venerdì 29 novembre 2019

Eastside Baciami Ancora

Il birrificio Eastside di Latina è da qualche anno una presenza abbastanza ricorrente sul blog: qui trovate tutte le birre passate su queste pagine. Anche Eastside – da sempre attento alle tendenze birrarie -  è uno di tra i pochi birrifici italiani che hanno iniziato ad utilizzare il formato lattina 44 centilitri che sta ormai spopolando in tutta Europa. Il loro debutto è avvenuto a metà luglio, giusto in tempo per portarle in spiaggia nella borsa frigo, con l’American IPA Sunny Side seguita il mese successivo dalla Soul Kiss, l’American Pale Ale con la quale Eastside aveva debuttato. La gamma si è poi ampliata con la Double IPA Sun Stroke, l’imperial stout Baciami Ancora e l’ultima arrivata Dreamshake IPA. 
Torniamo all’estate scorsa: pare che lo staff Eastside sia rimasto particolarmente soddisfatto di una cena presso La Mangiatoia di Alassio, steakhouse che vanta anche una bella selezione di birre artigianali. Cena che si è conclusa con l’assaggio di qualche Bacio di Alassio, dolcetto tipico della località ligure inventato all’inizio del ‘900 da Pasquale Balzola. Ecco come la pasticceria ne ripercorre la storia: “agli albori del secolo scorso, in modo lento ma progressivo, gli italiani scoprirono, grazie all’ausilio dei nuovi mezzi di comunicazione, il piacere del Turismo e con esso la possibilità di recarsi nelle località balneari del Ponente Ligure per potersi immergere nelle nascenti “bagnature di mare” (così si chiamavano allora le attività marine) e trascorrere le vacanze estive. Ad Alassio, cittadina costiera dell’estremo ponente ligure, antico borgo marinaro e perla della riviera di ponente, gravitava in quell’epoca, così come accade oggi, tutto il bel mondo proveniente dalla Lombardia e Piemonte unitamente a vaste colonie di inglesi e tedeschi che apprezzavano un mare azzurro ed incontaminato unitamente ad una sabbia naturale pulitissima e ricca di quarzite, la cui ottima conducibilità di calore riusciva a curare dolori e reumatismi. Balzola Pasquale, fondatore della nostra azienda, dotato di fausto e geniale intuito, comprese la potenzialità economica che il nascente fenomeno turistico poteva rappresentare e decise di creare un prodotto dolciario con discrete qualità di conservazione che si potesse vendere alla stregua di un souvenir da regalare a parenti o amici al ritorno delle vacanze. Così fu e l’idea ebbe grande successo; sfruttando i semplici e allora poveri ingredienti che la natura avara di Liguria poteva fornire, nacquero i Baci di Alassio (da noi brevettati sin dal lontano 1919)”. 
La ricetta originale della Pasticceria Balzola prevede nocciole Piemonte IGP, zucchero, albume d’uovo, miele cacao, farina di frumento, burro e aromi per il guscio; copertura di cioccolato fondente, panna, burro di cacao, cacao in polvere e pasta di nocciole per il ripieno.

La birra.
Baciami Ancora è l’ultima imperial stout (10%) nata in casa Eastside ed è prodotta con aggiunta di farro, cacao, caffè, lattosio e Baci d’Alassio quest’ultimi usati in bollitura durante la realizzazione del mosto. Il suo vernissage non poteva che avvenire in Liguria: non ad Alassio, ma al Genova Beer Festival dello scorso 18 ottobre. 
Non è completamente nera ma poco ci manca: peccato per la schiuma, quasi inesistente e rapida nel dissolversi. L’aroma è pulito e gradevole ma d’intensità piuttosto modesta: caffè moka, tabacco, note terrose e torrefatte, cacao fondente.. La bevuta fa un netto balzo in avanti rispetto all’aroma, soprattutto per l’intensità: liquirizia, frutti di bosco, nocciola e vaniglia danno il via ad una imperial stout dolce che poi vira piuttosto velocemente sull’amaro del caffè, del cioccolato fondente, del torrefatto e del luppolo. Lascia una lunga scia morbida e moderatamente etilica nella quale caffè e cioccolato si “baciano ancora”.  Ed è un bacio nero abbastanza morbido al palato, leggermente viscoso ma non ingombrante: si sorseggia in tutta tranquillità e con piena soddisfazione.  Nonostante l’utilizzo di un pasticcino è (fortunatamente, aggiungo io) un’imperial stout che si mantiene assolutamente distante dal territorio pastry: è una birra che sa di birra, intensa, pulita e ben bilanciata tra le sue componenti. L’aroma ha un po’ il freno a mano tirato ma al palato c’è pieno riscatto: cercate ovviamente di berla fresca, caffè e cioccolato non migliorano col tempo.
Formato 44 cl., alc. 10%, lotto 42 19, scad. 08/2024, prezzo indicativo 8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 28 novembre 2019

Kasteel Donker

Dalla sua fondazione, nella prima metà del 1800, la Brouwerij Van Honsebrouck è ancora nelle mani dell'omonima famiglia fondatrice, anche se è solo dal 1950, con l'arrivo di Luc Van Honsebrouck, che il birrificio assume il nome attuale. Un cambio al timone che si rivela fondamentale per il successo e per il futuro del birrificio: Luc decide di terminare la produzione di anonime lager per dedicarsi al lambic, dotandosi di foeders nei quali far maturare il mosto acquistato dai produttori del Pajottenland. Il successo della linea St. Louis (Gueuze e lambic alla frutta) portò Van Honsebrouck a diventare il secondo maggior produttore di lambic "addolcito" del Belgio, dietro a Belle-Vue; il mosto viene oggi prodotto internamente e fermenta spontaneamente in vasche aperte; il birrificio continua ad etichettare i suoi prodotti come gueuze e lambic nonostante si trovi ben al di fuori dei confini del Pajottenland. La gamma di Van Honsebrouck si completa con i marchi Bacchus (una  Oud Bruin  prodotta dal 1950), Brigand e Kasteel; queste ultime vennero lanciate verso la fine degli anni '80 per celebrare l'acquisto del castello della città di Ingelmunster, le cui cantine vengono ancora usate per la maturazione di alcune birre. Sebbene l'edificio attuale risalga al 1700, nello stesso sito esisteva prima un'abbazia e poi, a partire dal 1400, un castello con annesso birrificio. 
Un paio di anni fa vi avevo parlato della Cuvée du Château, potente Belgian Strong Ale che Van Honsebrouck mette in vendita una volta all’anno: una birra ispirata dall’assaggio di alcuni esemplari di Kasteel Donker che riposavano da una decina d’anni nelle cantine del birrificio. L’idea è di offrire ai clienti una birra già invecchiata senza obbligarli a fare cantina: come venga esattamente prodotta la Cuvée du Château non ci è dato sapere. La parola cuvée dovrebbe far pensare ad blend di birra fresca a birra vecchia: condizionale d’obbligo.

La birra.
Facciamo un passo indietro e stappiamo invece una bottiglia di Kasteel Donker che ho tenuto in cantina per quattro anni. Belga, scura e dal contenuto alcolico importante (11%): in teoria possiede tutte le caratteristiche necessarie per poter invecchiare bene. La sua tonaca di frate (cappuccino) è ancora piuttosto luminosa, la schiuma cremosa è invece di dimensioni abbastanza modeste e si dissolve abbastanza rapidamente. Uvetta, datteri, ciliegia, mela verde, frutta secca a guscio e soprattutto pera danno forma ad un naso intenso ma poco raffinato. Corpo medio, bollicine ancora abbastanza vivaci, ottima facilità di bevuta, quasi pericolosa: è una Strong Ale che non tradisce la tradizione belga. La bevuta è molto dolce, svolge buona parte del suo percorso sul baratro della stucchevolezza ma, benchè priva di amaro, viene salvata da un’ottima attenuazione. Fortunatamente la pera si fa da parte lasciando il palcoscenico a melassa, uvetta, ciliegia sciroppata, frutti di bosco e prugna disidratata. L’alcool c’è ma si mostra in maniera molto minore rispetto a quanto dichiarato. 
Non è particolarmente memorabile questa Kasteel Donker: birra importante ma non caratterizzata da adeguata profondità e complessità, e mi riferisco soprattutto all’espressività di sua maestà il lievito. Rispetto alla Cuvée du Château bevuta qualche anno fa è comunque un passo in avanti.
Formato 33 cl., alc. 11%, lotto KAD00506G, scad. 05/2020, pagata 1,75 euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 27 novembre 2019

FiftyFifty Totality Imperial Stout

Del birrificio Fifty Fifty di Truckee, California, vi avevo parlato nel 2015: in questa sperduta località montana Alicia ed Andy Barr hanno fondato nel 2006 un brewpub lasciando il loro lavoro alla Hewlett-Packard.  Reno è a 50 chilometri mentre il Lago Tahoe è a soli venti. Nonostante avessero qualche esperienza con l’homebrewing i due decidono di affidare la direzione dell’impianto all’esperto Todd Ashman, un birraio fondamentale non solo per il successo di FIfty Fifity ma anche per l'intera Craft Beer Revolution americana e soprattutto uno dei primi a sperimentare affinamenti in botte. Nel corso della sua permanenza al brewpub Flossmoor Station a Chicago (undici medaglie ottenute al Great American Beer Festival), negli anni ’90, aveva avuto modo di studiare da vicino quello che stava facendo Goose Island. 
Ed è proprio con una birra Barrel Aged, la imperial stout Eclipse, che Todd ha portato notorietà e successo Fifty Fifty: ogni anno centinaio di beergeeks affollavano la taproom cercando d’impossessarsi di qualche preziosa variante; poi, come spesso accade, l’hype degli appassionati si è spostato altrove e le bottiglie di Eclipse sono divenute reperibili senza fare troppa fatica anche alle nostre latitudini.  Nel 2014 Ashman aveva annunciato le sue dimissioni per ritornare alla Flossmoor Station di Chicago, continuando comunque collaborare esternamente per la famiglia Barr; a quanto pare dei problemi di salute lo hanno costretto a rinunciare e alla Fifty hanno fatto una colletta ed un fundraising per pagargli le spese mediche.  Oggi Ashman riveste ancora il ruolo di consulente per Fifty ma in sala cottura c’è un team di birrai guidato da Brian McGillivray e Marley Anderson: a loro il compito di far funzionare il vecchio brewpub, che alimenta anche l’adiacente ristorante Drunken Monkey, e un secondo sito produttivo (35 hl) a Tuckee dalla. E’ invece prevista per la primavera del 2020 l’apertura di una succursale a Reno, la piccola Las Vegas del Nevada.

La birra.
Totality è l’imperial stout base che ha poi dato forma alle numerosissime varianti della più famosa Eclipse; questa è stata per molti anni l’unica birra che Fifty Fifty distribuiva fuori dalla California ed in altri continenti; solo di recente, grazie all’aumentata capacità produttiva, il birrificio ha iniziato a distribuire anche altre etichette e qualche lattina di Totality è arrivata anche in Europa. 
2row, Golden Promise, Munich Light, Dark e Honey, Red Wheat, Pale Chocolate, Brown, Chocolate, Black e malti tostati; queste dovrebbero essere le basi di una ricetta alla quale vengono aggiunti luppoli Mt. Hood, Magnum e Perle, estratto di malti e sciroppo di riso. 
Il suo colore è ebano scuro, la schiuma è cremosa, compatta ed ha buona persistenza. L’aspetto è bello e invitante, l’aroma invece è poca roba: accenni di torrefatto, fruit cake, frutti di bosco. L’intensità è davvero minima. Fortunatamente il gusto mostra segni di ripresa, non tanto per quel che riguarda pulizia e definizione, ma soprattutto per intensità. Caramello, fruit cake, liquirizia aprono un percorso dolce che viene bilanciato e concluso dall’amaro del caffè, del tostato, del cioccolato fondente e da una leggera luppolatura: la presenza etilica è quasi delicata. Al palato non ci sono particolari ingombri o viscosità, solo una leggera morbidezza. 
Totality di Fifty Fifty è un’imperial stout molto bilanciata che si lascia bere con facilità ma che non brilla per precisione e pulizia: bene ma non benissimo, per farla breve. Discorso che potrei estendere anche alla sorella più famosa Eclipse, le cui varianti viaggiano solitamente a 30€ a bottiglia: si beve bene, ma il rapporto qualità prezzo non è dei migliori e a quelle cifre oggi si trovano molte alternative.
Formato 47,3 cl., alc. 9.5%, imbott. 07/02/2019, prezzo indicativo 7,00 euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 22 novembre 2019

Ritual LAB / Stigbergets / O/O Freya

Se lo si confronta con le annate precedenti  il 2019 che si sta concludendo è stato ricco di collaborazioni  per il birrificio Ritual Lab di Formello (Roma); qualche settimana fa vi avevo parlato della Four Brothers, una Baltic Porter realizzata assieme agli olandesi di  De Moersleutel. A gennaio era invece arrivata Tangie, una saison al succo di mandarino prodotta con Oxbow Brewing Company e  Jester King Brewery e qualche settimana fa ha debuttato Goosebumps, Gose con aggiunta di melograno concepita con gli svedesi di  Wizard Brewing. 
Restiamo in questa nazione perché è da qui che a inizio ottobre arrivarono a Roma, complice la manifestazione EurHop, i birrari protagonisti di una nuova collaborazione: Stigbergets Bryggeri e O/O Brewing, ovvero due tra i produttori più apprezzati del movimento craft europeo. Per chi non lo sapesse, i due birrifici svedesi hanno condiviso assieme buona parte della loro storia: Stigbergets è balzato in cima alle classifiche del beer-rating europeo grazie alle NEIPA prodotte dal birraio Olle Andersson che al tempo stesso realizzava sugli stessi impianti anche le birre della propria beerfirm O/O.  Nel settembre del 2017 Andersson ha abbandonato Stigbergets per dedicarsi a tempio pieno ad O/O, nel frattempo si era dotata di impianti propri; è stato sostituito dai birrai Lucas Monryd e Andreas Görts, peraltro anche loro  già titolari di un’altra beerfirm svedese, All In Brewing, che ha iniziato a produrre sugli impianti di Stigbergets.

La birra.
Freya è forse la divinità norrena più popolare: è la bellissima dea dell'amore, della fecondità e della lussuria. Nel nostro caso Freya assume invece le sembianza di una Double IPA (8%) prodotta con una generosa luppolatura sulla quale non sono stati rivelati dettagli. 
Nel bicchiere assomiglia ad un torbido succo di pesca, la schiuma biancastra e abbastanza compatta ha una discreta persistenza. Mango, arancia, mandarino, pompelmo, papaya e potenzialmente qualsiasi altro frutto i vostri sensi vi suggeriscono vanno a formare un aroma molto pulito e intenso, piuttosto elegante e definito, dolce ma non stucchevole. Vi manca “l’effetto marijuana”, quel carattere dank che le NEIPA moderne hanno ormai perso per strada? Qui lo troverete senza dovervi sforzare di cercarlo. La sensazione palatale è morbida, leggermente chewy come vorrebbe lo stile NEIPA, ma non ingombrante: la sua scorrevolezza non è da record ma non ci si può lamentare. Il gusto richiama l’aroma alternando frutta tropicale dolce e leggermente più acerba/aspra: ne risulta una Double NEIPA abbastanza secca che chiude il suo percorso con un finale amaro resinoso-dank di buona intensità, anche se non di lunga durata. Ed è solo in questo frangente che l’alcool fa sentire un po’ la sua presenza.
Freya viaggia su livelli alti, e non poteva essere altrimenti visto i birrai coinvolti: NEIPA molto ben fatta nella quale il fruttatone tropicale viene bilanciato da un amaro importante che ricorda un po’ la vecchia scuola. Per chi detesta i succhi di frutta, questa è ancora una birra che sa di birra: correte a berla finché è fresca.
Formato 33 cl., alc. 8%, lotto 68, scad. 01/06/2020, prezzo indicativo 5.50-6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 novembre 2019

Põhjala Cellar Series - Pime Öö PX

Voglia di imperial (stout, porter)? Il birrificio estone Põhjala, attivo dal 2011, è diventato uno dei produttori europei più prolifici e di successo per questo tipo di birre: qui potete trovare tutte quelle che sono apparse sul blog negli ultimi anni. Il birrificio guidato in sala cottura da Chris Pilkington ed il suo team di birrai ha completato alla fine dello scorso anno un ambizioso piano di espansione che ha spostato gli impianti nel quartiere Kalamaja di Tallinn; qui è stata anche inaugurata la nuova Taproom, 24 spine Põhjala e qualche ospite, cucina gestita dallo Chef Michael Holman specializzata in barbecue texano. Aperta tutti i giorni tranne il lunedì da mezzogiorno a mezzanotte, la domenica chiusura anticipata alle cinque del pomeriggio: in caso di bisogno il beer e merchandising shop rimane comunque aperto sino alle 22. 
Põhjala organizza tutti i pomeriggi visite guidate agli impianti in inglese e in lingua estone: al costo di 10 euro potrete passeggiare tra i fermentatori ed usufruire di 3-4 assaggi. Bisogna però prenotarsi, anche on-line, almeno con un giorno d’anticipo. L’esperienza Põhjala culmina poi in una sauna che potete noleggiare per 50 euro all’ora: può ospitare sino a otto persone e, dopo il bagno di vapore, il birrificio vi mette a disposizione docce ed un’area relax privata dove – spero –  potete dissetarvi con qualche birra proveniente dalla taproom.

La birra. 
Pime Öö significa “notte oscura”. Una delle tante Imperial stout ideate per affrontare le lunghe notti dell’inverno estone che, nel suo picco tra dicembre e gennaio, vi regala solamente sei ore di luce: il sole sorge alle nove e mezza del mattino e tramonta alle 15 e 30.  La ricetta della Pime Öö (13.6%) prevede  malti Pale, Monaco, Special B, Crystal 300, Crystal 150, Crystal 200, Carafa type 2 special e  Chocolate, avena e Chocolate Rye (segale), due soli luppoli, Magnum e Northern Brewer.  Ne esistono ovviamente diverse versioni barricate e oggi assaggiamo quella invecchiata sei mesi (?) in botti di sherry Pedro Ximenez che, ricordo per i meno esperti, è un vino fortificato spagnolo. 
Il suo colore potrebbe effettivamente essere quello delle lunghe nottate nei boschi che circondano Tallinn: la schiuma, anche lei piuttosto scura, è cremosa ed ha buona persistenza. Al naso lo sherry è subito protagonista, circondato da profumi di melassa, fruit cake, uvetta, prugna disidratata, ciliegia e in secondo piano qualche lontano ricordo di caffè: non è un manifesto di pulizia e di eleganza ma è comunque una calorosa stretta di mano, un benvenuto che vi mette subito a vostro agio e che si concretizza in un sorso pieno, viscoso e denso ma non ingombrante. Se vi piace lo sherry non potrete che amare questa birra che ne è impregnata dall’inizio alla fine: molto dolce – e non potrebbe essere altrimenti – ma non stucchevole. Lo affiancano melassa, liquirizia, fruit cake, uvetta e prugna sotto spirito, timidi accenni di cioccolato e di caffè fanno una rapida comparsa finale prima di un lungo retrogusto di sherry.  L’alcool (quasi 14%) è gestito benissimo, non disturba e contribuisce a contrastare il dolce di una birra che rappresenta un porto accogliente nel quale approdare per ripararsi dalle intemperie dell’inverno.  Il passaggio in botte tende a surclassare la birra che ci è finita dentro ma è una bevuta che personalmente mi ha molto soddisfatto. A me lo sherry piace molto, chi ha invece gusti diversi potrebbe avere qualche problema.
Formato 33 cl., alc. 13.9%, IBU 60, lotto 405, scad. 14/03/2020, prezzo indicativo 8.00-10.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 novembre 2019

Opperbacco 10 e Lode Barrique


Nel 2019 ha compiuto dieci anni e mi sembra quindi giusto festeggiare stappando una 10 e Lode: parliamo del birrificio Opperbacco che l’homebrewer Luigi Recchiuti ha aperto nel 2009 a Notaresco (Teramo), in una zona  - come spesso accade in Italia – ad alta concentrazione vinicola.  Il nome stesso e il logo scelti, ispirato al Bacco di Caravaggio con un bicchiere di birra al posto del vino in mano, sembrano quasi lanciare la sfida a Montepulciano e Trebbiano d'Abruzzo. Laureato in Scienze Agrarie presso la facoltà di Bologna, Recchiuti ha preferito seguire la proprie passione, ovvero la birra: all’inizio degli anni 2000, prima di inaugurare il birrificio, aveva ristrutturato una casa colonica di famiglia trasformandola nell’Agripub, locale con un’ampia selezione di birre che venivano importate direttamente dal Belgio: oggi il locale è divenuto praticamente la taproom del birrificio, il luogo ideale dove mangiare e assaggiare tutta la produzione Opperbacco. 
In dieci anni d’attività Recchiuti ha realizzato un centinaio di etichette diverse: numero importante ma abbastanza contenuto per quelli che sono gli standard attuali dei birrifici artigianali. Opperbacco ha preferito lavorare su un nucleo stabile di birre piuttosto che immettere una novità alla settimana: i cambiamenti non sono comunque mancati, segno che il birrificio è attento a quello che succede nel mercato. Opperbacco è uno tra gli ancora pochi birrifici italiani ad utilizzare anche le lattine: alla Tripping Flowers è toccato l’onore di inaugurare questo formato. In contemporanea è stato ampliato anche il programma dedicato agli affinamenti in botte con le linee Nature e Nature Uva, birre acide realizzate con lieviti selvaggi e aggiunta di frutta.


La birra.
La Belgian Strong Ale 10 e Lode, dichiaratamente ispirata alla grandi trappiste belghe (Rochefort 10, Wesvleteren 12), debuttava nel 2009 con una ricetta che elenca malti pilsner, cara munich, special B, biscuit, aromatic ed avena, luppoli hallertau e styrian goldings. Nel corso degli anni ne sono state realizzate diverse versioni: extravecchia (affumicata con fumo di sigaro toscano), barricata (botti di vino Neromoro di Nicodemi), sour (barriques inacidite) ed extravecchia barricata. 
La sua edizione Barrique ha debuttato nell’ottobre del 2011: per l’affinamento sono state scelte botti che avevano in precedenza ospitato Montepulciano d’Abruzzo, nello specifico caso di questo lotto (B16) provenienti dalle Tenute Agricole Masciarelli di San Martino sulla Marrucina (Chieti) 
La sua tonaca di frate cappuccino è alquanto torbida e in superficie si forma solo una sequenza di bolle grossolane. L’aroma è caldo e avvolgente: uvetta, datteri, prugna, frutti di bosco, accenni di mela e di frutta secca a guscio, vino marsalato e legno: complesso, intenso e pulito, un bell’inizio. Al palato c’è una leggera consistenza oleosa che non impedisce tuttavia a questa Belgian Strong Ale di scorrere senza fatica, come vuole la scuola belga: le bollicine sono ovviamente molto poche. Il passaggio in botte e la conseguente ossidazione hanno apportato richiami vinosi marsalati che ben si sposano alla frutta sotto spirito. Ritengo la 10 e Lode uno dei migliori tributi italiani alla tradizione belga e la sua edizione Barrique ne risulta impreziosita da un bel finale ricco di tannini, note vinose e un bel calore derivante da quella componente alcolica che sino a quel momento era rimasta ben celata. La maniera perfetta per spegnere con qualche mese di ritardo la decima candelina di Opperbacco che effettuò la sua prima cotta il 3 febbraio del 2019.
Formato 33 cl., alc. 10%, lotto 12416/B16, scad. 07/2022, prezzo indicativo 7,50-8,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 18 novembre 2019

Hommelbier Nieuwe Oogst - Fresh Harvest 2019

Furono i franchi, nel quinto secolo, a fondare quella che oggi è la “capitale del luppolo belga”.  Il capotribù Pupurn prese possesso di un’area strategica in prossimità di un fiume sulla strada che collegava Cassel, in Francia, con Aardenburg, in Olanda: la chiamò Pupurningahem, ovvero “la residenza dei figli di Pupurn”. Il nome nel corso del tempo fu poi mutato dei locali in Poperinge, alla quale nel 1147 il Conte delle Fiandre conferì finalmente lo status di città, riconoscendone l’importanza come centro di fabbricazione di tessuti.  La cosa non piacque alla vicina città di Ypres, altro centro tessile, che vedeva messa in pericolo la propria principale fonte di reddito: i cittadini convinsero pian piano Louis de Nevers, Conte delle Fiandre, a promuovere l’editto del 1322 con il quale si dichiarava che in quella zona solamente Ypres poteva commerciare tessuti. 
A Poperinge dovettero trovare nuove risorse per sopravvivere e decisero di provare a coltivare quel luppolo che era arrivato dall’abbazia di St. Bertins a Saint Omer, Francia. La città belga fu poi distrutta dai francesi nel 1382 e dagli inglesi nel 1436; nel secolo successivo fu devastata da due incendi e dalla rivolta protestante del 1566:  ma, quasi per un atto di clemenza, la storia decise di risparmiare Poperinge dalle distruzioni della prima guerra mondiale. Quella zona, a confine tra Francia e Germania, fu teatro di interminabili e durissimi combattimenti tra il 1914 ed il 1918 e le battaglie divennero tristemente famose per l’utilizzo – prima volta nella storia -  di gas letali.  Teatro principale degli scontri fu proprio Ypres, a dieci chilometri di distanza: in un clima perennemente piovoso e ostile centinaia di migliaia di soldati furono vittima del fango, dei gas e delle mitragliatrici. Alleati e tedeschi si contesero pochi chilometri di terra ma questi ultimi non riuscirono mai a sfondare: le battaglie ridussero Ypres ad un cumulo di macerie mentre nella quasi immacolata Poperinge l’esercito inglese costruì il proprio ospedale militare. 
Ma torniamo al luppolo: sino agli anni ’60 fu raccolto a mano e ogni anno, in settembre, a Poperinge arrivavano sino a 10.000 lavoratori ad aiutare la popolazione locale. La raccolta manuale è oggi rimasta solamente nel folklore della tradizionale all'Hoppefeesten, una festa a ricorrenza triennale nata nel 1960 nel corso della quale si beve ovviamente birra, si sfila per le strade e viene eletta la “regina del luppolo”: le pretendenti devono mostrare di saper parlare fiammingo, inglese, ceco (la vincitrice sarà coinvolta in numerosi eventi turistici con la città gemella di Zatec) e distingere alcuni stili di birra in una degustazione alla cieca. A pochi isolati dalla piazza principale di Poperinge c’è anche il museo del luppolo, curato dallo storico Stijn Boeraeve. 
Sino a pochi anni fa nella capitale belga del luppolo non c’era neppure un produttore di birra: ora è nato il microbirrificio De Plukker, all’interno della omonima azienda agricola, ma è sufficiente fare un breve viaggio in automobile (o in bicicletta, se volete sentirvi autoctoni) per entrare in una regione ad alta densità quantitativa e qualitativa: una quindicina di chilometri a nord ecco l’abbazia di St. Sixtus e De Struise, una decina ad est  ci sono St. Bernard e Brouwerij Van Eecke, da poco rinominata Leroy Breweries, cognome di uno dei discendenti del fondatore Albert Van Eecke: ve ne avevo parlato in questa occasione.

La birra.
A Poperinge il luppolo viene chiamato hommel, una sorta di incrocio tra ceco (chmel), francese (houblon) e botanica (humulus): nel 1981 al birrificio Van Eecke fu chiesto di realizzare una birra per la all'Hoppefeesten: nacque quasi per gioco quella Hommelbier che oggi occupa quasi il 50% della capacità produttiva di Leroy/Van Eecke. La sua ricetta prevede due malti e quattro varietà di luppoli belgi (tra i quali Brewer's Gold e Hallertau);  in una nazione dove le birre amare non  hanno mai goduto di grande popolarità la Hommelbier si può considerare uno dei primi esempi di Belgian Ale molto luppolata, anticipando le produzioni di De Ranke e quelle più recenti di De la Senne e di altri giovani. 
Il successo ne ha fatto nascere una versione “dry-hopping” e, giustamente, una “fresh harvest” chiamata Hommelbier Nieuwe Oogst, prodotta con luppolo raccolto a Poperinge due giorni prima: la birra viene solitamente messa in vendita a partire da novembre. Il suo colore è solare, tra il dorato e l’arancio, leggermente velato e per nulla oscurato dalla candida nuvola di schiuma pannosa e compatta, quasi indissolubile, che si forma nel bicchiere. La Hommelbier “normale” è un piccolo manifesto di finezza e di eleganza e anche la sua versione Nieuwe Oogst non è da meno: l’aroma può sembrare all’apparenza dimesso ma dopo qualche secondo d’attesa si rivela in tutta la sua bellezza: tanti fiori, erba, un delicatissima speziatura, pane e crackers. Gli stessi elementi si ritrovano anche al palato per dare forma ad una bevuta elegantissima, quasi sussurrata, abbastanza secca e dal contenuto alcolico (7.5%) insospettabile: è una Strong Ale mascherata da Session, rinfrescante, morbida e tuttavia vivacemente carbonata. Un piccolo capolavoro di semplicità e di equilibrio che stupisce e che fa impallidire la maggior parte delle sgraziate “harvest ale” che spesso si trovano in giro.  Certo, bisogna sempre vedere quanto luppolo fresco finisce davvero nei fermentatori, ma non è dopotutto solo "il bere bene" quello che conta?
Formato 75 cl., alc. 7.5%, lotto 2019, scad. 01/12/2021, prezzo indicativo 7.00-8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 15 novembre 2019

Jackie O's Oro Negro Bourbon Barrel Aged 2016

“Adoro i malti: non che i luppoli siano da meno, ma sono davvero molto eccitato quando mi trovo nella mia stanza dei malti a immaginare che cosa posso fare con loro": queste le parole di Brad Clark che utilizza una tonnellata di malto nel suo bollitore da 23 ettolitri per una delle birre che ama maggiormente produrre. E' la imperial stout Dark Apparition, il cui successo ne ha poi originato le solite molteplici varianti sia per quel che riguarda gli ingredienti aggiunti (caffè, vaniglia...) che i passaggi in differenti botti. Torniamo quindi a parlare di Jackie O’s Pub & Brewery, operativo dal 2009 ad Athens, Ohio: lo abbiamo già incontrato più di una volta. Jackie O’s viene oggi distribuito nel nostro continente con buona regolarità e almeno un paio di volte l’anno arriva una bella selezione di birre, soprattutto invecchiate in botte. I prezzi non sono modici ma per gli appassionati sono occasioni da non perdere. Attualmente il sito di Jackie O’s elenca le seguenti birre passate in botte. Le imperial stout Bourbon Barrel Dark Apparition, Vanilla Coffee Bourbon Barrel Dark Apparition e Bourbon Barrel Oilof Aphrodite e Champion Ground, la quadrupel  Bourbon Barrel Aged Skipping Stone, l’ìmperial porter Bourbon Barrel Black Maple ed il Wheat Wine Jackie O's Wood Ya Honey. 
Noi facciamo invece un passo indietro al 2016 quando il portfolio includeva anche la versione barricata di Oro Negro, imperial stout a sua volta basata sulla Oil of Aphrodite; nelle botti ex-bourbon oltre a queste birra ci sono finiti fave di cacao, baccelli di vaniglia, bastoncini di cannella e peperoncini habeneros. Non si tratterebbe quindi della semplice versione barricata della Oro Negro “normale”, imperial stout prodotta con aggiunta di noci, un mix di spezie imprecisato e chips di legno: il condizionale è d’obbligo.

La birra.
Si veste di ebano scuro, la schiuma è piccola, grossolana e poco persistente. Legno, bourbon, vaniglia, frutta secca a guscio, uvetta e datteri danno forma ad un aroma caldo e avvolgente, abbastanza intenso, impreziosito da accenni di cannella. I tre anni passati dalla messa in bottiglia le donano anche qualche effetto positivo che richiama i vini fortificati. Leggermente oleosa e poco carbonata,  Oro Negro non presenta particolari ingombri tattili e da questo punto di vista si sorseggerebbe con buona facilità: ciò che obbliga a rallentare il ritmo è l’intenso calore generato dall’accoppiata habanero-bourbon, quest’ultimo ancora molto in evidenza. Lo scenario si completa con caramello, frutta sotto spirito e vaniglia: anche al palato ci sono suggestioni di porto, pochissimo torrefatto e un finale caldo e piccante nel quale trovano posto anche suggestioni di frutta secca a guscio, soprattutto quelle noci che non ci dovrebbero essere ma che sono invece ingredienti della Oro Negro “normale”.  
Bevuta impegnativa ma comunque appagante, dolce ma asciugata dal bourbon, da sorseggiare con calma: da soli, se volete che lei sia l’unica protagonista della serata, o in due se volete restare ancora vigili.
Formato 37,5 cl., alc. 12%, lotto 2016, prezzo indicativo 18,00 euro (beershop)
  
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 12 novembre 2019

Dupont / Allagash Brewer's Bridge

Dovremmo iniziare a preoccuparci? A Tourpes, dove è attiva dal 1950 la Brasserie Dupont, la tradizione è sempre stata considerata sacra e sessant’anni d’attività sono trascorsi con relativa tranquillità e con un nucleo di birre storiche (Moinette Blonde, Saison, Redor Pils) al quale ne sono sporadicamente state aggiunte altre. One-shot, collaborazioni? Concetti sconosciuti sino al 2016 quando il birraio Olivier Dedeycker ha aperto le porte e cedute alle lusinghe di Tomme Arthur del birrificio americano Lost Abbey per realizzare Deux Amis, una sorta di Saison Dupont arricchita da luppoli americani. 
Chi si aspettava una svolta nella filosofia commerciale Dupont è tuttavia rimasto deluso: quell’episodio rimase un caso isolato e Dedeycker continuò a fare quello che aveva sempre fatto: da allora le uniche novità sono state le solite edizioni annuali della Cuvée Dry Hopping della Saison Dupont e la Hirond' Ale #1.0,  saison monoluppolo (Savinjski Golding belga, per l’occasione) prodotta con malto d’orzo e di segale.  Quell’#1.0 lasciava presagire che si potesse trattare della prima birra di una serie e così è stato: nei primi mesi del 2019 Rob Tod e Jason Perkins, rispettivamente fondatore e headbrewer di Allagash Brewing Company (Maine, USA) sono saliti su di un aereo e sono andati a trovare Dedecker. La scelta non è ovviamente stata casuale: il birrificio Allagash, attivo dal 1995, fu uno dei primi ambasciatori “artigianali” della tradizione brassicola belga negli Stati Uniti. 
Il risultato dell’incontro può sembrare banale ma, si sa, in Belgio non amano molto correre rischi: la Hirond' Ale #2.0, alias Brewer's Bridge, è dunque una saison caratterizzata dal magico lievito Dupont, malto d’orzo, segale, avena e il luppolo americano per eccellenza: sua maestà Cascade. La birra viene messa in vendita a partire ovviamente, visto che si chiama Hirond (rondine), dalla scorsa primavera: fusti e bottiglie da 33 centilitri in Europa con l’aggiunta del formato 75 cl. e tappo in sughero per il mercato statunitense.

La birra.
Alla vista sarebbe quasi impossibile distinguerla da una Saison Dupont: colore solare, tra l’arancio e il dorato, leggermente velato e sormontato da una generosa schiuma biancastra, compatta e cremosa, dalla lunghissima persistenza. In verità al naso non c’è traccia di Cascade: i profumi sono terrosi e leggermente erbacei, ci sono pepe bianco, zucchero candito, accenni di frutta candita e soprattutto quel rustico mix banana-limone-funky  tipico del lievito Dupont. Ruspante e vivacemente carbonata, la Brewer's Bridge nasconde benissimo l’alcool e si beve con pericolosa facilità.  E il luppolo non è protagonista neppure al palato, dove c’è piuttosto una solida impalcatura maltata che regala soprattutto note biscottate e di pasticceria, il terroso e il pepato della segale: la componente fruttata (canditi) è ridotta ai minimi termini, il finale è secco con una coda amara, erbacea e terrosa, di moderata intensità. Tutta la bevuta è attraversata da una rinfrescante acidità, perché dopotutto le Saison erano sì birre prodotte in inverno ma destinate a rifocillare e rinfrescare i braccianti agricoli in estate.  
Concludo con le stesse considerazioni fatte a suo tempo per la Hirond’Ale 1.0:  è un'aggiunta necessaria al catalogo del birrificio di Tourpes?  Probabilmente no, ma berla è comunque piacevole e questo basta e avanza, a patto che siate disposti a spendere quasi il doppio rispetto ad una Saison Dupont normale per una “spolveratina” di Cascade che personalmente non ho neppure avvertito. Su questo punto si poteva osare  (e qui mi tocca ripetere quanto detto a proposito della Deux Amis) di più ma ciò sarebbe poco compatibile con la tradizione belga.
Formato 33 cl., alc. 6.1%, lotto 19095A, scad. 01/03/2021, prezzo indicativo 3.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 11 novembre 2019

Buxton / Verdant Matters of Perspective

Qualche anno fa in Italia era scoppiata la moda delle collaborazioni tra birrifici e le novità erano all’ordine del giorno: il fenomeno è andato via via scemando e, sebbene sia ancora presente, lo è in maniera minore. Lo stesso non è invece accaduto in Inghilterra dove ancora oggi le collaborazioni sono il pane quotidiano: i nomi più alla moda, Northern Monk, Wylam, Verdant, Cloudwater, Verdant, Track, North, Left Handed, Deya Lost And Gounded e Burnt Mill realizzano continuamente spesso birre tra di loro a quattro, sei o anche otto mani.
Ma qui stiamo parlando di “giovani”.  Il birrificio Buxton, attivo dal 2009, è invece uno dei pionieri della rinascita della birra artigianale nel Regno Unito e per molti anni ha camminato con le proprie gambe, anche perché il proprio impianto è stato a lungo incapace di soddisfare la richiesta dei clienti per la Axe Edge che in quel periodo era una delle IPA più desiderate nel Regno Unito. Sono passati “solo” dieci anni ma la Craft Beer è cambiata molto in fretta.  La prima collaborazione di Buxton avvenne nel 2012 con The Kernel  (la NZ Pilsner), seguita nel 2013 da alcune birre fatte prima assieme a To Øl  e poi a BrewDog nel corso della BrewDog Collabfest 2013; birre subito passate nel dimenticatoio. 
Bisogna arrivare al 2014 per vedere nascere una collaborazione che è entrata nella storia (della birra artigianale):  Yellow Belly, imperial stout realizzata assieme ad Omnipollo che ha (purtroppo, aggiungo io) avuto un successo ed un’influenza micidiale nel nostro continente. Si aprivano le porte (dell’inferno) delle pastry stout. Da allora Buxton ha iniziato a premere l’acceleratore delle collaboration grazie anche all’aumentata capacità produttiva: nel 2015 con gli americani di Arizona Wilderness, Evil Twin, gli Olandesi di Oedipus, i soliti amici di To Øl , i norvegesi di Lervig e un’altra manciata di birre-dessert assieme ad Omnipollo. Nel 2016 i danesi di Dry & Bitter e ancora tante birre a due mani con Omnipollo; nel 2017 Stillwater (USA), To Øl, Omnipollo, Dugges (Svezia), Hawkshead, Fierce e Cromarty (UK), L’anno scorso solamente Stone Berlino, Tempest (UK) e Omnipollo, quasi un anno di pausa in preparazione di un 2019 che è stato molto intenso:  J.Wakefield (USA),  Van Moll (Olanda) e finalmente un po’ di UK:  Track, Verdant, Northern Monk, Wylam e Magic Rock.

La birra.
E’ nato “solo” nel 2014 ma in fatto di collaborazioni ha pochi rivali, almeno nel Regno Unito: parliamo di Verdant, uno dei birrifici attualmente più alla moda che abbiamo già incontrato in più di una occasione.  Il popolo di Untappd lo elegge attualmente come secondo miglior birrificio inglese dietro a Mills Brewing; Buxton si posiziona invece solamente al tredicesimo posto. Ma se guardiamo la classifica delle migliori birre, la situazione di capovolge e Buxton passa in testa: Yellow Belly Sundae BBA è al primo posto, Anniversary Coward al terzo e  Yellow Belly al quinto, in un trionfo di Pastry Stout.  Verdant è al sesto e al settimo posto con due Double NEIPA. 
La prima collaborazione Buxton-Verdant è datata agosto 2019: una Black IPA (6.6%) chiamata Everyone Was Spinning. La seconda arriva un mese dopo: identica gradazione alcolica ma colore chiaro: Citra, Mosaic, Simcoe ed Ekuanot i luppoli utilizzati per realizzare la IPA Matters of Perspective, praticamente “questione di punti di vista”. Perché, dicono i birrai coinvolti, “nulla è davvero un lavoro, a meno che tu non preferisca fare qualcos’altro”. 
Il suo colore è arancio torbido, la schiuma è cremosa, abbastanza compatta ed ha una buona ritenzione. L’aroma è molto coinvolgente: fresco, intenso e pulito, una macedonia che accoglie mango, passion fruit, papaia, melone, arancia e persino qualche suggestione di fragola (o Big Babol?). Una partenza in pompa magna che crea aspettative piuttosto elevate.  Colore e aroma ben corrispondono al protocollo NEIPA, mentre al palato l’effetto chewy/masticabile è solo accennato: non è tuttavia una IPA che scorre a tempo di record. Purtroppo al palato c’è solo una piccola percentuale di quel fruttato piacione e ruffiano dell’aroma: intensità, pulizia e definizione sono nettamente inferiori e la bevuta consiste in un dolce tropicale non ben definito che viene poi bilanciato da un amaro vegetale che non ricorda neppure, se non per intensità, il classico resinoso di una West Coast IPA. L’alcool si sente persino troppo rispetto a quanto dichiarato.
Aroma splendido, bevuta sotto le aspettative: una birra da annusare, soprattutto.
Formato 44 cl., alc. 6.6%, lotto 23/09/2019, scad. 23/06/2020, prezzo indicativo 7,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 8 novembre 2019

WRCLW Coffee Imperial Stout Nitro

Breslavia (Wrocław), la città dei cento ponti: in verità prima della seconda guerra mondiale ve n’erano 303, oggi ne sono rimasti solo un terzo. Ma Breslavia vanta anche un’antica tradizione birraria documentata almeno dal 1255; alla fine del diciannovesimo secolo in città erano operativi 70 birrifici e all’inizio della prima guerra mondiale si contavano circa 1200 locali servivano birra, ovvero uno ogni 50 abitanti. Alle due guerre e al successivo regime sovietico sopravvissero solamente due produttori, Piastowski e Mieszczański, che si sono poi uniti a formare  Browary Dolnośląskie Piast i cui cancelli si sono definitivamente chiusi nel 2004. 
Breslavia e la regione della Bassa Slesia, un tempo chiamata anche “la piccola Baviera” rimasero per dieci lunghi anni senza un produttore di birra: un’assurdità per una città che conta quasi 650.000 abitanti in un paese con uno dei maggiori consumi pro-capite di birra in Europa (97 litri a testa, il triplo di quelli italiani, giusto per darvi un paragone). 
Grzegorz e Arletta Ziemian non si sono fatti sfuggire l’occasione: background in economia, esperienza nel ramo finanziario negli Stati Uniti e in Polonia, hanno trovato trovato gli investitori necessari (americani e polacchi) per aprire le porte del Browar Stu Mostów, ovvero Birrificio Cento Ponti, un omaggio alla città ma anche, dicono, un metafora di quello che la birra dovrebbe fare: un ponte che aiuta le persone a socializzare, a stare bene assieme.  
L’impianto arriva dai tedeschi della BrauKon e in sala cottura vengono reclutati i birrai Grzegorz Ickiewicz e Mateusz Gulej; quello che però maggiormente impressione, guardando le immagini, è il pub annesso o taproom che dir si voglia.  Design industriale moderno, beer garden, cucina a vista, bancone con sgabelli posizionato al primo piano che consente di vedere dall’altro l’impianto produttivo e tutta la sala sottostante; aperto tutti i giorni da mezzogiorno a mezzanotte. 
La gamma Stu Mostów è sostanzialmente divisa in due linee: la più moderna Salamander (soprattutto NEIPA e sour alla frutta) e la più classica WRLCW (Pils e Hefeweizen ma anche Imperial Stout e Barley Wine). E’ anche già operativo un programma di Barrel Aging.

La birra.
Il suo nome dice tutto: imperial stout  (11%) al carboazoto prodotta con caffè fornito dalla torrefazione Etno Cafe; di imperial stout Stu Mostów ne produce una decina di varianti, forse troppe. 
Il suo biglietto da visita non è dei migliori: forse a anche a causa dell’elevata gradazione alcolica il carboazoto non produce il desiderato effetto della “fontana capovolta”. Anzi, la schiuma quasi fatica a formarsi e quel poco che c’è svanisce molto rapidamente. Caffè, tostature, tabacco e fruit cake danno forma ad un aroma intenso ma abbastanza carente in pulizia e finezza. Il corpo è quasi pieno, le bollicine sono poche; la sua consistenza è densa e oleosa ma priva di quelle carezze setose che t’aspetteresti provenire dalla parola “nitro”. Al palato caramello, fruit cake e liquirizia disegnano una bevuta dolce ma bilanciata dall’amaro del caffe(latte), delle tostature e dei luppoli: anche qui c’è intensità ma manca pulizia, precisione, definizione. L’alcool è invece piuttosto ben dosato e riscalda senza mai creare nessun intralcio ed il sorseggiare risulta piuttosto agile. Imperial stout nel complesso discreta che tuttavia non brilla nei sui due elementi che dovrebbero caratterizzarla: l’uso del caffè e del carboazoto. Un “vorrei ma non posso”,  E nemmeno il prezzo al quale viene proposta in Italia, molto poco “polacco”, gioca a suo favore: nella stessa fascia di prezzo ci sono alternative, americane e non, nettamente superiori.
Formato 33 cl., alc. 11%, IBU 62, lotto 120222/202/01, scad. 12/02/2022, prezzo indicativo 7.00-8.00 euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 7 novembre 2019

Theakston Old Peculier

Nel 1827 Robert Theakston, un agricoltore proveniente dal villaggio di Warthermarske (North Yorkshire), inizia assieme al socio John Wood a produrre birra all’interno del Black Bull Inn di Masham. Il birrificio vero e proprio viene costruito nel 1875 dai figli Thomas e Robert che acquistano un terreno nella periferia ad ovest. Nel 1968 il comando passa nelle mani di Michael Theakston, nipote di Robert,  e del cugino Paul: per i produttori di Ales tradizionali in cask è un periodo molto difficile, i grandi gruppi nazionali che si sono formati a seguito di acquisizioni e fusioni stanno cambiando il mercato: i fusti (keg) stanno guadagnando quote a scapito dei casks e le lager stanno conquistando sempre più bevitori che iniziano ad abbandonare le Ales tradizionali. Essere troppo piccoli è un problema e Theakston cerca di espandersi acquistando nel 1974 l’abbandonato sito produttivo del birrificio Carlisle che era stato nazionalizzato dopo la prima guerra mondiale: in questo modo sarà finalmente in grado di soddisfare tutte le richieste dei propri clienti per la propria Best Bitter e per le altre birre in cask che il CAMRA, fondato nel 1971, cerca di preservare. 
L’operazione non ha però successo: l’enorme sito produttivo di Carlisle si rivela essere un pozzo senza fondo che inizia a prosciugare le finanze di Theakston e nel 1984 la famiglia decide di accorparsi con il birrificio Matthew Brown di Blackburn: quest’ultimo viene rilevato nel 1987 dal grande gruppo Scottish & Newcastle, desideroso di avere nel suo portfolio dei prodotti per entrare nel segmento delle Real Ales, nuovamente in crescita. Come spesso avviene in questi casi al grande gruppo interessa solo il marchio: nel 1988 il sito produttivo di Carlisle viene chiuso e la produzione della maggior parte delle birre Theakston trasferita alla Tyne Brewery di Scottish & Newcastle. Michael Theakston rimane a gestire il sito di Masham ma nello stesso anno Paul Theakston, direttore generale dal 1968, decide di abbandonare la società: fonderà nel 1992 la Black Sheep Brewery.  I volumi riprendono quota ma la scelta di produrre la maggior parte delle birre altrove provoca severe critiche da parte di quel CAMRA che aveva più volte premiato la Old Peculier  (oro nel 1986 e 1989, argento nel 1979, 1985 e 1987, bronzo nel 1981-1982).  Nel 2004 la famiglia Theakston riesce a riacquistare la proprietà da Scottish & Newcastle, ormai poco interessata al mercato delle Ales: al comando ci sono attualmente Simon, Nick, Tim e Edward, pronipoti del fondatore Robert. Oggi Theakston è il sedicesimo produttore del Regno Unito ed è il secondo tra quelli indipendenti a conduzione familiare, dopo Shepherd Neame: sembra però che Heineken possieda il 28% delle quote societarie.


La birra.
Il suo originale nome deriva dalla corte ecclesiastica di Peculier istituita dall’Arcivescovo di York nel dodicesimo secolo a Masham, dove il birrificio ha la propria sede. Il recente restyling dell’etichetta mette in evidenza un sigillo che raffigura la figura inginocchiata di Roger de Mowbray, un cavaliere rimasto imprigionato per sette anni in Terra Santa nel corso delle crociate. Alla sua liberazione il cavaliere espresse la sua gratitudine donando una chiesa a Masham, paese in cui viveva la propria famiglia. Il vescovo di York non aveva tuttavia molta voglia di sobbarcarsi i lunghi e pericolosi viaggi verso Masham per amministrare e riscuotere le tasse: decise allora di istituire la Corte di Peculier, un tribunale formato da una ventina di uomini che avevano il potere di gestire le questioni locali. 
Theakston produce la Old Peculier dal 1890 ma ha sicuramente prodotto una Old Ale (versione “invecchiata” e più alcolica di una Mild) sin dalla sua nascita. Oggi la Old Peculier non è pastorizzata ma è filtrata a freddo e non viene rifermentata in bottiglia; quest’ultima caratteristica di fatto non le consente di sfoggiare il logo “This Is Real Ale” del CAMRA. Nel 2010 il suo contenuto alcolico è stato leggermente ridotto dal 5.7 al 5.6%. La sua ricetta, secondo quanto riportato da Roger Protz,  include malti Pale Ale e Crystal, frumento, zucchero di canna, mais e caramello, luppoli Challenger, Fuggles e Target. 
Si presenta di color castagno con profonde venature rosso rubino; la schiuma beige è cremosa, compatta ed ha un’ottima ritenzione. Il naso, intenso e pulito, regala profumi di caramello, uvetta, ciliegia e prugna, mela, frutta secca a guscio.  Al palato biscotto, caramello e frutta sciroppata danno inizio ad una bevuta dolce che viene poi bilanciata da un finale amaro nel quale s’incontrano note terrose, pepate e di frutta secca a guscio. Peccato per una presenza metallica abbastanza fastidiosa che fa capolino in più di un’occasione e che disturba quello che sarebbe un ricordo positivo, delicatamente etilico, accomodante.
Formato 50 cl., alc. 5.6%, IBU 29, lotto 9142 25 07, scad. 31/05/2020, prezzo indicativo 3,50 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.