sabato 30 aprile 2016

Préaris Quadrupel

Di Vliegende Paard, il “il cavallo volante” di Andy Dewilde vi avevo già parlato in questa occasione: la beerfirm debutta nel 2011, dopo che la Prearis Quadrupel realizzata ai fornelli delle mura domestiche ottiene il primo posto al concorso nazionale per homebrewers “Brouwland Biercompetitie” la cui finale, alla quale partecipano un centinaio di birre, si tiene a Ghent. 
Sulle ali del successo, Dewilde commissiona il suo primo lotto all'immancabile De Proef, iniziandone la commercializzazione. Allo Zythos festival del 2012 Andy Dewilde incontra Christine Celis, figlia del celebre Pierre (Hoegaarden) e residente da una ventina d’anni in Texas; Christine rimane favorevolmente impressionata dalle Prearis e porta qualche bottiglia negli Stati Uniti, convincendo un importatore ad ordinare i primi 7 hl destinati al mercato statunitense. Nel 2013 Vliegende Paard viene proclamato da Ratebeer come il miglior nuovo “birrificio” belga, mentre nel 2014  la Prearis Quadrocinno  (la Quadrupel con aggiunta di caffè del Costa Rica) viene eletta dai 17.000 visitatori dello Zythos 2014 tra le tre migliori birre del festival. Purtroppo la bottiglia da me assaggiata qualche mese fa non ha confermato quelle impressioni positive; facciamo quindi un passo indietro e ritorniamo alle origini di Vliegende Paard, ovvero la Quadrupel del debutto. 

La birra.
Si presente del classico color tonaca di frate con belle venature rossastre; la schiuma ocra è fine e cremosa, compatta ed ha un'ottima persistenza. L'aroma abbastanza pulito e discretamente intenso, presenta profumi di frutta secca, caramello, ciliegia sciroppata e zucchero a velo; accanto al dolce c'è una lieve asprezza di ribes rosso e di prugna acerba. Al palato troviamo note di biscotto, zucchero candito e una lieve presenza di uvetta: l'alcool diventa quasi da subito il protagonista della bevuta, facendola procedere piuttosto lentamente. Il gusto è piuttosto semplice e la birra, benché ben attenuata, si trascina sorso dopo sorso avvolta da un patina di noia, nonostante l'alto numero di bollicine che le donano una discreta vivacità. Di positivo c'è un'ottima attenuazione, capace di asciugare il palato assieme ad una breve ma percepibile nota amaricante terrosa finale. E' una Quadrupel da sorseggiare che riscalda il corpo nelle fredde serate invernali: sicuramente meglio al naso che al palato, dove il lievito manca d'espressività e l'alcool, senza compagni di strada, rende la bevuta monotona e poco memorabile.
Formato: 33 cl., alc. 10%, IBU 50, lotto L1, scad. 10/07/2016, 1.95 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 29 aprile 2016

Hanscraft & Co. Saison Julie

Nel 2010 il quasi quarantenne Christian Hans Müller lascia il suo lavoro da dentista per inaugurare la propria beerfirm  Sommelierbier - Hanscraft & Co. nella sua città natale Aschaffenburg, uno degli ultimi avamposti della Baviera meridionale prima del confine con l’Assia, ad una quarantina di chilometri da Francoforte. Nel progetto ci sono anche l’assistente Martina Vojtechova, Dirk Borkowski, il disegner Heiko Roßmeißl e soprattutto l’esperto Dieter Körner, diplomato Biersommelier alla Doemens Academy; il titolo di Biersommelier arriverà per Christian Hans Müller qualche anno dopo al Siebel Institute di Chicago. 
I continui riferimenti alla sommellerie fanno sì che il target iniziale della beerfirm siano ovviamente i tavoli dei ristoranti, a quali proporre una valida alternativa ai vini: il debutto avviene con la Müller Dreistern, una Heller Bock/Marzen affinata in botti di Brandy che rappresenta anche un legame con la famiglia di Müller, il cui bisnonno produceva distillati. La birra viene prodotta presso gli impianti della Alpirsbacher Klosterbräu sfruttando alcune amicizie; le ricette successive verranno realizzate soprattutto alla  Bürgerliches Brauhaus Wiesen  e alla Eder & Heylands Brauerei di Grossostheim; è qui che nasce la più “democratica” Nizza, una birra al frumento con luppolatura americana che ha come target bar e locali meno informali rispetto alle tavole dei ristoranti. 
La gamma Hanscraft & Co si è poi ampliata includendo l’IPA Backbone Splitter, la Imperial Stout Black Nizza, la Saison Julie e, più di recente, una Single Hop Keller Pils oltre ad alcune birre stagionali ed occasionali; per il futuro Müller dichiara di voler esplorare anche il mondo delle birre acide e, soprattutto, di essere pronto a passare da beerfirm a produttore per poter soddisfare tutte le richieste dei clienti. Nel 2014 il popolo di Ratebeer ha eletto la beerfirm come “new best brewer” in Baviera per l’anno 2013.

La birra.
Primo tentativo di Hanscraft con uno stile belga, la Saison Julie viene realizzata presso la  Bürgerliches Brauhaus Wiesen; la ricetta prevede frumento maltato,  malti Monaco, Pils e CaraAmber, mentre i luppoli scelti sono Chinook e Sorachi Ace. Lo stappo della bottiglia è abbastanza frustrante, con un gushing lento ma inesorabile di una pannosa schiuma biancastra dalla lunghissima persistenza  che obbliga ad una lunga attesa prima di poter comporre un bicchiere di birra decente; le particelle di lievito sospinte dall’esplosività della birra rendono il colore arancio piuttosto torbido per un risultato finale non troppo bello da vedere. L’aroma disegna comunque un bel campo di fiori nel quale trovano spazio anche i profumi di agrumi (polpa d’arancia, scorza di limone/lime), di mela e qualche accenno di tropicale: l’intensità è buona mentre pulizia ed eleganza mostrano ampi margini di miglioramento. La bevuta è da subito vivacissima grazie anche ad una carbonazione molto sostenuta (qualcuno potrebbe anche dire troppo) che dona a questa birra un carattere un po’ ruvido. Al palato crackers e miele anticipano la frutta tropicale (mango) e gli agrumi per un inizio di bevuta dolce che viene poi ben bilanciato dalla lieve acidità del frumento e da un profilo "zesty" piuttosto evidente, protagonista del gradevole finale amaro in compagnia di note terrose. L'intensità è buona, lo stesso non si può dire della pulizia, penalizzata anche dal gushing che ha portato il fondo del lievito a disperdersi completamente nella birra: in una Saison alla perfetta eleganza preferisco sempre qualche "imperfezione rustica" ma qui un po' si esagera. La Saison di Hanscraft mostra comunque  personalità e carattere, elemento che non sempre ho trovato nelle interpretazioni tedesche di stili belgi o anglosassoni; la base c'è e una volta sistemate le problematiche evidenziate, soprattutto quelle legate all'esuberanza del lievito saison, potrebbe davvero venir fuori una birra interessante.
Formato: 33 cl., alc. 6%, scad. 06/05/2016, 3.47 Euro (beershop, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 28 aprile 2016

Põhjala Must Kuld

Nuovo appuntamento con il birrificio estone Põhjala, uno dei protagonisti della piccola  “craft bier revolution” che sta lentamente cercando di svilupparsi anche nella piccola repubblica baltica; nato nel 2011 come beerfirm, dal 2014 è a tutti gli effetti un vero birrificio e da qualche mese le sue birre hanno una buona distribuzione in tutta Europa, Italia inclusa.  
Come già raccontatovi in questa occasione, lo fondano tre soci  (Enn Parel, Peeter Keek e Gren Noormets) ai quali si aggiunge in seguito  Tiit Paananen; a fare birra viene chiamato a Tallinn  il giovane (26 anni) Chris Pilkington, ex-BrewDog e conosciuto dai soci proprio nell’occasione di una visita allo stabilimento del birrificio scozzese. Oltre al birrificio, è aperto da qualche mese anche il locale  “Speakeasy”  (Kopli 4, Tallinn), a due passi dalla città vecchia e di fronte alla stazione dei treni:  nel piccolo bar e nel più ampio giardino vi aspettano sgabelli, qualche divano, quattro spine e una selezione di bottiglie. 
Dopo la IPA Virmalised e le due scure Pime Öö  (Imperial Stout) e Pesakond  (Black IPA) è oggi il turno di una robusta Porter (7.8%) chiamata Must Kuld, ovvero “oro nero” ma quello che suggerisce l’etichetta (credo si tratti di una fava di cacao) è ben altro.

La birra.
Malti Pale, Munich, Cara pale, Crystal 50, Crystal 150, Crystal 200, Carafa type 2 special e Chocolate malt; lattosio, luppoli Magnun e EK Goldings: questo prevede la ricetta di una porter che nel bicchiere si presenta quasi sensuale, di un luminoso color nero con una finissima e cremosa schiuma marrone scuro, molto compatta e molto persistente. L’aroma è piuttosto dolce e complesso, una sorta di dessert liquido composto da cioccolato al latte, miele, creme brûlé, caffè, caramello e melassa: anche la cenere fa ogni tanto capolino. L’opulenza viene sorretta da un ottimo livello di pulizia ed anche di finezza.  
Il gusto è inizialmente disturbato da una carbonazione un po’ troppo invadente, ma è sufficiente roteare un po’ il bicchiere per stemperare un po’ le bollicine e trovarsi una porter morbida e cremosa che riesce comunque a scorrere piuttosto bene. Il percorso continua sugli stessi binari al palato, un dessert in forma liquida nel quale si trovano caramello e melassa, miele e cioccolato al latte, con il dolce parzialmente contrastato dal caffè, dal pane tostato, dal cioccolato amaro e dalla lieve acidità dei malti scuri. Quasi sfacciata nella sua dolcezza, ma sempre caratterizzata da una certa raffinatezza: merito soprattutto dell’azzeccato finale, molto elegante, nel quale cioccolato, torrefatto e caffè portano quell’amaro necessario a scongiurare il rischio stuccevolezza.  Il contributo dell’alcool è molto delicato e avvertibile solamente nel retrogusto, accompagnato dal miele, dal caffè e del lieve torrefatto. 
Il birrificio usa la parola anglosassone “decadent cake” per descriverla, un aggettivo che in italiano si potrebbe in questo caso tradurre come indulgente, ricco, lussurioso:  una definizione appropriata per una Porter molto pulita e facile da bere ma che meglio si presta ad essere sorseggiata per poterne apprezzare tutte le sfumature. Mi viene quasi inevitabile fare un confronto con le birre-dessert di Omnipollo, tipo questa o questa. Levate gli steroidi, dimenticate gli ingredienti “strani” e le gradazioni alcoliche a doppia cifra: con i classici quattro ingredienti (acqua, malto, lievito e luppolo) e l’aggiunta di lattosio Põhjala riesce a costruire una porter altrettanto golosa e peccaminosa quanto l’antropomorfo (o Arcimboldesco, se preferite) frutto raffigurato in etichetta.
Se vi piacciono le birre dessert, questa fa al caso vostro.
Formato: 33 cl., alc. 7.8%, IBU 45, lotto 091, scad. 06/07/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 27 aprile 2016

Bruery Terreux Tonnellerie Rue

I brettanomiceti sono una delle ultime "mode" nel campo della cosiddetta birra artigianale: sono sempre più i birrifici che decidono di  iniziare ad utilizzarli, ma ci vuole davvero molta cautela quando ci si immischia con quello che è considerato, soprattutto nel mondo del vino, un agente contaminante. Usare questi lieviti nello stesso ambiente adibito alla produzione di birra "normale" o – peggio ancora – con gli stessi impianti comporta l’elevato rischio (per quanto un birraio possa pulire e sanificare) di trovarsi “brettate” anche birre che non lo dovrebbero essere. 
Ne sanno qualcosa in California al birrificio The Bruery, che nel 2013 è stato costretto a prendere la decisione di separare drasticamente la linea produttiva delle birre “normali” da quelle acide per porre rimedio ad una serie di problemi qualitativi che i clienti iniziavano a lamentare sulle loro (spesso esose) bottiglie; esemplari di White Chocolate, Cacaonut, Autumn Maple Barrel Aged e Praecocia (tutti oggetti da oltre 30 dollari a bottiglia)  erano risultati infetti e anche la tanto attesa collaborazione con il birrificio Three Floyds (Rue D’Floyd, una massiccia imperial porter  da 14.4% invecchiata in botti di Bourbon con ciliegie, caffè e vaniglia) non era esente da pecche, obbligando il birrificio ad un comunicato stampa in cui si invitava la gente a conservare la birra in frigo e consumarla entro due mesi dall’acquisto onde evitare il rischio del manifestarsi di una possibile infezione batterica.  
Nell’estate del 2014 Patrick Rue annuncia la nascita di Bruery Terreux, un marchio completamente dedicato alla produzione di birre acide e fermentazioni spontanee: nei suoi locali, posti a qualche chilometro di distanza (1174 N Grove St, Anaheim), verrà trasportato il mosto prodotto presso The Bruery per  l’inoculazione dei lieviti selvaggi, la fermentazione e l’eventuale invecchiamento in botte. Anche l’imbottigliamento avverrà presso una nuova linea completamente dedicata. A gennaio 2015 viene svelato il nome della persona scelta da Patrick Rue a cui viene affidato l’intero progetto Terreux: si tratta di Jeremy Grinkey, proveniente dal mondo del vino e  - sebbene appassionato birrofilo -  alla grossa prima esperienza in ambito brassicolo dopo tre anni passati a supervisionare la produzione della Jason-Stephens Winery nella Silicon Valley. Sotto il marchio Terreux “migrano” con nuove etichette tutte le birre acide e prodotte con lieviti selvaggi, tra le quali ad esempio le famose Saison Rue, Oude Tart,  Sour in the Rye, Reuze e Tart of Darkness.   
Bruery Terreux (“terroso”) debutta il 22 aprile 2015 proprio in coincidenza con la Giornata della Terra:  il nuovo progetto di Patrick Rue ha dunque spento la scorsa settimana la prima candelina e lo festeggio anch'io con una bottiglia di Tonnellerie Rue.

La birra.
Tonnellerie Rue è spiegata dal suo stesso nome: trattasi di una variante della Saison Rue che fermenta (100%) in botti (tonnellerie, in francese) di legno.  La ricetta di base dovrebbe essere la stessa, ovvero 35% di segale maltata, malto Special Roast ed una piccola percentuale di Chocolate, luppoli Sterling e Crystal; secondo quanto dichiara il birrificio, la fermentazione avviene spontaneamente con i lieviti selvaggi ed i batteri naturalmente presenti nelle botti di legno che hanno ospitato in precedenza altre birre “simili”. Una Saison per Ratebeer e per The Bruery,  mentre BeerAdvocate preferisce incasellarla tra le American Wild Ales. 
La Tonnellerie Rue fa il suo esordio nella gamma Terreux nell’estate del 2015 ed è proprio a quel primo lotto che questa bottiglia appartiene; lo stappo avviene fortunatamente senza le fontane nei confronti delle quali il birrificio aveva messo un po’ in guardia i clienti. 
Estate nel bicchiere, che si riempie di un intenso dorato/arancio velato, sormontato da una generosissima schiuma bianca, compatta, quasi pannosa e dall’ottima persistenza.  L’aroma, benché molto pulito, non offre una grande intensità: ci sono comunque profumi floreali che convivono con quelli del legno, della scorza di limone e della mela acerba. Evidente la componente lattica, rimane in sottofondo un remotissimo accenno dolce alla frutta tropicale. La sensazione palatale è invece perfetta, quella che vorresti trovare in ogni saison/farmhouse ale: corpo medio ma ottima scorrevolezza, grande vivacità data dall’elevata carbonazione. Il mouthfeel risulta sorprendentemente più morbido che rustico, nonostante l’impiego di un’elevata percentuale di segale. Non c’è molta complessità nel gusto, ma quel che c’è si distingue per pulizia e per intensità: pane e biscotto sorreggono un fruttato molto succoso ricco di albicocca, polpa d’arancia e qualche lieve ricordo tropicale, il tutto (dolce) molto ben bilanciato dall’acidità lattica. Può sembrare strano definire rinfrescante una birra dal contenuto alcolico non indifferente (8.5%), ma la verità è che questa Tonnellerie Rue si beve davvero  con molta facilità risultano efficacissima nel placare sete e calura. L’alcool è appena percepibile (al contrario della bottiglia di Saison Rue che mi era capitata di bere qualche anno fa), il finale è molto secco  con un breve passaggio amaricante in territorio lattico/terroso/zesty a ripulire definitivamente il palato. Più elegante che rustica, semplice ma gustosa: un’ottima bevuta ma considerando l’elevato prezzo di The Bruery (negli USA siamo sui 15.00 dollari a bottiglia) forse era lecito pretendere una maggiore complessità/profondità (soprattutto a livello aromatico) e qualche emozione in più. 
Formato: 75 cl., alc. 8.5%, IBU 20, lotto #215pt3, imbott.  29/07/2015, 19,99 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 26 aprile 2016

White Pony Black Sheep Imperial Stout

E’ probabilmente più conosciuta all’estero che nella nostra penisola, ma dietro alla beerfirm White Pony c’è il giovane italiano Roberto Orano (Piove di Sacco, Padova) che ha  trasformato la sua passione per la birra (bere, viaggi, collezionismo) prima nell’hombrewing e poi in una professione. Nel suo DNA c’è il Belgio (il padre è nato a Liegi) ed è proprio in questa nazione che White Pony ha deciso di andare a produrre: la data di nascita della beerfirm è il 2012  e le birre, che iniziano ad essere distribuite nella primavera dall’anno successivo soprattutto all’estero (il mercato belga assorbe il 50% della produzione), ottengono un buon riscontro: al Kerst Bier di Essen del dicembre 2013 una versione barricata del barley wine chiamato The Oracle viene votata tra le migliori 10 birre del festival. 
Il White Pony può sembrare piccolo e timido ma le birre prodotte non lo sono affatto: il portfolio è costituito per la stragrande maggioranza da robuste birre dall’ABV in doppia cifra. Parliamo di Belgian Dark Strong Ales/Quadrupel, Barley Wine e Imperial Stout/Porter, molte di loro anche disponibili in versione barrel aged. In Italia c’è un piccolo impiantino/laboratorio sul quale vengono testate le ricette con cotte da un centinaio di litri, mentre la produzione in terra belga è avvenuta principalmente presso il birrificio 't Gaverhopke  (Stasegem) al ritmo di 20/30 HL al mese. A fine 2015 la beerfirm ha comunicato la decisione di spostarsi altrove per raddoppiare i volumi ma anche per migliorare qualitativamente la proprie birre: i candidati credo siano Anders (Halen), Millevertus (Breuvanne-Tintigny) e soprattutto Het Nest  (Oud-Turnhout). Verificate la forma delle bottiglie: le nuove hanno il collo allungato, mentre le precedenti sono nella classica bottiglia belga “bassa” stile Duvel. L’aumento dei volumi ha reso possibile l’esportazione verso nuovi mercati (Europa dell’est e Asia) e una maggiore disponibilità anche per Europa, Usa, Canada e Scandinavia; anche l’ Italia, dove sino ad ora non era affatto semplice reperire White Pony, ne ha beneficiato.

La birra.
Perfettamente nera, forma un buon cappello di schiuma nocciola cremosa e abbastanza compatta, dalla discreta persistenza. Al naso c'è una buona complessità composta da fruit cake, cioccolato, liquirizia e tostature, tutti circondati da una percepibile note etilica; in sottofondo accenni di tabacco e cenere, carne affumicata ma anche una punta di salamoia. L'intensità è discreta, pulizia ed eleganza hanno invece buoni margini di miglioramento. Il gusto rivela una buona intensità e una sensazione palatale importante: il corpo è tra il medio ed il pieno, le bollicine sono poche e la consistenza è densa e oleosa, morbida, quasi masticatible e - in questo senso - più scandinava che belga. Caffè, cioccolato, orzo tostato e liquirizia si dividono la scena bilanciate dal dolce di caramello e fruit cake; anche al palato da ogni tanto capolino una delicata nota affumicata, carnosa e anche qui c'è una lieve salamoia a disturbare un po' la bevuta. L'alcool è molto meno in evidenza rispetto all'aroma, con una bevuta che risulta poco impegnativa, se si considera la gradazione alcolica. Molto bilanciato il retrogusto tra caffè, cioccolato e cenere, molto bilanciata la bevuta tra dolce, amaro delle tostature e acidità dei malti scuri. Il livello è sicuramente buono, pur restando ampi margini di miglioramento soprattutto per quel che riguarda pulizia ed eleganza: non ho ancora assaggiato i nuovi lotti che non vengono più prodotti presso Gaverhopke, ma se vi piacciono le birre "estreme" ed importanti White Pony è sicuramente un nome da segnare sulla vostra agenda. 
Formato: 33 cl., alc. 10.1%, lotto 01/2015, scad. 25/02/2019, 5.95 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 aprile 2016

Ayinger Weizenbock

Viene servito il 2 febbraio 1878 il primo bicchiere di birra prodotto dal birrificio Aying, nato per volontà di Johann Liebhard che decise di affiancare la produzione di birra al luogo di ristoro inaugurato dal padre nel 1810.  Johan non ebbe figli maschi e alla sua morte, avvenuta nel 1910, l'attività fu portata avanti dalla figlia Maria assieme al marito August Zehentmair: a loro il compito di resistere alla prima guerra mondiale e di ricostruire il birrificio dopo il violento incendio del 1923; quattro anni dopo una Ayinger venne servita per la prima volta a Monaco di Baviera, città verso la quale fu ben presto dedicata la metà della capacità produttiva. August Zehentmair morì a soli cinquantasei anni nel 1936 e, di nuovo in assenza di un erede maschio, fu la figlia Maria Kreszenz  a ricevere il testimone assieme al marito Franz Inselkammer.  Aying uscì miracolosamente indenne dalle devastazioni della seconda guerra mondiale ed il birrificio riuscì a sfruttare in pieno la ripartenza economica degli anni 50, aprendo a Monaco la Wirsthaus proprio di fronte alla Hofbräuhaus, nella Platzl. 
A Franz Inselkammer è succedo nel 1963 Franz II, diplomato birraio a Weihenstephan e promotore della costruzione del nuovo moderno birrificio inaugurato nella 1999 alla periferia di Aying con un investimento da 21 milioni di Marchi. Al consiglio direttivo della famiglia Inselkammer partecipa dal 2010 anche il giovane Franz III, diplomato ad Andechs; a dirigere le operazioni del birrificio c'è Helmut Erdmann, mentre il birraio principale è attualmente Hans-Jürgen Iwan.

La birra.
E' disponibile nei mesi invernali la Weizenbock che potete bere nella Bräustüberl in centro ad Aying o, se preferite, nella più elegante Brauereigasthof che si trova dall'altra parte della strada e dove potete anche pernottare, se lo desiderate.
Nel bicchiere è velatamente dorata con qualche riflesso arancio, sormontata da un cremosissimo cappello di schiuma biancastra che, benché non troppo generoso, si dimostra impeccabile per finezza e compattezza. Al naso dominano gli esteri fruttati (banana) accompagnati dalle spezie (chiodi di garofano): il bouquet è zuccherino, ci sono quasi accenni di pasticceria la cui dolcezza viene parzialmente mitigata dalle note acidule del frumento. Il gusto è perfettamente corrispondente con l'aroma, riproponendo banana e chiodi di garofano ai quali s'aggiungono note di bubble-gum e di pane/cereali. Il corpo è medio, la carbonazione vivace contribuisce a bilanciare il dolce senza compromettere una sensazione palatale complessivamente morbida, mentre la bevibilità rispetta gli elevati standard della tradizione tedesca. Il soffuso calore etilico e l'acidità del frumento giocano la loro partita a più riprese, in un testa a testa di sensazione calde e fresche dal quale esce vittoriosa quasi al fotofinish la componente etilica, in un gratificante retrogusto capace di riscaldare le fredde serata d'inverno. Si compone così una Weizenbock pulitissima ed eseguita con precisione chirurgica, dolce e "bananosa" ma comunque bilanciata ed estremamente godibile. 
Formato: 33 cl., alc. 7.1%, lotto 5288, scad. 10/2016, 0.87 Euro (supermercato, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 24 aprile 2016

Nieuwhuys Alpaïde Blond (Cuvée van de Generaal)

Hoegaarden è oggi un  comune con circa 6000 abitanti nelle Fiandre ma era un tempo un florido centro di produzione di birra: nel diciottesimo secolo, quando la popolazione era un terzo di quella odierna, erano attivi una trentina di birrifici ma nel 1914 ne erano rimasti solamente sei. L'ultimo a chiudere i battenti nel 1957 era stato Tomsin e fu solo grazie all'intraprendenza di Pierre Celis, un lattaio che da giovane aveva lavorato proprio da Tomsin, che Hoegaarden ritrovò una birra di frumento da bere al posto di quelle lager che avevano ormai conquistato quasi tutto il mercato.
Il nuovo birrificio inaugurato da Celis nel 1966 ebbe un buon successo sino al 1985, anno in cui andò distrutto da un incendio; la vicina Stella Artois di Lovanio aiutò Celis nella ricostruzione mettendo il capitale in cambio del 45% delle quote societarie. Ma nel 1988 Stella Artois e Brasserie Piedboeuf formarono il colosso belga Interbrew che diede alla birra di frumento di Celis il nome di Hoegaarden e iniziò a far pressioni per ridurre i costi di produzione: dopo un breve resistenza, nel 1990 il sessantacinquenne Celis cedette definitivamente il birrificio. Nel 2005 la AB-InBev (ex Interbrew) rese pubblica la decisione di chiudere lo stabilimento di Hoegaarden in quanto non più economicamente sostenibile e di spostarne la produzione in altri stabilimenti a Liegi:  la gente di Hoegaarden fece sentire la propria voce, i consumatori lamentavano che i primi lotti provenienti da Liegi non erano qualitativamente all'altezza e nell'autunno del 2007  la InBev ritornò sui propri passi annunciando un piano d'investimenti da 60 milioni di Euro per rilanciare l'ex birrificio di Celis. 
Proprio in quel periodo in cui Hoegaarden stava per restare di nuovo senza produttori di birra, Jan De Wachter e Mieke De Backer inaugurano il microbirrificio 'tNieuwhuys. Jan era stato "costretto" ad imparare a farsi la birra da solo negli anni in cui aveva vissuto in Sud Africa: da bere c'erano solo Lager industriali e lui voleva qualcosa di più forte. Rientrato in Belgio, compra casa proprio a Hoegaarden e inizia quasi per gioco a produrre la Alpaïde, una robusta (10%) Dark Strong Ale.  I volumi crescono e nel 2009 c'è il trasloco dal minuscolo brewpub a locali più grandi e, sopratutto, arriva la prima Witbier di frumento chiamata Huardis (l'antico nome latino di Hoegaarden). La birra nasce come produzione occasionale per festeggiare l'inaugurazione del nuovo birrificio: la introduce al pubblico Jean Blaute (cantante, attore e autore della breve serie televisiva Tournée Générale nella quale esplora la cultura della birra in Belgio) ma c'è sopratutto l'emozionante presenza di Pierre Celis, su una sedia a rotelle, al quale viene dato da bere il primo sorso della nuova Witbier prodotta a Hoegaarden. 
Oltre alla Huardis (oggi entrata in produzione stabilmente), Nieuwhuys produce due Alpaïde (scura e chiara), la tripel Kelkske e la belgian ale Rosdel.

La birra.
Ammetto l'acquisto "errato" in un negozio di Lovanio: volevo la Alpaïde "scura", mi sono trovato invece con la Blond nota anche come Cuvée van de Generaal, che dovrebbe anche essere l'ultima nata  (2010) in casa Nieuwhuys. Alpaïde immagino sia una dedica alla Contessa Alpeide di Hoegaarden.
Dorata e velata, forma nel bicchiere una perfetta e generosissima testa di schiuma bianca, compatta, molto cremosa e quasi indissolubile. L'aroma mette in evidenza crackers, miele e cereali, zucchero candito, frutta sciroppata e una presenza fenolica che regala spezie (pepe, coriandolo?) ma anche qualche nota meno gradevole di plastica. Il gusto ripercorre sostanzialmente gli stessi passi, con una partenza piuttosto dolce (canditi, miele, frutta sciroppata) che viene parzialmente stemperata dalle vivaci bollicine e da un'ottima attenuazione. Completano il gusto biscotto e spezie, c'è un lieve DMS ma sopratutto non convince molto la chiusura amaricante, un po' sgraziata anche nella sua leggerezza. L'alcool (8.5%)  è invece nascosto benissimo - alla belga - facendosi sentire solo nel retrogusto di frutta sotto spirito. Non male questa Alpaïde Blond, benché un po' avara di emozioni: la bottiglia in questione presenta qualche lieve difetto che deteriora un po' la piacevolezza di quella che appare come  una strong ale ben attenuata e subdolamente facile da bere.
Formato: 33 cl. alc. 8.5%, scad. 8/12/2017, 1.90 Euro (beershop, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 22 aprile 2016

Hammer Koral Pacific IPA

Workpiece è il nome dato dal birrificio Hammer ad una serie di birre occasionali/sperimentali che vengono prodotte di tanto in tanto. Workpiece in inglese è il pezzo grezzo da lavorare sul quale si abbatte il martello (Hammer) del fabbro o gli attrezzi del centro di lavoro che danno poi origine al pezzo finito. 
Cinque sino ad ora le birre realizzate in quest’ottica:  Imperial IPA, American Wheat , Keller Pils,  Pacific IPA  e Session IPA : di queste la Pacific IPA è stata la prima ad entrare poi in produzione regolare con il nuovo nome di Koral. Anche la ricetta è stata leggermente modificata: se non erro la Workpiece utilizzava Citra, Ella e Sorachi Ace mentre questa prima versione della Koral  prevede l’australiano Enigma, il giapponese Sorachi Ace e l’americano Mosaic. A memoria non ricordo di aver mai incontrato l’Enigma sino ad ora, una varietà concepita dalla Hop Products Australia che dopo essere stata utilizzata da alcuni birrifici australiani in via sperimentale è stata commercializzata su larga scala a partire dal 2015 grazie ai generosi raccolti provenienti dai luppoleti in Tasmania. Discende (non lo direste mai) da una varietà svizzera di Tettnang ed il produttore lo descrive come un luppolo particolarmente adatto al Dry o Late Hopping, chiamando in causa la  frutta tropicale, l'uva bianca, i lamponi ed il ribes rosso.


La birra.
La foto inganna un po', perché il suo colore è dorato e assieme all'azzurrino dell'etichetta trasporta idealmente su di un'assolata isola tropicale nelle cui acque cristalline di trovano le tartarughe, i pesci ed i coralli raffigurati in etichetta; si forma un perfetta schiuma bianca, cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. 
Tropicaleggiante e piacione l'aroma la cui dolcezza trae immenso beneficio dalle poche settimane di vita di questa bottiglia: il frutto è pieno e fragrante, pungente. La macedonia include papaia, mango e passion fruit, ananas, melone retato; in sottofondo un ricordi di aghi di pino e una suggestione di lampone. Il gusto invece rimescola un po' le carte in gioco: il tropicale dell'aroma è ben presente ma meno sfrontato e bilanciato dagli agrumi, pompelmo in primis. La bevuta si libera dall'opulenza dell'aroma per correre snella e veloce, freschissima: ci pensa il finale amaro, nel quale la resina e la scorza degli agrumi vanno a braccetto, a ripulire definitivamente il palato ed accompagnarlo nella lunga ed intensa scia amaricante del retrogusto. IPA molto ben attenuata nella quale eleganza e pulizia sono a livelli estremamente alti sia al naso che al palato: alcool molto ben nascosto, bevuta amara a soddisfare le aspettative di chi ordina una IPA ma concepita con la ragione piuttosto che con l'asfaltatrice. Non è semplice costruire una birra attorno al fruttatone tropicale senza farla diventare stucchevole ma in questo caso la mano del birraio Marco Valeriani assieme alla freschezza della bottiglia sono riusciti nell'impresa. 
Formato: 33 cl., alc. 6.3%, lotto 033B, imbott. 03/2016, scad. 30/09/2016, 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 aprile 2016

Nomad Couch Stout

Nuovo appuntamento con Nomad Brewing, creatura nata dall’incontro tra Leonardo Di Vincenzo (Birra del Borgo), Kerrie Abba e Johnny Latta di Experience It Beverages, importatore di bevande con sede a Sidney; la coppia australiana viveva in Italia ed aveva iniziato un'attività di importazione di vini italiani nell'emisfero australe, venendo poi in contatto anche con l'attivissima scena brassicola italica. Birra del Borgo è uno dei primi marchi che gli australiani decidono di aggiungere alla propria gamma. Di Vincenzo venne invitato in Australia a partecipare ad alcuni eventi tra i quali la Good Beer Week di Melbourne, finendo con l'innamorarsi della terra dei canguri.  Tra una pinta e l'altra, tra Di Vincenzo ed i Latta nasce l'idea di mettere in piedi un microbirrificio a Brookvale, sobborgo di Sidney situato una quindicina di chilometri a nord. L'annuncio della nascita del progetto Nomad Brewing viene dato a febbraio del 2014; nello stesso periodo un impianto Spadoni da 25 hl parte via mare dall'Italia. La burocrazia australiana rallenta un po' i piani, e la prima birra viene ufficialmente spillata a fine luglio 2014.  Qualche mese dopo, in ottobre, al Salone del Gusto di Torino è già possibile assaggiare qualche bottiglia allo stand di Birra del Borgo; Di Vincenzo, che ammette di passare ormai quasi sei mesi l'anno in Australia, affida l'avviamento dell'impianto a Brooks Caretta - birraio nomade - ex di Birra del Borgo e responsabile anche della "partenza" delle Birreria a Eataly New York ed a Eataly Roma, progetti che vedono entrambi Di Vincenzo come socio.

La birra.
Arriva ad agosto 2015 la prima (ed unica, al momento) stout di Nomad Brewing: una birra stagionale pensata per i mesi più freddi dell’anno, perché ricordate che nell'emisfero australe ferragosto cade in pieno inverno. 
Si tratta di una Oatmeal Stout con l’avena che dovrebbe regalarle quel corpo e quella morbidezza da renderla perfetta per una serata di relax sul divano, raffigurato anche in etichetta. Riempie il bicchiere di colore ebano scuro, sul quale si formano due dita di schiuma nocciola fine e cremosa ma piuttosto rapida a scomparire senza lasciare pizzo nel bicchiere. L’aroma affianca alle decise ed eleganti tostature i profumi del caffè e del cioccolato amaro; in sottofondo una lieve presenza terrosa, di cenere e di frutti di bosco. L’inizio è molto promettente ma già i primi sorsi si rivelano meno coinvolgenti rispetto all’aroma:  stupisce soprattutto la sensazione palatale nella quale non ritrovo la cremosità che l’avena le avrebbe dovuto conferire e che viene anche sbandierata in etichetta. La birra scorre bene e, con poche bollicine, ripropone in maniera leggermente meno pulita ed elegante il suo profilo di caffè e tostature  supportato da una patina dolce di caramello; annoto un tocco di cioccolato amaro e di liquirizia che, assieme all’acidità dei malti scuri, conferisce una buona freschezza al finale. C’è complessivamente una buona intensità, il retrogusto è molto ben bilanciato tra caramello, caffè e tostature ma c’è soprattutto quella sensazione palatale più “watery” che cremosa che grida vendetta e fa perdere qualche punto ad una buona stout, ben equilibrata e molto facile da bere. Più da sgabello di pub che da divano.
Formato:  50 cl., alc. 5.3%, IBU 18, lotto 91, scad. 08/01/2017, 4.90 Euro (foodstore, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 20 aprile 2016

Mikkeller Nelson Sauvignon

Mikkeller è il più prolifico e noto tra i cosiddetti “birrai zingari” o beerfirm, anche se qualche impianto produttivo è riuscito a farlo partire: oltre al brewpub Warpigs di Copenhagen è stato inaugurato proprio in questi giorni il birrificio a Miramar (San Diego, California), che rileva di fatto l’impianto ed i locali abbandonati dalla AleSmith, trasferitasi poco più in là. Mikkeller nasce nel 2005 dall’unione dei cognomi dei due soci fondatori ed homebrewers: il professore di liceo Mikkel Borg Bjergsø ed il giornalista  Kristian Klarup Keller, con quest’ultimo fuoriuscito di scena abbastanza rapidamente, nel 2007: il motivo della separazione sembra risiedere nella diversa visione del modello di business da perseguire. Keller si accontentava di produrre 4/5 birre diverse con regolarità,  Mikkel Bjergsø era già ambizioso e pronto ad invadere il mercato della craft beer con decine di birre nuove ogni anno, a collaborare con birrai in giro per il mondo e ad aprire bar e locali in quasi tutti i continenti.  
I numeri parlano da soli: il database di Ratebeer elenca 784 birre prodotte da Mikkeller dal 2006 al 2015. Una media di 87 birre diverse ogni anno, ovvero una nuova ogni 4 giorni lavorando 365 giorni o ogni 3 ipotizzando 250 giorni lavorativi in un anno; vero che una buona parte di queste sono delle leggere variazioni di altre birre, ma i numeri sono comunque inquietanti.  Non so se Mikkel riesca a ricordare il nome di ognuna delle birre ma sicuramente è in grado di dire quale preferisce tra le 784: la sua scelta cade sulla Nelson Sauvignon, in quanto “ogni volta che la bevo scopro dei nuovi sapori che le aggiungono ancora più complessità. Anche se non è la nostra birra più famosa è una di quelle più singolari che abbiamo mai realizzato. E’ complessa ed ha un carattere molto vinoso. L’abbiamo realizzata per la prima volta nel 2009, poi nel 2011 e da allora cerchiamo di produrla almeno una volta l’anno". Una scelta peraltro condivisa  anche dal suo fratello “gemello cattivo” Jeppe Jarnit-Bjergsø che la mette in cima alle sue preferenze. 
Mikkel non nasconde di amare il vino, ha anche commercializzato un Auslese ed un Riesling assieme all’azienda tedesca Weingut Meierer (Mosella) e fantastica già di un lontano futuro  in cui si sarà stancato di fare birra ed acquisterà un castello per dedicarsi a tempo pieno alla produzione di vino.     

La birra. 
Mikkeller la chiama “Belgium Wild Ale“ ma la sua Nelson Sauvignon è piuttosto una belgian strong ale  (o una Biére Brut, se preferite) prodotta presso gli impianti del fido De Proef e che viene fatta fermentare con lievito da champagne, brettanomiceti ed enzimi; la birra viene poi invecchiata per circa cinque mesi in botti ex-Chardonnay provenienti dall’azienda austriaca Weingut Kollwentz. Inizialmente chiamata Nelson Sauvin Brut, ha poi adottato il nome attuale: il luppolo usato sia per l’aroma che per l’amaro è ovviamente il neozelandese Nelson Sauvin, che già di suo conferisce delle caratteristiche che richiamano profumi e sapori del vitigno Sauvignon Blanc.  
All’aspetto è di colore ambrato scarico con riflessi dorati e ramati: l’effervescente schiuma che si forma è alquanto piccola e svanisce piuttosto rapidamente. L’aroma si colloca subito in territorio vinoso con un bel carattere floreale e fruttato (uva e mela, ma anche ananas) al quale ben s’accompagnano le note lattiche e legnose e quelle dello zucchero candito e della polpa d’arancia. I profumi non sono particolarmente intensi o profondi/complessi, ma denotano comunque un ottimo livello di pulizia. La parola “Brut” è serigrafata sulla bottiglia ed in effetti la birra mostra una buona vivacità al palato, sebbene le bollicine non siano al livello di uno spumante:  il corpo è medio.  L’ingresso è piuttosto dolce e forse un po’ ingombrante, ricco di miele e canditi, marmellata d’arancia ed un tocco di biscotto: ci pensano  l’acidità dei brettanomiceti e un buon livello d’attenuazione a portare un po’ di equilibrio, aiutati da una chiusura amaricante dove oltre alle note lattiche emergono anche un po’ di tannini. L’alcool è davvero molto ben nascosto ed esce allo scoperto solamente nel retrogusto a portare un po’ di calore assieme alle note vinose e legnose. C’è indubbiamente pulizia ma non c’è molta complessità o profondità, ed anche i ben voraci brettanomiceti sembrano aver fatto un po’ fatica a digerire tutto lo zucchero:  finisce secca, ma la bevuta per buona parte è afflitta da una zavorra dolce che non riesce mai completamente a scrollarsi di dosso. E’sicuramente gustosa ma a fine bicchiere rimango con un pizzico d’insoddisfazione. 
Il prezzo è in fascia alta (come quasi tutte le birre che utilizzano il termine “Brut”) e forse non vale completamente il biglietto d’ingresso: ci si richiama frequentemente al vino (Chardonnay per le botti  e Sauvignon Blanc nella luppolatura) ma è proprio di una maggior freschezza e profondità aromatica tipica di questi due vini che questa bottiglia Nelson Sauvignon di Mikkeller avrebbe bisogno. 
Formato: 75 cl., alc. 9%, lotto e scadenza non riportati, 21.99 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 aprile 2016

McGargles Cousin Rosie's Pale Ale

Non solo solamente i bevitori  ad essere attratti dalla “craft beer” e a voltare le spalle al mondo della birra industriale: ci sono anche molti addetti ai lavori che effettuano lo stesso percorso lasciando le grandi multinazionali per aprire un proprio birrificio “artigianale”. E’ ad esempio il caso di Niall Phelan e Alan Wolfe, fondatori nel 2013 della Rye River Brewing Company a Celbridge, una ventina di chilometri ad ovest di Dublino:  Phelan arriva dalla Molson Coors dove ha ricoperto il ruolo di “Country Manager” e “Director of Emerging Markets and Craft Beer”, mentre Alan Wolfe ha alle sue spalle dieci anni alla Guinness/Diageo come “Commercial Manager” e alcuni anni alla Molson Coors come “Director of Strategy & Operations”. E’ probabilmente qui che i due si sono conosciuti e, assieme all’amico Tom Cronin (esperienza nell’avviamento e gestione di pub e bar in Irlanda e in USA) hanno deciso di aprire la Rye River. In sala cottura un team di birrai capitanati dell’head brewer Alex Lawes. 
Il sito della Rye River non è molto incoraggiante per chi vi capita per caso: i marchi Bavaria e San Miguel non sono certamente attrattivi per un appassionato di birra di qualità, ma il birrificio non li produce su licenza, agendo solo come centro di distribuzione.  Il marchio “craft” attraverso il quale Rye River produce e opera è invece McGargles, formato dagli immaginari membri dell’omonima famiglia irlandese che corrispondono alle diverse tipologie di birra:  la Pale Ale della cugina Rosie, la Red Ale della nonna Mary, la IPA di Ned, la Stout dello zio Jim e così via. Il birrificio ha già stretto importanti accordi per la distribuzione negli Stati Uniti e in vari paesi Europei tra i quali anche l’Italia, dove le potete trovare in alcuni supermercati.

La birra.
La Pale Ale della cugina Rosie viene prodotta con malti Monaco e Crystal, luppoli Chinook, Amarillo e Summit. Il suo colore è dorato carico, con venature ramate, leggermente velato; la schiuma che si forma è di dimensioni abbastanza modeste, un po' scomposta e si dissolve abbastanza rapidamente. Il naso rivela freschezza ed una bella eleganza fatta di mango e pesca, pompelmo e polpa d'arancia: la frutta è piuttosto dolce ma la sua fragranza scongiura qualsiasi rischio di stucchevolezza. C'è qualche nota caramellata in sottofondo. Piuttosto bene anche la sensazione palatale: poche bollicine, ottima scorrevolezza, corpo medio-leggero. I malti (biscotto, cereale e un tocco di caramello) sono molto ben integrati con le note fruttate e tropicali dei luppoli, per un inizio dolce che poi sfuma abbastanza rapidamente in territorio amaro, con note erbacee e di scorza d'agrume di buona intensità ed eleganza che sono anche le protagoniste del retrogusto. Una session beer che mi ha davvero sorpreso in positivo soprattutto per averla trovata sullo scaffale di un supermercato, luogo solitamente (e anche un po' ingiustamente) accusato di maltrattare le delicate birre "artigianali".  Imbottigliata lo scorso gennaio, gode ancora di un buon livello di freschezza che è fondamentale per un'American Pale Ale: complessivamente è davvero molto pulita, ben profumata e ben attenuata, con la chiusura luppolata che lascia il palato ben pulito ad ogni sorso.
Dimostrazione che è possibile bere bene anche attraverso la grande distribuzione e ad un prezzo tutto sommato contenuto, qui siamo sui 7,50 Euro/litro; basta fare attenzione all'etichetta, cercare di risalire alla data d'imbottigliamento (in questo caso dodici mesi prima della scadenza) e verificare che tra questa e il vostro acquisto non ci sia stata di mezzo l'estate, vero nemico dei cartoni di birra che spesso sostano in luoghi caldi prima di entrare tre le corsie climatizzate del supermercato.
Se la vedete in giro, siete ancora in tempo per comprarla. 
Formato: 33 cl., alc. 4.5%, lotto 16008, scad. 01/01/2017, 2.45 Euro (supermercato, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 18 aprile 2016

Extraomnes Defunkt!!!

Hanno sempre un loro fascino gli ultimi viaggi compiuti da navi, aerei o treni prima della loro dismissione: con le dovute proporzioni, anche in ambito birrario c’è sicuramente un po’ di emozione da parte di ogni birraio che deve salutare il proprio impianto che si appresta ad essere sostituito  da – come spesso accade  – uno più grande. 
Una delle principali caratteristiche del mondo della birra artigianale è la costante ricerca di novità che sembra di gran lunga prevalere rispetto alla fidelizzazione: ci sono birrifici che hanno innescato questa “moda” sfornando ogni anno decine di nuove birre diverse ed altri che si sono necessariamente dovuti adeguare. Collaborazioni, celebrazioni, one-shot e birre stagionali invadono il mercato con frequenza sempre più elevata: non sorprende quindi che anche la dismissione del proprio impianto produttivo diventi un’occasione per omaggiarlo con un  ultimo “inchino” che prende la forma di una nuova birra.  Nel 2015 ad esempio il Birrificio Toccalmatto ha detto addio al suo impianto storico (sul quale sono nate Zona Cesarini e Re Hop, tra le altre) realizzando la saison alla segale “The Final Countdown”. 
Lo scorso gennaio è toccato invece ad Extraomnes salutare l’impianto che ha sfornato molte delle birre che hanno contribuito a costruire la reputazione ed il successo del birrificio di Marnate.  Defunkt!!!  è il nome scelto per una Imperial (Milk) Stout realizzata con arancia candita, zenzero candito e vaniglia in baccelli: il birrificio la definisce come “un cappuccino di quasi 10 gradi, con spolverata di cacao, vaniglia ed un tocco di agrume a ricordare un cornetto con la marmellata di arancia messo lì di fianco”.

La birra.
Nel bicchiere è nera e forma un piccola testa di schiuma color cappuccino, un po’ grossolana e di breve persistenza. Al naso emergono soprattutto i profumi di vaniglia, zenzero e caffè latte, mentre in sottofondo quelli del cioccolato al latte e delle tostature. L’intensità non è particolarmente intensa e nel complesso anche pulizia ed eleganza potrebbero essere migliori. Molto bene invece la sensazione palatale, che riesce a coniugare perfettamente la componente morbida e cremosa con una buona scorrevolezza: le bollicine sono poche e il corpo medio è meno ingombrante del previsto se si considera l’importante gradazione alcolica. Al palato la buona corrispondenza con l’aroma (caffè latte, vaniglia, cioccolato al latte) s’arricchisce di liquirizia, arancia candita e frutta sotto spirito. L’alcool è molto ben nascosto, la bevuta prosegue dolce e calda sino all’arrivo di una grande ondata di zenzero che ripulisce ed asciuga completamente il palato in un finale leggermente piccante e  - difficile pensarlo per una birra da quasi dieci gradi - rinfrescante.  Svanito lo zenzero, dopo qualche istante affiora un morbido retrogusto di vaniglia, cioccolato al latte, arancia ed orzo tostato, irrobustito da un morbido tepore etilico.  
Defunkt!!!  è una imperial stout abbastanza atipica: immaginate di fare colazione con cappuccino e una fetta di  Gingerbread Loaf, e immaginate di avere tutto questo in un bicchiere. E’ sicuramente ben fatta e godibile (a condizione che vi piaccia lo zenzero) ma al di là delle preferenze personali io non vi trovo la stessa pulizia ed eleganza degli elevati standard Extraomnes.
Formato: 33 cl., alc. 9.9%, lotto 14 16, scad. 01/01/2019, 5.50 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 17 aprile 2016

Ratsherrn Kaventsmann Baltic Porter

Nel 1276 ad Amburgo si contavano ben 457 birrifici, con il picco di 527 raggiunto alla fine del quattordicesimo secolo, periodo di massima splendore della Lega Anseatica della quale proprio Amburgo era divenuta la capitale "brassicola": dal suo porto più di 100.000 ettolitri di birra partivano ogni anno verso le Fiandre, l'Olanda, la Scandinavia e i paesi Baltici. La seconda guerra mondiale fece tabula rasa e anche quei pochi birrifici che si rimisero in piedi non ebbero vita lunga, finendo per l'essere assorbiti e poi chiusi dalle grandi multinazionali. Fino a poco tempo fa l'unico birrificio rimasto ad Amburgo era la Holsten-Brauerei, controllata dalla Carlsberg, produttore del marchio Astra, ereditato dall'acquisizione della storica St. Pauli Brauerei. 
Ma Amburgo non  è sempre stata solo Astra; nel 1951 ad esempio il birrificio Elbschloss mise sul mercato per la prima volta la Ratsherrn Pils, ed il marchio Ratsherrn si guadagnò una fetta di popolarità resistendo sino al 1995, anno in cui la Elbschloss fu assorbita dalla Bavaria-St. Pauli che decise di eliminare un concorrente della propria Astra. Nel 2005 il marchio fu acquistato dal Gruppo Nordmann, uno dei più grandi distributori di bevande di tutta la Germania.
Ci sono voluti però cinque anni a farne ripartire la produzione, perché la Nordmann anziché incaricare qualche terzista di realizzare le ricette decide di mettere in piedi qualcosa di più ambizioso: inaugurare un microbirrificio da 50 hl, la nuova Ratsherrn Brauerei, che trova posto in una porzione del ristrutturato vecchio macello nel quartiere Schanzenviertel. Le risorse economiche consentono di affiancare al birrificio nello  Schanzen-Höfen anche un Craft Beer Store ed il brewpub con cucina Altes Mädchen Braugasthaus.
La produzione di birra viene affidata a tre birrai: c'è Thomas Kunst, tedesco con un passato da responsabile qualità per AB-InBev, affiancato nel 2011 da Philip Bollhorn. Spetta a loro realizzare temporaneamente le ricette su impianti altrui in attesa dell'inaugurazione del microbirrificio di proprietà, che avviene a marzo 2013: nello stesso anno s'aggiunge al team di birrai l'americano Ian Pyle. E' lui a introdurre nuove ricette e ad espandere una gamma che inizialmente prevedeva solamente i classici stili tedeschi. Pyle voleva diventare un traduttore di tedesco, ma il lavorare come commesso in un beershop di Philadelphia fece nascere in lui la passione per la birra e per l'homebrewing. Terminati gli studi negli Stati Uniti, svolse un periodo di praticantato alla Gröninger Privatbrauerei di Amburgo  e alla Schneider & Sohn prima di diplomarsi mastro birraio a Monaco di Baviera nel 2010. Ritornato negli Stati Uniti, entra alla Samuel Adams ma dopo pochi anni è di nuovo ad Amburgo per avvicinarsi alla propria fidanzata Jennifer e portare un pezzo di Craft Beer Revolution americana alla Ratsherrn. 
Una APA ed una IPA affiancano le produzioni tedesche nella gamma di birre prodotte regolarmente tutto l'anno, ma è tra le stagionali e le one-shot che Pyle spazia a 360 gradi dagli stili anglosassoni a quelli belgi.

La birra.
Kaventsmann è una Baltic Porter prodotta con malti Vienna, Biscuit, Carabohemian, Coffee e frumento tostato; i luppoli sono Nugget ed Hercules.  Praticamente nera, forma un bel cappello di soffice schiuma cremosa, compatta e fine, dalla lunghissima persistenza. Il naso offre una bella pulizia e una buona intensità fatta di pane nero, frutta secca, ciliegia, caramello e in sottofondo sentori di caffè e di cioccolato al latte. Il gusto segue con buona fedeltà l'aroma, con una sensazione palatale piuttosto leggera e abbastanza morbida; la scorrevolezza è garantita, ma per una birra da 6.6% di contenuto alcolico ci si aspetterebbe un po' più di presenza e, sopratutto, d'intensità dei sapori.  Domina il pane nero, anche tostato, affiancato da sfumature che richiamano caffè e cioccolato al latte; c'è il dolce del caramello a bilanciare, un lieve fruttato (prugna? uvetta?) e in conclusione, oltre all'acidità dei malti scuri, anche un piacevole tocco di cenere.  Si congeda con un breve retrogusto dove convivono caffè, pane tostato e caramello. E' una Baltic Porter nella quale l'alcool non si fa mai sentire e che quindi non scalda; rimane comunque una discreta bevuta molto bilanciata, piuttosto pulita ma un po' carente d'intensità.
Formato: 33 cl., alc. 6.6%, IBU 32, lotto 14:20, scad. 01/06/2016, 3.00 Euro (beershop, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 16 aprile 2016

De Dolle Oerbier Special Reserva 2013

La storia della birra di oggi è inevitabilmente collegata a quella raccontatavi un paio di anni fa: Oerbier, la birra "originale" con la quale i fratelli Herteleer inaugurarono il birrificio De Dolle nel 1980. La storia della Oerbier è anche stata attraversata da drastici cambiamenti, il più rilevante dei quali è avvenuto nel dicembre del 1999, quando la Rodenbach, da poco passata sotto al controllo di Palm, decide di sospendere la fornitura del proprio lievito a tutti gli altri birrifici che lo utilizzavano: Kris Herteleer deve trovare una soluzione. Dopo alcuni tentativi falliti con lieviti alternativi, è chiaro che l'unica strada percorribile è quella  di "replicare" il precedente lievito della Rodenbach utilizzando le poche scorte  rimaste. 
Ma i primi esperimenti danno grossi problemi di rifermentazione, che sembra non finire mai, provocando l'esplosione di molte bottiglie. Non tutto il male viene per nuocere però; la prospettiva di perdere tutto ciò che era stato prodotto fa venire a Kirs l'idea di travasare la birra in alcune botti di legno creando la Stille Nacht Reserva e, svuotate le botti 12 mesi dopo, la prima versione della Oerbier Reserva. 
Ma è  da "un aiuto dal cielo" (almeno così lo chiama Kris) che arriva la soluzione; alcuni fusti non vuoti di Stille Nacht rientrano dalla Finlandia ed è possibile recuperare il lievito originale. Con l'aiuto di un microbiologo se ne inizia la coltivazione: la Oerbier non è esattamente identica a quella prodotta con il lievito fresco di Rodenbach ma il risultato soddisfa ugualmente Kris anche se non tutti gli appassionati.
Da allora oltre alle normale Oerbier ne viene prodotta anche una versione invecchiata per circa 18 mesi in botti francesi che hanno contenuto vino Bordeaux; il contenuto alcolico della Oerbier passa dal 9 al 13% della Oerbier Special Reserva, che viene commercializzata senza regolarità di tanto in tanto.

La birra.
Il millesimo 2013 della Oerbier Special Reserva si presenta nel bicchiere di color ambrato molto carico con intense sfumature rosso rubino; forma giusto un dito di schiuma che, sebbene cremosa, svanisce abbastanza rapidamente. Al naso, ricco e piuttosto complesso, s'intrecciano note lattiche e acetiche, aspre e dolci: aceto di mela, aceto balsamico, ciliegia sotto spirito, uva e uvetta. In sottofondo il dolce del caramello, il legno e gli accenni di vaniglia ma soprattutto un bel carattere vinoso. Intenso, pulito, emozionante. Il gusto non è certo da meno e prosegue nella direzione tracciata dall'aroma: anche qui c'è una riuscitissima convivenza tra note acetiche e lattiche, dolci ed aspre, che si alternano senza sosta. C'è frutta in abbondanza (prugna, uvetta, ciliegia ed uva, visciole e ribes) alla cui freschezza rispondono le note ossidative che ricordano vini liquorosi, sherry: la chiusura è straordinariamente secca, amara di tannini e di lattico, ricca di note vinose e legnose. La bevuta è molto ricca, eppure la sua complessità è di non difficile lettura grazie ad un'ottima pulizia. Non ha l'eleganza di una Consecration (anch'essa invecchiata in botti ex-vino), ma sono proprio gli spigoli e le ruvidezze del carattere della Oerbier Reserva a generare molteplici emozioni. Alcuni sorsi sono quasi rinfrescanti, altri sono avvolti da una vampata etilica mentre altri ancora sono caldi, morbidi ed appaganti, come se stessimo sorseggiando un vino liquoroso. 
Ci mette un po' ad "aprirsi" nel bicchiere, ma quando lo fa la soddisfazione è davvero grande e vi accompagna per tutta la serata: è una delle (poche) birre da cantina, non è prodotta con regolare continuità e non è facile intercettarla anche perché ne arrivano sempre quantità piuttosto modeste. Ma se la trovate il consiglio è di prenderne sempre più di una bottiglia per poterne apprezzare l'evoluzione nel corso del tempo.
Formato: 33 cl., alc. 13%, lotto 2013, scad. non riportata.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 15 aprile 2016

Heineken, Bavaria Holland Premium Beer, Best Bräu Lager Beer, Poretti Tre Luppoli


Le cosiddette birre artigianali o “di qualità” si stanno diffondendo anche nella grande distribuzione, ma gli scaffali dei supermercati sono ancora dominati dalle lager industriali. La principale lamentela sulla “birra artigianale”  è relativa al costo: rispetto ad una industriale il prezzo al litro viene spesso moltiplicato da quattro a sei volte anche nei supermercati. Non intendo mettermi a discutere se valga la pena o no spendere così tanto per mettere nel carrello della spesa una birra buona:  una volta che si è saltata la staccionata che separa industriale da “artigianale” risulta difficile tornare a bere regolarmente birre che hanno tutte più o meno lo stesso scarso sapore.  
Eppure anche i prezzi delle “lager-industriali-tutte-uguali” non sono poi esattamente uguali tra di loro, anche se con frequente rotazione molte di esse si trovano in offerta speciale.  Prendiamo in esame alcune tra le birre più facilmente reperibili sugli scaffali: Heineken, Bavaria Premium Lager, Poretti 3 Luppoli e la Best Bräu del discount. E’ proprio questa la lager più economica, con un prezzo di 0,55 Euro per la lattina da 50 cl. che equivale a 1,10 Euro al litro; per la Bavaria bisogna spendere 1,74 Euro/litro (+58%), per la Poretti 3 Luppoli 2,39 € (+117%) e per la Heineken nella bella lattina cromata 2,78 Euro/litro (+153%). Questa differenza di prezzo è giustificata anche da una maggiore “qualità” (il virgolettato è d’obbligo) o quello che paghiamo in più è solamente il marchio? 
Per scoprirlo ho volutamente assaggiato queste quattro birre “alla cieca” per non farmi influenzare dal loro nome. Per quel che riguarda l’aspetto tutte e quattro sono assolutamente identiche nella loro dorata limpidezza; le uniche lievi differenze riguardano le dimensioni e la persistenza della schiuma, sempre perfettamente bianca e cremosa.  Quella meno generosa è della Poretti, all’estremo opposto si trova la Bavaria che, probabilmente grazie ad una percentuale di frumento dichiarata in etichetta, forma più schiuma che impiega più tempo a dissolversi. Ecco la descrizione delle birre nell’ordine in cui sono capitate negli anonimi bicchieri:

Numero 1:  Heineken.
L’aroma è di bassa intensità ma comunque percepibile: cereali, un accenno di mela verde e un tocco dolce che richiama il miele, o forse il mais. Non c’è molto ma per lo meno quel poco che c’è non presenta profumi sgradevoli. Al palato è ovviamente leggera, con una carbonazione media e la ovvia consistenza palatale acquosa.  Perfetta la corrispondenza tra gusto e aroma con l'identica bassa intensità: cereali e mela verde, mi sembra di sentire anche il dolce del mais anche se la lattina non ne specifica l’utilizzo. L’amaro del finale è appena percepibile solo quando la birra si scalda, mentre a temperatura fredda (ovviamente quella consigliata)  la chiusura è comunque abbastanza secca con il palato che rimane abbastanza rinfrescato e pulito.  Il gusto di questa lager è davvero ridotto ai minimi termini e rasenta il confine con l’acqua, ma personalmente lo vedo come un pregio, anziché un difetto. Svolge la sua funzione dissetante e rinfrescante con dignità, scorrendo senza nessun intralcio; anche l’amaro, che potrebbe risultare poco gradevole a qualche bevitore, viene praticamente azzerato.

Numero 2:  Best Bräu Lager Beer. 
L’intensità dell’aroma è ancora inferiore a quello della birra che l’ha preceduta, rasentando lo zero. Anche quel poco che c’è non è particolarmente gradevole: un ricordi di fiori secchi, un dolcino che richiama il granoturco. Meno bene anche al palato: leggerezza ed acquosità sono ok, mentre mancano un po’ di bollicine a rendere un po’ più vivace lo scorrimento. Molto scarsa anche l’intensità del gusto, ma leggermente superiore alla Heineken: dolcino di mais (o miele?), cereale. La chiusura amaricante, benchè cortissima, è qui maggiormente avvertibile e si porta dietro qualche breve istante poco gradevole e reminescente di plastica/gomma; il gusto è  nel complesso più dolce, la chiusura è meno secca e il palato rimane in compagnia di una lieve patina dolciastra. Ne risulta una birra molto meno dissetante (o più “pesante”,  se preferite) dell’Heineken: in questo la caso la sua intensità più elevata si rivela un boomerang negativo, visto che la gradevolezza non è certo di casa. Non è più prodotta dalla birrificio Castello di Udine ma dalla Hofbräuhaus Vertriebs in Germania.

Numero 3:  Poretti Tre Luppoli
La saga dei numeri Poretti, che ricordo essere è solo il nome della birra e non indica le tipologie di luppolo utilizzate,  è qui ai minimi termini: solo 3. L’aroma è di discreta intensità, se rapportato alle altre: pane e miele, ma il dolce si porta anche dietro un pochino di diacetile che mette fuori la testa quando la birra si scalda. Anche lei è penalizzata da una carbonazione un po’ sottotono che le toglie  vitalità. L’intensità del gusto è sicuramente inferiore a quella dell’aroma ed è paragonabile al livello Heineken; non c’è ovviamente fragranza ma solo una generica sensazione dolce di pane/miele, con un lieve tocco amaricante erbaceo. Il lieve diacetile ne pregiudica tuttavia la secchezza e quindi il potere dissetante: mi sembra "meglio" della Best Brau ma non riesce a rinfrescarmi come la Heineken.

Numero 4: Bavaria Holland Premium Beer
Il naso oltre alla canonica scarsa intensità non è neppure particolarmente gradevole: passabile il cereale, male quella nota di fiori secchi che non trasmette certo freschezza. Il gusto è invece il più intenso tra le quattro lager: fosse buona sarebbe una caratteristica senz'altro apprezzabile, ma in questo caso il risultato non è altro che quello di mettere in risalto gli aspetti negativi di questa birra. Sopportabile la parte dolce (miele, pane, cereali) ma l'amaro finale è un piccolo trionfo di gomma/plastica che, sfortunatamente, appesantisce la bevuta e ne pregiudica la vocazione rinfrescante. E' la più amara delle quattro ma anche la meno dissetante, con il palato che rimane sempre un po' appiccicoso di dolce: ci è voluto un sorso di acqua Heineken per ripulirlo. La sensazione palatale è invece nella norma, con la giusta quantità di bollicine.

Le conclusioni.
Non sono birre di qualità o artigianali, quindi le mie considerazioni si adattano al contesto cercando di analizzarle con obiettività; sarebbe troppo facile liquidarle tutte con un "fanno schifo", ma nessuno è nato bevendo "birra artigianale", tutti siamo partiti bevendo birre industriali e abbiamo continuato a farlo per diversi anni con piacere. Inutile quindi scandalizzarsi se c'è chi continua a berle o se c'è chi trova invece disgustoso una birra "artigianale" che sa di pompelmo o di aghi di pino o di yogurt andato a male. 
Parto dal presupposto che una lager debba sopratutto rinfrescare e dissetare chi la beve: un risultato che si può ottenere anche con l'acqua, certo, ma la birra offre quella leggera ebbrezza ed euforia che l'acqua non può dare. Il primissimo sorso di birra fresca, in una calda giornata estiva,  ha sempre quell'effetto "magico" sul palato, anche se la birra è industriale e dopo alcuni sorsi risulta praticamente insapore.  Con questi presupposti, darei la mia "preferenza" alla Heineken; delle quattro birre è quella più "pulita" e priva di difetti o sgradevolezze. Il merito va sicuramente alla bassissima intensità del gusto, elemento strategico per evitare le brutte sorprese derivanti dalla necessità di produrre a basso costo: ma è anche quella più secca e quindi quella che offre maggior refrigerio. All'estremo opposto metterei la Bavaria, la cui "intensità" (il virgolettato è sempre obbligatorio) è inversamente proporzionale alla sua piacevolezza: meglio la Best Bräu, che ha oltretutto un costo anche minore. Al di là del nome, di luppolo non c'è ovviamente traccia nella Poretti, che come gradevolezza ho trovato leggermente migliore della Best Bräu, ma costa al litro il 117% in più. L'Heineken è anche la più cara tra le quattro lager, arrivando a costare il 153% in più della Best Bräu del discount: stiamo parlando di poco più un Euro per una lattina da 50 cl., cifre ormai sconosciute a chi in Italia è ormai stato contagiato dalla passione per la birra di qualità o artigianale.  

Nel dettaglio:
Heineken, formato 50 cl., alc.  5,0%, lotto 5218380BG, scad. 01/08/2016, 1.39 Euro
Bavaria Holland Premium, 50 cl., alc. 5,0%, lotto BZN940805L, scad. 01/05/2017, 0.87 Euro
Best Bräu Lager Beer, 50 cl., alc. 4,8%, lotto 21K4 22:19, scad. 01/12/2016, 0.55 Euro
Poretti Tre Luppoli, 33 cl., alc. 4,8%, lotto J151619D, scad. 01/09/2016,  0.80 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.