Anche quest’anno il blog va in vacanza. Ci attende la Norvegia; un viaggio non esattamente all’insegna del beer hunting, ma come resistere mentre si è là alla scoperta ed all’assaggio di qualcosa dei circa 70 birrifici norvegesi elencati da Ratebeer? I più famosi, come Nøgne Ø, Lervig, ed Haandbryggeriet sono importati anche in Italia, ma ci sono altri interessanti produttori come Kinn, Ægir, Austmann, Voss ed Aass che in Italia non sono (forse) mai arrivati. Le temperature (molto) fresche invitano anche in Agosto a provare le oleose ed alcoliche Imperial Stout che sono ormai diventate quasi il marchio di fabbrica dei birrifici dei paesi scandinavi. Quello che farà da deterrente ai nostri acquisti sono i prezzi degli alcolici (e non solo..) in Norvegia. Nei Vinmonopolet, istituzione fondata dal governo norvegese nel 1922 ed unico rivenditore autorizzato di bevande alcoliche dal contenuto superiore al 4,75%, la media prezzo è di circa 20 euro al litro. Un esempio: la Nøgne Imperial Stout (50 cl.), che in Italia si trova nei beershop tra i 5.50 ed i 7 Euro, nei Vinmonopolet costa 79 corone, che al cambio attuale fanno 10,09 Euro ! Partiamo, all’insegna del “poche ma buone”. Seguite la pagina Facebook, se volete vedere qualche “istantanea di viaggio” in tempo (quasi) reale. Gli aggiornamenti del blog riprenderanno a Settembre.
martedì 13 agosto 2013
domenica 11 agosto 2013
Oakham Citra
Il sito internet della Oakham Ales, nella sezione “history”, non va oltre il 2006, anno in cui è stato inaugurato l’impianto attualmente in uso a Peterborough, costato circa due milioni di sterline. Ma bisogna andare indietro di almeno una decina d’anni per risalire alle vere origini del birrificio: nel 1993 a Rutland (sobborgo di Oakham) John Wood, licenziato dalla compagnia di assicurazioni Pearl, decide di fare profitto del suo ventennale hobby dell’homebrewing ed acquista un impianto da 10 barili fondando la Oakham Ales. Le ricette realizzate da John ottengono subito buoni riconoscimenti nei festival regionali organizzati dal CAMRA ma dopo soli due anni vende il birrificio a Paul Hook, proprietario del Charters Bar di Peterborough. Il birraio diventa John Bryan, già collaboratore di Wood, e per la Oakham inizia il problema di mancanza di capacità produttiva per soddisfare la domanda del mercato. Nel 1998 c’è il trasloco a Peterborough, dove un impianto da 35 barili viene installato in pieno centro città (Westgate road), nel recupero dei locali della vecchia Borsa Valori; adiacente al birrificio viene anche aperto un pub (The Brewery Tap) che diviene così il più grande brewpub d’Europa (rimane da verificare se lo sia ancora…). Dopo un primo periodo di aggiustamento delle ricette dovuto al cambiamento dell’acqua utilizzata, le birre di John Bryan continuano a riscuotere ottimi successi. L’ultimo necessario ampliamento a 75 barili, costato due milioni di sterline, avviene nel 2006 con la messa in funzione dei nuovi impianti di Maxwell Road, sempre a Peterborough. Il “taglio del nastro”, ad Ottobre, viene fatto oltre che dai soci Paul Hook e John Bryan anche da John Wood. Ad inizio 2013, nel ventesimo anno d’attività, la Oakham acquista anche la Bellwether Wines, azienda che si occupa della distribuzione di vini.
Il luppolo Citra™ (nome in codice HBC 394) viene sviluppato negli Stati Uniti dalla Hop Breeding Company; leggiamo qui che la ricerca e lo sviluppo di questa nuova varietà di luppolo è stata anche (co)finanziata dai birrifici Sierra Nevada, Deschutes e Widmer Brothers; verso la fine del 2008 è Sierra Nevada a commercializzare la prima birra che utilizza Citra: si tratta della Torpedo Extra IPA. I birrofili mostrano di apprezzare molto, e la Torpedo diviene una new entry nella gamma delle birre prodotte tutto l’anno da Sierra Nevada. Rapidamente la “moda” del Citra e del suo profilo caratteristico (un mix di agrumi e frutta tropicale) si diffonde non solo in America ma in tutto il mondo: in Inghilterra è proprio la Oakham ad utilizzare per primo questo luppolo nel 2009, come viene rivendicato sull’etichetta della birra, chiamata semplicemente Citra. Anche in questo caso i risultati non tardano ad arrivare: fra i tanti, bronzo alla SIBA Eastern Region Competition del 2010 e, soprattutto, oro all’International Beer Challenge del 2011 e del 2012. Un’American Pale Ale dal bel colore dorato, riflessi arancioni, leggera velatura; la schiuma non è molto generosa ma bianca e cremosa, ed ha una buona persistenza. Il naso è molto pronunciato e pulito, con l’atteso “trionfo” di agrumi (arancio e pompelmo), tropicale (mango, papaya) e qualche leggero sentore di litchi. Volendo essere puntigliosi, è un aroma che colpisce più per l’opulenza che non per la finezza. Lo scenario è pressochè immutato al palato: dopo l’ingresso maltato (biscotto, cereali) è ancora il dolce della frutta, soprattutto tropicale, ad essere protagonista. L’amaro si fa attendere un po’, arrivando giusto a fine corsa, vegetale e zesty (pompelmo), con un'intensità media che ben rientra nei parametri dello stile; birra dal corpo leggero e poco carbonata, è un’ottima session beer (4.6%) molto facile da bere e dissetante, molto profumata. Meno secca di alcune sue colleghe inglesi contemporanee (Kernel, Partizan, Pressure Drop), si fa senz’altro notare più per l’intensità che per l’eleganza; è comunque un bel bere, intendiamoci. Formato: 50 cl., alc. 4.6%, lotto 13135, scad. 15/05/2014, pagata 6.00 Euro (pub, Italia).
giovedì 8 agosto 2013
Partizan Saison Traditional Spiced
Seconda "Saison" del birrificio londinese Partizan; a giugno assaggiammo la Saison Galaxy, un'interpretazione moderna dello stile che dava come risultato una birra molto ruffiana e modaiola, nella quale l'omonimo luppolo australiano spadroneggiava e dava origine ad una birra molto piaciona ma poco rustica. Partizan realizza però anche una saison tradizionale o, seguendone il nome, speziata secondo la tradizione. La solita splendida etichetta di Alec Doherty (varrebbe la pena di acquistare tutta la gamma Partizan anche solo per questo) non fa però menzione di nessuna spezia, e quindi il lavoro grava per intero "sulle spalle" del lievito utilizzato. Si veste di colore arancio opaco, con schiuma abbastanza grossolana, biancastra e poco persistente. Il naso è molto meno appariscente di quello della sorella Galaxy; discretamente intenso e pulito, apre con spezie, soprattutto pepe, sentori di arancio e floreali (geranio, azzardiamo). Anche in bocca si mantiene lontana da mode e da lustrini, con un gusto poco fruttato (arancio) ed un imbocco di biscotto, spezie (lievito) ed un finale secco e molto amaro, inatteso, di erbe officinali (salvia, forse ginepro). La carbonatazione molto elevata disturba un po' la percezione del gusto, riducendo ulteriormente la percezione d'intensità di una birra già di sé non particolarmente intensa. Qualche passaggio a vuoto nel percorso in bocca, non molto carattere e mancanza di una componente "rustica" che vorremmo sempre trovare in una saison. Si beve bene ma risulta poco memorabile; tolti i fuochi d'artificio del dry-hopping massiccio alla quale immaginiamo sia stata sottoposta la sorella Galaxy, questa Saison Traditional Spiced mostra i suoi limiti e non riesce ad essere "tradizionalmente" del tutto convincente. Formato 33 cl., alc. 6.1%, lotto 24/01/2013, scad. 24/01/2014, pagata 3,54 Euro (beershop, Inghilterra).
mercoledì 7 agosto 2013
Extraomnes Hond.erd
Honderd, ovvero "cento" in fiammingo ma anche "hond (cane) .erd", l'animale protagonista dell'identità visiva di Extraomnes. Birra che vede la luce per festeggiare, nel 2012, la centesima cotta del birrificio e che (forse) doveva essere una "one shot". Invece è stata da allora replicata, e se non erriamo è diventata una birra (quasi) occasionale, che viene di tanto in tanto prodotta con un diverso mix di luppoli. Se la prima e vedeva Cascade e Saaz, l'ultima versione ha invece come protagonista l'Hallertauer Mittelfrüh. Inappuntabile l'aspetto, colore arancio pallido, velato, e generoso cappello di schiuma bianca, molto cremosa, persistente, fine e compatta. Naso fine ed elegante, molto pulito, con in primo piano il pepe piccante e le spezie del lievito saison, sentori floreali, agrumi (lime) e frutta bianca in secondo piano. Leggera e sbarazzina in bocca, mediamente carbonata, ha un veloce ingresso maltato (pane e cereali) che cede immediatamente la scena agli agrumi, prima con il dolce della polpa e poi con l'amaro della scorza. La chiusura è molto secca, con un retrogusto amaro nuovamente "zesty" ed erbaceo, con quest'ultima caratteristica maggiormente in evidenza man mano che la birra si scalda. Il problema, se così si può dire, è che questa Hond.erd non fa in tempo a scaldarsi: è una session beer (4,2%) da bere ad oltranza che scompare dal bicchiere ancor prima di aver finito di buttare giù le note gustative. Per il resto, sono assolutamente confermati gli elevati standard qualitativi ai quali Extraomnes ci ha ormai abituati: birre dalla pulizia esemplare e (nella maggior parte dei casi) dalla facilità di bevuta impressionante. Chissà se il DNA belga del birrificio li porterà mai a commercializzare le birre anche nel più generoso formato da 75 cl.; una trentatrè di Hond.erd è decisamente insufficiente a fronteggiare la calura di questi giorni d'Agosto. Formato: 33 cl., alc. 4.23%, lotto 101 13, scad. 31/10/2014, pagata 3.80 Euro (beershop, Italia).
martedì 6 agosto 2013
Weird Beard Mariana Trench
Del giovane birrificio Weird Beard abbiamo già parlato in questa occasione, e quindi non ci resta che passare alla sostanza; tra l’altro ci sembra che da poco sia arrivato anche qualche fusto/bottiglia di questo promettente birrificio londinese anche in Italia. Mariana Trench nasce come una “Pacific Pale Ale “, avendo come protagonisti i luppolo Pacific Gem e Nelson Sauvin. Tuttavia, la scarsa disponibilità di quest’ultimo ha costretto il birrificio a sostituirlo sin dall’inizio con l’americano Citra; immutati invece i malti: Pale, Vienna, Munich e Cara-Pils. Debutta a Marzo 2013, colore arancio pallido/dorato, schiuma biancastra, fine e cremosa, dalla buona persistenza. Bel naso elegante e pulito, ricco di pompelmo, mandarino, melone retato e lychee, che invoglia a portare il bordo del bicchiere subito alla bocca. Nessuna delusione al palato: birra molto morbida, dal corpo leggero e dalla bassa carbonazione ma dall'ottimo "mouthfeel", acquoso quanto necessario e mai sfuggente. Rapido ingresso maltato (pane e qualche nota leggera di biscotto), abbastanza delicato anche il fruttato tropicale che caratterizza la fase centrale della bevuta seguito da una netta accelerata amara ricca di scorza di pompelmo ed arancia amara. C'è complessivamente una bella alternanza ed un bel equilibrio tra dolce ed amaro, con quest'ultimo vero protagonista solamente del retrogusto, quasi equamente diviso tra note "zesty" e di resina, con queste ultime che tendono a prevalere man mano che la birra si scalda. Mariana Trench, ovvero un'ottima American Pale Ale, secca e dissetante, profumata, pulita e facilissima da bere. Birrificio da tenere d'occhio; due birre bevute, entrambe solide e ben fatte, sincere (soprattutto nel tradizionale formato da mezzo litro) e meno ruffiane rispetto a molti altri prodotti che la new wave birraria londinese mette attualmente in circolazione. Formato: 50 cl., alc. 5.3%, lotto 4, imbott. 03/2013, scad. 03/2014, pagata 4.18 Euro (beershop, Inghilterra).
domenica 4 agosto 2013
Brewfist Terminal Pale Ale
E' la birra che Brewfist realizza appositamente per la propria "tap room" (per usare un termine anglosassone) un termine forse un po' troppo riduttivo per il bel locale, chiamato Terminal 1, inaugurato da Brewfist a Codogno (Lodi) a Marzo 2012. In verità la birra debutta qualche settimana prima, a Febbraio, e viene ufficialmente presentata al pub romano Mad for Beer. Si tratta di una session beer (3.7%) prodotta con malti Pilsner e Vienna, mentre Citra e Summer sono i luppoli utilizzati; una birra da bere in quantità, dunque, disponibile non solo al Terminal ma anche in bottiglia. All'aspetto è di colore oro pallido, velato; la schiuma, biancastra, ha buona persistenza, trame fine, è cremosa. Ci accoglie un naso molto "ruffiano", profumatissimo e dolce, con un'esuberanza che non ti aspetteresti da quella che in etichetta si autodefinisce una "birra leggera". Grande pulizia, mango, melone retato, papaia, ci sembra anche qualche note di lampone e pompelmo. Ottimo. Dopo un inizio così deciso, sorprende un po' il ritrovarsi in bocca un birra dal gusto molto meno intenso dell'aroma: pane e biscotto, per un ingresso rapido che ha un timido passaggio di frutta tropicale, reminiscenza dell'aroma, ed una chiusura secca ed amara che si riporta su buoni livelli d'intensità con qualche nota erbacea ma soprattutto di scorza di limone e lemon grass. Leggera ma molto, troppa carbonata per lo stile, paga un po' il dazio dell'imbottigliamento e ci piacerebbe provarla spillata magari a pompa. Un po' timida in bocca, dove forse manca ancora un po' di personalità, ma birra che porta già in dote la giusta dose di "piacioneria" per spopolare e per essere bevuta a secchiate, soprattutto nelle torride estati della pianura padana. Formato: 33 cl., alc. 3,7%, IBU 30, lotto 3154, scad. 30/04/2014, pagata 3.50 Euro (beershop, Italia).
venerdì 2 agosto 2013
Lost Abbey Mo Betta Bretta
Nel 2004 al Pizza Port di Solana Beach (California) Tomme Arthur (Lost Abbey) e Peter Bouckaert (New Belgium Brewing Co., Colorado) realizzano una American Wild Ale birra collaborativa fermentata solo con Brettanomiceti; la ricetta include anche malti 2 Row, Carapils, Munich e fiocchi d’avena, mentre il luppolo utilizzato è il tedesco Magnum. In Aprile del 2012, forse un po’ per cavalcare la moda del “Brett” che sta iniziando a diffondersi negli Stati Uniti, i due birrai si ritrovano assieme per replicare la birra, questa volta presso gli impianti di Lost Abbey. Commercializzata a metà Giugno 2012, raffigura in etichetta dei simpatici rospi il cui suono origina l’onomatopea che è il nome di questa birra. All’epoca i primi commenti di chi l’ha bevuta furono un po’ freddini, principalmente per il fatto che non vi trovavano una grossa presenza di quelle caratteristiche tipiche dei brettanomiceti. L’abbiamo quindi lasciata per quasi un anno in cantina, lasciando a lavorare i lieviti selvaggi. Concludiamo quindi questa piccola rassegna di birre “acide” ( a parte la breve parentesi IPA di ieri) con questa Mo Betta Bretta. Colore arancio pallido, velato, con una bella testa di schiuma bianca, fine e cremosa, dalla discreta persistenza. Aroma ricco di esteri fruttati, ancora molto forte (ad un anno di distanza dall’imbottigliamento) e molto pulito, praticamente una macedonia: arancio, pesca, albicocca, pera e mela verde, banana acerba, ananas. Manca però totalmente quella componente “funky” (o rustica) che ci attendevamo da una birra “100% Brett”. La sensazione al palato è invece fantastica: morbida, rotonda, dal corpo e carbonatazione nella media. Il percorso del gusto si mantiene sugli stessi binari dell’aroma: imbocco di biscotto, ritorno di arancio e pesca dolce, con un leggerissima acidità che ne stempera la dolcezza ed agevola la bevuta. Non esemplare la chiusura, dove manca un po’ di secchezza ed il palato non rimane molto asciutto. E’ molto pulita e ben fatta, ma il risultato è una (intensa) Belgian Ale piuttosto che di una Wild Ale, visto la completa assenza di qualsiasi nota brettata. In conclusione, delude chi l’aveva comprata aspettandosi una bevuta “funky” e come semplice Belgian Ale non ha esattamente un buon rapporto qualità prezzo, neppure negli Stati Uniti. Formato: 37,5 cl., alc. 6.3%, lotto 2012, pagata 7.08 Euro (foodstore, USA).
giovedì 1 agosto 2013
BrewDog Punk IPA
01 Agosto 2013, giornata in cui si celebra l’effimero IPA Day, una giornata che ogni estate da un paio di anni è dedicata allo stile che la “craft beer revolution” ha maggiormente valorizzato. L’evento 2013 ci ha un po’ colto impreparati (anche perché non esattamente in cima ai nostri pensieri) e con il frigorifero quasi privo di qualsiasi rappresentante di categoria, se non una lattina di BrewDog Punk IPA. Una birra che per certi versi ha assunto un ruolo importante all’interno della rivoluzione “craft” che da qualche anno ha rivitalizzato la scena brassicola britaanica, nonché la “flagship beer” del birrificio scozzese. Commercializzata per la prima volta nel 2007, ha subito a Gennaio 2010 un cambio di ricetta (per quel che riguarda i luppoli, Chinook, Crystal, Motoeka sono stati sostituiti da Chinook, Simcoe, Ahtanum e Nelson Sauvin) e nel febbraio 2011 è diventata anche la prima craft beer in lattina nello United Kingdom. Nel frattempo anche la Punk IPA ha un po’ subito le incostanze qualitative alle quali, purtroppo, negli ultimi periodi BrewDog ci ha abituato, al punto da costringere il birrificio alla pubblica ammenda del Gennaio 2012. L’avevamo bevuta a Febbraio 2011 ( link ), in una delle ultime bottiglie prima del cambio ricetta (quelle con ABV 6% e 68 IBU) e, nonostante avessimo alle spalle molto meno bevute di oggi, ci era sembrata una IPA (davvero quasi) Punk: ruvida, amara, pungente, magari non facilissima da bere ma una birra che si fa notare e che guarda dritto in faccia chi la beve. Poi i BrewDogghi l’hanno ingentilita, imborghesita, con il dichiarato intento di aumentarne la facilità di bevuta; la Punk IPA di questa lattina ti accoglie con un aspetto rassicurante: oro carico, limpido, bella schiuma bianca, compatta e cremosa, molto ordinata e persistente. Al naso, tutto sommato ancora abbastanza fresco, pompelmo, marmellata d'arancia, qualche sentore tropicale, di ago di pino e terroso. Se l'aroma non è particolarmente ruvido, ma abbastanza intenso, il gusto fa invece qualche passo indietro: ingresso di biscotto, poi agrumi (arancio e pompelmo) ed un veloce passaggio all'amaro che si porta in dote pompelmo e qualche nota resinosa e terrosa. Non c'è intensità, e proprio quando t'aspetteresti un lungo finale luppolato amaro, la birra sembra invece sparire per lasciare il palato appiccicoso e molto poco secco. Il diacetile è purtroppo ormai tristemente abbinato a molte produzioni BrewDog, la suggestione porta quasi a cercarlo in modo sistematico ma rimane comunque innegabile la sensazione di avere il palato un po' "imburrato" dopo ogni sorso di questa Punk IPA. Poco intensa, abbastanza slegata in bocca, si beve facilmente e - magra consolazione - rappresenta un netto miglioramento rispetto alle ultime due BrewDog assaggiate. A portata di mano, nella comoda lattina, rappresenta comunque ancora un'ottima alternativa alle industriali per un eventuale bevuta all'aria aperta, come magari questa. Ma più che l'ispida cresta di un punk, sembra quasi una tranquilla vecchietta che passeggia con il suo cagnolino nel parco. Del "punk" sembra ereditare solamente l’aspetto commerciale, quello che dopotutto ha dato origine alla carriera dei Sex Pistols, magistralmente orchestrata da Malcom Mclaren e raccontata in The Great Rock’n’Roll Swindle; una birra la cui bevuta provoca in me sensazioni simili a quelle provate nel vedere sul palco nel ventunesimo secolo Johnny Rotten, Steve Jones, Glen Matlock, e Paul Cook che cantano “Fuck this and fuck that, Fuck it all and fuck the fucking brat” ormai solamente per rimpolpare il proprio conto in banca. La differenza è tra questo, questo e, ahimè questo. Formato: 33 cl., alc. 5.6%, IBU 45, lotto 3085, scad. 26/03/2014, pagata 2.80 Euro (foodstore, Italia)
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