sabato 31 maggio 2014

Blaugies / Hill Farmstead La Vermontoise

La Vermontoise, ovvero "la ragazza del Vermont": femminile d'obbligo quando si parla di "birra" (in francese), anche se i suoi creatori sono due maschi: Pierre-Alex Carlier, del birrificio belga Brasserie de Blaugies e Shaun Hill del birrificio americano Hill Farmstead, di Greensboro, nel Vermont. Il signor Hill non è affatto nuovo alle incursioni in territorio europeo: nato in Vermont, dopo le brevi esperienze locali alla Shed Brewery e ad alla Trout River, è emigrato per qualche anno in Danimarca, prima alla Norrebrø e poi alla Fanø, dove ha anche fatto nascere la beerfirm Grassroots. Mentre la Brasserie De Blaugies, a gestione famigliare, ha mantenuto un profilo molto basso producendo un range di birre ristretto ma di ottima qualità, Shaun Hill è rientrato in Vermont ed ha messo in piedi un piccolo birrificio nella casa di campana dei genitori; il problema è stato ancora una volta Ratebeer, a nominare nel 2013 Hill Farmstead come "miglior birrificio al mondo", portando in Vermont tutti gli onori (e gli oneri) della fama. Nel 2014 Hill Farmstead è "retrocesso" al secondo posto, dietro ad Alesmith; ma mentre a San Diego sembrano non avere grossi problemi a gestire la "notorietà brassicola", Shaun Hill si mostra sempre più preoccupato  (o è più preoccupante sapere che è strato intervistato da Vanity Fair?) della lunga fila di persone che ogni giorno si forma davanti alla taproom ed al punto vendita (e di riempitura growler) davanti al birrificio, che è anche il luogo in cui abita; si dice "disgustato" dal vedere le sue birre in vendita a prezzi triplicati su Ebay, ma ammette al tempo stesso di non aver nessuna intenzione di aumentare i volumi produttivi in modo drastico e di trasformare il proprio birrificio "rurale" in un classico "industrial park" americano. 
A Dour, in Belgio, la situazione è ovviamente molto diversa, ma risuonano delle parole simili, come potete ascoltare in questa video intervista  a Pierre-Alex Carlier: vogliamo crescere, ma lentamente, senza compromettere la qualità delle nostre birre. I soldi piacciono a tutti, ma noi ne abbiamo già abbastanza e vogliamo fare le cose senza fretta. Shaun Hill non ha mai nascosto il suo amore per le Saison belghe, e vi segnalo a proposito questo bell'articolo da lui scritto:  quasi una scelta naturale per lui collaborare con un birrificio della provincia dell'Hainaut, dove le Saison sono nate. La scelta cade dunque sul birrificio De Blaugies, che Hill visita a novembre del 2012. 
L'idea è ovviamente di produrre una saison, con un tocco di luppolo americano; si parte dalla saison al farro grande (o spelta) di Blaugies (ovvero la Saison D'Epeature) la cui ricetta viene leggermente modificata per supportare la luppolatura di Amarillo. Presentata per la prima volta nel Maggio 2013, La Vermontoise è di colore arancio pallido, opaco, e forma una generosissima testa di schiuma bianca, un po' grossolana, che tende però a dissiparsi quasi con la stessa velocità con cui si è formata. L'aroma è splendido e molto pulito, dietro ad un'apparente semplicità (arancio, pepe e frutta gialla) si cela una complessità tutta da decifrare di frutta acerba (mela e banana), lime, fiori, crackers, paglia: profumato e piacevolmente rustico. Ricordo che le saison nacquero principalmente come birre che i contadini/birrai producevano per il periodo estivo, quando dovevano dissetarsi (e dissetare i numerosi lavoratori stagionali) durante le lunghe giornate di lavoro ed in un periodo dell'anno in cui la qualità dell'acqua non era certamente ottimale. Caratteristica che si ritrova in pieno in questa Vermontoise: scorrevole e facilissima da bere, con corpo medio-leggero, il giusto ammontare di bollicine ed una consistenza "watery". In bocca troviamo pane e crackers, qualche nota di frutti gialli (pesca) e di polpa d'arancio dolce, ben bilanciate da una lieve acidità; molto pulita e rinfrescante, continua il suo percorso con un finale secco e moderatamente amaro, con una terrosità quasi umida e qualche sfumatura di scorza di lime. Sparisce dal bicchiere con una facilità impressionante, e ritengo che questo sia uno dei più grossi apprezzamenti che si possano fare ad una birra: gran bell'equilibrio tra frutta dolce e aspra (agrumi); quasi una fotografia di una soleggiata giornata estiva (la frutta, dolce) scandita dal duro lavoro nei campi (il finale amaro, terroso). Ma se la ricompensa fosse una bottiglia di questa Vermontoise ad ogni momento di pausa, come non valutare l'opzione di passare un'estate come bracciante agricolo nei campi dell'Hainaut?
Formato: 75 cl., alc. 6%, scad. 12/2018, pagata 5,67 Euro (beershop, Belgio).

venerdì 30 maggio 2014

Camba Bavaria Imperial Black IPA

Il primo incontro con il birrificio bavarese Camba Bavaria risale alla  fine del 2011; sede a Truchtlaching, circa 80 chilometri a sud-est di Monaco, praticamente sulla riva del Chiemsee, e di proprietà della BrauKon, noto produttore di impianti per birrifici e brewpub. Non so se Camba Bavaria sia stato il primo produttore bavarese, nel 2008, ad andare oltre le classiche birre tedesche e ad offrire una ampia gamma di stili anglosassoni come IPA, Stout, Porter ed invecchiamenti in botte. Dall'ultimo incontro, ad inizio 2012 ad oggi, il birrificio ha un po' rifatto il look alle etichette con una veste molto più moderna e giovanile, forse anche per allinearsi al look di  Crew Republic, giovane realtà bavarese della quale vi parlerò molto presto. 
Attualmente Camba offre le birre "classiche" (ovvero stili tedeschi) sopratutto nel formato da 50 cl. mentre le anglosassoni dall'estate del 2013 vengono vendute solamente nel più piccolo formato da 33. I (molto costosi) invecchiamenti in botte sono invece offerti nel formato "gourmet" da 75 cl.
Un minaccioso squalo in etichetta annuncia questa Imperial Black IPA, prodotta secondo una ricetta del birraio danese Claus Christensen; nel bicchiere è effettivamente "black", ovvero nera, senza lasciarsi attraversare da nessun raggio di luce; molto bella la schiuma, compatta e cremosa, abbastanza fine, dalla buona persistenza e dal color beige, o cappuccino, se preferite.
L'aroma è pulito, anche se la sua intensità e tutt'altro che memorabile: ci sono evidenti sentori di caffè in grani, qualche accenno di pompelmo e, dolce, di frutta tropicale. Quasi più "black" che IPA, insomma. Molto meglio l'incontro con il palato: la birra è morbida e molto gradevole, ha un corpo medio ed una carbonazione contenuta. Anche il gusto, come l'aroma, è sbilanciato più verso il buio dei malti che verso la luce dei luppoli; tostature, caffè, liquirizia menano le danze, con qualche sfumatura di pompelmo. L'intensità e la pulizia ci sono, è  piuttosto la presenza abbastanza in secondo piano dei luppoli a rendere questa Imperial Black IPA un po' monotona ed a spostarla nel territorio delle birre scure (stout, porter) luppolate, piuttosto che ad una semplice IPA di colore scuro. Nel finale c'è comunque una notevole progressione (molto) amara, dove convivono note vegetali e di resina, terrose e di tostatura. La bevuta è tutto sommato gradevole e non troppo impegnativa, ma l'impressione che mi ha lasciato è quella di una birra un po' avara di emozioni.
Formato: 33 cl., alc. 8.5%, lotto 016 16, scad. 16/01/2015, pagata 2,38 Euro (beershop, Germania).

giovedì 29 maggio 2014

Birrificio Rurale Reset

Non è la prima birra del Birrificio Rurale che appare su questo blog, ma mi accorgo di non aver mai scritto neppure due parole sulla loro storia. Poco male, rimediamo.  Il birrificio viene fondato da cinque soci  (Lorenzo Guarino, Giuseppe Serafini, Silvio Coppelli, Stefano Carnelli e Marco Caccia) nel giugno del 2009 a Certosa di Pavia, quattro persone con l’hobby dell’homebrewing che si conoscono grazie alla partecipazione a svariati concorsi e – raccontano – soprattutto  “grazie alla creazione di un gruppo di studio che si chiamava “esperienza birra” nato da un’idea di Agostino Arioli del Birrificio Italiano che tempo addietro ci contattò ritenendoci “degli home brewer validi” per dare vita a questo progetto che sostanzialmente consisteva in un gruppo di amici che facevano birra insieme; fare della sperimentazione quasi “empirica” che poi veniva riportata durante i corsi dell’Unione Birrai. Per fare un esempio, lavoravamo tutti sulla stessa ricetta utilizzando diversi tipi d’acqua o diversi luppoli o sperimentando diversi test sulle temperature di ammostamento, o, ancora, utilizzando diversi tipi di lieviti o quantità diverse di luppolo ecc…”   
Il birrificio viene inaugurato in una location alquanto suggestiva, che rispecchia fedelmente il nome scelto, “Rurale”: si tratta di un silos all’interno dell’Azienda Agricola Fattoria Oasi che un tempo veniva usato per immagazzinare i cereali. Il silo, circolare, viene ristrutturato rispettando la sequenza del processo produttivo: al piano più alto il magazzino del malto, in quello centrale gli impianti produttivi, il magazzino al piano terra.  Nel primo periodo il birrificio è un’attività  operativa solo  nel tempo libero,  nei weekend e nelle pause dalle rispettive occupazioni quotidiane; lentamente i consensi ricevuti e l’aumento della domanda da parte dei clienti rendono necessario il progetto di un’espansione che viene abbozzato nel 2012. Nel frattempo la “Terzo Miglio”  si era classificata al primo posto nella categoria “Birre ad alta fermentazione comprese tra 12 e 16 gradi Plato” nel concorso di Birra dell’Anno 2010,  mentre l’anno successivo la Black IPA Castigamatt arrivò prima tra le “Birre scure, alto grado alcolico, di ispirazione angloamericana” Lorenzo Guarino, il birraio ,   lascia la propria occupazione per dedicarsi a tempo pieno al birrificio ed il 18 maggio 2013 viene ufficialmente inaugurata la nuova sede a Desio, meno romantica della precedente ma più funzionale e necessaria per aumentare i volumi prodotti. Nel 2012 era anche entrato entrato in società un sesto socio, Luca Franceschi, sul quale mi piace riportare questo divertente aneddoto: “Un giorno, nel 2012, si presenta al birrificio in moto e dice: “Io sono astemio e quindi non ne capisco niente, ma mi hanno detto che fate delle birre buonissime. Però le etichette sono veramente brutte: posso rifarvele?”. Noi ci siamo guardati: ma che c… vuole questo, non l’abbiamo mai visto e vuole cambiarci le etichette. Poi però ci siamo fidati: Luca, che è un grafico pubblicitario, ha preso il lavoro molto seriamente, ci ha fatto vedere tante proposte diverse, dalle più prevedibili fino alle più estreme, e si è guadagnato la nostra fiducia. Abbiamo capito che sbagliavamo a non affidarci a un professionista: oggi la nostra grafica è parte integrante del progetto, contribuisce a fare del birrificio quello che è. Alla fine, gli chiediamo quanto vuole per il suo lavoro e lui dice che più che farsi pagare gli piacerebbe diventare socio”.  Effettivamente le etichette sono state sottoposte ad un profondo re-styling, confrontate ad esempio  una bottiglia di Terzo Miglio del 2010 con una attuale.  Il birrificio non nega certo la sua predilezione per gli stili anglosassoni e, soprattutto, per birre che siano facili da bere piuttosto che estreme. 
II 2014 è stato un nuovo anno di soddisfazioni e di medaglie: all’ultima edizione di Birra dell’Anno, oro per la Seta (Cat. 16 Chiare, alta fermentazione, basso grado alcolico, di ispirazione belga)  e due bronzi per Castigamatt (Cat. 10 Scure, alta fermentazione, luppolate, d’ispirazione angloamericana) e  Reset  (Cat. 6 Ambrate, alta fermentazione, basso grado alcolico, d’ispirazione anglosassone)   Prendiamo in esame oggi proprio quest’ultima, un’american amber ale dal bel color ambrato, con riflessi ramati, ed una bella testa di schiuma ocra fine e cremosa, compatta e molto persistente. L’aroma è semplice, pulito e fresco, con la luppolatura americana in evidenza (pompelmo, mango, resina) ed in sottofondo sentori maltati di caramello e di biscotto. La bevuta risulta subito molto gradevole, con un corpo medio-leggero ed un giusto livello d’acquosita per rendere questa birra molto facile da bere ma al tempo stesso morbida e presente in bocca. Poche bollicine (forse qualcuna in più non guasterebbe), ed un bell’equilibrio dolce in bocca che si sviluppa tra note di caramello e di frutta tropicale (melone retato, mango ed ananas): il finale è abbastanza secco e c’è un’amaricatura, piuttosto contenuta e che non va mai oltre righe, con resina, pompelmo ed una lieve terrosità. Amber Ale pulita e facile da bere, con un bell'equilibrio tra malti e luppoli, tra dolce ed amaro, per una bevuta che lascia soddisfatti.
Formato: 33 cl., alc. 5.6%, lotto L085, scad. 30/11/2014, pagata 3.80 Euro (foodstore, Italia).

mercoledì 28 maggio 2014

L'Agrivoise L'Asociale

La bevuta di oggi inizia idealmente al termine di quella dello scorso 28 Marzo. La Micro Brasserie L'Agrivoise (Saint Agrève, dipartimento dell' Ardeche) realizza una versione “double/imperial” della propria IPA “Vue sur L'Amer”. Stessi malti (Pale, Munich e Caramunich)  e simile batteria di luppoli Centennial, Cascade, Simcoe e Nelson Sauvin (manca il Citra), per una  (Double) Anti Colonialisme Pale Ale che alza il tenore alcolico da 6,4 a  7,5 % e gli IBU da 68 a 98. “L’Asociale”, questo il nome scelto per una birra velata ed ambrata, con belle sfumature di color arancio; la schiuma è molto persistente, biancastra, compatta e cremosa. L’aroma non è certo un elogio alla freschezza, anzi: molto caramello, sentori di frutta molto matura (mango, pesca), mela, quasi canditi, marmellata d’agrumi; l’intensità e la pulizia sarebbero di buon livello  ma è la mancanza di freschezza a rendere poco piacevole l’esperienza. In bocca, a dispetto dei 98 IBU dichiarati , il gusto che forse in origine era amaro è ora spiccatamente dolce, quasi zuccherino: caramello, frutta candita, prugna (!), biscotto. L’amaro arriva proprio alla fine,  resinoso ed un po’ pepato, ma riesce solo in parte a contenere il dolce oleoso della bevuta. Corpo medio, carbonatazione bassa ed alcool abbastanza in evidenza completano il quadro di una Double IPA poco digeribile, che si beve a fatica e che risulta quasi stucchevole, se non fosse per un retrogusto un po’ amaro. Sarebbe da riprovare fresca, forse. 
Formato: 33 cl.,  alc. 7.5%, IBU 98, scad. 17/10/2015, pagata  3,90 Euro (beershop, Francia)




martedì 27 maggio 2014

Weißfux Frauenauer Weißbier

Storia di una beerfirm, ovvero di Matthias Fuchs, medico cinquantenne, dichiaratamente non un birraio ma solamente "uno che ama bere la birra", residente a Wiesbaden, in Assia. Un soggiorno in Inghilterra per motivi di lavoro lo fa innamorare delle birre inglesi (soprattutto Pale Ales, dichiara) che si trasforma poi in passione, complice un viaggio negli Stati Uniti, per la IPA Americane. Rientrato in Germania, l’evidentemente facoltoso Fuchs si rende conto della difficoltà di bere birre americane nella sua nativa Germania. Che fa, allora? Sfrutta la sua casa di vacanza in Baviera, a Zwiesel (praticamente ai confini con la Repubblica Ceca), e la vicinanza alla  Dampfbierbrauerei Zwiesel; chiede loro di produrre una birra “secondo i suoi gusti”, da poter bere innanzitutto in prima persona, e poi, magari da distribuire.  Ecco che a fine 2011 nasce la Rotfux Pale Ale. Nel 2013 il medico lancia una nuova birra: si tratta della Weißfux, una tradizionale hefeweizen luppolata con (o con solo?) Cascade e Citra. L’etichetta, che ovviamente rappresenta una volpe bianca (Weißfux) dovrebbe essere un disegno della figlia del dottore. Ad ogni modo, l’idea di una Hefeweizen con Cascade e Citra mi ha incuriosito abbastanza per passare all’acquisto, ignaro che si trattasse di (un’altra) beerfirm. 
Si presenta di colore oro pallido, opalescente, con un’abbondante testa di schiuma bianca, abbastanza fine e della discreta persistenza. Il naso è piuttosto scarso: c’è soprattutto banana,  con un remotissimo ricordo di agrumi e di speziatura da lievito. Anche in bocca il percorso è quello di una classica hefeweizen, che però non brilla né per fragranza che per pulizia; con banana e qualche note d’agrumi, note di cereali, questa Weißfux ha una gradevole acidità rinfrescante ed una vivace carbonatazione che, abbinate ad un corpo snello a ad una spiccata consistenza watery, la fa risultare molto dissetante e facilissima da bere. Il finale è abbastanza secco, e la chiusura è appena leggermente più luppolata/amara (erbacea, scorza d’agrumi) rispetto agli standard di una hefeweizen. Davvero impercettibile (o irrilevante) la presenza di Cascade e Citra; e se li metti in etichetta per invogliare il potenziale bevitore, dico io, almeno faglieli sentire! Resta da verificare la freschezza di questa  weizen, che non è certo una birra da tenere in cantina, ma la mancanza della data d’imbottigliamento rende impossibile stabilire l’età di questa bottiglia, dall’intensità e dalla freschezza tutt’altro che degna di nota. La data di scadenza abbastanza prossima (agosto 2014) non sarebbe un buon presagio, ma non è raro trovare in Germania birre con una shelf-life abbastanza corta. Resto con la curiosità insoddisfatta di provare una hefeweizen con Cascade e Citra; l’idea c’è, e se qualche homebrewer vuole metterla in pratica e mandarmi un paio di bottiglie per l’assaggio, sarà ricompensato con un post dedicato sulle pagine di questo blog. 
Formato. 33 cl., alc. 5.3%, scad. 16/08/2014, pagata 2,03 Euro (beershop, Germania).

lunedì 26 maggio 2014

Lervig Brewers Reserve Galaxy IPA

Dopo diversi mesi si torna in Norvegia, e si torna a parlare di Lervig Aktiebryggeri, il birrificio di Stavanger guidato dal 2010 dal birraio Mike Murphy, come vi ho più dettagliatamente descritto in questa occasione. Dopo la Rye IPA,  ecco un’altra rappresentante dalla serie Brewers Reserve, ovvero birre che inizialmente Mike produsse con un piccolo impianto pilota e che poi, visto il successo riscosso, sono state introdotte nella produzione stabile di Lervig.
Da un po’ di mesi le Lervig sono importate e distribuite con buona capillarità in Italia, e consiglio a tutti di non perdere l’occasione di assaggiarle, considerando anche che il prezzo italiano è decisamente minore di quello che potreste trovare nella (esosa!) madrepatria. Come il nome può far intuire, la Galaxy IPA è una India Pale Ale single-hop, ossia prodotta solamente con l’omonimo luppolo australiano; completa la ricetta (oltre ad acqua, malto d’orzo e lievito) anche una percentuale di frumento. Si presenta di un bel color dorato con sfumatore arancio, velato, e piccole particelle di lievito in sospensione; la schiuma, biancastra, è fine e compatta, cremosa, ed ha una buona persistenza.  L’aroma è ancora fresco e pungente, con una ricca macedonia aromatica composta soprattutto da pomplemo ed arancio, ma anche mango e melone; troviamo anche lievi sentori di aghi di pino e, in sottofondo, mi sembra anche di avvertire qualche leggera nota di cipolla. 
Un bell’inizio che trove conferme in bocca; base maltata (biscotto) piuttosto leggera, qualche richiamo di frutta tropicale e poi tanti agrumi, soprattutto pompelmo, per una bevuta che progressivamente s’incammina in un crescendo amaro davvero notevole, passando dalla scorza di pompelmo alla presenza, molto più decisa, di note resinose e vegetali.  Se vi piace (molto) l’amaro, questa  è una birra che dovreste segnare sulla vostra lista degli acquisti: vivace e scorrevole in bocca, inizia con una prima parte bilanciata per poi andare quasi alla  “deriva amara”, intensa e pungente, che ne limita giocoforza la velocità di bevuta ma che risulta molto appagante.  Ben lontana da ogni ruffianeria tropicale e dolce, regala un retrogusto amaro (vegetale, resina) molto lungo che vi terrà compagnia per diversi minuti; molto pulita e ben fatta, piacerà sicuramente a chi adora le spremute del luppolo ed a chi si vuole prendere una pausa dalle IPA molto dolci e tropicaleggianti che si stanno ultimamente diffondendo a macchia d’olio.  Se preferite invece una birra dolce o per lo meno equilibrata, direi che questa non è senz’altro quella che un amico dovrebbe consigliarvi.   
Formato:  33 cl., alc. 6.5%, IBU 100, lotto KL 18:05, scad. 29/01/2015, pagata 4,00 Euro (beershop, Italia).  

domenica 25 maggio 2014

El Cantero Saison

Terzo ed ultimo appuntamento con gli spagnoli di  Cerveza Artesanal El Cantero, di Puerto Lumbreras (Murcia), che avevamo incontrato per la prima volta in questa occasione.  Dopo una Double IPA imbarazzante ed una IPA abbastanza anonima e mediocre, ecco che una Saison che, a bicchiere vuoto, risulta essere la meglio riuscita delle tre. 
Di colore oro pallido, velato, forma una generosa testa di schiuma bianca, quasi pannosa, compatta e molto persistente. L'aroma è discretamente pulito, ed apre con una leggera speziatura (chiodi di garofano), sentori un po' aspri di banana e pera acerba, qualche accenno floreale e di arancia, quando la temperatura si alza. Leggera e vivacemente carbonata, è molto scorrevole e facile da bere ma in bocca risulta un po' slegata; il gusto non è particolarmente pulito ma ha una buona intensità: cereali e crosta di pane, banana, agrumi, ed una discreta acidità che la rende abbastanza dissetante e rinfrescante. Manca però di quella secchezza (e di quel carattere rustico, ma qui sarebbe forse pretendere troppo) che ti aspetteresti di trovare in un bicchiere di una Saison. La bocca a fine bevuta rimane un po' "impastata", nonostante la chiusura amara che oscilla tra l'erbaceo e la scorza di agrumi, sopratutto lime. Banana un po' troppo in evidenza, ma è una birra che si ingurgita con grande facilità e che quindi porta il bevitore a non fare troppe riflessioni su quello che ha del bicchiere; ampiamente migliorabile, ma delle tre "El Cantero" assaggiate questa è senz'altro quella che tornerei ad ordinare, se non ci fosse altro da scegliere.
Formato: 33 cl., alc. 6.4%, lotto L08, scad. 10/2014, pagata 3.00 Euro (stand birrificio).

sabato 24 maggio 2014

BrauKunstKeller Amarsi

Dietro al nome BrauKunstKeller si cela il birraio Alexander Himburg; trentaquattro anni, nativo di Berlino, studi di biologia ad Ulm ed infine un diploma di mastro birraio. Decisamente annoiato da tutte le blande produzioni industriali che lo circondano, inizia a sperimentare con le pentole in casa. Cinque anni fa si trasferisce a Michelstadt (Odenwald, circa settanta chilometri a sud di Francoforte) e, appoggiandosi alla Michelstädter Brauerei, inizia a produrre le proprie ricette. Si tratta quindi tecnicamente di una beerfirm; in questa foto, ovviamente il "beerfirm" è quello più elegantemente vestito. Al grido (non particolarmente innovativo, in verità) di "Life is too short to drink bad beer", Alexander inizia a produrre tre IPA ed una American Pale Ale, per cercare di conquistare i bevitori tedeschi a colpi di luppoli americani. E' bello vedere che anche la Germania stia facendo i primi passi nel mondo della cosiddetta "craft bier", ma non vorrei che questa aria nuova significasse solamente luppoli americani; non credo sia il sogno di ogni bevitore andare in Germania per bere le stesse birre (luppolate) d'ispirazione americana che ormai stanno monopolizzando anche l'Inghilterra. La tradizione brassicola  tedesca è enorme, così come sono, purtroppo, numerose le birre tedesche industriali blande e anonime. Ci sarebbe quindi tutto lo spazio per una "craft bier" rispettosa della tradizione ma ricca di profumi e di sapori, senza necessariamente guardare ai luppoli americani; la speranza è che dopo la prima fase "a tutto luppolo" ci sia anche più interesse da parte dei "giovani" birrai per gli stili tradizionali, come peraltro già qualcuno ha iniziato a fare. 
"Amarsi" è il nome abbastanza curioso che viene dato a questa IPA prodotta con malti Pilsner, Monaco e Caramel; i luppoli utilizzati sono Amarillo e Simcoe. Di colore ambrato, velato, con qualche sfumatura più chiara,  ramata; si forma una discreta testa di schiuma ocra, fine e cremosa, che ha buona persistenza. Imbottigliata in febbraio 2014, offre un aroma pulito ed intenso che però non stupisce né per la freschezza che per l'eleganza. Ci sono pompelmo ed aghi di pino ma soprattutto tanta frutta tropicale: mango, ananas, papaya e passion fruit, con qualche sfumatura di caramello. Morbida e gradevole al palato, ha un corpo medio ed una carbonazione abbastanza contenuta. Dopo l'ingresso di biscotto e caramello, ecco il ritorno della frutta tropicale annunciato dall'aroma: mango e pompelmo, ananas, un po' di marmellata d'arancia. Anche in bocca c'è buona intensità ma non particolare freschezza, con il dolce che tende quasi a sovrastare l'amaro, che arriva solo a fine corsa, facendosi finalmente spazio con un retrogusto corto ma abbastanza intenso resinoso e pepato. La bevuta è facile ma non procede con particolare velocità; questa Amarsi mette in mostra un gusto molto dolce e piacione, che però, come detto, non eccelle né per la pulizia che per la freschezza, nonostante la giovane età. Discreta IPA, che becca un 95/100 su Ratebeer ma che è ben lontana dalle migliori rappresentanti di categoria.
Formato: 33 cl., alc. 7.1%, lotto febbraio 2014, scad. 25/08/2014, pagata 3,03 Euro (beershop, Germania).

venerdì 23 maggio 2014

Manerba La Rocca

Quarto appuntamento con il birrificio bresciano Manerba, ramo brassicolo della famiglia Avanzi, già produttori di olio e di vino e guidato, in sala cottura, da Alfredo Riva e Riccardo Redaelli. L’occasione è per assaggiare una tripel, la cui ricetta prevede malti pils, carapils e carahell, un ceppo autoctono di lievito belga ed una luppolatura di Hallertauer Tradition, Hallertauer Saphir, Hallertauer Spalter Select, Cascade e Centennial. Il nome è ovviamente una dedica alla famosa Rocca di Manerba del Garda, paese dove il birrificio ha sede ed il cui sito archeologico - un suggestivo sperone roccioso che s'affaccia sulla parte meridionale del lago - fa parte del patrimonio Unesco.
La Rocca, in questo caso la birra, nel bicchiere é del tipico color arancio, velato, e forma un generoso cappello di schiuma bianca, compatta e cremosa, dalla trama fine e dalla buona persistenza. Al naso c'è buona intensità e pulizia, con note di arancio e cedro, albicocca, frutta candita, una lieve speziatura (coriandolo), curaçao e zucchero candito. In bocca rivela un corpo medio, una carbonazione (media) un po' sottotono rispetto a quello che ci si aspetterebbe da una tripel, ed una consistenza morbida ed oleosa. 
C'è un bell'equilibrio fatto di note di biscotto e di frutti a pasta gialla (pesca e albicocca), cedro candito, polpa d'arancia e qualche accenno di miele; il percorso gustativo, che in pratica ripropone quello aromatico, chiude con una leggera amaricatura (scorza d'arancia) ed una corretta secchezza che ripulisce il palato dal dolce. L'alcool (7.3%) è molto ben nascosto ma paradossalmente quello che forse manca un po' in questa tripel è proprio un lieve tepore etilico, che irrobustirebbe la bevuta, levandole di dosso un po' di timidezza; dettagli a parte, questa La Rocca risulta pulita, equilibrata e ben fatta. Ottimo, come per tutte le Manerba, il rapporto qualità prezzo. Rimane solo da togliere il refuso in etichetta, ossia "Tripple Belga": se a qualcuno del birrificio capita di leggere queste righe, vi prego, fate qualcosa. Chiamatela alla francese (Triple), chiamatela alla fiamminga (Tripel), ma Tripple proprio no; e, già che ci siete, che ne dite di mettere anche la data d'imbottigliamento ?
Formato: 75 cl., alc. 7.3%, IBU 28, scad. 23/01/2015, pagata 5.80 Euro (punto vendita del birrificio).

giovedì 22 maggio 2014

Harpoon 100 Barrel Series - #49 Brown IPA

La Harpoon Brewery viene fondata a Boston, nel 1986 da Rich Doyle e Dan Kenary che, con il socio George Ligetti, di ritorno da un “illuminante” viaggio in Europa decidono di concretizzare un’idea che avevano in mente già dai tempi del college:  aprire un birrificio.  “Sapevamo quello che volevamo bere,  ma avevamo bisogno di un aiuto per produrlo” dicono, ed ecco che viene assunto un birraio (Russ Heissner) e vengono acquistati gli spazi di alcuni magazzini nel porto di Boston, in mezzo ai vari commercianti di pesce. Nell’estate del 1987 vede la luce la Harpoon Ale, prima Produzione di Harpoon, poi affiancata dalla Golden Lager; un altro anno da ricordare è il 1993, per due motivi.  Appare per la prima volta, come birra stagionale estiva, la Harpoon IPA, che diventerà nel corso del tempo la loro flagship beer.  Contrariamente alla costa Pacifica, nei primi anni 90 non c’era – affermano – ancora nessuna birra molto luppolata prodotta nel resto degli Stati Uniti. La Harpoon IPA viene prodotta con luppoli nord-orientali ed inglesi e, nonostante le perplessità stessi dei produttori, che pensavano di aver realizzato una birra troppo estrema, la IPA diviene rapidamente la birra più venduta della Harpoon. Ma il 1993 è anche l’anno del breakeven: dalla fondazione del 1986, la Harpoon inizia finalmente a realizzare utili.  I soldi permettono l’upgrade dell’impianto produttivo, che passa da 20 a 60 barili nel 1994, e l’installazione della prima linea d’imbottigliamento interna (225 bottiglie al minuto) del 1997. In precedenza le birre erano imbottigliate alla FX Matt, ad Utica. Nel 2000 la Harpoon acquista quel che resta della defunta Catamount Brewery di Windsor (Vermont), che consente di aumentare ulteriormente la capacità produttiva ma nel 2002 è già operativo un nuovo ampliamento della sede di Boston, con un impianto da 120 barili che arriva – già assemblato – direttamente dalla Germania. Nel 2006 viene superato il muro dei 100,000 barili prodotti annualmente, mentre nel 2010 si aggiungono altri cinque nuovi fermentatori. L’ultimo ampliamento è dell’anno scorso (2013) dove viene inaugurata la Beer Hall, uno spazio con 20 spine, riempitore automatico di growler adiacente al rinnovato "Visitor Center", con una vista sulla nuovissima linea d’inlattinamento.   
Ma facciamo un passo indietro al 2003, quando la Harpoon lancia la “100 Barrel Series”, ovvero una produzione limitata a piccoli lotti, realizzati su un impianto pilota. L’inaugurazione avviene con una Oatmeal Stout,  seguita da una  Belgian Wit, una Dubbel, un Barley Wine (2006), una Alt ed una Scotch Ale. Il numero progressivo indica che ad oggi siamo arrivati alla 100 Barrel Series numero 49, e in questo caso si tratta di una Brown IPA, che cerca di combinare i malti scuri di una Brown Ale con una generosa luppolatura di Chinook, Simcoe ed Amarillo.
Nel bicchiere si presenta di color ambrato molto carico, quasi tonaca di frate, con riflessi ramati; si forma un cappello molto persistente di schiuma ocra, fine e compatta, molto cremosa. L'aroma ha una discreta intensità ed una buona pulizia: accanto ai sentori di pompelmo e di aghi di pino troviamo leggere tostature, qualche note terrosa e di muschio, quasi di erba umida, caramello. Il percorso continua pressoché senza nessuna deviazione in bocca, con un alternanza di tostato, terroso, caramello, pompelmo e qualche sfumatura dolce, fruttata, che ricorda la polpa dell'arancia e lievi tracce di miele. Il gusto è ancora fresco, l'amaro s'intensifica in un finale dall'ottima intensità, pungente, dove il terroso e la resina si dividono il palcoscenico, con qualche sfumatura terrosa. Il risultato - o l'incontro/scontro tra la parti amare e quelle dolci non è però del tutto convincente; questa Brown IPA ha una buona intensità ma in bocca pecca un po' di pulizia e cerca un compromesso tra le due componenti che risulta ancora irrisolto, e la birra non sembra prendere una direzione ben precisa o, se volete, ha una personalità ancora non ben definita. Sul collo della bottiglia non è indicata la data d'imbottigliamento ma piuttosto quella di scadenza, indicata al 15 Maggio; una breve ricerca in internet mi fa scoprire che la birra ha debuttato lo scorso Febbraio, quindi si tratta sostanzialmente di una shelf life - del tutto ragionevole - di 90 giorni.
Formato: 65 cl., alc. 5.7%, IBU 60, scad. 15/05/2014.

mercoledì 21 maggio 2014

Giesinger Maibock

Monaco di Baviera è principalmente nota per le famose “sei sorelle” industriali (Augustiner, Hacker Pschorr, Hofbräu, Lowenbräu, Paulaner e Spaten-Franziskaner)  che hanno il monopolio non solo dell’Oktoberfest ma anche della quasi totalità dei locali della città; eppure anche in una delle regioni più tradizionali della Germania qualcosa si sta (molto) lentamente muovendo. Sino ad ora, se non erro, l’unica alternativa negli immediati dintorni del centro città era il piccolo brewpub Forschungsbrauerei  nel quartiere di Perlach. Da qualche tempo il birrificio bavarese Camba Bavaria ha aperto la propria Munich Tap House; non si tratta di un brewpub ma di un bar poco lontano dalla stazione ferroviaria di München Ost  (zona est) con un’ampia scelta di birre che vanno ben oltre i confini delle sei sorelle e si spinge sino agli Stati Uniti con delle chicche (date un’occhiata alla lista sul sito) davvero interessanti, se effettivamente disponibili. Ma se ci limitiamo ai produttori, l’unica novità è presentata dalla  Giesinger Bräu, anche nota come Das Bierlaboratorium. 
La storia inizia dall’homebrewing per poi passare alla forma di un microbirrificio che trova sede in un garage doppio nella strada Birkenau n. 5  del quartiere di Giesing (da qui ovviamente il nome GiesingER) di Monaco dove, a partire dal 2006,  Steffen Marx e Tobias Weber iniziano a produrre “strane” birre che contengono frutta e spezie. Ben presto il nome inizia a circolare tra i bevitori di Monaco, la domanda aumenta e le birre “particolari” vengono affiancate da più tradizionali helles e weizen. Nel 2007 sono già 300 gli ettolitri prodotti e venduti, che arrivano a quota 1000 nel 2011; si rende necessaria una piccola espansione, che consiste nell’allargarsi in altri tre garage “doppi” adiacenti dove trovano posto il magazzino ed altri fermentatori. Nel 2013 viene intrapreso un piano di espansione molto più ambizioso, con l’acquisto di una porzione di un fabbricato nella vicina Martin- Luther -Straße e l’installazione di nuovi impianti che garantiranno una capacità di circa 5000 ettolitri l’anno. I lavori sono già iniziati da tempo e dovrebbero concludersi proprio in questo periodo. In questa pagina potete vedere un rendering di come sarà la nuova Giesinger Bräu, dove sarà possibile anche mangiare (45 posti a sedere e, in estate, anche una sorta di terrazzo- Biergarten); e, se siete interessati a finanziare, ecco il link per il crowdfunding. La gamma prodotta da Giesinger è tipicamente tedesca, con helles, weizen, dunkel, marzen e diverse produzioni stagionali, tutte non filtrate e non pastorizzate. Ratebeer elenca anche una serie di produzioni meno classiche, come ad esempio una IPA, una  Kaffee Weizen  ed una Weizenbock speziata con rosmarino e zenzero. Siamo in Maggio e, giustamente, una delle produzioni stagionali del birrificio è una Maibock, uno stile non molto diffuso e che sostanzialmente rappresenta di solito una leggera variazione delle più comuni Bock: più chiare di colore, più secche e con una presenza di luppolo più evidente rispetto alle Bock.
Una bottiglia quindi molto fresca, imbottigliata in aprile e con una data di scadenza molto breve (fine Maggio) resa evidentemente possibile da un mercato locale (le birre si trovano solo a Monaco, sia allo spaccio del birrificio che in alcuni locali e Getranke shop) che ne assorbe in brevissimo tempo tutta la limitata produzione. Chi segue questo blog regolarmente avrà notato – ad esempio nel post di ieri – quali benefici porta riuscire a bere una birra freschissima; si tira spesso in ballo la freschezza quando si parla di birre luppolate, ma lo stesso discorso si deve applicare anche a birre – come questa – che hanno un profilo prevalentemente maltato. 
La  Giesinger Maibock è di colore ambrato, velato, con una schiuma biancastra e cremosa dalla trama abbastanza fine, con una discreta persistenza. Al naso, molto pulito, a parte i sentori di caramello, frutta secca e (lievissimi) di mela, sembra di essere entrati in una panetteria: fragranti profumi di biscotto, pane tostato e  crackers. Anche in bocca c’è una gran bella pulizia,  e si ritrovano le stesse note di crackers e di pane, di biscotto al burro, caramello e, in secondo piano, miele e uvetta. Il corpo è medio, con una presenza molto contenuta di bollciine e un compromesso molto ben riuscito tra morbidezza palatale e scorrevolezza. Il finale è molto più secco di quello che il gusto – dolce – poteva far intendere, con una discreta presenza di mandorla amara, una lieve tostatura ed un timido warming etilico. 
Ratebeer (ah, sempre lui!) le riserva un impietoso punteggio di 19/100, anche se i rating risalgono al periodo 2008-2011 (forse quando il birrificio era ancora in rodaggio); se c’era bisogno di un’ulteriore prova del fatto che il sito di rating va preso con molta cautela, questa ne è una. Perché questa è una buona (Mai)bock, pulita e fragrante come non capita spesso di riuscire a bere, elogio dell’equilibrio e della facilità di bevuta tipica della tradizione tedesca. La primavera inoltrata di Monaco non raggiunge certo le temperature italiane, ed una Maibock è quello che ci vuole per avere un po’ di tepore nelle fresche serate primaverili, senza mettere mano all’artiglieria pesante chiamata “doppelbock”. 
Formato: 50 cl., alc. 6.2%, scad. 29/05/2014, pagata 1.60 Euro (beershop, Germania).

martedì 20 maggio 2014

Vento Forte Cascade Pale Ale

Approfitto di una delle (purtroppo) poche occasioni in cui mi capita tra le mani una bottiglia di birra molto fresca (imbottigliata fine marzo 2014), almeno per i parametri italiani;  torniamo a parlare del nuovissimo birrificio laziale (Bracciano) Vento Forte,  operativo da fine Gennaio 2014 e guidato da Andrea Dell’Olmo.
Il Cascade è una varietà di luppolo sviluppata dallo USDA (US Department of Agriculture) assieme alla Oregon State University nel 1956; oltre a voler sviluppare una varietà di luppolo con grandi qualità aromatiche, i ricercatori volevano anche creare una pianta che potesse resistere bene alla peronospora. Nominato Cascade in onore della regione montuosa statunitense che tocca gli stati di Washington ed Oregon, e della British Columbia canadese, il luppolo venne finalmente commercializzato negli anni 70 e - dicono - utilizzato per la prima volta nel 1976 dalla New Albion Brewing Company, anche se la “leggenda” di questo luppolo è indiscutibilmente legata alla diffusione della Sierra Nevada Pale Ale, realizzata da Ken Grossman nel 1980. Si può dire che il Cascade sia stato uno dei primi protagonisti della Craft Beer Revolution americana, avendo conquistato in breve tempo il cuore di molti birrai; ad oltre trent'anni di distanza il Cascade è ancora il luppolo maggiormente utilizzato dai birrifici craft americani, anche se la sua fama è stata un po' oscurata dalle innumerevoli altre varietà di luppolo immesse sul mercato per soddisfare le continue necessità d'innovazione e di sperimentazione che si porta dietro il movimento della "birra artigianale". Sono arrivati l'Amarillo ed il Simcoe, il Nelson Sauvin ed il Citra, giusto per citarne alcuni, che hanno pian piano catturato la curiosità dei birrai e dei birrofili. 
Queste premesse per dire che mi sono avvicinato a questa Cascade Pale Ale di Vento Forte con un po’ di sufficienza, condizionato anche dal poco entusiasmo che ho nei confronti delle birre single-hop, spesso interessanti dal punto di vista didattico ma non altrettanto gustose da bere. Ebbene mi devo ricredere, perché questa single-hop mi ha positivamente impressionato, ancora di più della già ottima Follower IPA bevuta qualche giorno fa.
Stappata in fretta, per godere appieno della freschezza dei luppoli; questa American Pale Ale si presenta dorata e velata, con una bella “testa” di schiuma bianca, fine e cremosa, che ha una buona persistenza.  L’aroma è una piacevolissima sorpresa che ci ricorda tutta la grandezza di questa varietà di luppolo (ammetto di aver dubitato di aver nel bicchiere una single-hop): pulito e freschissimo, risultato di (immagino) un abbondante dry-hopping; passano in rassegna sentori floreali, di pompelmo e di arancio, di mango. Aroma pulitissimo e, soprattutto, freschissimo, con qualche nota balsamica, quasi umida, di aghi di pino. Ma la festa continua in bocca, dove questa Cascade Pale Ale continua a sorprendere: pane e cereali sono la base necessaria per supportare il pompelmo e gli agrumi che costituiscono gli elementi principali. C'è qualche lieve sfumature più dolce a bilanciare, lievi rimandi ai frutti tropicali, ed un bellissimo finale, fragrante e vivace, ricco di scorza di pompelmo. Il palato rimane asciutto e pulito ad ogni sorso di questa American Pale Ale pulitissima, ben bilanciata e dall'amaro abbastanza contenuto: la gradazione alcolica è leggermente superiore (5%) a quella di una session beer, ma è difficile fermarsi alla prima pinta di una birra che spinge alla bevuta seriale. Corpo leggero, carbonazione media, giusto livello di acquosità per rendere la bevuta facile (ma non sfuggente) completano la fotografia di questa bevuta.
Sono consapevole del fatto che il mio giudizio è indubbiamente influenzato dalla freschezza di questa birra; se la bevessi tra sei mesi, sicuramente ne parlerei in termini meno entusiasti. Complimenti quindi al birrificio che ha deciso di mettere la data d'imbottigliamento in etichetta, un'informazione fondamentale che dà al consumatore la possibilità di sapere "l'età" della birra che sta per comprare. In questo stato rimane per me una delle migliori bevute fatte dall'inizio dell'anno, una birra semplice ma convincente e gustosa, da mettere assolutamente sulla lista degli acquisti per la stagione calda che sta per arrivare. Chiudo con una piccola postilla semiseria: il "ruttino" al gusto di Cascade è sempre una  gran goduria.
Formato: 33 cl., alc. 5%, lotto 3/14, imbott. 24/03/2014, scad. 01/02/2015, pagata 3,90 Euro (beershop, Italia).

lunedì 19 maggio 2014

To Øl Black Ball Porter

To Øl numero sette, che viene ospitata sulle pagine del blog; la beerfirm danese ha ormai quasi raggiunto il maestro Mikkeller come diffusione nella nostra penisola, con birre che si trovano in tutti i beershop. Non intendo aggiungere altro fuoco sulla polemica birrifici vs. beerfirm che sta animando le discussioni brassicole di questi giorni sia in Italia che all'estero. Da consumatore preferisco concentrarmi su quello che è contenuto all'interno della bottiglia e, un volta che in etichetta viene data completa trasparenza sul luogo in cui la birra viene prodotta (senza dover per forza decifrare un codice accisa o una partita Iva e, aggiungo io, possibilmente indicando la data di imbottigliamento !), penso che sia la qualità del prodotto a fare la giusta selezione naturale, premiando i buoni produttori e, pian piano, sterminando i cattivi. Del resto, meglio una birra di ottimo livello prodotta da una beerfirm che una pessima birra prodotta da un birrfiicio vero e proprio. Ecco, magari, giusto per una questione di onestà verso i consumatori, se siete una beerfirm evitate di chiamarvi "Birrificio XX".
La porter di To Øl non brilla di originalità per il nome scelto: quante birre scure (porter o stout, se siete tra quelli che sostengono che ci sia differenza tra i due stili) richiamano la famosa palla da biliardo nera, numero otto?  Per lo meno i danesi hanno l'accortezza di non fotografarcela in etichetta, facendo una scelta più minimale e richiamando il biliardo solamente per la forma della "cornice" che circonda il nome della birra e che rappresenta il perimetro di un tavolo da biliardo. 
L'etichetta non riporta il luogo dove la birra viene prodotta, ma è il sito ufficiale della beerfirm a dichiararlo: si tratta del fido De Proef, in Belgio; la ricetta di questa "hoppy porter" prevede malti affumicati, chocolate, cara munich e brown, fiocchi d'avena, zucchero di canna (cassonade) ed un mix di luppoli che non viene rivelato. Nel bicchiere è perfetta e maestosa, di colore praticamente nero, con una crema di schiuma compatta e soffice, beige, molto persistente. L'aroma non è particolarmente complesso ma è molto pulito ed elegante, soprattutto per quel che riguarda i profumi di caffè in grani; a corollario ci sono orzo tostato, leggerissime note di cioccolato e di cenere. Il biglietto da visita (l'aspetto visivo) trova piena corrispondenza in bocca: è una (robust) porter cremosa e vellutata, dal corpo medio e molto poco carbonata. La scorrevolezza è indubbiamente un po' sacrificata a favore di una morbidezza davvero godibilissima; grande intensità nel gusto, con abbondanza di tostature e di caffè, cioccolato amaro e qualche nota più dolce di caramello che cerca di bilanciare. Oltre all'acidità di malti scuri c'è anche una generosa luppolatura che, a fine corsa, svolge quella necessaria azione di alleggerimento per asciugare il palato e dare qualche istante di tregua, prima che la corsa riparta in un retrogusto molto lungo ed intenso, carico di caffè e di tostature. Ma quello che rimane impresso nella memoria di chi la beve è senza dubbio il morbidissimo "mouthfeel", denso, cremoso, quasi una mousse liquida. E poco importa (al sottoscritto) se la bevuta è meno scorrevole del previsto;  del resto stiamo parlando di una porter "robusta" (8%) che non è stata pensata per essere bevuta in maniera seriale. E allora "keep calm e sorseggiala", magari in abbinamento ad un dessert o anche sul divano, nell'immediato dopo cena, in solitudine; personalmente le preferisco ancora delle porter ugualmente cremose ma meno sature di  tostature e di caffè, come ad esempio quella di Founders, ma se non vi spaventa il DNA scandinavo (che sovente coincide con il catrame), questa Black Ball è da provare non appena vi capita a tiro.
Formato: 33 cl., alc. 8%, scad. 28/10/2015, pagata 4,00 Euro (beershop, Italia).

domenica 18 maggio 2014

Rittmayer Smokey George

Oggi ci si sposta virtualmente in Franconia, ad Hallerndorf, una ventina di chilometri a sud di Bamberga, dove ha sede la Brauerei Rittmayer della quale vi ho già parlato in questa occasione.
Se Bamberga vi fa immediatamente pensare ad una rauchbier, ci avete visto giusto, anche se in questo caso non si tratta di una classica birra prodotta con malti affumicati in loco. Al contrario della Rittmayer Rauchbier (che raccoglie sempre medaglie all'European Beer Star), la seconda birra affumicata del birrificio tedesco si chiama Smokey George e viene prodotta con malto torbato che arriva dalla Scozia.
Nel bicchiere si presenta di un bel color ambrato, quasi limpido; la schiuma, biancastra, è compatta e cremosa, ha una trama fine e buona persistenza. Il naso è assolutamente dominato dall'affumicato, che emerge con le diverse forme del legno, della pancetta e della carne affumicata; forse c'è qualche nota di caramello in secondo piano, ma è davvero difficile percepire altro che non sia affumicato. Lo stesso discorso si può fare anche in relazione al gusto: dopo la fortissima intensità dell'aroma, i sapori appaiono un po' più sbiaditi, a partire dal timido ingresso maltato (biscotto, caramello). Anche il palato viene invaso da un'ondata di affumicato, quasi "grassa", "carnosa"; la sensazione è quasi quella di bere un bicchiere di carne affumicata liquida, indubbiamente più opulente che raffinato. Una lievissima pausa nel finale, con un tocco amaricante di mandorla, e poi ritorno d'affumicato nel corto retrogusto. Una birra estrema (e non solo se confrontata con l'equilibrio che di solito caratterizza le birre tedesche) monopolizzata dall'affumicato; ma dopo i primi sorsi, terminato lo stupore, la sua eccessiva presenza tende a saturare il palato e ne limita la bevuta, facendo venire voglia di bere qualcos'altro. La bottiglia in questione era in scadenza, può darsi che la sua scarsa freschezza ne abbia un alterato gli equilibri con il risultato di una birra esageratamente affumicata, poco carbonata, dal corpo leggero e con una consistenza decisamente watery.
Formato: 50 cl., alc. 5%, lotto 09:46 P, scad. 06/05/2014, pagata 1,38 Euro (beershop, Germania).

venerdì 16 maggio 2014

Sierra Nevada Harvest Single Hop IPA Yakima #291

Nella Harvest Series, il birrificio californiano Sierra Nevada realizza birre dedicate al raccolto del luppolo; le due rappresentanti più famose di questa "gamma" sono senza dubbio la Northern Emisphere Harvest  e la Southern Emisphere Harvest, due "fresh hop" prodotte con luppoli che nel giro di pochissimi giorni arrivano dalla piantagione al birrificio. Bottiglie che sono anche arrivate in Italia, in condizioni (= freschezza) ovviamente non ottimali. Quest'anno Sierra Nevada ha deciso di allargare a cinque la gamma della Harvest Series; oltre alle due già citate, è stata realizzata una "single hop" IPA, una Wild Hop IPA, prodotta con un luppolo "selvaggio" (= non coltivato),  prevista per il prossimo dicembre, ed una IPA con un nuovo luppolo che dev'essere ancora deciso.
Lo scorso Febbraio viene inaugurata la Harvest Series del 2014 con questa Harvest Single Hop IPA Yakima #291. Il nome in codice identifica un luppolo "sperimentale", ancora senza nome, che è stato realizzato mediante l'incrocio di altre diverse tipologie di luppolo nella Yakima Valley. A Chico, quartiere generale della Sierra  Nevada, iniziano ad utilizzarlo quattro anni fa in qualche piccolo lotto pilota, una volta che Tom Nielsen (il "guru" delle materie prime di Sierra Nevada) lo ha selezionato facendo una settantina di "tisane" di diverse e nuove varietà di luppolo. Dopo la selezione il birrario Scott Jennings realizza delle cotte (la ricetta è una semplice Pale Ale, single hop) in un impiantino pilota da dieci barili; le birre vengono fatte assaggiare alla cieca a Ken Grossman (il fondatore di Sierra Nevada, per chi non lo conosce) che approva, conquistato da quell'aroma (e gusto) di mirtillo che il luppolo 291 sembra donare alla birra. Le quantità di questa varietà sperimentale di luppolo coltivate sono però ancora troppo modeste e non sono sufficienti per brassare il quantitativo di birra che alla Sierra Nevada vogliono produrre; nel corso degli anni aumentano gli ettari piantumati a "291" ed ecco che nel 2013 alla Sierra Nevada possono finalmente produrre la single-hop IPA che hanno in mente.
Lotto di produzione stampigliato al laser sul collo della bottiglia (febbraio 2014) e sull'etichetta ben in evidenza la scritta "100-DAY IPA", ovvero da consumarsi entro cento giorni; siamo a metà maggio, quindi proprio al limite del termine di fruizione "consigliato".
Si presenta di color oro, velato, con un bel cappello di schiuma bianca, compatta, fine e cremosa, dalla buona persistenza. Nonostante mi sforzi di cedere alla suggestione, al naso non riesco a trovare nessuna traccia di quei sentori di "mirtillo" che dovrebbero essere caratteristici di questo luppolo "291"; trovo piuttosto un bouquet fresco e pungente, balsamico, di aghi di pino e di resina, vegetali, di erba bagnata, di pompelmo e qualche nota floreale un po' più dolce. Lo stesso scenario si ripropone in bocca: il supporto maltato (pane) è davvero ridotto ai minimi termini, e la bevuta diviene subito piuttosto amara, una sorta di "showcase" dell'unica varietà di luppolo utilizzato. Un po' di scorza di pompelmo, qualche accenno dolce di polpa d'arancio e forse di pesca, ma soprattutto tanta resina, molto fresca (= pungente, pepata), qualche sfumatura di menta ed una sensazione vegetale umida, quasi di oli essenziali, come se qualcuno vi "spremesse" un fiore di luppolo in bocca. Notevole l'intensità, ancora ottima la freschezza, eccellente la pulizia, ma notevole è anche il livello di amaro che trova davvero pochi elementi a bilanciare. E, per qualche sorso, questa IPA soddisfa la voglia d'amaro di chi beve, alla faccia di tutte le IPA tropicaleggianti, ruffiane e "dolci" che vengono prodotte in questo momento. Una single-hop interessante ma soprattutto didattica, che però arriva in un formato (24 once = 71 cl.) che risulta un po' troppo generoso rispetto al livello di bevibilità di questa birra. Il corpo è medio-leggero, la carbonazione abbastanza contenuta: dal punto di vista della consistenza scorre bene in bocca ma, come detto, sono altri i fattori che rallentano la bevuta sono altri.
Formato: 71 cl., alc. 6.5%, lotto 04/02/2014 C218:46, scad. a cento giorni dalla data d'imbottigliamento.

giovedì 15 maggio 2014

Gladium Symphony

Secondo appuntamento con  il Birrificio Artigianale della Presila / Gladium, incontrato per la prima volta ad inizio anno in questa occasione. Dopo una “chiara” 1059 O.G. ecco un’altra birra dichiaratamente ispirata alla tradizione belga (Belgian Dark Strong Ale, recita l’etichetta); nata come “Rossa”  viene poi rinominata come “Symphony” nel recente restyling che ha caratterizzato tutte le etichette del birrificio calabrese. 
L’aspetto è davvero splendido, un bell’ambrato carico con dei riflessi rubino, solo leggermente velato;  si forma un discreto cappello di schiuma biancastra, compatta e cremosa, dalla buona persistenza. L’aroma non è molto intenso ma è caratterizzato da una buona pulizia e da sentori dolci di caramello, ciliegia sciroppata e frutti di bosco, bilanciati da quelli leggermente aspri di mela rossa, prugna acerba e ribes. Un percorso abbastanza simile si sviluppa anche in bocca, tutto giocato sui malti, con biscotto al burro e caramello, una lieve componente fruttata (prugna) ed un leggero warming etilico, unica avvisaglia della gradazione alcolica (8%); il gusto è però meno pulito dell’aroma, con una lieve astringenza finale dove c’è una nota amaricante di mandorla.  Nonostante si dichiari una Belgian Strong Ale, non ci sono in verità molte tracce di Belgio e, sebbene questa Symphony risulti molto più convincente della 1059 assaggiata qualche tempo fa, anche questa birra risulta un po’ troppo anonima e con poco carattere. Il corpo è medio, la carbonazione è medio-bassa con una discreta morbidezza al palato; il retrogusto è abboccato, con predominanza di caramello e una lieve presenza etilica. Posso in parte capire la necessità e la volontà di realizzare delle birre “facili”, che possano facilmente essere assimilate da chi non è ancora molto indottrinato alla cosiddetta “birra artigianale”, soprattutto in una regione (la Calabria) dove le cose si stanno muovendo con (molto) ritardo rispetto alla maggior parte della nostra penisola, ma se ci si vuole far conoscere anche da una porzione più ampia di appassionati birrofili, c’è secondo me ancora molto lavoro da fare sulla caratterizzazione delle ricette.
Formato: 33 cl., alc. 8%, lotto 12R, scad. 07/09/2014, pagata 2.50 Euro (stand birrificio).

mercoledì 14 maggio 2014

Schoppe Black Flag

Anche in Germania sta lentamente prendendo piede una piccola “craft beer revolution”, e certamente il punto di partenza non poteva che essere Berlino, la città europea che negli ultimi 25 anni di storia ha vissuto il maggior numero di cambiamenti. Sino al 2011 a Berlino e dintorni operavano circa una ventina tra birrifici e brewpub impegnati a dissetare residenti e turisti a colpi di pils, dunkel, weizen e di Berliner Kindl (Gruppo Radeberger). Vi segnalo questo interessante articolo (in inglese) che cerca di ripercorrere la (breve) storia del rinascimento brassicolo a Berlino. I primi tentativi risalgono al 1996, quando Asbjorn Gerlach e Stefan Wendt aprono la Berlin Bier-Company, un negozio per homebrewing ed un microbirrificio per ha però vita breve abbassando la serranda già nel 2000. Riesce tuttavia a farsi conoscere per le continue violazioni del Reinheitsgebot (!); una birra chiamata Turn con fiori di canapa indiana, una con peperoncino piccante, una (sic) Ginseng-Lemon Ale.  Chiusa l'esperienza, Gerlach emigra in Cile (fonderà la Kross Brewery),  e Wendt non vuol più sentir parlare di birra. Alla Bier-Company, dietro le quinte, lavoravano anche Thorsten Schoppe e Matthias Schwab; lasciamo perdere il secondo (che nel 2005 fonderà sempre a Berlino la Brewbaker) e concentriamoci sul primo.   Homebrewer nella cucina di casa dei genitori, un paio d’anni come apprendista alla Feldschlößchen di Braunschweig (la sua città natale) come maltatore e come birraio, si trasferisce nel 1994 a Berlino per studiare da birraio alla VLB e nel 2001 diventa il birraio della Brauhaus Südstern nel quartiere di Kreuzberg di Berlino, una sorta di brewpub con ristorante e biergarten annesso. Se inizialmente la produzione è esclusivamente rivolta a rifornire a soddisfare i consumi del ristornante con una helles, una dunkel ed una weizen lentamente, con il tempo Thorsten Schoppe inizia a “sperimentare” ed a produrre birre che fuoriescono dai tradizionali stili tedeschi. Nel 2009 anche la piccola Südstern entra in competizione per l’assurdo trofeo della birra più alcolica al mondo (27.6%)  con la XXL (ora rinominata Schoppe XXL)  che ha solo lo 0.6% in più della Utopia di Samuel Adams. Il record viene comunque detenuto per poco visto che arriva subito la Schorschbock 31% della quale abbiamo parlato in questa occasione. Ecco spuntare una IPA ed una lunga serie di birre (occasionali e stagionali) che potete trovate elencate su questa pagina. Thorsten Schoppe fonda anche il suo proprio marchio; la Schoppe Bräu, con il quale inizia a commercializzare le bottiglie prodotte alla Sudstern; ci sono sia  le stesse birre che potete bere al brewpub (a nome Sudstern), che nuove ricette come ad esempio una IPA alla Segale (Roggen Roll Ale), una double IPA (10%) dal nome abbastanza significativo (Holy Shit Ale) ed una Imperial Stout chiamata Black Flag che mi appresto a stappare.
Forse la prima Imperial Stout (?) mai prodotta a Berlino, nel bicchiere è praticamente nera con delle leggere sfumature color marrone scuro; la schiuma, beige, è fine e cremosa, compatta, ed ha una buona persistenza. Il naso non è un trionfo di profumi: intensità discreta, sentori di caffè ed orzo tostato, carrube, qualche sfumatura che ricorda il mirtillo ma anche la gomma bruciata. In bocca è gradevole e morbida, con un corpo medio ed una carbonazione abbastanza bassa; è un imperial stout che comunque predilige la scorrevolezza alla viscosità ed alla cremosità. Il gusto è tutto giocato su caffè, tostature e liquirizia, con una buona intensità ma una pulizia ed una eleganza solo discrete. In particolare sono le tostature a non essere molto aggraziate, mentre l’alcool (9%) è invece nascosto benissimo. Lievissimo salmastro nel finale, gradevole acidità data dal caffè con un retrogusto abbastanza corto di caffè e liquirizia. La bottiglia prossima alla data di scadenza è solo una giustificazione parziale, forse ne risulta un po’ penalizzato l’aroma ma si tratta comunque di un tipo di birra che solitamente si può lasciare per diversi mesi in cantina senza doversi preoccupare del tempo che passa;  Imperial Stout un po’ grezza e sulla quale c’è ancora da lavorare, al momento ancora molto distante da molte altre compagne della stessa categoria stilistica.
Formato: 33 cl., alc. 9%, lotto non riportato, scad. 05/2014, pagata 3,03 Euro (beershop, Germania).

lunedì 12 maggio 2014

Vento Forte Follower IPA

Apertura davvero recente quella del birrificio di cui parlo oggi. Si tratta di Vento Forte, con sede a Bracciano, guidato dall’ex-homebrewer Andrea Dell’Olmo; leggo che l’idea di aprire un birrificio nasce nel 2009, ma si concretizza solamente nel  2013 a causa di diversi ostacoli, immagino anche di natura burocratica. A fine Gennaio 2014 arriva il debutto in società, con la Starter IPA che viene presentata in contemporanea al Ma Che Siete Venuti a Fa ed al Birra+ di Roma. L’ispirazione che al momento guida le birre prodotte è quella americana, in particolare della West Coast; non a caso Andrea dichiara di essere stato “illuminato” dalla bevuta di una IPA Californiana che ha significato, per lui, il punto di non ritorno alle birre industriali. Al momento la gamma si compone di una Pale Ale (con Amarillo, Citra e Sorachi Ace), una West-Coast style Pils (con Cascade e Marynca), una Pale Ale single hop (Cascade) e la nuova arrivata Cargo, una brown porter. Alla Starter IPA del debutto fa poi seguito la Follower IPA, che secondo il sito del birrificio ne condivide la stessa luppolatura, “principalmente” di Simcoe e Mosaic. Apprezzabilissima, tra i pochi in Italia, la scelta di indicare la data d’imbottigliamento in etichetta e di “consigliare il consumo entro due mesi per apprezzare al meglio la freschezza del luppolo”; la scadenza “ufficiale” della birra rimane comunque ad un anno (ben più dei quattro mesi che ad esempio indica The Kernel) , ma almeno i consumatori sono in grado di sapere quanti mesi ha sulle spalle la birra che stanno pensando di acquistare. 
Follower IPA dunque. Imbottigliata il 25 Marzo scorso, al contrario di quanto sembra dalla foto si presenta di color arancio, opaco, con un bel cappello di schiuma bianca, quasi pannosa, abbastanza fine, compatta e molto persistente.  Il naso riflette i neppure due mesi di vita di questa IPA, ed è quella freschezza che vorremmo sempre trovare:  molta frutta tropicale appena tagliata, mango, passion fruit e papaya, ananas, con il dolce che a volta regala qualche suggestione di frutti di bosco come il lampone. Non è tuttavia una dolcezza stucchevole: la sua freschezza ed una controparte meno di dolce di pompelmo formano un bouquet olfattivo bilanciato; pulito ed elegante. L'inizio è davvero ottimo, ed in bocca la Follower IPA continua a muoversi sugli stessi binari del tropicale (mango e papaya) con una base di caramello e di biscotto, anche se il livello di pulizia del gusto è leggermente inferiore a quello (ottimo) dell'aroma. Il risultato è parecchio ruffiano e piacione, con qualche sfumatura di melone retato e un amaro che, pur non spingendo eccessivamente il pedale dell'acceleratore, riesce comunque a bilanciare tutto il dolce con note resinose e vegetali e qualche sfumatura zesty e pepata. L'alcool (7.1%) è molto ben nascosto, il corpo è medio con una presenza molto contenuta di bollicine; il risultato è una birra scorrevole e morbida, dal finale secco che si beve con molto piacere e che, almeno in quest'occasione, ha il suo punto di forza nella in quella freschezza (da intendersi come "gioventù") che, peraltro, dovrebbe essere la condicio sine qua non per l'acquisto di questo tipo di birre. Il birrificio è giovane e la sua partenza sembra essere davvero con il piede giusto: un prodotto già di livello elevato, soprattutto se confrontato a quello della maggior parte della IPA italiane che vengono prodotte dagli ormai oltre settecento (!) tra birrifici e beerfirm del nostro paese; la West Coast, per il momento, è invece ancora lontana. Bonus, come detto, per la data d'imbottigliamento impressa in etichetta, bravi!
Formato: 33 cl., alc. 7.1%, lotto 4/2014, imbott, il 25/03/2014, scad. 01/02/2015, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

domenica 11 maggio 2014

Chimay Dorée

Dopo la Westmalle Extra del mese scorso, ecco un'altra trappista "quotidiana" e molto meno conosciuta delle sorelle "bianche", "rosse" e "blu". E' la Chimay Dorée, una birra dal basso contenuto alcolico (4.8%) che inizialmente veniva prodotta solamente per il consumo interno all'Abbazia di Notre Dame de Scourmont e per essere offerta agli ospiti ed al personale esterno che lavora all'interno del monastero. Prodotta una o forse due volte l'anno, poteva inoltre essere  bevuta all’Auberge de Poteaupré, ossia la "tap room" (ma anche hotel, ristorante e negozio) del birrificio del convento che non è aperto ai visitatori. Nel dicembre del 2012 la decisione di commercializzare per la prima volta una quantità limitata di Chimay Dorée, che viene distribuita dapprima in alcuni locali selezionati in Belgio e, nella primavera del 2013 arriva per la prima volta anche in Italia ed in Inghilterra, sia in fusti da 20 litri che nella classica bottiglia da 33 cl. Molto retrò e bella la scelta dell'etichetta, raffigurante una delle vecchie versioni del logo Chimay utilizzato in passato.
Eccola nel bicchiere, il colore è dorato ma un po' pallido e lievemente velato; la schiuma è generosa, "croccante"e cremosa, bianca, ed ha una buona perisistenza. 
Il naso accosta sentori floreali (rosa) a quelli di agrumi come mandarino, arancio e lime) e di frutta acerba (pera, lieve banana); più in secondo piano la crosta di pane completa un bouquet olfattivo elegante e pulito, delicato ma dalla buona intensità. Al primo sorso questa Chimay Dorée sembra forse fin troppo leggera, ma basta continuare a berla per scoprire, dietro ad un'apparente leggerezza, una birra molto delicata ed elegante, che sembra quasi parlarti a bassa voce e trasportarti oltre le mura del convento. Ed ecco che dove regna il silenzio monastico, non è necessario alzare la voce per farsi udire: ci sono la crosta di pane ed i cereali, l'arancia e qualche suggestione di frutti di bosco rossi (mi sembra di trovare lievi note di fragola, forse di lampone) fino ed un elegantissimo finale secco ed erbaceo che porta in dote anche qualche nota di scorza di limone. Birra austera, che però conquista con la sua rigorosa semplicità, con la sua pulizia e con la sua facilità di bevuta; difficile limitarsi, per un laico, ad una sola bottiglia al giorno. Lasciamo allora ai monaci il compito di resistere alle tentazioni non della carne, in questo caso, ma della birra.
Formato: 33 cl., alc. 4.8%, lotto L13-389, scad. 12/2014, pagata 3.50 Euro (beershop, Italia).

sabato 10 maggio 2014

Birrone Scubi

Finalmente arriva sulle pagine del blog anche il birrificio vicentino Birrone, del quale sino ad ora non ero mai riuscito a reperire nessuna bottiglia. Finalmente l'occasione è arrivata, ed ecco una breve ma doverosa presentazione del birrificio guidato da Simone Dal Cortivo, che lo apre nell'aprile del 2008 ad Isola Vicentina. Anche per Simone, proveniente da una famiglia di panettieri, l'apertura del birrificio è stato il grande passo compiuto dopo una decina d'anni di homebrewing e di viaggi in Germania, caratterizzati da formative esperienze con birrai tedeschi poi diventati amici. E proprio la Germania è la nazione che maggiormente influenza le produzione del Birrone: molte basse fermentazioni, molte ricette classiche (helles e bock, weizenbock e weizen) ma anche qualche concessione al di fuori dei confini tedeschi, come una lager brassata con il luppolo americano Cascade (Gerica), una porter genialmente chiamata "fuckín" (con l'accento sulla "i", ovvero "facchino" in veneto) e produzioni one shot come IPA e oud bruin.
Nel 2013 il birrificio si è trasferito poco lontano in locali più capienti, nei quali è stato anche possibile allestire due sale con circa un centinaio di coperti dove le persone possono mangiare e bere. Dal 2011 il Birrone ha anche iniziato a raccogliere medaglie a Birra dell'Anno: regina indiscussa è stata la Scubi (ovvero la SCUra del BIrrone), una schwarzbier che dopo la medaglia d'argento del 2012 (Cat. 2: birre scure di ispirazione tedesca) ha conquistato l'oro nel 2013 facendo il bis nel 2014 (Cat. 4: ambrate e scure, alta e bassa fermentazione, basso grado alcolico, d’ispirazione tedesca).
All'aspetto è di colore marrone scurissimo, quasi nero, con qualche riflesso tonaca di frate; perfetta "la testa" di schiuma che si forma, compatta e fine, cremosisssima e molto persistente. Difficile non pensare al fatto che il birraio Simone proviene da una famiglia di panettiere quando si avvicina il naso al bicchiere: ci sono fragranti sentori di crosta di pane nero, cereali, orzo tostato e qualche richiamo di mirtillo. In secondo piano troviamo caramello e caffè, cioccolato, qualche sfumatura di cenere; l'aroma è molto pulito ed elegante. Le sensazioni nasali vengono riprodotte quasi in fotocopia in bocca: Scubi ha un corpo leggero ma riesce ad essere ugualmente morbida, con una carbonazione molto contenuta, senza nessun rischio di "annacquatura". Ecco che ritrovo il pane nero, l'orzo tostato, il caramello, il caffè e la cenere, con ottima intensità e pulizia quasi esemplare. Il finale è corto, con un retrogusto di cioccolato, tostature e caffè  meno intenso della bevuta, come a calmare le acque e mettere la parola "fine" su un percorso gustativo davvero molto bello ed interessante. Birra che abbina alla perfezione semplicità e maestria, la scorrevolezza e la facilità di bevuta tipica delle birre tedesche con un'intensità ed un ventaglio di aromi e sapori che, a mio modesto parere, molti birrifici tedeschi si sognano di ottenere. Impietoso invece il confronto prezzi Italia-Germania, con un rapporto (per noi sfavorevole), di circa uno a cinque; ovvero, con il prezzo dell'italiana comprate, in Germania, circa cinque schwarzbier tedesche. Non è presente (male!) la data d'imbottigliamento sull'etichetta, ma per il resto Alles sehr gut!
Formato: 50 cl., alc. 5.4%, scad. 12/08/2014, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).