La storia della Alpine Beer Company è quella di Pat McIlhenney, un pompiere che nel 1983 inizia con l'homebrewing nel tentativo di replicare quelle birre importate dall'Europa così piene di gusto rispetto alle blande lager americane. Il lavoro lo porta nei paraggi di uno dei primi brewpub "artigianali", la Mendocino Brewing Company nella California settentrionale, che inizia a frequentare assiduamente: nasce in Pat l'idea di poter fare un giorno qualcosa di simile, trasformando la sua passione per l'homebrewing in una professione.
Inizia ad iscrivere le proprie birre ai concorsi facendo tesoro delle critiche ricevute per poi iniziare a collezionare premi: nel suo tempo libero dà una mano al negozio di homebrewing dove si rifornisce e frequenta qualche corso di produzione alla Università della California di Davis.
Trasferitosi nella California del sud, Pat trascorre per anni buona parte delle sue ore libere alla AleSmith di San Diego per imparare il mestiere, e nel 1999 gli viene concesso di realizzare come "beerfirm" la sua prima birra, la McIlhenney’s Irish Red Ale, seguita dalla Mandarin Nectar. E' solamente nel 2002 che Pat è pronto a partire con il proprio birrificio, un impianto da 12 HL che lui stesso progetta ed installa nei minuscoli locali di un edificio in legno posizionato ai bordi della strada che attraversa Alpine, cittadina da 14.000 anime sulle colline dell'entroterra ad una cinquantina di chilometri da San Diego. Arrivano subito le medaglie conseguite al GABF, il nome Alpine inizia a circolare sul taccuino di molti appassionati diventando una sorta di "culto". La produzione è piccola e per bere le birre bisogna recarsi sul posto o in quei pochissimi locali di San Diego che ricevono i fusti; le poche bottiglie che arrivano nei beershop, sopratutto quando scoppia la febbre delle IPA, vengono esaurite in pochissime ore.
Nel 2008 Pat cede il ruolo di birraio al figlio Shawn e nel 2009 sta per stringere una accordo con la Cold Spring Brewing (Minnesota) per produrre le birre anche nei loro impianti e aumentare la capacità produttiva: sembra tutto pronto ma all'ultimo minuto qualcosa va storto ed il progetto viene cancellato o, oggi possiamo dirlo, solo rimandato. Per soddisfare i "pellegrini" che si recano sempre più numerosi ad Alpine viene inaugurato nel 2010 un rudimentale brewpub nei locali adiacenti agli impianti: quaranta posti a sedere, perennemente occupati, si mangia alla buona, sui fazzoletti di carta.
Il problema della capacità produttiva è sempre all'ordine del giorno e viene risolto nel 2013 quando Pat McIlhenney stringe un (primo) accordo con Mike Hinkley di Green Flash, apparentemente con una semplice stretta di mano: il birrificio di San Diego produrrà e distribuirà sei Alpine: Hoppy Birthday, Duet, Nelson, Alpine Ale, McIlhenney's Irish Red e Captain Stout. Shawn fa la spola tra Alpine e San Diego per adattare le ricette e poterle replicare su una scala molto più grande, ma il problema principale è che a San Diego amano filtrare, cosa che McIlhenney reputa assolutamente inaccettabile: il conto della spesa finale per Green Flash (incluso l'acquisto di centrifuga ed "Hopback") è di circa un milione di dollari.
Il problema della capacità produttiva è sempre all'ordine del giorno e viene risolto nel 2013 quando Pat McIlhenney stringe un (primo) accordo con Mike Hinkley di Green Flash, apparentemente con una semplice stretta di mano: il birrificio di San Diego produrrà e distribuirà sei Alpine: Hoppy Birthday, Duet, Nelson, Alpine Ale, McIlhenney's Irish Red e Captain Stout. Shawn fa la spola tra Alpine e San Diego per adattare le ricette e poterle replicare su una scala molto più grande, ma il problema principale è che a San Diego amano filtrare, cosa che McIlhenney reputa assolutamente inaccettabile: il conto della spesa finale per Green Flash (incluso l'acquisto di centrifuga ed "Hopback") è di circa un milione di dollari.
L'accordo nasce con lo scopo di aiutare Alpine a racimolare i fondi necessari per il proprio ampliamento attraverso la vendita di molta più birra; tutti o quasi sono contenti di vedere la produzione Alpine raddoppiare del 200% ma tutti (o quasi) sono molto meno contenti di leggere la notizia che appare il 10 novembre del 2014, a solo dodici mesi dalla nascita della partnership. Il comunicato stampa parla di una "partnership e di una unione di forze", ma la sostanza è che un birrificio craft (Alpine) è stato di fatto acquistato da un altro birrificio craft venti volte più grande di lui. Molti beergeeks californiani, sempre uniti nel boicottare birrifici craft acquistati da multinazionali, si trovano questa volta spiazzati: che fare? A parlare è comunque la birra, soprattutto la sua qualità: chi inizia a mettere a confronto le Alpine originali con quelle prodotte a Green Flash vi nota delle profonde differenze, anche nel colore. McIlhenney e Hinkley s’affrettano a rassicurare che si tratta di un normale periodo di transizione dovuto all’adattamento delle ricette agli impianti di Green Flash, una cosa attraverso la quale sono passati quasi tutti i birrifici che si sono ingranditi; resta il fatto che a diciotto mesi di distanza dall’acquisizione le cose non sono ancora state sistemate. Per il cliente non c’è modo di sapere con certezza dove sono prodotte le birre: in un primo periodo le Alpine prodotte a San Diego venivano vendute in bottiglie serigrafate Green Flash, al contrario di quelle “originali” che mantenevano ancora la serigrafia originale. Da qualche tempo tutte le bottiglie sono serigrafate Alpine, mentre sulle etichette si legge un emblematico “brewed and bottled by Alpine Beer Company, San Diego”.
Nel frattempo la distribuzione Green Flash inizia a dare i suoi frutti: le birre di Alpine, da sempre piuttosto difficili da reperire anche nella California del sud, iniziano ad apparire sugli scaffali dei negozi e nei bar di diversi stati americani, suscitando opinioni contraddittorie che iniziano a scalfire l’immagine di un marchio molto amato e ambito dai beergeeks. Ma neppure nel nuovo brewpub da 200 posti che viene inaugurato ad Alpine nell’estate del 2015 sarete sicuri di bere un’Alpine prodotta ad Alpine: per soddisfare tutta la richiesta, molti fusti arrivano direttamente a San Diego.
Personalmente nelle due volte in cui sono stato in California – prima dell’acquisizione di Green Flash - non sono mai riuscito ad avvistare nessuna Alpine: alla mia richiesta il venditore di un beershop di San Diego mi raccontava che le poche bottiglie che arrivavano venivano spazzate via in poche ore. Ma dall’anno scorso le cose sono (tristemente, direbbe qualcuno) cambiate e ora qualche bottiglia di Alpine (prodotta a San Diego, ovviamente) è anche arrivata in alcuni beershop europei.
La birra.
Pure Hoppiness, nomen omen: è una Double/Imperial IPA nata nel 2000, anno in cui lo stile era ancora una nicchia all’interno della nicchia e aveva il suo unico momento di gloria nel mese di febbraio quando il The Bistro di Hayward (California) organizzava il Double IPA Festival: un evento per pochi per il quale Vinnie Cilurzo/Russian River aveva realizzato nel 1999 la sua prima Double IPA chiamata Pliny The Elder.
La Pure Hoppiness realizzata da Pat McIlhenney nasce tra le mura domestiche come “una sfida per soddisfare mia moglie Val; tutti gli esperimenti che le avevo fatto assaggiare avevano ricevuto gli stessi commenti: è buona, ma potresti farla meno amara, anche se più luppolata? Ecco come ebbi l’idea di spingere sul dry-hopping aggiungendo anche un hop-back: a quel tempo l’ultima moda in fatto di luppolo era il Columbus e i suoi sostituti come Tomahawk e Zeus. A questo aggiunsi i classici Cascade e Centennial, con un po’ di Nugget per bilanciare aroma e gusto”. Pure Hoppiness era un tempo una produzione stagionale disponibile da novembre sino ad esaurimento: non so se lo sia ancora oggi che viene prodotta presso Green Flash.
Nel bicchiere c’è il classico colore West Coast: oro con sconfinamenti nell’arancio, una discreta velatura e un cremoso e compatto cappello di schiuma biancastra. La messa in bottiglia risale a metà dicembre 2015, certamente non il massimo per uno stile che richiede freschezza assoluta: l’aroma tuttavia non è affatto male, rivelando un profilo ancora discretamente fresco e soprattutto pulito . Resina e “dank”, pompelmo, polpa d’arancia, lievi profumi tropicali di ananas e forse mango: non siamo al “climax dell’hoppiness” ma è comunque un bouquet piuttosto gradevole che non si incontra tutte le volte che si stappa una IPA, per dirla tutta. Le cose vanno meno bene in bocca, se si esclude l’ottima sensazione palatale: la componente fruttata è quasi assente, bisogna davvero cercarla con la lanterna per trovare un po’ di marmellata piuttosto che frutta fresca e fragrante. Il gusto si regge sul malto (pane, un tocco biscottato) e sull’amaro resinoso e vegetale, di buona intensità ed eleganza, con un’ottima attenuazione finale; l’alcool dichiarato (8%) si sente tutto, con una bevibilità buona ma che potrebbe essere ancora migliore.
Intendiamoci, la birra è pulita e godibile ma mettiamoci di mezzo il viaggio oceanico, i quattro mesi dalla messa in bottiglia ed il fatto che ora viene prodotta da Green Flash a San Diego ed il risultato finale benché soddisfacente non è quello che ti aspetteresti da uno dei produttori più famosi/di culto, la Alpine Beer Company. Del resto, se prima si faceva fatica a trovare Alpine in California e adesso qualche bottiglia arriva anche in Europa, a qualche compromesso si sarà pur dovuti scendere.
Formato: 35,5 cl., alc. 8%, lotto F15348, scad. 10/05/2016.
Nel frattempo la distribuzione Green Flash inizia a dare i suoi frutti: le birre di Alpine, da sempre piuttosto difficili da reperire anche nella California del sud, iniziano ad apparire sugli scaffali dei negozi e nei bar di diversi stati americani, suscitando opinioni contraddittorie che iniziano a scalfire l’immagine di un marchio molto amato e ambito dai beergeeks. Ma neppure nel nuovo brewpub da 200 posti che viene inaugurato ad Alpine nell’estate del 2015 sarete sicuri di bere un’Alpine prodotta ad Alpine: per soddisfare tutta la richiesta, molti fusti arrivano direttamente a San Diego.
Personalmente nelle due volte in cui sono stato in California – prima dell’acquisizione di Green Flash - non sono mai riuscito ad avvistare nessuna Alpine: alla mia richiesta il venditore di un beershop di San Diego mi raccontava che le poche bottiglie che arrivavano venivano spazzate via in poche ore. Ma dall’anno scorso le cose sono (tristemente, direbbe qualcuno) cambiate e ora qualche bottiglia di Alpine (prodotta a San Diego, ovviamente) è anche arrivata in alcuni beershop europei.
La birra.
Pure Hoppiness, nomen omen: è una Double/Imperial IPA nata nel 2000, anno in cui lo stile era ancora una nicchia all’interno della nicchia e aveva il suo unico momento di gloria nel mese di febbraio quando il The Bistro di Hayward (California) organizzava il Double IPA Festival: un evento per pochi per il quale Vinnie Cilurzo/Russian River aveva realizzato nel 1999 la sua prima Double IPA chiamata Pliny The Elder.
La Pure Hoppiness realizzata da Pat McIlhenney nasce tra le mura domestiche come “una sfida per soddisfare mia moglie Val; tutti gli esperimenti che le avevo fatto assaggiare avevano ricevuto gli stessi commenti: è buona, ma potresti farla meno amara, anche se più luppolata? Ecco come ebbi l’idea di spingere sul dry-hopping aggiungendo anche un hop-back: a quel tempo l’ultima moda in fatto di luppolo era il Columbus e i suoi sostituti come Tomahawk e Zeus. A questo aggiunsi i classici Cascade e Centennial, con un po’ di Nugget per bilanciare aroma e gusto”. Pure Hoppiness era un tempo una produzione stagionale disponibile da novembre sino ad esaurimento: non so se lo sia ancora oggi che viene prodotta presso Green Flash.
Nel bicchiere c’è il classico colore West Coast: oro con sconfinamenti nell’arancio, una discreta velatura e un cremoso e compatto cappello di schiuma biancastra. La messa in bottiglia risale a metà dicembre 2015, certamente non il massimo per uno stile che richiede freschezza assoluta: l’aroma tuttavia non è affatto male, rivelando un profilo ancora discretamente fresco e soprattutto pulito . Resina e “dank”, pompelmo, polpa d’arancia, lievi profumi tropicali di ananas e forse mango: non siamo al “climax dell’hoppiness” ma è comunque un bouquet piuttosto gradevole che non si incontra tutte le volte che si stappa una IPA, per dirla tutta. Le cose vanno meno bene in bocca, se si esclude l’ottima sensazione palatale: la componente fruttata è quasi assente, bisogna davvero cercarla con la lanterna per trovare un po’ di marmellata piuttosto che frutta fresca e fragrante. Il gusto si regge sul malto (pane, un tocco biscottato) e sull’amaro resinoso e vegetale, di buona intensità ed eleganza, con un’ottima attenuazione finale; l’alcool dichiarato (8%) si sente tutto, con una bevibilità buona ma che potrebbe essere ancora migliore.
Intendiamoci, la birra è pulita e godibile ma mettiamoci di mezzo il viaggio oceanico, i quattro mesi dalla messa in bottiglia ed il fatto che ora viene prodotta da Green Flash a San Diego ed il risultato finale benché soddisfacente non è quello che ti aspetteresti da uno dei produttori più famosi/di culto, la Alpine Beer Company. Del resto, se prima si faceva fatica a trovare Alpine in California e adesso qualche bottiglia arriva anche in Europa, a qualche compromesso si sarà pur dovuti scendere.
Formato: 35,5 cl., alc. 8%, lotto F15348, scad. 10/05/2016.
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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