ventesima miglior Imperial Stout).
Il millesimo 2013 protagonista di oggi viene presentato il 14 novembre nei pub di Bend e di Portland: l'ABV (variabile ogni anno) è 11% ed il blend è assemblato con il 72% di imperial stout non barricata, il 6% affinata in botti ex-Bourbon, l'11% in botti di rovere e l'11% di Pinot Nero. Anziché una scadenza, il birrificio imprime sull'etichetta la data dopo la quale ne consiglia il consumo: in questo caso è il 16 agosto del 2014, ovvero siete invitati a tenerla in cantina per almeno nove mesi.
L'abisso nel bicchiere è spaventosamente nero, anzi nerissimo: per fortuna c'è una rassicurante e sontuosa "montagna" di schiuma marrone molto fine e cremosa, dalla lunghissima persistenza. Stupenda. L'aroma è un percorso molto raffinato che si snoda attraverso i profumi del bourbon e della vaniglia, del fruit cake, dell'uvetta e della prugna,  della melassa; ci sono intermezzi legnosi e vinosi (porto), ogni tanto fa capolino una nota affumicata e di cenere.
La discesa nell'abisso è molto meno minacciosa di quanto potrebbe pensare: i primi 3/4 della bevuta si mantengono nel territorio dolce delimitato dall'aroma, con melassa e caramello bruciato, fruit cake, vaniglia, uvetta e cioccolato al latte, liquirizia e suggestioni di porto. Il finale ha una repentina virata (forse qualcuno potrebbe trovarla un po' brusca) in territorio amaro con intensissime ma raffinate tostature, caffè e cioccolato fondente, cenere. La bevibilità per la gradazione alcolica è davvero notevole, nel blend c'è solo un 6% di birra affinata in botti ex-Bourbon ma il distillato fa sentire la sua morbidissima presenza ed il suo calore per tutta la bevuta. Impossibile non fare menzione del mouthfeel, dove a fronte di un corpo pieno c'è una patina superficiale morbidissima e setosa, ad accarezzare il palato mentre sulla lingua scorre un liquido ben più consistente ed oleoso; la carbonazione è ovviamente molto contenuta. Lunghissimo il retrogusto, punto d'incontro di Bourbon, caffè e cioccolato, caldo ed avvolgente, pulitissimo, degna chiusura di una Imperial Stout sontuosa e davvero ben fatta, dove potenza e finezza riescono a stabilire una convivenza pressoché perfetta.
Una birra non facile da trovare in quanto esce una volta l'anno, ma se capitate negli Stati Uniti tra novembre e dicembre, quando viene commercializzata, cercate di portarvene a casa almeno un paio di bottiglie e non ve ne pentirete, una da bere dopo un anno e un'altra da lasciare a lungo in cantina.
Formato: 65 cl., alc. 11%, IBU 86, anno 2013, $ 24.99 (liquor store, USA).

sabato 30 gennaio 2016

Het Kapittel Watou Prior

Ci sono fonti discordanti sulla data di nascita di quella che per lungo tempo è stata "l'ammiraglia" del birrificio Van Eecke, presentatovi in questa occasione; c'è chi sostiene sia nata nel 1962, chi nel 1948 per "competere" con le vicine birre di St. Sixtus/Westvleteren, che in quel periodo erano appena state "appaltate" alla vicina St. Bernardus. Il fatto che si tratta di una gamma di birre dedicate al "capitolo", il luogo del monastero in cui si riunivano l'abate ed il priore, fa forse propendere per quest'ultima ipotesi; l'unica certezza è che sia opera del birraio Jan Van Gysegem (1931-2003) a quel tempo alle dipendenze di Albert Van Eecke. 
Ci troviamo nelle Fiandre Occidentali del Belgio, vicino al confine francese, una regione famosa per la coltivazione del luppolo (Poperinge) e per le robuste Dark Strong Ales che vengono prodotte in un raggio di soli venti chilometri. E' qui che nascono alcune delle migliori rappresentanti (al mondo!) di questo stile, le Westvleteren 8 e 12,  le St. Bernardus, le Kapittel di Van Eecke e, in tempi più recenti, quelle di De Struise.  
La Kapittel Prior (9%) è stata poi "sorpassata" dalla leggermente più alcolica Abt (10%): pare che in principio la Prior avesse un carattere particolarmente vivace ed "esplosivo" che si manifestava alla strappatura e che le fece guadagnare l'appellativo di "birra-champagne". Aveva anche una marcata acidità che la rendeva simile, per darvi un paragone più recente, alla Aardmonnik degli Struise. 
Con la classica livrea della "tonaca di frate", riempie il bicchiere con una generosa testa di schiuma beige abbastanza compatta e cremosa, dalla lunga persistenza. L'aroma non è molto intenso ma  grazie ad un'eccellente pulizia mette in mostra una bella complessità fatta da prugna e uvetta, toffee, frutta secca, fruit cake, marzapane, pan di spagna imbevuto d'alcool, ciliegia sotto spirito, una suggestione di porto e di speculoos, zucchero candito. Al palato nessuna sorpresa e tradizione rispettata: corpo medio, carbonazione abbastanza vivace e una consistenza oleosa abbinata ad un'ottima scorrevolezza. L'alcool è piuttosto ben nascosto, alla (subdola) maniera belga, ed il gusto ripropone uvetta e prugna, biscotto e caramello, zucchero candito, liquirizia e frutta secca; l'inizio dolce viene poi "assorbito" da un'attenuazione davvero sorprendente, mentre nel finale leggerissime tostature ed una lieve nota terrosa ne completano il bilanciamento. Si congeda con un morbido tepore etilico ricco di dolce uvetta sotto spirito. Dark Strong Ale solida, molto pulita, una sorta di "biscotto liquido" molto appagante che consente di terminare la serata con soddisfazione; dicono che invecchi anche molto bene, soprattutto nel formato da 75 centilitri e quindi le dò un appuntamento a tra qualche anno.
Formato: 33 cl., alc. 9%, imbott. 15/07/2014, scad. 14/07/2017,  1.35 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 29 gennaio 2016

Deb's: Big Bang & Sotto Sopra

Prima volta sul blog della beerfirm Deb’s, fondata a Caramanico Terme (PE) nel 2014 da Debora Franceschelli, diploma da sommelier e passione per la birra coltivata prima in maniera autodidatta e poi attraverso un corso tenuto da Jurji Ferri di Almond 22; in assenza d’impianti produttivi di proprietà, la formula scelta per l’ingresso nel mondo dei professionisti è quello della beerfirm, appoggiandosi ad altri birrifici. Non ho trovato molte altre informazioni in internet, dove in assenza di un sito l’unico riferimento aggiornato è la solita pagina Facebook.  
Dovrebbero essere cinque le birre in produzione: Big Bang (APA), White Ginger (witbier allo zenzero), Luce (Tripel), Sotto Sopra (Saison) e Red Snow (Belgian Strong Ale con aggiunta di miele e disponibile nel periodo natalizio). Due sono le bottiglie protagoniste del post odierno, le cui etichette purtroppo non fanno chiarezza su dove siano prodotte le birre: personalmente non ho nulla contro le “beerfirm”, ma auspicherei trasparenza, pur restando che l’unica cosa veramente importante è la qualità di quello che poi arriva nel bicchiere. 
Partiamo dalla Big Bang, un’American Pale Ale che vede come protagonista il luppolo Citra. All’aspetto è di colore oro antico, leggermente velato e forma un cappello piuttosto generoso di schiuma bianca, molto cremosa e dall’ottima persistenza. L’aroma è purtroppo un biglietto da visita molto poco invitante; sporco e “lievitoso” dal quale emergono ricordi di fiori secchi ed un vago sentore di scorza di limone e di plastica. L’abbondantissima schiuma si porta dietro una carbonazione davvero eccesiva per un’American Pale Ale, ma il problemi di questa bottiglia sono ben altri. ll gusto riflette d’aroma nella mancanza di pulizia,  s’intravede appena la dolcezza della frutta (ananas, forse polpa d’arancia) alla quale fa seguito l’amaro finale, sgraziato e sgradevole, nel quale più che la frutta secca dominano la plastica e la gomma bruciata. La pesantezza della birra al palato a livello tattile è notevole, così come la sua astringenza, a tratti allappante: impossibile continuare a berla.
Per dimenticarla  passiamo alla saison Sotto Sopra, che non dovrebbe utilizzare spezie ma basarsi solamente sul "lavoro" del lievito. E' ambrata scarica con riflessi ramati: qui la schiuma bianca è invece un po’ grossolana ma soprattutto non ha l’esuberanza e la persistenza che di solito caratterizzano le saison.  L’aroma è quasi assente e anche quel poco che c’è risulta poco pulito e “lievitoso”, aggettivo da intendersi nella sua accezione negativa:  in mezzo ad un po’ di gomma bruciata si percepisce appena un ricordo di pera. Il corpo è medio-leggero, le bollicine – al contrario dell’American Pale Ale – qui sono molto poche e non riescono a dare a questa Saison la vivacità e la vitalità che meriterebbe. Al palato ritrovo gli stessi difetti della bottiglia precedente: birra pesante a livello tattile, astringenza (sebbene in tono minore) e una pulizia davvero lacunosa che ne rende difficile la descrizione. Forse biscotto e miele, pera, con l’amaro a riproporre gli stessi difetti dell’altra birra (plastica, gomma) ma, essendo presente in quantità minore, consente quanto meno di terminare il bicchiere, sebbene con uno sforzo notevole. 
Spiace sempre parlare male di una birra (sopratutto perché è stata pagata!) ma queste due bottiglie sono davvero ben lontane dalla soglia della sufficienza: e se una “sfortunata” può sempre capitare, due su due sono purtroppo un indizio abbastanza preoccupante.
Nei dettagli:
Big Bang, formato: 33 cl., alc. 5%, lotto 43, scad. 07/2017, pagata 4.00 Euro.
Sotto Sopra, formato: 33 cl., alc. 5.8%, lotto 72, scad. 09/2017, pagata 4.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 28 gennaio 2016

Urban Chestnut Apotheosis

Florian Kuplent  e David Wolfe sono colleghi alla Anheuser-Busch (Budweiser, per gli ignari) di  St. Louis, Missouri:  all’interno della divisione New Product and Innovations, David si occupa di marketing, mentre Florian è il birraio intento a lavorare alla realizzazione delle cosiddette birre “crafty”, poi concretizzate nelle Michelob. 
Florian è tedesco, nato a Mueldorf (Baviera) e  diplomato mastro birraio a Weihenstephan: dopo una breve esperienza come birraio alla New England Brewing Co.  (Norwalk, Connecticut) la sua carriera lo porta a lavorare con la Brauerei Beck’s (Brema, Germania) e con  la Brouwerij Moortgat (Belgio) prima di arrivare a Londra per aiutare la nascente Meantime Brewery a mettere in funzione il suo primo impianto. In Inghilterra trova anche l’amore e per seguire la moglie americana si trasferisce negli Stati Uniti dove viene assunto alla Anheuser-Busch. 
Nel 2010 Florian Kuplent  e David Wolfe si licenziano per fondare la Urban Chestnut Brewing Co., inizialmente un piccolo brewpub (con annesso Biergarten) nel centro di di  St. Louis che apre le porte ad inizio 2011. Gli spazi divengono però abbastanza in fretta troppo ristretti e già nel 2013, anno in cui vengono prodotti 7.000 barili,  viene annunciato un piano d’espansione da 10 milioni di dollari con l’apertura di un secondo birrificio a St. Louis (capacità 60 bbl) con un potenziale annuo di circa 15.000 barili e di futura espansione sino a 100.000. 
A gennaio 2015 Kuplent  e Wolfe annunciano anche l’imminente apertura di una succursale in Germania, precisamente a Wolnzach, in pieno Hallertau, 60 chilometri a nord di Monaco di Baviera. La “Urban Chestnut Hallertauer”, guidata dal birraio Georg Seitz, debutta alla fine della scorsa estate con un impianto da 17 barili diventando  se non erro  la prima “succursale” di un birrificio americano in terra tedesca  e – di fatto -  battendo sul tempo l’hype ed il clamore dell’analogo progetto di Stone a Berlino .  Attualmente la produzione rimane focalizzata sugli stili tedeschi, con l’unica eccezione di una Pale Ale, mentre negli Stati Uniti Urban Chestnut propone la serie “Revolution”, d’ispirazione americana, e quella “Reverence” che invece guarda alla tradizione Europea. 
C’è tradizione europea anche nel nome scelto; il “castagno urbano” rimanda infatti a quegli alberi che in Germania venivano piantati sul terreno al di sopra delle cantine sotterranee dei birrifici, per  mantenere più fresca la temperatura durante l’estate. Divenne quasi naturale per i bevitori approfittare di quell’ombra e spostarsi là a bere le birre servite direttamente dalle botti, dando di fatto origine a quello che oggi viene chiamato Biergarten.
Apotheosis è il nome scelto per una saison che venne prodotta la prima volta assieme al pub The Royale di St. Louis, in occasione della festa di Luigi IX di Francia, il Re al quale la città del Missouri deve il suo nome; l'Apoteosi di Luigi IX è una statua posta in cima alla collina Art.  La ricetta chiama frumento, malti Pilsner e Monaco, Hallertau Perle e Hallertau Saphir come luppoli.
Di colore oro antico, leggermente velato, forma una bella testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla buona persistenza anche se non particolarmente generosa per lo stile. L'aroma offre una delicata speziatura che richiama il coriandolo, profumi floreali e di miele, paglia, pera, agrumi. Non c'è una gran intensità ma quello che si avverte è molto pulito e caratterizzato da una buona finezza. Al palato arriva con corpo medio-leggero e una carbonazione un po' troppo bassa per lo stile; la morbidezza ne guadagna, ma la vivacità viene quasi azzerata. La bevuta è comunque soddisfacente grazie ad un ottimo livello di pulizia e ad una grande intensità a fronte di una gradazione alcolica (5.3%) contenuta. Il gusto ha buona corrispondenza con il naso, con biscotto e miele a formare la base maltata che affianca le note fruttate di arancia, mela e pera accompagnate da una delicata speziatura  (coriandolo) donata dal lievito; la bevuta parte dolce per essere poi bilanciata dall'acidità del frumento e da un delicato finale amaricante terroso. Ne risulta una saison elegante ma poco secca e che tuttavia perde per strada le sue stesse radici, quel carattere rustico e ruspante che ci dovrebbe invece sempre essere: probabilmente una saison "urbana" di nome e di fatto, ma se ci si accontenta si  riesce comunque a bere abbastanza bene.
Formato: 50 cl., alc. 5.3%, IBU 18, imbott. 12/05/2015, pagata 4.46 Euro (beershop, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 27 gennaio 2016

Marble Lagonda IPA

Il birrificio Marble di Manchester l'avevo incontrato per la prima volta nel 2013, con la sorprendente Manchester Bitter: venne fondato nel 1997 da Vance Debechvel e  Mark Dade per cercare di sostenere la poco solida situazione finanziaria del pub Marble Arch Inn. Da quell'anno le cose sono progressivamente migliorate, ed oggi Marble ha aperto altri due locali, la Beerhouse Chorlton e il bar 57 Thomas Street. Dopo l'abbandono di Mark Dade, vi ha lavorato come birraio James Campbell fino a settembre 2013 per poi andare ad aprire assieme al socio Paul Jones nel 2014 la molto promettente Cloudwater Brewery. In sala cottura a Manchester si sono rapidamente avvicendati Dominic Driscoll (poi passato alla  Thornbridge) e Colin Stronge (ora a Buxton) fino all'arrivo a metà 2014 di Matthew Howgate che ha però dato le dimissioni proprio qualche settimana fa, rimpiazzato da James Kemp, ex Fullers, Thornbridge (2009-2010) e Buxton (2010-2013). 
Kemp, neozelandese, ha la paternità di alcune tra le birre più rappresentative della "new wave" brassicola inglese dell'ultimo decennio: la Wild Raven Black IPA di Thornbridge e la Axe Edge di Buxton; sarà interessante vedere il suo contributo alla già consolidata ed ottima gamma che offre Marble.
La birra di oggi è tuttavia da attribuire a Matthew Howgate: una India Pale Ale dedicata a Lagonda, marchio inglese di automobili di lusso fondato nel 1906 da Wilbur Gunn e rilevato poi nel 1947 per 52.000 sterline dall'imprenditore David Brown che, appena una anno prima, aveva acquistato per 20.500 sterline l'Austin Martin. L'ultimo modello a nome Lagonda fu prodotto nel 1965: vi furono poi numerosi tentativi di riesumare il lussuoso marchio realizzando diversi prototipi che non entrarono mai in produzione di serie sino al 2015, quando venne presentata la Lagonda Taraf, duecento esemplari commercializzati per il mercato mediorientale e venduti alla modica cifra di circa 700.000 sterline.
Tornando alla birra, i luppoli utilizzati dovrebbero essere prevalentemente Centennial, Simcoe e Citra, ma non sono riuscito a reperire molte informazioni accurate sulla sua ricetta. Perfettamente dorata e quasi limpida, la Lagonda IPA forma un discreto cappello di schiuma bianca e cremosa, compatta, dalla buona persistenza. La bottiglia serigrafata (personalmente preferivo le vecchie etichette) recita "the modern classic" e mantiene le promesse. 
Quello che c'è nel bicchiere è evidentemente "moderno" per quel che riguarda la scelta dei luppoli, mentre la "classicità" inglese è nella sua struttura e nella sua concezione: niente estremismi o fuochi d'artificio, a partire della gradazione alcolica (5%) nient'affatto esasperata (la American IPA di ieri, 5%, era stata invece definita "session") così come il livello d'amaro. L'aroma non è una sfacciata esplosione di sapori ma (complice qualche mese di troppo sulle spalle della bottiglia) un delicato e raffinato bouquet nel quale s'incontrano sentori floreali e agrumati (mandarino, arancia), tropicali (ananas, mango) con un tocco di miele e di cereali. La "scaletta" viene rispettata anche al palato, dove la priorità sembra essere "garantire una grande facilità di bevuta senza sacrificare l'intensità": e l'obiettivo è pienamente raggiunto, in una IPA dal gusto elegante, intenso ma mai sopra le righe, con una pulizia maniacale ed una grande attenzione all'equilibrio: pane, crackers ed un tocco di miele danno la base di sostegno al dolce della frutta tropicale a sua volta bilanciato dall'amaro "zesty" che ospita anche tracce erbacee e di lemongrass. Poche bollicine, corpo medio-leggero, consistenza al giusto livello "watery" e una bella secchezza finale a garantire un effetto dissetante e rinfrescante. La freschezza di questa bottiglia non è al top ma la bevuta risulta ampiamente coinvolgente e soddisfacente, con l'unico difetto di durare molto poco: troppo facile berla e quasi obbligatorio, se vi trovate sullo sgabello di un pub, ordinarne subito un'altra pinta. Birra molto ben riuscita, niente fuochi artificiali ma tanta sostanza, comprare senza esitare.
Formato: 50 cl., alc. 5%, lotto 1053, scad. 04/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 26 gennaio 2016

Amager / Cigar City Orange Crush

Ancora Amager, uno dei birrifici più presenti nel 2015 e in questo inizio di 2016; ma ho ancora qualche loro birra in frigorifero e non è il caso di farle invecchiare. Ancora Amager e ancora una collaborazione con un birrificio americano: si tratta di Cigar City, fondato a Tampa (Florida) nel 2009 da Joey Redner e guidato, in sala cottura, dal birraio Wayne Wambles.  Qui il riassunto della storia
Amager e Cigar City avevano già collaborato nel 2013 realizzando la imperial stout Xiquic And The Hero Twins, prodotta con pepe e legno di cedro; a Copenhagen ammettono che non avevano quindi in cantiere un’altra birra con Cigar City,  ma il birraio Wayne Wambles si trovava in zona per la Copenhagen Beer Celebration 2014 e alla sua offerta di fare una nuova collaborativa non hanno saputo dire di no. Viene così elaborata la Session IPA chiamata Orange Crush, la cui ricetta prevede malti Pale, Crystal e Cara-pils, luppoli Citra, Simcoe e Mosaic, scorza d’arancia americana. Il concetto di “session” applicato ad una birra con un ABV 5% stride un po’ se si considera la tradizione europea (English IPA), ma ha un suo senso se applicato ad un’American IPA, i cui confini sono di solito posti tra 5.5  e  7.5%. Siamo comunque al di sopra del contenuto alcolico di altre Session IPA americane come ad esempio Lagunitas DayTime (4.7%), Stone Go To IPA   e Firestone Walker Easy Jack (4.5%), giusto per citare quelle che sono transitate sul blog
Si presenta nel bicchiere di colore dorato carico con riflessi ramati, quasi limpido: la generosa schiuma biancastra che si forma è compatta e cremosa, molto persistente. Al naso emerge un bel boquet pulito ed elegante nel quale sentori floreali vengono affiancati da quelli di pompelmo e arancio, ananas e mango, un tocco di resina e di miele in sottofondo. Bottiglia “nata” lo scorso ottobre, buona intensità e freschezza ancora accettabile.  
L’intensità al palato è notevole, partendo da una base maltata abbastanza sostenuta per quella che viene definita una Session IPA: biscotto e lieve caramello fanno da introduzione e da supporto al dolce della frutta tropicale che richiama l’aroma, mentre l’amaro evolve in parallelo dalla delicata scorza del pompelmo a più intense note resinose e vegetali. La chiusura è abbastanza secca, retrogusto amaro intenso ed elegante nel quale se la giocano la resina ed il pompelmo.  Morbida al palato, con una carbonazione abbastanza bassa e un corpo medio-leggero, è una (session)IPA molto intensa che sacrifica però un pochino il fattore “bevibilità”, scendendo veloce ma non ai livelli “standard “ di una vera e propria “session”: può essere comunque una piacevole compagna di una intera serata, da ordinare più di una volta. Il caramello – per quel che è il mio gusto personale – spunta un po’ più del dovuto ma finchè la bottiglia è ancora fresca il suo dolce è piacevole e ben integrato con la frutta tropicale, con un risultato coinvolgente. Per il resto,  eleganza e pulizia rispettano gli elevanti standard  ai quali Amager ci ha ormai abituato.
Formato: 50 cl., alc. 5%, IBU 32, lotto 1170, scad. 10/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 gennaio 2016

Põhjala Pesakond (Black IPA) & Pime Öö Imperial Stout

Secondo appuntamento con il birrificio estone Põhjala, uno dei protagonisti della piccola  “craft bier revolution” che sta lentamente cercando di svilupparsi anche nella piccola repubblica baltica; nato nel 2011 come beerfirm, dal 2014 è a tutti gli effetti un vero birrificio. La loro storia ve l'avevo riassunta qualche settimana fa bevendo la loro Virmalised IPA.  
Oggi passo in rassegna due birre entrambe "scure" ma completamente diverse tra di loro: una Black IPA quasi sessionabile ed una massiccia Imperial Stout.
Pesankond è il nome scelto per la prima birra; Google translator suggerisce "fidata, figliata" come significato ma in realtà si tratta di un popolare (?) fumetto estone per il cui ventesimo anniversario è stata realizzata questa birra. Il simpatico personaggio raffigurato in etichetta pronuncia "Black Forest IPA" in quanto la ricetta prevede l'utilizzo di mirtilli e di "punte" di abete rosso; non si tratta degli aghi di pino che vengono usati in alcune birre, ma dei cimali che precedono la formazione degli aghi stessi. Scopro casualmente che nel diciottesimo secolo negli Stati Uniti e nel Canada era abbastanza diffusa la produzione di una Spruce Beer, una bevanda realizzata con i cimali di conifera molto diversa dalle birre realizzate oggi aggiungendo alla normale ricetta un po' di aghi di pino. I malti sono Pale, Cara pale, Crystal 150, Black male e Carafa type 2 special, i luppoli Columbus, Chinook e Mosaic. 
Di colore ebano scuro, forma una testa di schiuma nocciola abbastanza fine e cremosa, dall'ottima persistenza. Bottiglia con circa due mesi e mezzo di vita e aroma ancora fresco e molto intenso: domina il dolce della frutta tropicale (mango e papaia), con un "contorno" di melone retato, fragola e mirtillo, mandarino, pompelmo rosa. Il bouquet è elegante, e caratterizzato da un ottimo livello di pulizia. La gradazione alcolica (5.4%) non è lontanissima dai parametri della sessionabilità ma al palato questa Black IPA rivela un'intensità sorprendente e che farebbe pensare a "palcoscenici" ben più importanti. L'inizio è dolce riproponendo ananas e mango che lasciano pian piano il posto ad una progressione amara che parte dalla scorza del pompelmo per poi evolvere in territori più intensi ricchi di resina e terrosi. I malti scuri - come vorrebbe l'illusione dello stile, una Black Pale Ale - si concentrano sul colore senza indulgere nel tostato e nel torrefatto, avvertibili in modo lieve solo quando la birra s'avvicina alla temperatura ambiente. Pulita e profumata, davvero ben fatta e bilanciata anche nel suo "essere amara" e - tocca ripetermi - grande intensità abbinata ad un'eccellente facilità di bevuta. Ottima.
Di ben altra caratura etilica è invece la Pime Öö, che tradotto dovrebbe voler dire "notte oscura"; è una poderosa imperial stout (13.6%) con un'etichetta che personalmente trovo splendida nel suo minimalismo: uno scenario lunare che al tempo stesso suggerisce le lunghe notti d'inverno nei paesi baltici, perfettamente rappresentate dal bianco della neve e dall'oscurità del cielo, immersi in un un profondo silenzio. La ricetta vuole malti Pale, Monaco, Special B, Crystal 300, Crystal 150, Crystal 200, Carafa type 2 special e  Chocolate, avena e Chocolate Rye (segale), due soli luppoli, Magnum, e Northern Brewer. 
Assolutamente nera, con una piccola ma cremosa schiuma beige scuro che svanisce piuttosto in fretta. L'aroma mi delude, e non poco: salsa di soia e carne avvolti da una forte presenza etilica sono un biglietto da visita tutt'altro che invitante; emerge in un secondo tempo anche una leggera affumicatura. Per fortuna le cose migliorano in bocca, a partire dalla sontuosa sensazione palatale: corpo medio-pieno, pochissime bollicine, consistenza densa e cremosa, masticatile, morbidissima. Il percorso al palato inizia con una lieve affumicatura seguita da una melassa molto dolce di caramello e toffee, vaniglia, tortino alla gianduia, liquirizia, cioccolato al latte e prugna disidratata. La presenza etilica è innegabile ma, considerata la mole, è sopportabile senza troppi sforzi; quella che invece per qualcuno potrà risultare "troppo" è la componente dolce, davvero spinta vicino al limite dell'eccesso. L'alcool cerca di asciugarla un po' riuscendoci solo in parte, mente il finale amaricante di caffè e tostature è davvero troppo timido per completare l'opera. Personalmente mi piacciono le imperial stout dolci, quasi le preferisco a quelle molto amare e "tostate", ma questa eccede anche il mio limite; benino il retrogusto etilico nel quale ritorna il lieve affumicato che aveva aperto le danze e s'intravede ancora un po' di caffè. Per contrastare un po' il dolce e accelerare la frequenza dei sorsi diventa quasi obbligatorio abbinarla ad una tavoletta di cioccolato fondente: ci fosse un po' più d'amaro (caffè e tostature) sarebbe davvero un'ottima rappresentante della "categoria" delle massicce imperial stout scandinave, ma in questa bottiglia l'eccessiva dolcezza la rende alla lunga un dessert in forma liquida difficile da sorseggiare.
Nel dettaglio: 
Pesakond Black IPA, formato 33 cl., alc. 5.4%, IBU 40, scad. 29/04/2016.
Pime Öö Imperial Stout, formato 33 cl., alc. 13.6%, IBU 60, lotto 040, scad. 22/12/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 23 gennaio 2016

HOMEBREWED! Il Piccolo Birrificio di Via Romacolo - Mighty Oak Barley Wine 2014

Eccoci al primo appuntamento del 2016 con la rubrica HOMEBREWED! dedicata alla vostre produzioni casalinghe; come lo scorso anno, anche questo viene inaugurato dal Piccolo Birrificio di Via Romacolo alias Andrea Panzetti dalla provincia  Bergamo, homebrewer dal 2013. Qui trovate la sua Belgian IPA e qui trovate l'American Pale Ale; oggi invece l'asticella si alza parecchio con un importante Barley Wine (10.5%) chiamato Mighty Oak e accompagnato da una bella etichetta millesimata, molto semplice ma di grande impatto. Imbottigliata ad aprile 2014, la ricetta All Grain prevede malti Maris Otter e Crystal 150L, lievito S-04, luppoli Fuggle ed EK Goldings; ho fatto attendere Andrea un po' più del dovuto, avendola ricevuta a novembre 2014. Ma (almeno) un anno in cantina è una procedura "standard" che applico a qualsiasi Barley Wine prima di berlo. 
Passiamo alla sostanza. La fotografia come al solito è molto più scura della realtà: si tratta di un Barley Wine abbastanza chiaro, di colore ambrato opaco con riflessi arancio. La schiuma ocra è abbastanza esuberante, molto fine, compatta e cremosissima, "da cucchiaino".  L'aroma è piuttosto pulito e ha una buona intensità: dominano gli esteri con piacevoli profumi di frutta sotto spirito, uvetta e datteri, albicocca disidratata, scorza d'arancia, miele e toffee, un accenno di mela al forno, marmellata d'albicocca. Un bouquet interessante, caldo e avvolgente. 
Al palato ci sono inizialmente un po' troppe bollicine per lo stile, meglio lasciarle stemperare un po': il corpo è medio. Il gusto mostra una buona corrispondenza con l'aroma ed un residuo zuccherino ancora importante: biscotto, toffee e miele accompagnano la tanta frutta sotto spirito (uvetta, datteri e albicocca) con il dolce che viene parzialmente stemperato dall'alcool la cui presenza, benché rilevante, non è mai ingombrante. Giusto una punta d'amaro terroso a fine corsa, appena percepibile, preludio ad un lungo retrogusto caldo e morbido, dolce, ricco di frutta sotto spirito. Anche in bocca c'è un buon livello di pulizia: complessivamente davvero una buona bevuta, da sorseggiare con gusto e soddisfazione, senza troppo impegno ed  in tutta tranquillità sopratutto nei mesi più freddi dell'anno. L'impressione è che possa stare in cantina ancora per diverso tempo (anni) ed evolvere ancora in maniera piuttosto interessante: l'unico appunto che mi sento di fare riguarda la carbonazione, troppo elevata in partenza. Questa la  valutazione su scala BJCP:  37/50 (Aroma 9/12, Aspetto 3/3, Gusto 14/20, Mouthfeel 3/5, impressione generale 8/10).  
Ringrazio Andrea per avermi spedito e fatto assaggiare la sua produzione e ricordate che la rubrica è aperta a tutti i volenterosi homebrewers!
Formato: 33 cl., alc. 10.5%, IBU 72, OG 1088, imbott. 07/04/2014.

venerdì 22 gennaio 2016

Hoppin' Frog Café Silk Porter

Dopo una lunga assenza ritorna sul blog il birrificio dell’Ohio Hoppin' Frog, “creatura” del birraio  Fred Karm e attivo dal 2006 in quel di Akron; qui il suo breve profilo storico. Il birrificio ha anche finalmente inaugurato nel giugno 2013 la propria Tasting Room, 24 spine delle quali la metà dedicate a birre di altre produttori; 78 posti a sedere, possibilità di ordinare sandwich, snack e zuppe e di acquistare un po’ di merchandising.  Se vi state domandando il perché del nome scelto, il motivo è in realtà piuttosto semplice:  Fred porta lo stesso nome del padre e la sua famiglia ha da sempre utilizzato il soprannome “Frog” per distinguerlo da lui. 
A ottobre 2012 Hoppin’ Frog  rende finalmente disponibile in bottiglia una variante della sua Silk Porter, sorella “minore” delle massicce BORIS The Crusher e DORIS The Destroyer che ogni anno raccolgono diverse medaglie in concorsi e stazionano stabilmente ai primi posti nelle classifiche di Beer-rating. Si tratta della Cafè Silk Porter, ovviamente prodotta con chicchi di caffè in infusione, era stata in precedenza offerta al pubblico solamente in occasione di festival e manifestazioni attraverso la  cosiddetta “Beer Tower”; il “vernissage” della birra in bottiglia si svolge il 19 ottobre al birrificio in un evento dove, ancora in assenza di una cucina, viene chiamato il Jibaro Gourmet Food Truck da Cleveland. 
Splendida nel bicchiere, nera e sormontata da un cremosissimo cappello di schiuma nocciola, compatta e dall’ottima persistenza.  Al naso, pulitissimo, emergono i raffinati profumi di caffè in chicchi, orzo tostato e in sottofondo delicate sfumature di mirtillo, cioccolato, cenere, terrose: è il caffè a dominare con una presenza molto elegante che basta quasi da sola a rendere il profilo olfattivo molto coinvolgente. Al palato risulta forse un po’ meno “setosa” (silky) di quanto il suo nome suggerirebbe, ma il mouthfeel è comunque morbido e gradevole, con corpo medio-leggero e  poche bollicine a renderla davvero molto scorrevole. 
L’imbocco è leggermente dolce di caramello bruciato, fruit cake e mirtillo con il caffè liquido che ben presto diviene l’assoluto protagonista della bevuta, affiancato da eleganti tostature, note di cioccolato amaro e di cenere/tabacco. L’alcool (6.2%) è praticamente impercettibile, la bevibilità è quasi paragonabile a quella di una “session  beer”, amara ma ben bilanciata dall’acidità dei malti scuri. Splendido il retrogusto ricco di eleganti tostature e chicchi di caffè avvolti da una patina di ciccolato amaro. Quasi un elogio al “less is more”, la Café Silk Porter di Hoppin Frog non mette molti elementi in gioco ma li dispone con una pulizia maniacale e con ottima eleganza appuntando il caffè  – come giusto che sia – come protagonista nei suoi diversi stati (solido - in chicco -  e liquido).  Impossibile risalire all’età di questa bottiglia arrivata dagli Stati Uniti ma il caffè infuso che di solito tende a svanire abbastanza rapidamente nelle birre qui è ancora ben in evidenza per una bevuta molto soddisfacente. 
Chi segue regolarmente il blog conosce la mia diffidenza verso le birre che arrivano dall’altra parte dell’oceano con così tanti chilometri sulle spalle ma chiaramente la situazione è un po’ meno complicata quando si parla di stili nei quali i luppoli non sono predominanti: in questo caso sai può ancora bere con soddisfazione e senza correre grossi rischi.
Formato: 65 cl., alc. 6.2%, IBU 26, lotto e scadenza non riportati.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 gennaio 2016

BrauKunstKeller: Mandarina IPA & Laguna IPA

Dopo quasi due anni ritorna sul blog BrauKunstKeller, beerfirm tedesca guidata dal birraio Alex Himburg, nativo di Berlino ma con residenza fissa in quel di Michelstadt (Odenwald, circa settanta chilometri a sud di Francoforte), dove realizza le proprie birre sugli impianti della Michelstädter Brauerei. Dopo molti anni passati a lavorare come birraio presso birrifici di grosse dimensioni, Alex ha fondato nel 2012 la propria beerfirm per abbracciare la causa della “craft beer revolution” in German; dopo la tutto sommato positiva esperienza con la IPA Amarsi ecco altre due interpretazioni dello stile col quale Alex Himburg ama cimentarsi. Partiamo dalla Mandarina IPA, che dovrebbe essere una “single-hop” realizzata esclusivamente con il luppolo tedesco Mandarina Bavaria sviluppato dall’Hopfenforschungszentrum di Hüll e commercializzato dal 2012: si tratta di un incrocio tra Cascade ed una non ben precisata varietà di luppolo nobile tedesco. La ricetta prevede poi malti Pale Ale, Pilsner, Caramello e una percentuale di malto affumicato; da quanto sono riuscito a capire la Mandarina IPA viene prodotta una volta all’anno in autunno, subito dopo la raccolta del luppolo. 
Nel bicchiere si presenta tra il dorato e l’arancio, piuttosto opaca e con un cappello di schiuma bianca cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. L’aroma offre una succosa e dolce macedonia composta da mandarino e mandarancio, suggestioni di fragola, litchi, mango; molto bene pulizia e freschezza, quasi “sfacciata” l’intensità che va però a scapito della finezza. Simile è lo scenario che si presenta al palato: niente da eccepire sull’intensità di una IPA molto fruttata e “succosa”, ricca soprattutto di agrumi (arancio/mandarino) con qualche sfumatura di miele e frutta tropicale. L’amaro non si fa attendere ma risulta meno coinvolgente della parte fruttata, una sorta di “ondata” vegetale ed erbacea molto intensa ma un po’ sgraziata e fuori controllo, quasi “umida”, abbastanza simile a quanto mi è capitato di trovare in alcune birre “fresh hop”: non pervenuta l’affumicatura dei malti, probabilmente eclissata dall’abbondante luppolatura che tende a coprire un po’ tutto, eleganza inclusa. Una IPA intensa ma grezza che tuttavia mette in evidenza un bel carattere che non sempre ho riscontrato nelle interpretazione tedesche dello stile; in questo caso, prendendo a prestito un noto slogan pubblicitario, potrei quasi riassumere con “la potenza è nulla senza il controllo”.  Interessanti comunque le potenzialità del luppolo Mandarina, sopratutto in aroma, che in altre birre provate mi aveva invece lasciato abbastanza indifferente. 
Più anonima  è invece risultata essere la IPA chiamata Lagunda, dichiaratamente ispirata alle West Coast calforniane; Pale Ale, Pilsner, Monaco e Caramunich sono i malti utilizzati, mentre per i luppolo ci si affida alle tre “C” di  Chinook, Cascade e Centennial. Qualche riga più in alto accennavo al poco carattere che ho riscontrato in molte IPA tedesche e questa bottiglia di Lagunda sembra confermare quelle impressioni. Aroma poco intenso che si snoda a fatica sui binari della resina e del pompelmo/tropicale (ananas) senza però brillare di pulito o di eleganza. Al palato la base biscottata e leggermente caramellata dei malti supporta il leggero dolce della frutta tropicale che a sua volta contrasta l’amaro non particolarmente intenso che, con le sue note terrose, vegetali e di frutta secca, risulta molto poco West Coast. Sebbene sia nel complesso bevibile con facilità, in essa non vi è nulla che spicchi e  neppure la freschezza sembra essere di casa: facile dimenticarla dopo aver terminato il bicchiere. Di certo averla bevuta dopo l'esuberante Mandarina non l'ha aiutata a fare una grande figura.
Nel dettaglio:
Mandarina IPA, alc. 6.1%, IBU 55, lotto 15:02, scad. 07/04/2016, 2.83 Euro (supermercato, Germania)
Lagunda IPA, alc. 6.1%, IBU 68, lotto 15, scad. 06/2016,  2.83 Euro (supermercato, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 20 gennaio 2016

Lucky Brews Winternest

Nasce nel 2012 la beerfirm veneta Lucky Brews, con sede a Montecchio Maggiore (VI) e fondata da Samuele Gallico. Scherzosamente si autodefinisce “homebrewer dalla nascita” ma il suo percorso è quello che hanno intrapreso tanti altri giovani appassionati; dalle birre industriali ai primi esperimenti di homebrewing in kit, il passaggio all’All Grain, le vacanze a tema birrario e l’assidua partecipazione a festival ed eventi.  In Lucky Brews Samuele è affiancato da altri compagni d’avventura che vengono elencati sul sito ufficiale:  la beerfirm si definisce “raw but different”, stanca degli “articoli da brasseria e delle fighettate radical chic”  puntando invece a creare birre da ogni occasione, “dalla bettola al ristorante” ma  "spettacolari, profumate ed assuefacenti per ricordare al mondo che c’è un altro modo di vedere la birra artigianale". 
Cinque al momento le birre prodotte: Japa (American Pale Ale), Apollo (Blonde Ale), Whale (“hoppy white ale”), Winternest (Scotch Ale) e l’ultima nata Blackbeard (Brown Ale). Sono tutte realizzate presso gli impianti del vicino birrificio Birrone. 
La stagione in corso si presta ad una birra che riscaldi ed è dunque la Winternest che andiamo ad assaggiare; nasce ad ottobre 2013, con un etichetta realizzata dall’illustratore Hell Mariachi alias Mario Ferracina,  ormai collaboratore fisso della beerfirm. La ricetta prevede malti  Pils, CaraAroma, Special B,  Peated, Chocolate, Carafa III e  malto d’avena; i luppolo utilizzati sono Summit, Styrian Goldings e Fuggles, lievito Nottingham. 
Molto bella nel bicchiere, si veste di color mogano con intensi riflessi rosso porpora;  la schiuma ocra è cremosa e compatta, molto persistente. L’aroma non è molto intenso ma presenta comunque un bel bouquet di biscotto e caramello, frutta secca (nocciola), un accenno di uvetta e prugna e di cacao in polvere; i profumi sono avvolgenti e caldi, s’avverte al naso la carezza etilica accompagnata da una lieve nota torbata. 
L’inizio è davvero promettente ma non viene del tutto confermato al palato: c’è intensità ma la pulizia è sicuramente minore e, soprattutto, c’è una carbonatazione fine ma troppo elevata per lo stile che disturba un po’ quella che dovrebbe essere una bevuta morbida e rincuorante. La corrispondenza  con l’aroma è quasi totale, a partire dal dolce del biscotto e del caramello, dell’uvetta e della prugna disidratata che viene poi bilanciato dalle note amaricanti di frutta secca e dall’acidità dei malti scuri. L’equilibrio è buono mentre la facilità di bevuta è persino troppa e va a discapito di quella componente etilica che invece dovrebbe riscaldare e rendere la birra davvero adatta ai mesi più freddi dell’anno:  il timido tepore dispensato dal retrogusto dolce e caramellato non è ancora sufficiente. Birra che in un certo senso rispecchia il concetto di “raw” (grezzo, ruvido) che la beerfirm usa come slogan: il livello è abbastanza buono, ma per avere davvero una calda ed appagante Scotch Ale che t’abbraccia nei dopocena invernali c’è bisogno - oltre che un po' più di alcool warming -  di ottenere almeno lo stesso livello di pulizia e di finezza dell’aroma anche al gusto.
Formato: 33 cl., alc. 7.5%, IBU 25, scad. 04/02/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 gennaio 2016

Gaverhopke Den Twaalf 2012

Risale al 1994 la fondazione del birrificio 't Gaverhopke di Stasegem, dintorni di Kortkijk; i proprietari Erik Ameye e Christiane Soens decidono di ritirarsi nel 2007 e lo cedono a Gudrun Vandoorne e Bruno Delrue, una coppia che abita nei paraggi e che conosceva da tempo il birrificio. 
E’ la trentenne Gudrun a lasciare il suo lavoro da assistente sanitaria e affianca per un anno Erik Ameye imparando a fare la birra e a far funzionare il birrificio: nel giugno dello stesso anno si diploma anche “birraia” a Ghent.  
A luglio dello scorso anno Gaverhopke si è trasferita di qualche chilometro all’interno della storica fattoria/castello  “Goed te Nieuwenhove”, a Waregem: in questa suggestiva cornice, che il comune di Waregem ha ceduto in concessione per dodici anni, verrà inaugurato nella primavera 2016 il nuovo impianto produttivo.  Le birre sono momentaneamente ancora prodotte a Stasegem, ma nel “castello” è già possibile sedersi (52 posti) al nuovo bar dove poterle gustare e mangiare. Troverete anche una sezione “didattica” destinata ad ospitare scolaresche per illustrare loro la fattoria storica ed il funzionamento del birrificio.
Nei sui otto anni di gestione del birrificio Gudrun Vandoorne ha parzialmente rinnovato la gamma introducendo qualche novità come la Bittersweet Symphony (American IPA) e rielaborando alcune ricette ricevute dalla precedente gestione. La qualità del nuovo corso Gaverhopke da quanto leggo è stata sempre altalenante, con incoraggianti segni di miglioramento avvenuti negli ultimi anni; un esempio appropriato è quello dell'ammiraglia di casa, chiamata Den Twaalf (la dodici), una massiccia Belgian Strong Dark Ale (o Quadrupel, se preferite). Il forum di appassionati Belgian Beer Board parla di alcuni lotti problematici/infetti risalenti al 2012, quando le birre non erano state ancora sottoposte al cambio di etichetta, avvenuto l'anno successivo: la fortuna ha voluto che avessi in cantina proprio una di quelle bottiglie.
La foto al solito rende la birra più scura della realtà: la sua livrea è ambrata piuttosto carico, con riflessi dorati che emergono in controluce: forma giusto un dito di schiuma ocra, abbastanza fine ma molto poco persistente. Al naso l'intensità è modesta e dolce: uvetta e datteri, prugna, mela verde e pera, zucchero candito, una lieve ossidazione (cartone) e una nota aspra di aceto di mela. In bocca è sorprendentemente "leggera" per l'ABV dichiarato, 12%: corpo medio, bollicine quasi assente, consistenza quasi acquosa. Il gusto mantiene un'intensità abbastanza dimessa e parte alquanto dolce con caramello, zucchero candito e uvetta sotto spirito che sono poi contrastati dall'asprezza dell'aceto di mela, la cui evidenza è direttamente proporzionale all'elevarsi della temperatura. La bevuta è fiacca, slegata e leggermente ossidata, con un finale un po' astringente che asciuga completamente il dolce ma "spegne" di fatto la birra, completamente priva di retrogusto fatta eccezione una leggera scia acetica ed aspra di frutti rossi. Componente etilica praticamente assente in una birra molto poco appagante che finisce per la maggior parte nel lavandino.
Formato: 33 cl., alc. 12%, imbott. 02/2012, 4.50 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 18 gennaio 2016

Amager / Arizona Wilderness: Arizona Beast

Nuovo capitolo della saga “collaborazioni con colleghi statunitensi” realizzata dal birrificio danese Amager; le puntata precedenti  le potete trovare qui, un po’ sparse. Quella di oggi è una delle più recenti, presentata lo scorso 4 luglio 2015 in occasione dell’evento American Day che si svolge presso il birrificio; i protagonisti sono stati Crooked Stave (Chad King of the Wild Yeasts), Against The Grain Brewery (Pocketful of Dollars), Cellarmaker Brewing Co. (The Dank Dane), 18th Street Brewery (Lawrence of Arabica), Arizona Wilderness (Arizona Beast) e  proprio quest’ultima è la protagonista di oggi.
Arizona Wilderness è un piccolo brewpub aperto a Gilbert (Phoenix, Arizona) a settembre 2013 da Jonathan Buford, Brett Dettler  (business manager) e Patrick Ware (birraio): i tre sono soci in parti uguali ma è Budford ad aver lanciato l’idea, ispirato dalla visione in TV della serie Brew Masters con protagonista Sam Calagione.  Impara a fare la birra in casa seguendo i consigli di un amico homebrewer e utilizza il 401K della moglie per acquistare un impiantino Tippy Dump  della MoreBeer!  Un paio d’anni di prove in garage e, incoraggiato dai pareri entusiasti degli amici, chiude la propria impresa di lavavetri e racimola 43.000 dollari in crowfunding per aprire l’Arizona Wilderness Brewpub. Le cose non vanno però molto bene, complice anche la burocrazia che ne ritarda l’apertura di quasi dodici mesi mettendo a dura prova le finanze dei tre fondatori che nel frattempo avevano lasciato le proprie occupazioni precedenti. 
Il futuro non sembra molto roseo ma il 29 gennaio 2014 il sito Ratebeer pubblica la consueta classifica annuale dei migliori birrifici al mondo, secondo i beer-raters;  tra i 2600 produttori che hanno aperto la propria attività nel corso del 2013,  “miglior nuovo birrificio al mondo” viene eletto proprio Arizona Wilderness. Come abbia fatto un brewpub che ha ufficialmente aperto le porte solo a settembre a diventare in soli quattro mesi il  “miglior nuovo birrificio al mondo” è per me un mistero abbastanza interessante considerando anche il fatto che il brewpub non fa bottiglie e quindi l’unico modo di assaggiare le birre è di recarsi sul posto e scegliere tre le otto spine che ruotano. L’unica certezza è che indiscutibilmente le birre vengono sempre bevute fresche e non sono sottoposte ai traumi da viaggio. 
Ad ogni modo, l’incoronazione di Ratebeer è una manna dal cielo per il brewpub; a quanto pare il primo a chiedere di voler assaggiare le birre di questo birrificio sconosciuto è Mikkeller, che manda una mail il giorno stesso cogliendo Buford di sorpresa: ancora non sapeva della vittoria. I turni di lavoro raddoppiano, il personale che lavora al brewpub passa da 17 a 39 persone in sole sei settimane con la gente che il venerdì sera attende fuori dal locale anche per quattro ore prima di riuscire ad entrare; si manifestano importanti finanziatori che offrono il denaro necessario per aumentare la capacità produttiva. Un breve tour europeo porta poi alla realizzazione di birre collaborative con Beavertown, Buxton e Siren (UK), Mikkeller, To ØL e Amager (Danimarca); ma probabilmente ne avrò dimenticato qualcuno. 
Tante, qualcuno dirà troppe sono le India Pale Ale realizzate da Amager ma è questo lo stile che viene seguito anche nella collaborazione con Arizona Wilderness: quella che viene prodotta è una "Oatmeal IPA" che utilizza avena maltata e in fiocchi, malti Pilsner e Carapils ed una generosa luppolatura di Herkules, Polaris, Citra ed Amarillo.
Perfettamente dorata e velata, genera un altrettanto impeccabile cappello di schiuma biancastra, fine e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma, per quel che riguarda la fragranza e l'intensità, risente un po' dei quattro mesi di vita di questa bottiglia, ma si mantiene comunque pulito ed elegante: il bouquet dei profumi ha una leggera predominanza di agrumi (pompelmo e mandarino) ma non dimentica di passare in rassegna i tipici elementi di una American IPA come la frutta tropicale (mango, ananas) e gli aghi di pino. S'avverte anche una lieve presenza di cereali. L'utilizzo dell'avena si riflette soprattutto nella sensazione palatale, rendendo questa IPA morbida e gradevole ma forse un pelino più spessa ed ingombrante di quello che potrebbe essere; il corpo è medio. Niente da dire invece sul percorso al palato: un leggero ingresso maltato (pane, miele), il dolce della frutta tropicale (mango e ananas) ed una bella progressione amara (resina, pompelmo, vegetale) che sfocia in un finale piuttosto intenso ma mai privo di una certa eleganza. L'alcool è ben nascosto in una birra piuttosto ben costruita nella quale la frutta succosa, dolce, fornisce il necessario supporto al lungo retrogusto muscoloso ed amaro, delicatamente etilico; la freschezza non è sicuramente al top ma è  ancora accettabile in una IPA godibile e molto pulita, intensa e facile da bere.  
Difficile dire quanto si differenzi dalle molte altre IPA proposte da Amager ma questo non ha dopo tutto una grossa importanza: quello che conta è che quando hai voglia di bere una IPA ci sia nel bicchiere qualcosa di gustoso e di fatto molto bene, cosa che in questo caso avviene.
Formato: 50 cl., alc. 7%, lotto 1132. scad. 09/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 17 gennaio 2016

Ballast Point Victory at Sea

Difficile oggi non citare l'American Dream nel parlare di Ballast Point, San Diego, nato come "costola" del negozio per homebrewing Brew Mart di proprietà di Jack White che, in quest'avventura, viene affiancato da uno dei suoi abituali clienti Yuseff Cherney e, un po' più  tardi, da Colby Chandler, ex-presidente della San Diego Brewers Guild. Ne avevo parlato qui.
Il Sogno Americano consiste nel fondare un microbirrificio nel retrobottega di un negozio, farlo crescere sino a diventare una delle più rinomate realtà della Craft Beer Revolution a stelle e strisce e poi venderlo dopo venti anni per 1 bilione di dollari. Sì, avete letto bene. La notizia della cessione al gruppo Constellation, proprietario di un centinaio di marchi di vini, birre e distillati, risale allo scorso novembre 2015:  pensate a Corona, Modelo Especial, Negra Modelo, Pacífico e Tsingtao, tutti marchi che stridono fortemente con "dedicated to the craft" il motto che accompagna il logo del birrificio di San Diego. Personalmente m'interessa solo quello che c'è nel bicchiere, e poco importa se a produrlo sia un artigiano in un garage o una grande multinazionale. E - discorso generale - importa ancora meno se la vendita di un birrificio "artigianale" ad una multinazionale ne provocherà un deterioramento nella qualità: ci sono in giro così tante altre buone birre da bere.
Dal ricco portfolio di Ballast Point ecco Victory at Sea, una muscolosa imperial porter realizzata per accompagnare i tiepidi inverni della California del Sud. La birra nasce nel piccolo birrificio che si trova all'interno del negozio Brew Mart, sul quale Yuseff Cherney sperimenta le nuove ricette: è il 2007 e le reazione entusiaste dei clienti-homebrewer convincono Ballast Point a farla debuttare nel 2009 anche in bottiglia. Da allora, quella che Cherney dichiara essere "la birra più strana che abbiamo mai pensato, producemmo 100 galloni di caffè freddo con un macchinario improvvisato", viene solitamente presentata in dicembre nel "Victory At Sea Day" nel corso del quale è possibile assaggiarne anche diverse varianti: oltre alle classiche barricate (Bourbon, Rum, etc) ci sono la Pumpkin Pie Victory At Sea, la Gingerbread Victory At Sea, la Peppermint Victory At Sea, la  Chocolate Ghost Pepper Victory At Sea, la  Peanut & Chocolate Victory At Sea e la lista potrebbe continuare per molte righe. La versione classica vede "solamente" l'utilizzo di Caffè Calabria di San Diego e vaniglia.
Nel bicchiere non è completamente nera ma poco ci manca; la schiuma beige che si forma è cremosa e compatta, a trama fine ed ha una buona persistenza. Nella sua semplicità l'aroma mantiene quanto annunciato in etichetta e lo fa con grande eleganza ed estrema pulizia: è passato esattamente un anno dalla messa in bottiglia ma i profumi di caffè in grani sono ancora molto forti, accompagnati dal dolce della vaniglia, orzo tostato e cioccolato fondente, un lieve accenno di mirtillo e di cenere/tabacco. L'etichetta minaccia tempesta, naufragio e morte ma la birra al palato rivela una mansuetudine quasi sorprendente: corpo medio, poche bollicine, sensazione palatale setosa e morbida, con un'ottima scorrevolezza. Il gusto è amaro da subito, ricco di caffè e tostature sorrette dal dolce della vaniglia e del caramello bruciato che sono più evidenti a metà bevuta; il finale ritorna in territorio amaro, con eleganti note di caffè, liquirizia, tostature ed un lieve terrosità. L'alcool (10%) è nascosto in maniera impressionante, permettendo un sorseggiare per nulla difficoltoso: la sua presenza è evidente solo nel retrogusto, quando avvolge in un abbraccio ideale il sapore dei chicchi di caffè. La bevuta è complessivamente spostata sull'amaro ma risulta comunque bilanciata nel corso del suo svolgimento. 
Una Imperial Porter abbastanza semplice che sposa la scuola del "less is more" concentrandosi sull'estrema pulizia e sulla finezza dei pochi elementi in gioco, realizzandole alla perfezione. Tanto basta per elevare molto in alto l'asticella e realizzare un'ottima birra dall'impressionante bevibilità che regala grande soddisfazione a chi se la trova nel bicchiere.
Formato: 35.5 cl., alc. 10%, IBU 60, lotto VS52 14364, 6.06 Euro (beershop, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 16 gennaio 2016

Gambolò Dark Age

La linea di questo blog è stata sempre quella di parlare onestamente di quello che si trova nel bicchiere, nel bene e nel male, senza pregiudizi o senza favori nei confronti di nessuno. Quando una birra è buona e fatta bene non c'è mai nessun problema, tutti sono felici e contenti ed è facile farne una descrizione positiva: diverso è quando ti trovi nel bicchiere qualcosa che ha molti problemi e che non riesci nemmeno a terminare di bere. La tentazione è quella di dimenticarsi della cosiddetta "bottiglia sfortunata" e di passare oltre: trattandosi però di un diario di bevute, per onestà verso chi legge mi tocca anche registrare gli episodi meno soddisfacenti. Dopo tutto la costanza produttiva nel tempo è un requisito che ogni birrificio dovrebbe avere  se vuole davvero "diventare grande": uno scoglio che separa ancora il cosiddetto "mondo artigianale" da quello industriale, nel quale le birre - sebbene blande e spesso insapori - sono sempre identiche nel tempo.
Veniamo al dunque. Dark Age è la Imperial Stout del Birrificio Gambolò (Pavia) guidato da Simone Ghiro; malti Pale e speciale, luppolature di Perle, Amarillo ed Aurora.
Già l'apparenza non è particolarmente invitante: marrone scuro, piuttosto torbido e schiuma che fatica a generarsi risultando in un piccolo assieme di bolle piuttosto grossolane di colore beige. Al naso c'è poca intensità e quello che c'è non è per nulla invitante: carne, acetaldeide (mela verde), etilico molto evidente, un sottofondo remotissimo di uvetta sotto spirito, fruit cake, un caramello rosicato reminiscente di creme brulee. 
Se l'aroma è quanto meno "comprensibile" il gusto è invece molto confuso e risulta parecchio difficile da descrivere: colpisce l'assenza totale di tostature e delle caratteristiche tipiche (caffè, cioccolato) di una Imperial Stout. Registro una partenza dolce e piuttosto zuccherina, con la componente etilica piuttosto predominante, di nuovo mela verde ed un finale un amaro terroso e vegetale, molto poco gradevole e leggermente astringente. In bocca è quasi piatta, con corpo medio ma piuttosto slegata: la consistenza è oleosa. Bevo alcuni sorsi giusto per tentare di registrare quello che c'è nel bicchiere, ma poi è davvero troppo difficile andare oltre e il lavandino ringrazia per la cosiddetta "bottiglia sfortunata". Segnatevi il lotto riportato in calce e fate attenzione in fase d'acquisto: potrebbe capitarvene una identica. 
Formato: 33 cl., alc. 12%, lotto 2414, scad. 01/10/2019, 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 15 gennaio 2016

Buddelship Brauerei: Brügge Belgian Saison & Great Escape IPA

Del micro birrificio Buddelship di Amburgo vi avevo parlato in questa occasione: la baltic porter Gotland 1394  mi aveva impressionato in positivo e non ho quindi esitato di fronte all'occasione d’acquisto di altre birre realizzate da Simon Siemsglüß. 
In breve:  nativo di Amburgo, Simon ha vissuto quattro anni in Canada dove si è laureato in Economia e si è appassionato di birra; dopo un corso di sei mesi  al VLB di Berlino, con un periodo di praticantato alla Paulaner di Nockherberg in Baviera e in Cina, dove rimane un anno.  Arrivato a Londra nel 2010,  lavora per un po’ come birraio allo Zerodegrees Brewpub proprio mentre la “craft beer”  londinese iniziava la sua rinascita con Camden Town e Kernel, che Simon visita regolarmente. Nel 2011 è di nuovo a studiare birra e distillati alla Heriot-Watt University di Edimburgo; terminato anche questo percorso formativo, nell’autunno del 2012 si trasferisce ad  Hong Kong per raggiungere la propria fidanzata con l’intenzione di aprire un brewpub. Le complicazioni pratiche e burocratiche gli consigliano però di ripensare il proprio progetto nella natia Amburgo. Ottenuto dalle banche il mutuo necessario per l’acquisizione e la ristrutturazione dei locali che un tempo ospitavano un’azienda produttrice di prodotti ittici in scatola nel quartiere Eimsbüttel di Amburgo, è lui stesso a progettare e ad installare l’impianto da 10 hl che diventa operativo a partire da maggio 2014.   
Una decina le birra prodotte sino ad ora dalla Buddelship, equamente suddivise tra rivisitazione della tradizione tedesca (Pils, Weissbier, Schwarzbier) ed escursioni in campo anglosassone e belga.  Da quanto capisco le cose stanno andando bene visto che Simon, un tempo da solo ad occuparsi di tutto il birrificio, è oggi aiutato da due collaboratori. Detto dell’ottima baltic porter, il doppio appuntamento di oggi riguarda Saison ed IPA. 
Brugge è il nome scelto per la  Saison o “farmhouse ale” (come riportato sul retro dell’etichetta) che vede l’utilizzo di una percentuale di frumento maltato e una luppolatura di Centennial, Citra e Galaxy. Nel bicchiere è opalescente, di colore arancio, con un esuberante cappello di schiuma bianca, pannosa ed abbastanza compatta, dalla lunga persistenza. Al naso (un po’ troppa) banana e pera, una suggestione di coriandolo, fiori bianchi, il dolce del mandarino e dell’arancio, qualche sentore di marmellata e di paglia, una rinfrescante nota acidula: un aroma pulito e dall’ottima intensità nel quale però il carattere “rustico“ (o “farmhouse”che dir si voglia) non è particolarmente evidente.  Tante le bollicine al palato, un po’ troppe persino per una Saison, che inizialmente disturbano un po’ la percezione del gusto; meglio lasciarle un po’ calmare. L’intensità del gusto è ottima, lieve biscotto e cereale, poi il dolce di miele, albicocca e arancia (e una suggestione tropicale) dominano la bevuta che viene bilanciata dalle note acidule del frumento; non vi è quasi amaro, fatta eccezione per un accenno di scorza d’arancia. Ottima la facilità di bevuta, con un elevato potere rinfrescante e dissetante per una birra abbastanza secca e particolarmente adatta ai mesi più caldi dell’anno. L’unica cosa che manca (e non è poco, visto che secondo me in una Saison dovrebbe sempre esserci) è il carattere rustico: la birra risulta fin troppo pulita e precisa, bisognerebbe quasi  “sporcarla” per portare qualche sussulto emotivo. Livello buono, in ogni caso. 
Great Escape (la grande fuga) è invece la IPA che viene dedicata ad Amburgo, un tempo luogo (porto) di partenza di molti emigranti verso i sogni, la libertà e le opportunità.  Malto Pale inglese, luppoli Galaxy, Simcoe, Chinook e Mosaic per una birra che si presenta  tra l’arancio ed il dorato con una compatta testa di schiuma bianca, cremosa e molto persistente. La macedonia di frutta dell’aroma vede soprattutto agrumi (pompelmo, arancia, mandarino, cedro) che mettono un po’ in disparte il tropicale del mango, del melone e il litchi; avverto anche una discreta presenza di erbe officinali, piuttosto insolita e fuori luogo nel cocktail di frutta. Solo discreta l’intensità, mentre l’ottima pulizia del naso non viene mantenuta in bocca:  solo un accenno biscottato e poi la bevuta è dominata dagli agrumi sia nelle tonalità dolci (polpa) che in quelle amare (scorza). Questa volta la carbonazione è giusta, ma la birra rimane un pelino pesante a livello tattile, pur scorrendo bene; l’inizio fruttato è buono, anche se potrebbe essere più pulito e raffinato, mentre quello che mi convince meno è il finale dove l’amaro “zesty” viene quasi schiacciato da quelle erbe officinali presenti anche all’aroma, con un risultato un po’ distante da una classica American IPA e dalle mie corde.  Complessivamente ci sono comunque carattere e intensità (cosa che non ho sempre trovato nelle IPA tedesche che mi è capitato di bere), resta da migliorare la pulizia e da snellire un po’ la pesantezza. 
Tra queste due birre provate mi convince senz’altro di più la Saison: Buddelship è una realtà giovane partita con buone premesse e che si colloca già ad un buon livello,  al birraio spetta ora il compito - non facile, in verità - di elevare l'asticelle per queste due birre da  "buone" a "ottime".
Nel dettaglio:
Brügge Belgian Saison, formato 33 cl., alc. 5.6%, IBU 35, scad. 27/01/2016, 3.18 Euro (beershop, Germania)
Great Escape IPA, format 33 cl., alc. 6.5%, IBU 60, scad. 02/03/2016, 3.18 Euro (beershop, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.