martedì 31 maggio 2016

Põhjala Öö - Imperial Baltic Porter

Appuntamento numero cinque con il birrificio estone Põhjala, nato nel 2011 come beerfirm e  dal 2014 trasformatosi in birrificio; come già raccontatovi in precedenza, lo fondano tre soci  (Enn Parel, Peeter Keek e Gren Noormets) ai quali si aggiunge in seguito  Tiit Paananen; a fare birra viene chiamato a Tallinn  il giovane (26 anni) Chris Pilkington, ex-BrewDog e conosciuto dai soci proprio nell’occasione di una visita allo stabilimento del birrificio scozzese. 
All’assaggio un’altra birra “scura” dal contenuto alcolico importante, caratteristiche che il birrificio sembra prediligere forse anche per riscaldare i propri clienti nei lunghi e rigidi inverni estoni e scandinavi. 
Dopo la porter chiamata Must Kuld e l'imponente imperial stout Pime Öö (notte oscura) è la volta di una Imperial Baltic Porter chiamata Öö, ovvero “notte”. Pime Öö e Must Kuld e si erano rivelate sostanzialmente due birre dessert: davvero troppo dolce per i miei gusti la prima, molto più bilanciata e fruibile la seconda.

La birra.
Öö, una (imperial) Baltic Porter la cui ricetta prevede malti Pale ale, Monaco, Carafa II Special, Special B, Chocolate, Crystal 300 e zucchero  Demerara, mentre i luppoli usati sono  Magnum e  Northern Brewer. Nel bicchiere tiene fede al suo nome (“notte”) mostrandosi completamente nera tranne che per una densa e compatta testa di schiuma color marrone scuro, molto persistente. 
L’aspetto è davvero goloso e l’aroma cerca di mantenere le aspettative: la componente etilica non si nasconde e bagna – con reminiscenze di rum – il caffè, le tostature, il fruit cake e la liquirizia. Ne scaturisce un bouquet discretamente intenso ed elegante. Molto più ricco è invece il gusto, con un inizio dolce di melassa, caramello/toffee e fruit cake e una successiva virata verso quella “notte” che dà il nome alla birra; emergono liquirizia, caffè, tostature di orzo e di pane la cui intensità cresce sino ad un finale ricco di tostature e di caffè nel quale anche la luppolatura si fa sentire dando un fondamentale contributo a ripulire il palato con un effetto quasi rinfrescante, benché brevissimo. Con un corpo quasi pieno, scorre con consistenza oleosa senza arrivare al punto di "masticabilità": risulta piuttosto morbida, con una carbonazione alquanto bassa. Il retrogusto è quello atteso, un morbido ma forte abbraccio etilico nel quale si ritrovano per i saluti finali il caffè e le tostature. Nonostante ci siano ancora margini di miglioramento per quel che riguarda pulizia e finezza, questa Öö è una imperial baltic/porter/stout soddisfacente e ben fatta, ben bilanciata nel suo percorso tra dolce ed amaro; riscalda e rincuora, accompagnandoti dal divano al sonno della notte.
Formato: 33 cl., alc. 10.5%, IBU 60, lotto 090, scad. 02/07/2016.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 30 maggio 2016

18th Street Cone Crusher

Non si trova nella diciottesima strada del quartiere Pilsen di Chicago: per Drew Fox quello è rimasto solo un sogno. Gli elevati costi  della più grande città dell’Illinois lo hanno obbligato a spostarsi a Gary (Indiana), un sobborgo ad una quarantina di chilometri, dove poter far frequentare ai propri figli una buona scuola privata ma economicamente sostenibile.  Gary, fondata nel 1906, oltre ad avere dato i natali a Michael Jackson (no, purtroppo non il beer hunter!) era un importante  centro siderurgico oggi ormai in declino.
Drew lavorava nel ramo alberghiero, e durante una vacanza rigenerante in Belgio (Brussels, Bruges, Ghent) scopre la magia di una Witbier: ritornato negli Stati Uniti s’innamora della cosa più simile a quella bevuta in Europa, ovvero la Blue Moon e al tempo stesso inizia a frequentare la taproom del microbirrificio Half Acre, appena inaugurato (2006). Al lavoro viene promosso manager della Lobby Lounge dello Swissotel di Chicago e ha l’idea d’inserire craft beers tra le spine del bancone, ottenendo un ottimo riscontro dai clienti; nel 2008 inizia con l’homebrewing inizia arrivando costruirsi (2010) nel retro di casa propria un piccolo laboratorio da trenta metri quadrati dove installa un impianto SABCO.  
In quello stesso periodo conosce Gerrit Lewis del neonato birrificio Pipeworks di Chiacago, che lo invita a dargli una mano: ogni settimana, dopo il lavoro, trascorre un paio di serate da Pipeworks, un’esperienza formativa fondamentale che lo convince definitivamente a mettersi in proprio. Fox ha però a disposizione solamente 10.000 dollari, un po’ pochi:  la maggior parte di quello che manca viene raccolto attraverso il crowdfunding di Kickstarter. Il nome rimane quello del sogno “originale”: 18th Street Brewery, e la comunità di Gary è pronta a dare il benvenuto al suo primo birrificio, che trova casa nel quartiere di Miller Beach, ad un paio di miglia dalle sponde del Lago Michigan. 
Il birrificio debutta nell’autunno del 2013 ma a fine anno i  beergeeks di Ratebeer lo hanno già eletto come “Best New Brewery” dello stato dell’Indiana. Forse anche grazie quell’hype, a  soli 12 mesi dall’apertura Drew Fox annuncia bellicosi piani d’espansione volti a raddoppiare i volumi di produzione e portarli a 1000 barili. 18th Street Brewery è anche diventato il primo birrificio dell’Indiana del nord a mettere la birra in lattina e nello scorso febbraio ha inaugurato il nuovo sito produttivo di Hammond, a 20 chilometri da Gary, 1500 metri quadrati con taproom e cucina. La sede originale di Gary  (5725 Miller Avenue) rimane ancora aperta, anche se solamente con la funzione di taproom con cucina, nell'attesa che venga inaugurata la più accogliente nuova taproom al 614 di S Lake Street, a poche decine di metri di distanza.

La birra.
Arriva in una lattina avvolta da una delle splendide etichette realizzate dall’artista di Chicago Joey Potts: un pugno che strizza un cono di luppolo, nello specifico l'Amarillo che è il luppolo protagonista di questa Double IPA (8.6%). 
La fotografia la rende più scura di quanto sia in realtà: il suo vestito è tra l'arancio ed il dorato e forma un notevole cappello di schiuma biancastra, compatta e cremosa, dall'ottima persistenza. La lattina non indica purtroppo la "data di nascita" ma questa birra denota comunque ancora una freschezza accettabile, accompagnata da una buona intensità ed un ottima pulizia: pompelmo, arancio, mango, ananas e passion fruit s'intrecciano con le note resinose a creare un bouquet classico ma non per questo poco interessante. Al palato l'abbondante luppolatura è sostenuta da una base maltata che rimane nei paraggi di biscotto e miele senza sconfinamenti caramellosi o dolcioni e lasciando campo libero alle note succose della frutta tropicale (mango, ananas) prima e del pompelmo poi. L'amaro cresce con una bella progressione che sfocia in un finale intenso ricco di note resinose, pungenti e quasi pepate, sospinte da un leggero tepore alcolico, sino ad allora rimasto abbastanza in disparte. Double IPA molto pulita e godibile, ancora abbastanza fragrante nonostante l'attraversamento oceanico: c'è il giusto (intenso) livello d'amaro con una bella controparte fruttata e succosa a fare da sparring partner, il tutto completato da un ottimo mouthfeel, morbido e molto gradevole, appagante.
Formato: 35.5 cl., alc. 8.6%, lotto e scadenza non riportati, 6.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 29 maggio 2016

Ofelia Piazza Delle Erbe

Debutto sul blog di Birra Ofelia, microbirrificio di Sovizzo (Vicenza) fondato a dicembre 2011 da Andrea Signorini e Lisa Freschi; i due, soci e compagni di vita, dopo gli studi universitari si sono indirizzati nel settore del Food & Beverage. Andrea ha conseguito il diploma di sommelier, mentre Lisa, dopo essersi occupata per qualche tempo della promozione turistica del territorio vicentino, ha aperto L'Allegra Trattoria Società dei Freschi ad Altavilla Vicentina della quale è tutt'ora titolare e cuoca.
Ma fu un viaggio in Belgio nel 2007 a farli innamorare della birra, in particolare - come raccontano sul sito di Birra Ofelia - la visita al birrificio De Ranke. Al rientro in Italia Andrea inizia a trafficare con le pentole in garage, e dopo quattro anni di birra fatta in casa e di viaggi birrari in Belgio e negli Stati Uniti prende la decisione di fare il salto nel mondo dei professionisti: nasce Birra Ofelia, impianto da 1,2 hl, con un nome di Shakespeariana memoria. 
Dieci le etichette attualmente prodotte sotto lo slogan, un po' troppo abusato, della "birra senza compromessi": sette prodotte regolarmente (Nevermild, Scarlet, Piazza delle Erbe, La Cancelliera, Diversamente Bionda, Uill Iu Bai  e Amitabh) e tre stagionali. Intento dichiarato del birrificio non è tanto quello di replicare gli stili classici ma di darne un'interpretazione personale, cosa che avviene prevalentemente con l'utilizzo di ingredienti del territorio, come il miele di tiglio di Meledo di Sarego  (Dark Side of Saison), zucca e aghi di rosmarino (Cucurbitter), Corniole di Cornedo (Scarlet).

La birra.
Quando un birraio ed una cuoca s'incontrano è inevitabile che la birra finisca in cucina e che un po' di cucina finisca nella birra; se alla Trattoria Società dei Freschi potete bere le Birre Ofelia abbinandole ai piatti del menù, nella Saison chiamata Piazza delle Erbe troverete ben dieci tra erbe e spezie: quelle rivelate sono erba luisa, buccia di arancia, cardamomo, anice stellato, coriandolo e camomilla. Ha ottenuto la medaglia d’oro ai Global Craft Beer Awards di Berlino 2014.
All'aspetto è di color arancio opalescente, con un generoso cappello di schiuma bianca, compatta e cremosa, "croccante" e dall'ottima persistenza. Al naso un tourbillon di banana, coriandolo, cardamomo, anice, pepe e scozia d'arancia: in sottofondo note floreali (camomilla) ma anche una nota fenolica poco gradevole (plastica/gomma) a sporcare quello che sarebbe un bouquet interessante e di buona intensità. L'ingresso al palato è quello che ci si attende da una saison: vivaci bollicine, corpo leggero ed un'ottima scorrevolezza a rendere la bevuta scattante e molto facile. La base maltata è lieve (pane, crackers) per preparare il terreno di gioco alle spezie: ripassano in rassegna cardamomo e coriandolo, c'è una generale percezione di erbe officinali, la frutta prende le sembianze della banana e della polpa dell'arancio, il cui dolce viene bilanciato dall'acidità del frumento. Purtroppo anche al gusto ritorna quella presenza fenolica di plastica/gomma che rende problematica la bevuta, regalandole anche una discreta astringenza. Al di là forte della caratterizzazione speziata, che può incontrare o no il gusto del bevitore, quello che necessita di maggiore pulizia ed eleganza è prima di tutto la base, ovvero la birra. Una volta fatta la Saison, poi si può giocare in modo più o meno aggressivo con le spezie: una Saison si fa prima di tutto con il lievito, ed è il suo profilo a lasciare maggiormente perplessi in questa bottiglia. 
Formato: 50 cl., alc. 4.9%, scad. 06/04/2017.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 28 maggio 2016

Mad River Steelhead Extra Stout

California settentrionale, anni '70:  Bob Smith è un homebrewer che frequenta spesso l'Home Brew Shop a Chico, di proprietà di un certo Ken Grossman. Nel 1980 Ken inaugura il birrificio Sierra Nevada e Bob sogna un giorno di poter fare lo stesso; ci vogliono però nove anni prima che ciò possa accadere. Nel 1989 Sierra Nevada si espande e  Grossman offre a Smith l'acquisto dell'impianto che sta per dismettere e che aveva assemblato recuperando vecchie attrezzature provenienti dall'industria casearia. Ottenuti i finanziamenti necessari, Bob trova casa nella contea di Humboldt, a Blue Lake, una città in espansione che probabilmente garantisce un buon trattamento fiscale. Chico è 300 chilometri a sud-est, San Francisco 460 a sud, il confine con l'Oregon 170 a nord. Nasce la Mad River Brewing Company, così chiamata dall'omonimo fiume che scorre per 183 chilometri attraversando la contea di Humboldt per poi gettarsi nell'Oceano Pacifico nei pressi di Eureka.
Il 4 dicembre del 1990 vengono venduti i primi fusti della Steelhead Extra Pale in attesa della messa in funzione qualche mese più tardi della linea d'imbottigliamento, anch'essa proveniente da Sierra Nevada. Il birrificio utilizza ancora oggi lo stesso impianto da 20 hl per un potenziale anno, ormai completamente assorbito, di circa 20.000 ettolitri: un progetto di espansione è già stato abbozzato. Dal 2005 il ruolo di head brewer è affidato da Dylan Schatz: oltre a perfezionare le ricette originali di Bob Smith, Dylan è stato capace di far crescere qualitativamente Mad River sino a farla incoronare "Small Brewery of the Year" al Great American Beer Festival del 2010, anno in cui Dylan è stato anche eletto Birraio dell'Anno.

La birra.
Steelhead, nome con il quale viene anche chiamata la Trota Iridea, pesce che assieme ai salmoni affolla il fiume Mad; Steelhead è anche una serie di cinque birre di Mad River: Double IPA, Extra Pale Ale, Scotch Porter ed Extra Stout, quest'ultima anche barricata in botti di Bourbon. La ricetta della Extra Stout prevede malti 2-row, Crystal 70/80, Crystal 135/165, Chocolate, Black Patent e orzo tostato; Willamette e Cascade sono i luppoli utilizzati.
Nel bicchiere è nera ma brillante, sormontata da una generosa testa di schiuma cremosa e compatta, color cappuccino, dall'ottima persistenza. All'aspetto goloso fa seguito un aroma altrettanto promettente: caffè in grani, orzo tostato, frutti di bosco e in sottofondo cioccolato fondente, nocciola, carne e un tocco di cenere vanno a comporre un bouquet davvero molto pulito e piuttosto elegante. Le cose procedono di bene in meglio al palato, a partire dal mouthfeel: corpo medio, poche bollicine, una consistenza morbida e oleosa davvero sorprendente per il contenuto alcolico (6.5%) dichiarato. Il gusto mette in evidenza una gran bella intensità fatta di caffè e orzo tostato, liquirizia e caramello. L'ottima pulizia consente d'indagare più in profondità scoprendo sfumature di cioccolato e di anice. La facilità di bevuta è impressionante, con l'alcool a costituire solo un morbido tappeto in sottofondo: chiude  con un finale ben luppolato che ripulisce il palato rinfrescandolo ed un lungo e sorprendente retrogusto amaro di caffè, cioccolato e tostature, un velo di cenere. Una stout bilanciatissima e quasi perfetta nella sua semplicità, davvero molto ben fatta: qualcosa di Mad River ogni tanto arriva anche in Europa, se ne avete l'occasione non dimenticatevi di assaggiarla. 
Formato: 35.5 cl., alc. 6.5%, IBU 35.7, lotto e scadenza non riportati, 4.35 Euro.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 27 maggio 2016

Fantôme Saison (2014 - Lotto AB N14)

Non è certo famosa per la sua costanza produttiva  la Brasserie Fantôme fondata nel 1988 dall'eclettico Dany Prignon; gli appassionati per anni si sono barcamenati tra capolavori e catastrofi, bottiglie in stato di grazia, esplosive o imbevibili. Negli ultimi tempi mi pare che la produzione Fantôme si sia un po' stabilizzata portano l'asticella ad un punto medio-alto dove non ci sono più disastri ma neppure indimenticabili capolavori; che questo sia un bene o un male, a voi deciderlo.
Tutto è possibile nel mondo di un birraio che ammette di non amare particolarmente la birra e di non berla quasi mai e che tuttavia proviene dall'homebrewing, avendo iniziato a replicare alcune ricette dei nonni, agricoltori che si producevano anche la birra come avveniva in molte fattorie belghe. Il birrificio, nato quasi per gioco assieme al padre pensionato "che aveva troppo tempo libero", si trova in un edificio rurale che risale al 1830; qui  Dany fa ancora tutto quasi da solo, a volte aiutato da alcuni amici. Due, a volte tre cotte a settimana e poi il resto del tempo ad occuparsi della parte commerciale, della famiglia e del suo hobby di restauratore di auto d'epoca. I locali dove avviene la produzione sono in stridente contrasto con la rigorosa pulizia che a volte incontriamo nei birrifici moderni, ma anche questo contribuisce a formare il carattere delle sue birre, prodotte su un vecchio impianto proveniente da La Chouffe che per un po' di tempo non ha funzionato a dovere creando, forse, quei capolavori e quelle catastrofi. 
I birrofili statunitensi lo adorano, le sue birre non sono mai sufficienti a soddisfare tutta la domanda ma Prignon non ha nessuna intenzione di indebitarsi per espandersi: per lui la birra è "semplicità nella vita" e anche se non gli dispiacerebbe fare più soldi  confessa che non sacrificherebbe gli amici e il tempo libero per aumentare il propio conto in banca.
La creatività, croce e delizia di Fantôme; da buon (birraio) belga Dany non rivelerà mai quello che ha utilizzato, e anche se vi dicesse qualcosa non avrete mai la certezza della verità: vi capiterà di bere birre con lo stesso nome ma incredibilmente diverse. Poco importa, magari al momento dell'imbottigliamento erano le uniche etichette disponibili e sono state utilizzate quelle anche se la birra prodotta era un'altra. Per lo meno negli ultimi anni sulle etichette delle Fantôme sono apparsi anche lotto e anno, informazione che in passato era spesso inesistente ma che ora può aiutare il consumatore a ricercare un lotto ben riuscito o evitare l'acquisto di uno disastroso.

La birra.
La classica Saison di Fantôme, unica birra ad essere prodotta tutto l'anno. Anno 2014, lotto AB N14. Il suo vestito colorato di arancio e di oro, velato ma ugualmente brillante: la schiuma che si forma è piuttosto modesta e un po' grossolana, dissipandosi alquanto rapidamente. Al naso non c'è purtroppo l'epifania delle migliori Fantôme, quella suggestione di "fragole con la panna": ci sono invece profumi floreali che vengono subito avvolti da quelli meno gentili dei brettanomiceti. Acido lattico, polvere, cantina, il legno del tappo di sughero; in sottofondo anche una leggerissima punta di aceto di mela. L'inizio non è dei migliori, neppure per quel che riguarda intensità e pulizia. Al palato sento la mancanza di bollicine: stiamo parlando di una Saison che dovrebbe essere ruspante e vivace, ma qui la carbonazione è troppo bassa. Il gusto è indubbiamente migliore dell'aroma: è (anche se non dovrebbe esserlo) una Saison brettata e quindi la componente acida è ben in evidenza. Il lattico e il lievissimo acetico sono affiancati dall'asprezza dell'uva: l'alcool (8%) è nascosto in maniera surreale  e la bevibilità ne trae ovviamente beneficio, la chiusura molto attenuata si porta dietro una punta amara di yogurt "scaduto". C'è una patina dolce fruttata che attraversa in modo trasversale l'intera bevuta, difficile descriverla se non appellandosi in parte alla polpa dell'arancio. Non è la migliore Saison di Fantôme che ho bevuto, è diventata una "sour ale" ma guardandola in questa ottica trova un suo perché: rustica, un po' sgangherata, eppure piacevole, rinfrescante e dissetante nella sua acidità, nella sua asprezza e nella sua secchezza reminiscente di vino bianco. Sicuramente il birraio non "la voleva fare così" ma a Dany Prignon possiamo perdonare questo e altro: per confronto ecco invece le impressioni di una bottiglia bevuta nel 2011. 
Formato: 75 cl., alc. 8%, lotto AB N 14, scad. 12/2018, 7.60 Euro (drink store, Italia)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 25 maggio 2016

Weihenstephaner Vitus

Corbiniano di Frisinga nacque probabilmente in Francia a Chátres (oggi Arpajon), fin dalla più giovane età avvertì l'inclinazione alla vita monacale e, alla morte della madre, si ritirò in un eremitaggio che lui stesso fece costruire a fianco della chiesa di San Germano nella sua città natale. La sua devozione a San Pietro lo spinse ad intraprendere un pellegrinaggio a Roma dove papa Gregorio II, colpito dalla sua spiritualità, lo consacrò vescovo e gli affidò la missione di evangelizzare i territori della Baviera. Nel 716 Corbiniano giunse in Baviera e nel 725 fondò la chiesa di Santo Stefano su di una collina (Nahrberg) nei pressi di Frisinga (Friesing, quaranta chilometri a nord di Monaco).  La chiesa fu prima trasformata in un monastero di agostiniani (anno 821) e  poi in un’abbazia benedettina (1021). Secondo i documenti storici rinvenuti, la produzione di birra iniziò probabilmente nel 768, e nel 1040 un birrificio fu effettivamente autorizzato dalla città di Frisinga. 
E’ questa la data che consente oggi alle birre prodotte a Wehienstephan di vantare in etichetta il titolo del “birrificio più antico al mondo”. Nel corso dei secoli l’abbazia fu più volte devastata da incendi ed invasioni barbariche, fino ad essere sciolta ufficialmente nel 1803 nel corso del processo di laicizzazione della Baviera voluto da Napoleone Bonaparte: i terreni, gli immobili ed il birrificio annesso divennero così proprietà dello stato bavarese. Dal 1923 il birrificio è stato rinominato Bayerische Staatsbrauerei Weihenstephan (Birrificio di Stato Weihenstephan) ed è gestito in collaborazione con l'Università Tecnica di Monaco. 
Vitus è la Weizenbock che prende il nome da San Vito probabilmente nato in Sicilia (quarto secolo) e vittima della violenta persecuzione cristiana messa in atto da Diocleziano; della sua vita si conoscono soprattutto leggende e l’unica cosa certa pare essere il suo martirio avvenuto quando aveva tra i 12 ed i 17 anni. La giovane età ed i suoi poteri taumaturgici contribuirono a far diffondere il suo culto in tutta la cristianità e a farlo invocare contro epilessia, corea, rabbia e ossessioni demoniache; un’altra leggenda vuole che le sue reliquie furono trasportate nel 765 al monastero di Saint-Denis a Parigi per essere poi donate nel 836 a quello di Corvey nei pressi di Höxter, nell'odierna Renania Settentrionale, che divenne nel medioevo un importante centro di culto del martire. Nel diciassettesimo gran parte delle reliquie scomparvero da Corvey/Korway e furono disperse in tutta Europa: oggi ci sono più di un centinaio di cittadine che vantano di possedere reliquie o frammenti del santo, tra le quali Mazara del Vallo dove si trovano un braccio ed  un osso della gamba.
Apparentemente non vi è alcun legame tra San Vito e la birra, tranne un proverbio tedesco secondo il quale "se piove nel giorno di San Vito, all'orzo non fa bene".

La birra.
Vitus è una Weizenbock, ed é una delle ultime arrivate in casa Weihenstephan, avendo debuttato solamente nel 2007, inizialmente disponibile solamente nel periodo dello Starkbierzeit  (delle "birre forti") che coincide con la quaresima, durante il quale i frati utilizzavano questa forma di pane liquido come sostentamento al posto del cibo. Oggi viene prodotta tutto l’anno. I geeks di Ratebeer la eleggono ottava miglior doppelbock al mondo, e tra le tedesche viene sorpassata solamente da due eccellenze di Schneider che le sono però abbastanza diverse: Aventinus e Tap 5 Meine Hopfen-Weisse
Nel bicchiere arriva dorata, leggermente pallida e velata, con un compatto e cremoso cappello di schiuma bianca dall’ottima persistenza. Al naso, pulito e di buona intensità, troviamo la classica banana e le note speziate di chiodo di garofano; in sottofondo profumi di miele, cereali e crosta di pane, con qualche accenno di pasticceria. Il percorso procede in rigorosa linea retta al palato, con identica pulizia e ottima intensità:  banana, miele, pane e un po’ di canditi formano una bevuta dolce completamente priva di amaro, che viene tuttavia bilanciata dalle note acidule del frumento e vivacizzata da una delicata speziatura. L’alcool è morbido e molto ben dosato, irrobustendo la birra senza intaccare assolutamente la facilità di bevuta che viene agevolata da una sensazione palatale tipicamente tedesca, ovvero mirata a prediligere sempre e comunque la scorrevolezza. Nel retrogusto, corto e dolce di banana e canditi, una nuova carezza etilica. Pulita e impeccabilmente eseguita, caratterizzata da quella chirurgica precisione bavarese che per alcuni è un punto di riferimento e per altri è forse noiosamente eccessiva. Rimane in ogni caso una Weizenbock assolutamente soddisfacente ogni qual volta abbiate voglia di bere un classico. 
Mi accorgo ora di averla già ospitata cinque anni fa, in modo più approssimativo e meno prolisso: posso dire di essere completamente d’accordo a metà con quanto scritto a quel tempo.
Formato: 50 cl., alc. 7.7%, IBU 17, lotto 13:01, scad. 12/12/2016, 2.15 Euro (drink store, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 24 maggio 2016

Vanderghinste Oud Bruin

Risale al maggio 1892 la fondazione del birrificio nei locali di una fattoria acquistata da Remi Vander Ghinste, allora sessantaduenne, per il proprio figlio ventitreenne  Omer  nel villaggio di Bellegem, dintorni di Kortrijk. Omer sposa nel 1900 Marguerite Vandamme, figlia di un birraio di Kortrijk:  la sua consulenza è preziosa per migliorare l’unica birra prodotta allora chiamata Ouden Tripel  (oggi VanderGhinste Oud Bruin), mentre  Marguerite si occupa  di allestire un café facendo incidere il nome del marito su tutte le vetrate. Pare che sia questo il motivo del perché tutti i discendenti di Omer Vander Ghinste portino almeno in parte il nome del padre (Omer-Jean, Omer III): evitare di dover spendere denaro per sostituire le finestre! 
Qualche anno dopo Marguerite eredita dal nonno la Brasserie Le Fort di Kortrijk, che viene chiusa nel 1911 per concentrare tutta la produzione a Bellegem; gli anni 30 vedono gli inizi delle basse fermentazioni con la nascita della Ghinst Pils e della Bockor. Gli attuali edifici della Brouwerij Omer Vander Ghinste risalgono alla ricostruzione post-bellica del 1947, con il successivo ampliamento del 1964 durante il quale la malteria fu smantellata per installare altri tini di fermentazione ed una nuova linea d’imbottigliamento. Nel 1972 si ricominciano a produrre  fermentazioni spontanee, interrotte prima della seconda guerra mondiale; nasce il Jacobins Gueuze Lambic, ma quasi contemporaneamente (1977)  il birrificio cambia il nome in Brouwerij Bockor per sfruttare il successo e la popolarità della gamma a bassa fermentazione.  
Negli anni ’80 arrivano Jacobins Kriek  (1983) e  Jacobins Framboise (1986) ma è solo in tempi molto recenti che la produzione di birre acide a fermentazione spontanea e mista ha subito un forte aumento grazie alle richieste del mercato statunitense: nel 2012 viene lanciata la Cuvée des Jacobins, un lambic maturato 18 mesi in botti di legno e lo scorso anno il birrificio ha acquistato due nuovi Foeders da 150 hl cadauno per aumentare la capacità produttiva. Nonostante questo il 70% della produzione Bockor, ancora di proprietà di un Omer Vander Ghinste alla quinta generazione di discendenti, è ancora dedicato alle basse fermentazioni (Bockor Blauw e Bockor Pils); in crescita è la domanda domestica per la Strong Ale (8%) chiamata Omer.

La birra.
Vanderghinste Oud Bruin, ovvero la prima birra prodotta nel 1892 dal birrificio di Omer Vander Ghinste; difficile sapere se sia davvero uguale a quella di 124 anni fa che nel corso del tempo ha assunto, tra gli altri, il nome di Ouden Tripel,  VanderGhinste Rood Bruin e  Bellegems Bruin. Nel 2012 per festeggiare i 120 anni del birrificio le viene dato il nome attuale, con la nuova bella etichetta che riproduce un manifesto pubblicitario del 1920. Tecnicamente si tratta di un blend di lambic invecchiato almeno 18 mesi in foeders di legno (35%) e di birra fresca (65%); se v’interessano i concorsi, ai World Beer Awards è stata votata “World's Best Dark Beer 2015” e  “Europe's Best Oud Bruin 2014”.
Splendida e sensuale nel bicchiere, di color ambrato infuocato di rosso rubino; la schiuma ocra è finissima, compatta e cremosa, dall'ottima persistenza. Al naso legno, frutti rossi aspri (ribes, marasca) e dolci (ciliegia, mela matura), lontane suggestioni di vaniglia si scontrano con le note lattiche e funky. La componente acetica è presente ma è piuttosto leggera e ben mascherata. Al palato è leggera e molto scorrevole, con poche bollicine ed una sensazione generale morbida e gradevole. Il gusto è ancora più mansueto rispetto ad un aroma che già non osava troppo: anche qui c'è l'asprezza di ribes, marasca, mela e uva acerba, ci sono lattico e acetico ma sono ben addomesticati dal dolce del caramello, della ciliegia e dei frutti di bosco maturi; la bevuta risulta molto meno "funky" dell'aroma e nel complesso bilanciata dal rapido succedersi di dolce ed aspro che si equilibrano a vicenda entrando ed uscendo di scena a più riprese. Il legno è sempre presente in sottofondo, la bevuta sfocia in un finale leggermente tannico e risulta alla fine molto secca e dissetante, soprattutto se bevuta ancora fresca di frigo. Molto pulita, non ha una grande complessità/profondità/personalità ma sa comunque farsi volere molto bene, sopratutto se vi capita di berla in un'assolata giornata d'estate. Una birra acida abbastanza docile e secondo me accessibile anche a chi non ha dimestichezza con lo stile: se volete muovere i primi passi nel mondo delle Oud Bruin e non sapete da dove cominciare, fateci un pensiero.
Formato: 25 cl., alc. 5.5%, scad. 07/07/2016, 1.20 Euro (drink store, Belgio).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 23 maggio 2016

Ceres Norden Gylden IPA

La “birra artigianale” continua a guadagnare fettine di mercato anche in Italia e le grandi industrie non stanno certo a guardare; lo scorso mese la multinazionale AB-InBev ha annunciato l’acquisizione di Birra del Borgo; nel 2015 Carlsberg ha lanciato con il marchio Poretti una serie di cosiddette birre “crafty": non si parla più di doppio malto, di birra bionda o rossa, ma si fa riferimento a stili (e a materie prime) ben precisi, utilizzando termini che fino a poco tempo fa non interessavano molto all’industria;  anche Birra Moretti (gruppo Heineken) ha invaso le corsie dei supermercati con le sue varie “specialità regionali”, lanciate in concomitanza con la vetrina di Expo 2015. 
Risale invece allo scorso marzo l’annuncio da parte di Ceres (un marchio del gruppo Royal Unibrew, che possiede anche Faxe, Albani e Royal) di tre nuove birre che vanno ad inserirsi in questo segmento “crafty”:  è la gamma Nørden,  presentata con un comunicato stampa che cita come al solito la “ricerca e selezione delle migliori materie prime”,  “birre dal forte carattere e dal gusto inimitabile in grado di sorprendere e deliziare anche gli intenditori più esperti”,  “ricette (ovviamente) originali”.  Fynen Pilsner, Dark Mumme e Gylden IPA sono le prescelte: le prime due (una Pilsner e  - credo – una Dark Lager) non si discostano molto dagli stili molto normalmente battuti dalle industrie, mentre la IPA rappresenta senz’altro una novità nel portfolio di Ceres/ Royal Unibrew. Tutte e tre le birre sono disponibili nei supermercati nel formato mezzo litro mentre l’HoReCa, oltre ai fusti,  avrà in bottiglia da 33 solamente Dark Mumme e Gylden IPA.  
Ma andando un po' in profondità ci si accorge che si tratta forse solo di una mezza novità; le birre debuttano sul mercato italiano, ma da un anno in Danimarca vengono già commercializzate quattro prodotti simili con il marchio Schiøtz,  prodotte dalla stessa Albani Bryggerierne di Odense. Si fa riferimento a Theodor Ludvig Schiøtz (1821-1900), farmacista, birraio e fondatore nel 1859 del birrificio Albani, del quale mantenne il controllo sino al 1889;  dopo numerosi cambi di proprietà, nel 2000 la Albani entrò sotto il controllo di Royal Unibrew. Quattro sono le Schiøtz disponibili in Danimarca: Bohemian Pils, Mørk Mumme, Gylden IPA e Vinter Bock; probabile che nel prossimo autunno/inverno quest’ultima faccia il suo debutto anche nel nostro paese. Non ho comunque a disposizione dati certi per poter affermare che Norden sia solamente un’operazione di rietichettatura di quelle birre che qui in Italia sfrutta la popolarità del marchio Ceres, e quindi mi guardo bene dall’affermarlo. Il dubbio (e non la Ceres) però c'è.

La birra.
La descrizione commerciale della Schiøtz Gylden IPA annovera tra gli ingredienti rosmarino, rosa canina e tre luppoli:  Simcoe, Citra e Pacific Gem. Quella della Ceres Norden Gylden IPA cita invece Simcoe, Cascade, Pacific Gem e Green Bullit: si tratta evidentemente di un errore ortografico del comunicato stampa italiano poi ribattuto da tutti gli operatori; il luppolo è ovviamente l’americano Green Bullet. Questi, assieme al rosmarino, “immergono sin dal primo sorso nell’universo selvaggio del Nord”: personalmente associo più il rosmarino al Mediterraneo che alla Scandinavia, ma tant’è. 
Gylden significa dorato: è un po’ anticato il colore di questa birra,  perfettamente limpido e movimentato da qualche venatura ramata; la schiuma è cremosa e fine, compatta, dall’ottima persistenza.  L’aroma mette in evidenza soprattutto gli agrumi ma l’eleganza è altrove: più che di frutta fresca i profumi mi riportano alla memoria alcuni detergenti al limone. In sottofondo c’è qualche nota floreale e di rosmarino; l’intensità è complessivamente discreta, lo stesso non posso dire della piacevolezza. Il mouthfeel non è male: carbonazione media, corpo tra il medio ed il leggero, velocità di scorrimento buona ma leggermente rallentata da una  consistenza palatale a tratti un po’ pesante. La bevuta ricalca in buona parte l’aroma: si parte con biscotto e cereali, il dolce di caramello e miele che viene incalzato dall’amaro (saponoso) agrumato ed erbaceo, soprattutto rosmarino. Il percorso non è però lineare, dolce ed amaro entrano ed escono di scena più volte nella stessa sorsata senza armonia, facendo un po’ a spallate; l’intensità e discreta, la pulizia non è eccelsa ma è soprattutto la piacevolezza a latitare e – almeno nel mio caso – a non far venirmi la voglia di ricomprarla. Mi riferisco soprattutto all’amaro, uno degli elementi fondamentali in una India Pale Ale, che qui risulta troppo saponoso e con qualche sconfinamento nella gomma/plastica: non ritengo particolarmente felice neppure la scelta dell’aromatizzazione al rosmarino, ma qui si rientra nelle preferenze personali. 
I 4,50 Euro al litro (prezzo supermercato) sono tanti rispetto ad altre birre industriali  ma sono al tempo stesso pochi se confrontati al prezzo medio delle artigianali. Al di là dell’improponibile confronto con una “birra artigianale vera”, il paragone più calzante potrebbe essere con la 9 Luppoli IPA  di Poretti/Carlsberg  (circa 5,42 Euro/litro): la Ceres mi sembra meno peggio, ma dovete avere una buona soglia di tolleranza al rosmarino nella birra. Non è una gran motivazione all'acquisto, ma per lo meno io vi ho avvisati.
Formato: 50 cl., alc. 5.9%, lotto Y4-V, scad. 25/04/2017, 2.29 Euro (supermercato, Italia)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 22 maggio 2016

Golem Dybuk Porter

La Polonia continua a sfornare nuovi attori, quasi tutte beefirm, che prendono parte ad una vibrante "craft beer revolution": tra gli ultimi arrivati c'è Browar Golem, fondata dai tre giovani homebrewers Michal Kamiński, Artur Karpiński e Sebastian Lęszczak, che ai loro lavori quotidiani hanno affiancato anche una beerfirm con sede operativa a Poznan. Dei tre quello che ha "maggiore" esperienza con le pentole è Sebastian, avendo iniziato nel 2012 con un kit di St Peter's IPA.  Dopo solo tre anni, a luglio 2015, viene fondata la beerfirm che debutta a dicembre 2015; tra le loro ispirazioni, oltre alle birre importate dall'estero ci sono anche le prime beerfirm della rivoluzione polacca, come AleBrowarPinta con quest'ultima che può vantarsi d'aver prodotto la prima American IPA in Polonia, chiamata Atak Chmielu. Era il 2012. 
Il nome scelto (Golem) rimanda ovviamente alla tradizione ebraica, un gigante di argilla ubbidiente al proprio padrone che lo usa come servo e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. La più famosa leggenda sui golem ha come protagonista il rabbino di Praga Jehuda Löw ben Bezalel, nato proprio a Poznan, in Polonia. Alla tradizione ebraica si rifà anche la birra del debutto, la porter Dybuk, termine che indica "uno spirito maligno in grado di possedere gli esseri viventi. Si ritiene che sia lo spirito disincarnato di una persona morta, un'anima alla quale è stato vietato l'ingresso al mondo dei morti". La Porter del debutto è poi stata seguita dall'American Wheat chiamata Mazal Adar Dagim e dall'inevitabile American IPA Etz Chaim.

La birra.
Birrificio che debutta sul blog con la sua prima birra: è la porter Dybuk, presentata ufficialmente lo scorso 12 dicembre 2015 al pub Setka di Poznan e realizzata presso gli impianti del birrificio Kamionka Gontyniec di Poznan. La psichedelica etichetta è opera dell'artista polacco Novy; la ricetta prevede invece una buona percentuale di segale (30%), malti Pale Ale, Chocolate e Caramel, luppolo Magnum, sale, fave di cacao e chips di legno di quercia precedentemente immerse in Sherry Oloroso, lievito US-05.
All'aspetto è completamente nera, con un discreto cappello di schiuma beige, fine e cremosa, molto persistente ma un po' lenta nel formarsi. L'aroma non è particolarmente intenso e caratterizzato da un discreto livello di pulizia che evidenzia i profumi di pane nero, cioccolato al latte, mirtillo, caffè e tostature. la lieve presenza di cenere. Le cose si fanno più interessanti in bocca, dove pulizia ed intensità sono migliori: caffè e tostature dominano la bevuta, con queste ultime che ogni tanto sconfinano un po' nel bruciato. La segale dona una leggera nota speziata, il cioccolato fondente fa ogni tanto capolino così come il sale, la cui percezione è sicuramente influenzata dal sapere che è stato utilizzato nelle ricetta: non l'avessi saputo, probabilmente neppure l'avrei notato. Per quanto mi sforzi non trovo invece traccia delle chips di legno imbevute nello sherry: non c'è praticamente dolce, tranne un tocco di caramello bruciato, e l'amaro delle tostature è parzialmente bilanciato solo dall'acidità dei malti scuri. La bevibilità risente un po' di questo eccesso di tostato amaro, risultando un po' limitata: la sensazione palatale è abbastanza morbida, il corpo è medio e la carbonazione piuttosto bassa. E' una porter dalla buona intensità, ma a mio parere troppo sbilanciata sull'amaro da tostature che non brillano per eleganza: nel complesso è un debutto comunque positivo, sicuramente un po' più di dolce e una maggiore cura nella finezza renderebbero questa birra più equilibrata e maggiormente scorrevole.

Formato: 50 cl., alc. 6.5%, IBU 50, scad. 04/2016, 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 21 maggio 2016

Extraomnes Hond.erd Citra

Honderd, ovvero "cento" in fiammingo ma anche "hond (cane) .erd", l'animale protagonista dell'identità visiva di Extraomnes. Birra che nasce come “one shot”  nel 2012 per festeggiare  la centesima cotta del birrificio, ma che è poi rimasta in produzione quasi permanente diventando di fatto un di terreno di gioco sul quale sperimentare diverse luppolature, spesso “single hop”. 
La prima cotta celebrativa vedeva l’uso di Saaz e Cascade, la replica del 2013 il solo Hallertauer Mittelfrüh; sono poi arrivate le versioni a base di Chinook, Simcoe, Cascade, Mosaic, Brewer’s Gold, Mandarina Bavaria e l’ultima nata realizzata con Citra, luppolo americano sviluppato dalla  Hop Breeding Company e rilasciato commercialmente nel 2007: i suoi “genitori” sono Hallertau Mittelfrüh, US Tettnang, Brewer's Gold e  East Kent Golding. Da notare come il Citra sia già assoluto protagonista di un’altra birra Extraomnes successo, ovvero la Zest.

La birra.
Ricetta semplicissima, perché “less is more”: lievito saison, malto 100% pils (se non erro) e Citra. Imbottigliata ad inizio ottobre 2015, si presenta nel bicchiere di colore paglierino piuttosto velato e genera una generosa testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla lunga persistenza. 
L’aroma, coerente con il nome del luppolo utilizzato, porta gli agrumi in trionfo: lime, cedro, mandarino e limone, avvolti da leggeri sentori floreali. Domina la scorza, ma c’è anche una leggera componente dolce che richiama la polpa o, se preferite, immaginate di mettere un po’ di zucchero sulla scorza stessa. Ineccepibile il livello di pulizia ed eleganza, nulla da dire neppure sulla sensazione palatale: birra leggera, che scorre a velocità pericolosa con una notevole vivacità che la sostenuta carbonazione le conferisce. Il malto è leggerissimo (crackers) e lascia che siano lievito e luppoli a dominare la scena: c'è un tocco dolce che richiama la polpa d'arancio e il mandarino, rapida introduzione ad una bevuta tutta giocata sulla scorza, a coprire quasi per intero l'intera famiglia dei Citrus: pompelmo, arancio, cedro, limone e lime. Il lievito saison le dona una leggera nota ruspante, ma bisogna volontariamente rallentare la velocità di bevuta per accorgersene: il finale è molto secco e lascia una scia amara intensa ed elegante nella quale, nel dominio "zesty", trovano spazio anche note erbacee e terrose. 
Session beer pulitissima, elegante e, soprattutto, dall'ottima intensità: questa variazione "Citra" della Hond.erd non si discosta molto dalle altre da me provate e non si allontana troppo neppure dalla sorella maggiore "Zest": poco male, perché è questo il terreno di gioco sul quale Extraomnes si esprime al meglio. Tanti agrumi, tanta secchezza, facilità di bevuta e un immenso potere rinfrescante e dissetante: una birra che tocca corde che mi stanno molto a cuore, e quindi non posso che soccombere.
Formato: 33 cl., alc. 4.2%, lotto 279 15, scad. 30/04/2017, 3.30 Euro (foodstore, Italia)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 19 maggio 2016

Einstök Icelandic Toasted Porter

Ammetto di non conoscere affatto la scena brassicola islandese, ma immagino che qualcosa esista se nel 2015 Mikkeller ha deciso di aprire un bar nella capitale Reykjavík. Il database di Ratebeer, davvero utile in questi casi, indica undici realtà (birrifici, brewpub, beerfirm) operative in un isola dove vivono circa 300.000 persone. 
I californiani David Altshuler e  Jack Sichterman si recano nel 2010 in Islanda per un sopralluogo commerciale: desiderano lanciare un brand di lusso di acque minerali utilizzando il fascino dell’acqua islandese che proviene dai ghiacciai e scorre nei terreni lavici. Per l’operazione scelgono il partner Vífilfell, un importante distributore islandese nonché proprietario della Viking Olgerd, birrificio commerciale con sede ad Akureyri, un centinaio di chilometri a sud del circolo polare artico. 
A Sichterman, che ha alle spalle esperienze professionali con marchi come Miller e Tsingtao, viene l’idea di utilizzare l’acqua islandese anche per fare la birra; viene così creata la Einstök Ölgerð, una beerfirm che utilizza gli impianti della Viking. Creato il marchio, si tratta di reperire un birraio in grado di realizzare alcune ricette: il prescelto è Baldur Karason, islandese diplomato alla Heriot Watt University di Edimburgo. A ottobre 2011 debuttano sul mercato le prime tre Einstök:  una witbier (Icelandic White Ale), una Pale Ale e la Toasted Porter.
Il marchio Einstök  (che in islandese significa “unico”)  è cresciuto sino ad arrivare ai 14.000 ettolitri prodotti nel 2015, il 64% dei quali destinati all’export: gli Stati Uniti la fanno da padrone, seguiti da Germania, Inghilterra e i paesi Baltici. Le statistiche dicono che Einstök è oggi il maggior esportatore islandese di bevande alcoliche, totalizzando il 64% del fatturato in quel segmento di mercato.

La birra.
Malti Lager, Monaco, Chocolate, luppoli bavaresi e aggiunta di una piccola quantità di caffè islandese sono gli ingredienti della ricetta di questa porter che arriva nel bicchiere vestita quasi di nero (ebano scurissimo) e indossa un compatto cappello di schiuma fine e cremosa, color cappuccino, dall'ottima persistenza. Il naso non è molto intenso ma pulito, con un'efficace semplicità fatta di tostature, caffè, mirtillo/ribes nero e un lieve tocco di cenere. Il percorso continua in linea retta al palato, in una porter dal corpo medio, poche bollicine e con una consistenza che, nel dilemma tra l'essere morbida o scorrevole, predilige questo secondo aspetto. Il gusto ha almeno un paio di marce in più dell'aroma per quel che riguarda l'intensità: il profilo è ricco di caffè e tostature, pane nero, con un sottofondo dolce di caramello. Molto in secondo piano cioccolato e mirtillo/frutti di bosco, ed un finale dominato dal caffè, con l'amaro intenso delle tostature che mantiene sempre una certa eleganza.  Nulla da eccepire sulla pulizia di questa porter costruita sul rigore e sulla semplicità, a dimostrazione che non sono necessari fuochi d'artificio o effetti speciali per realizzare una buona birra.
Formato:  33 cl., alc. 6%, imbott. 25/06/2015, scad. 25/06/2017, 3.24 Euro (beershop, Germania)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 18 maggio 2016

Buxton Rain Shadow

Arriva a marzo 2014 la massiccia imperial stout Rain Shadow di Buxton, birrificio del Derbyshire, alle porte del Peak District National Park,  fondato da Geoff Quinn nel 2009 e che vede attualmente in sala cottura il birraio  Colin Stronge,  ex Marble di Manchester e Black Isle (Scozia). 
La Rain Shadow ha avuto una gestazione di circa otto mesi nel 2013 sino ad arrivare alla sua versione definitiva; si tratta di una delle birre più alcoliche di Buxton e probabilmente una versione potenziata della Stronge Extra Stout (7.4%) la prima birra realizzata dal birraio Colin Stronge al suo arrivo a Buxton.  La sua prima versione toccava un ABV di 11.8%, superato solo dalla Sede Vacante (12%), un’altra imperial stout di Buxton; l’ABV è stato poi abbassato  al 10% per l’edizione 2015.

La birra.
La sua imponenza si manifesta già al momento di versarla nel bicchiere: splendidamente nera, densa come olio motore, con una bella testa di schiuma color cappuccino fine, compatta e cremosa, dall’ottima persistenza.  A posteriori posso dire che non è l’aroma la caratteristica principale di questa birra: i profumi sono intensi  ma non c’è quella complessità e quella profondità che t’aspetteresti di trovare in una birra così importante. Un po’ di caffè e di tostature,  un tocco di cioccolato e di fruit cake: il tutto viene avvolto ed annaffiato da una decisa componente etilica che si fa sentire anche a diversi centimetri di distanza dal bicchiere. 
La sensazione palatale corrisponde invece perfettamente al suo aspetto: il corpo è pieno, la consistenza oleosa con una patina morbida e quasi setosa in superficie; poche bollicine per una bevuta avvolgente che accarezza l’intera cavità orale riscaldandola a più riprese.  Il gusto ripropone un percorso liquoroso nel quale trovano posto di nuovo caffè, tostature, cioccolato e fruit cake, con un velo di caramello dolce in sottofondo: la birra è potente, l’alcool è sempre presente a riscaldare obbligando ad un tranquillo sorseggiare che tuttavia non richiede particolari sforzi. Il finale regala qualche attimo di pausa per il palato grazie all’acidità dei malti scuri e alla luppolatura che aggiunge qualche nota amara resinosa prima dell’inevitabile retrogusto etilico, morbido, lungo e caldo che viene di nuovo accompagnato da caffè, cioccolato e tostature. 
Tanta roba in una birra che fa da sola serata, un'intensa compagna da dopocena capace di riscaldarvi in ogni centimetro del corpo: il livello di pulizia è molto buono, l’eleganza potrebbe essere migliore e viene un po’ messa in disparte dall’opulenza. Imperial Stout molto buona ma - almeno questa bottiglia 2014 - non al punto da risultare memorabile e non al livello delle migliori grandi Imperial Stout europee. Si fa invece ricordare, ahimè,  per il prezzo.
Formato: 33 cl., alc. 11.8%, imbott. 09/03/2014, scad. 09/03/2024, 8.00 Euro (beershop, Italia)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 maggio 2016

Beerbliotek Session IPA Citra Motueka

Ci sono un australiano, un neozelandese, uno svedese ed un sudafricano: può sembrare l'inizio della solita barzelletta, ma qui si fa invece sul serio: Adam Norman, Richard Bull, Anders Hedlund e Darryl de Necker (seguendo l'ordine di nazionalità) fondano a Göteborg nel 2013 il microbirrificio Beerbliotek. Il nome scelto rimanda alla biblioteca ed è esplicativo della filosofia operativa del birrificio: in biblioteca si va per prendere libri a prestito, e solitamente si prende ogni volta un libro diverso, senza tornare su quelli già letti. Questo concetto viene applicato alla produzione delle birre: se non erro solamente una birra viene prodotta tutto l'anno,  la Pale Ale Bobek Citra, a soddisfare i requisiti per essere venduta tramite il  Systembolaget, monopolio di stato svedese.  
Tutta la restante produzione è fatta di birre stagionali, occasionali e leggere varianti di altre birre prodotte, destinate all'export: i 410 ettolitri prodotti nel 2013, primo anno di vita del birrificio, sono stati fatti realizzando ben 36 birre diverse tra le quali dodici IPA in dieci mesi. Questa continua e assurda ricerca di novità asseconda i beergeeks ma anche il comportamento del birraio Adam Norman, il quale ammette di bere raramente la stessa birra più di una volta nei bar, perché ce ne sono sempre di nuove da provare. 
Lui e Richard Bull sono i proprietari del Café Doppio di Göteborg, dove due clienti abituali (Anders Hedlund e Darryl de Necker) si trovavano quasi tutte le mattine a bere il caffè e a parlare di birra: dalle appassionate conversazioni si passa all'acquisto di un Braumeister per fare la birra a casa e poi a quello di un impianto Brewfab che inaugura i birrificio di Sockerbruket 11 a Göteborg. Dal debutto di marzo 2013 con la Black Ale Chilli si è arrivati ai 1800 ettolitri del 2015, anno in cui si è concretizzata l'espansione in un secondo sito produttivo ad un solo chilometro di distanza, in Fotögatan 2. Chissà che in futuro uno dei due non venga destinato alla produzione di birre acide; in cantiere c'è anche l'apertura di un bar/pub dove i clienti potranno soddisfare la loro sete di novità.

La birra.
Dalla già vasta libreria di Beerbliotek ecco una Session IPA che debutta a fine 2014, in pieno inverno, per poi essere disponibile in lattina anche a partire dallo scorso marzo 2016: il suo nome, seguendo la prassi introdotta da The Kernel, altro birrificio inglese che ama sfornare novità, è dato semplicemente dai due luppoli utilizzati: l'americano Citra ed il neozelandese Motueka.
Il suo colore opaco si colloca tra il dorato carico e l'arancio, con un bel cappello di schiuma bianca, cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. L'aroma offre un bouquet goloso di frutta tropicale (soprattutto mango e passion fruit) al quale s'affianca la marmellata d'agrumi: una semplicità fatta di opulenza più che di finezza, ma se i mesi passati dalla messa in lattina sono effettivamente tre mi sarei aspettato una maggior fragranza/freschezza. In bocca la bevuta inizia senza sorprese: il corpo è ovviamente leggero, la carbonazione delicata a favorire il massimo della scorrevolezza con una consistenza acquosa che non scivola mai "nell'annacquato".  La base maltata (crackers) è quella strettamente necessaria a sostenere la generosa luppolatura che prima regala frutta dolce tropicale a richiamare in toto l'aroma e poi dispensa amaro (resina, vegetale, pompelmo) con generosità ma anche con giudizio, evitando di trasformare una birra molto leggere in una tisana verde o in un succo di frutta. L'intensità è senz'altro ottima per la modesta gradazione alcolica, e la chiusura è secca e abile nel rinfrescare il palato e renderlo subito bisognoso di un altro sorso; lasciano invece un po' a desiderare pulizia ed eleganza, che alla fine rendono questa Session IPA un po' grezza e con ampi margini di miglioramento.
Formato: 33 cl., alc. 3.5%, scad. 24/11/2016, 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 maggio 2016

HOMEBREWED! Cavalier King Brewery - Modesta


L’appuntamento di maggio con HOMEBREWED!, lo spazio dedicato alle vostre produzioni casalinghe, vede il ritorno di Giacomo Savatteri da Caltagirone (CT) ed il suo birrificio casalingo chiamato, in onore del proprio cagnolino, Cavalier King Brewery. In chiusura di 2015 aveva assaggiato la sua stout Sweet Black Lady
In una zona della Sicilia dove purtroppo non ci sono molte opportunità di reperire birre di qualità, una possibile ""salvezza"" dalle birre industriali è stata per Giacomo iniziare a farsela da solo; la sua passione è nata cinque anni fa, dapprima con i soliti kit rapidamente rimpiazzati da produzioni All Grain. Negli ultimi anni anche la Sicilia, con un po' di ritardo rispetto ad altre regioni settentrionali, ha visto nascere molti nuovi microbirrifici e beerfirm che stanno portando una ventata di novità: speriamo che sia davvero l'inizio di una rivoluzione e che sempre più persone abbiano accesso alla birra di qualità. E, perché no, a sempre più persone venga voglia di provare l'avventura dell'homebrewing. 
“Modesta” è il nome dato alla primo tentativo di produrre un’American Pale Ale; Giacomo mi confessa la sua passione per le birre belghe e di non avere troppa dimestichezza con gli stili, e mi sembra che questa sua ammissione si sia poi concretizzata nella birra.  Ad ogni modo, qui non siamo ad un concorso e non si tratta di valutare l’aderenza allo stile; per chi si fa la birra in casa per uso personale conta soprattutto che sia buona da bere, e su questo punto non posso che essere d’accordo. La cosa che mi ha sorpreso, nella mia pressoché completa ignoranza sulle tecniche di produzione, è come Giacomo sia riuscito a tirare fuori una birra dal profilo belga utilizzando un lievito neutro come l’US-05: il resto della ricetta include malti Maris Otter, Vienna e Biscuit, luppoli Hallertau (immagino Hallertauer Mittelfrüh) e Cascade, quest’ultimo utilizzato anche per un modesto dry-hopping. 
All’aspetto è di colore arancio opaco, con qualche riflesso dorato: la schiuma biancastra è piuttosto esuberante, cremosa e abbastanza compatta, dalla lunghissima persistenza e rapidissima nel rigenerarsi agitando il bicchiere. L’aroma si sposta da subito in territorio europeo, evidenziando la speziatura del luppolo “nobile” e una lieve terrosità che accompagnano gli agrumi (polpa d’arancio, scorza di mandarino): non pensate però al classico pompelmo del Cascade, qui il profilo agrumato è continentale con il contributo degli esteri ad affiancare quello del luppolo. In sottofondo c'è anche qualche lieve sentore di erbe officinali. Dovrei definire la carbonazione troppo elevata per un'APA, ma spostandoci in territorio belga le bollicine sono quelle giuste per rendere vivacità e vitalità ad una birra dal corpo medio che scorre bene e solletica il palato ad ogni sorso. Al palato le note di biscotto e miele fungono da supporto a quanto anticipato dall'aroma: delicata spaziatura, polpa d'arancia per il dolce, abbondanza di scorza di limone, lime e pompelmo accompagnano verso l'amaro erbaceo e leggermente terroso del finale. La birra è molto secca, con un buon potere dissetante e rinfrescante e, considerando la gradazione alcolica, una notevole facilità di bevuta. 
Il risultato è una buona birra che a me ha richiamato senza dubbio la tradizione belga, in quel territorio di Farmhouse/Belgian Ale generosamente luppolate: l'intensità e pulizia sono ad un buon livello, mentre sull'eleganza devo fare alcune considerazioni. Nel caso di un'APA dovrei dire "migliorabile", mentre se penso ad una Farmhouse Ale trovo che la mancanza di una "precisione chirurgica" contribuisca a formare quel carattere ruspante e rustico che è uno degli aspetti fondamentali di quelle birre, e quindi in questo caso qualche leggera imperfezione è quasi un valore aggiunto.  
Questa la  valutazione su scala BJCP:  36/50 (Aroma 8/12, Aspetto 3/3, Gusto 14/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 7/10).  Ringrazio Giacomo per avermi spedito e fatto assaggiare la sua birra, e vi do appuntamento alla prossima "puntata" di Homebrewed! E ricordate che la rubrica è aperta  a tutti i volenterosi homebrewers!  
Formato: 50 cl., alc. 6%, imbottigliata 01/2016.

domenica 15 maggio 2016

Unibroue La Fin du Monde

André Dion e Serge Racine acquistano nel 1990 il 75% della Brasserie Massawippi di Lennoxville, Canada, che si trovava in difficoltà finanziarie arrivando poi al 100% l'anno successivo e creando contemporaneamente la società Unibroue. L'idea di Dion è di realizzare in Quebec quelle birre delle quali si era innamorato in Belgio: ad aiutarlo chiama come consulente il birraio fiammingo Gino Vantieghem per creare una linea di birre rifermentate in bottiglia. La prima nata è la Blanche de Chambly, una witbier che diventerà col tempo anche la Unibroue più popolare e venduta; il cantante e attore canadese Robert Charlebois se ne innamora e fa un'offerta per rilevare il birrificio, ma ottiene solamente un'importante quota societaria. Il suo investimento permette al birrificio di spostarsi nella nuova sede di Chambly, dove tutt'ora si  trova, e di iniziare un progressivo ma regolare piano di espansione. 
Nel 1999 al posto di Vantieghem arriva come consulente Paul Arnott, precedente collaboratore dei trappisti di Chimay. Nel 2003 viene assunto anche Jerry Vietz per iniziare la produzione di distillati, ma l'anno successivo la Unibroue viene acquistata dal birrificio canadese Sleeman, che si trova in Ontario. I birrofili francofoni del Quebec non sono entusiasti di sapere che il loro amato birrificio è ora di proprietà degli "odiati inglesi" dell'Ontario, ma la loro preoccupazione dura solo 24 mesi perché nell'ottobre del 2006 i giapponesi di Sapporo acquistano Sleeman per 400 milioni di dollari e quindi anche Unibroue. Nel frattempo il programma di distillati era stato soppresso e Jerry Vietz era stato nominato "head brewer", ruolo che ricopre ancora oggi. Sapporo è il più antico birrificio commerciale giapponese ancora attivo ed operante dal 1876, con oltre seicentomila ettolitri prodotti ogni anno; attualmente Unibroue ne produce invece 180.000.

La birra.
E' datato febbraio 1994 il debutto de La Fin du Monde: da allora  la tripel di Unibroue ha portato a casa una cinquantina di medaglie in svariati concorsi. Al di là del valore che questi premi hanno, si tratta della birra canadese più medaglietta in assoluto; secondo quanto dichiara il birraio Jerry Vietz viene prodotta utilizzando coriandolo e scorza d'arancia. Il nome fa riferimento al tempo in cui le Americhe erano ancora un territorio inesplorato dagli europei, i quali pensavano che il mondo finisse in mezzo all'oceano Atlantico.
Nel bicchiere è perfettamente dorata, leggermente velata e forma un generoso e compatto cappello di schiuma bianchissima e cremosa, dall'ottima persistenza. L'ottimo aspetto trova immediata corrispondenza nell'aroma, pulitissimo e di buona intensità: c'è una delicata speziatura (coriandolo, forse chiodo di garofano) che avvolge i canditi, la polpa d'arancia, le note di pane e di miele, il curaçao, la frutta secca ed un accenno di banana. I profumi sono vivaci e queste sensazioni si travasano immediatamente al palato, con una carbonazione sostenuta che caratterizza tutta la bevuta, rendendola vitale e scattante; il corpo è medio. Il gusto riparte del dolce del miele e dello zucchero candito, per poi attraversare la frutta sciroppata (pesca, albicocca) e quella candita, il tutto avvolto da una leggerissima speziatura che richiama l'aroma. Non c'è di fatto amaro, ma c'è un'impressionante attenuazione che asciuga il palato lasciandolo quasi fresco: sembra quasi un controsenso, ma è una birra dal tenore alcolico elevato (9%) nascosto in modo surreale, con il risultato di una facilità di bevuta quasi paragonabile ad una "session beer"; c'è solamente un velo di tepore etilico nel retrogusto  di frutta sotto spirito e candita. Grandissimo equilibrio, eleganza e pulizia ineccepibili, una tripel sorprendente dove ogni cosa è al posto giusto. Una pericolosa arma a disposizione di chi vuole farvi ubriacare: fatevi qualche bicchiere senza che ve ne sia rivelata la gradazione alcolica e arriverete davvero "alla fine del mondo".
Formato: 34,1 cl., alc. 9%, IBU 19, lotto F23150904Q B, imbott. 06/2015.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 13 maggio 2016

Brouwerij Kees Export Porter 1750

Kees! Se questa parola non vi è nuova, avete ragione: Kees Bubberman, homebrewer dal 1996  e poi birraio per sette anni (2007-2014) presso il birrificio olandese Emelisse. Nell’autunno del 2014 ha presentato le sue dimissioni per mettersi in proprio, e non ci ha messo molto a partire. Acquistato il vecchio impianto da 25 hl dagli inglesi di Magic Rock e aggiunto sei fermentatori, a febbraio 2015 ha prodotto il primo lotto di East India Porter alla nuova Brouwerij Kees!, che si trova ad una ventina di chilometri di distanza da Emelisse ed ha un potenziale annuo di circa 1800 hl.
In poco più di un anno d'attività Kees ha già alle spalle una trentina di etichette che includono un'inevitabile collaborazione con Magic Rock ed anche i primi invecchiamenti in botte. Al di là di questo, la gamma si compone di otto birre prodotte regolarmente: Double Rye IPA, Export Porter 1750, Peated Imperial Stout, East India Porter, Pale Ale Citra, Barley Wine, Just Another IPA, Session IPA, Mosaic Hop Explosion.

La birra.
Kees dichiara di essersi ispirato ad una ricetta inglese del 1750, un'interpretazione piuttosto personale visto che i luppoli utilizzati sono Fuggles e Sorachi Ace, quest'ultimo disponibile solo a partire dal 1984; l'elenco dei malti include invece Pale Ale, Caramel, Carafa 1 e Carafa 2.
Nera, forma un dito circa di schiuma nocciola un po' scomposta e grossolana, poco persistente. Al naso, di scarsa intensità, annoto tostature, carne e pelle/cuoio, un lieve salmastro e, in sottofondo, cioccolato, vaniglia e un tocco di cenere: il bouquet è tutt'altro che goloso, anche se abbastanza pulito. 
La sua consistenza è piuttosto densa, quasi masticabile, con poche bollicine ed un corpo tra il medio ed il pieno: la scorrevolezza ne risente e sin dall'ingresso appare chiaro che questa è una birra che va sorseggiata lentamente. Il gusto picchia duro, monotono, con tostature intense circondate da caffè, liquirizia ed una discreta componente etilica; il dolce (caramello, uvetta) è ridotto ai minimi termini, mentre all'opposto l'acidità portata dai malti scuri è invece piuttosto marcata. Non c'è molto movimento, non ci sono emozioni: una Imperial Porter che martella dall'inizio alla fine battendo sugli stessi tasti, senza particolare eleganza e con un livello di pulizia ampiamente migliorabile. Rilevo anche una lieve nota salmastra che richiama quella dell'aroma. In internet leggo descrizioni molto diverse di questa birra e opinioni molto positive: in verità questa bottiglia è stata da me acquistata nel 2015 appena Kees ha aperto i battenti, e dovrebbe quindi trattarsi del primo lotto prodotto. Evidentemente il birraio ha successivamente corretto il tiro sistemando il necessario: mi ripropongo quindi di tornarla ad assaggiare alla prima occasione.
Formato: 33 cl., alc. 10.5%, IBU 108, lotto e scadenza non riportati, 5.19 Euro (beershop, Germania).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 12 maggio 2016

Hop Valley Citrus Mistress

Contea di Lane, Oregon: verso la fine del diciannovesimo secolo in questa zona veniva prodotta la maggior parte di luppolo di tutto gli Stati Uniti. Il proibizionismo, alcuni parassiti e la concorrenza dei produttori dello stato di Washington ridussero il potere di questa regione che tuttavia oggi continua a produrre il 17% del totale dei luppoli statunitensi, ovvero il 5% del totale della produzione mondiale. 
Su questi terreni trova oggi sede la Hop Valley Brewery, aperta il 12 febbraio del 2009 a Springfield, un agglomerato urbano adiacente ad Eugene, capitale della Contea di Lane. Il birrificio è partito con un impianto da 17 ettolitri ed è rapidamente passato dai 1000 barili prodotti nel primo anno ai 4000 del 2012 che hanno reso necessario il trasloco nella nuova sede di Eugene, dove ha trovato posto un impianto da 70 hl che nel 2015 ha prodotto 12.000 barili: questo quartiere periferico chiamato Whitaker è stato rinominato il “Fermentation District” in quanto a poca distanza l’uno dall’altro si trovano birrifici (Ninkasi, Oakshire e Hop Valley) e diversi produttori di vino e distillati. 
Hop Valley Brewery  viene fondata  Trevor Howard, nativo di Eugene, assieme ad altri quattro soci: il padre Ron Howard, Charles Hare e  Jonas Kungys  (co-fondatori nel 2004 della Oregon Taxi, una delle maggiori compagnie dell’Oregon) e Jim Henslee. Il birraio Trevor, dopo l’homebrewing e gli studi di “Fermentation Science” alla  Oregon State University, ha lavorato alla  Pelican, alla Rogue (2004-2008) e alla Eugene City Brewery, collezionando con le proprie ricette una quarantina di premi in vari concorsi.

La birra.
Citrus Mistress è una IPA stagionale, suppongo disponibile solamente nei primi mesi dell'anno, prodotta con quattro diverse varietà di luppolo non dichiarate e scorza di pompelmo; l'utilizzo di agrumi o frutta in generale nella birra non è di certo una novità ma una tradizione piuttosto consolidata; più complicato risalire a chi abbia realizzato la prima IPA al pompelmo. Probabilmente nata da un'idea di alcuni homebrewers, ma il primo vero successo commerciale è quello della Ballast Point di San Diego che realizzò la versione Grapefruit della propria Sculpin IPA. 
Nel bicchiere si presenta tra il dorato e l'arancio, velato ma luminoso, con un bel cappello di schiuma leggermente biancastra cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. La sua data di nascita risale al 10 gennaio scorso e i quattro mesi passati in bottiglia non sono di certo il massimo per uno stile che andrebbe bevuto il più fresco possibile. L'aroma in effetti non brilla di fresco, pur mantenendo una discreta intensità ed una buona pulizia: fedele al proprio nome, troviamo arancio, pompelmo, mandarino accompagnati da sentori floreali e da un accenno di frutta tropicale (ananas, mango).  Uno scenario simile dove la freschezza non è la caratteristica principale si ripropone anche al palato: i quattro mesi in bottiglia sono tanti ma non tantissimi, eppure non c'è quell'esplosione di frutta (agrumi) che t'aspetteresti. Dall'ingresso maltato di pane, biscotto e lieve caramello si passa subito ad un'amaro resinoso e vegetale, intenso ma privo di quella fragranza necessaria a renderlo leggero e pungente piuttosto che pesante e monotono; di agrumi rimane solo un lieve passaggio che richiama la marmellata, mentre dell'aromatizzazione al pompelmo si ha una debole traccia solo nel retrogusto. La sensazione palatale è gradevole, morbida e mediamente carbonata, ma è difficile esprimere un'opinione su una bottiglia invecchiata abbastanza precocemente:  si beve,  ci mancherebbe, con il piacere che cerca però di farsi strada tra la monotonia e la noia.
Formato: 35.5 cl., alc. 6.5%, IBU 80, imbott. 10/01/2016, 4.50 Euro.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.