venerdì 30 novembre 2018

Benaco 70 India Pale Ale & Porter


Il Birrificio Benaco 70 nasce nel 2013 ad Affi, provincia di Verona, sulle colline sottostandi il monte Moscal a pochi chilometri dalle sponde meridionali del Lago di Garda. A fondarlo i coniugi Erica Zovi e Riccardo Costa, rispettivamente con lauree in lauree in Viticoltura ed Enologia e Statistica: tutta colpa di un kit da homebrewing che Erica regalò al marito verso la fine degli anni ’90: un lungo percorso che è sfociato nell’acquisto di un impianto da 10 Hl a cotta della ditta vicentina Impiantinox – Easybrau, quattro serbatoi verticali troncoconici e due celle frigorifere per la fermentazione e la maturazione. Il perché del nome scelto è presto detto: Benaco è l’antico nome latino del lago di Garda, 70 era la somma delle età dei componenti della famiglia al momento dell’apertura del birrificio.
Attualmente l’offerta brassicola si compone di sette etichette disponibili tutto l’anno (Brown Ale, Porter, Helles, India Pale Ale, Honey Ale, Blanche e ColoniAle) più qualche produzione occasionale e stagionale:  tutte birre volutamente semplici e facili da bere. “Attualmente lasciamo le acide a chi le sa fare ed il vino ai tanti produttori della Valpolicella che ci circonda” dice Riccardo. “Birre maggiormente alcoliche sarebbero interessanti, ma in controtendenza rispetto a quello che i nostri clienti ci chiedono”.  I due coniugi si occupano di ogni aspetto: Riccardo segue la produzione e l’approvisionamento delle materie prime mentre Erica si occupa della parte amministrativa e commerciale. Particolarmente ricca di soddisfazioni è stata la partecipazione all’ultima edizione del concorso Birra dell’Anno 2018: lo scorso febbraio a Rimini sono state premiate Blanche (secondo posto in categoria 24), Helles (prima in categoria 2) e Coloniale (prima in categoria 5).
Adiacente all’impianto vi è lo spaccio e la cosiddetta “taproom”:  una piccola cucina e sette spine che occasionalmente ospitano anche qualche altro birrificio. E’ aperta dal martedì  al giovedì dalle 16 alle 21 e, venerdì e sabato sino a mezzanotte.

Le birre.
Birra di qualità anche sugli scaffali del supermercato, a buon prezzo:  possibile?  E’ una sfida nella quale mi sono cimentato più volte: Benaco 70 propone da poco nella GDO le proprie bottiglie a 9 euro al litro, prezzo sicuramente interessante se si guarda al costo medio di un litro di birra artigianale nei negozi e nei beershop italiani. 
La India Pale Ale si presenta velata e di color ramato/ambrato scarico: la schiuma è piuttosto generosa, compatta ed ha un’ottima persistenza. Profumi di pompelmo, mandarino, arancia e resina anno a formare un’aroma fresco e di buona intensità; il bouquet è gradevole anche se non particolarmente raffinato o definito. La bevuta è un po’ disturbata da qualche bollicina in eccesso e anche a livello tattile la birra potrebbe essere meno pesante. La bevuta è piacevole e priva di difetti ma anch’essa caratterizzata da poca finezza: caramello, biscotto e un breve passaggio agrumato anticipano un finale amaro resinoso e pungente di buona intensità nel quale l’alcool  (7%) dà il suo contributo senza fare sconti.  Una IPA abbastanza secca ma un po’ ruvida, ancora da sgrezzare e raffinare, comunque una proposta positiva soprattutto per chi sta muovendo i primi passi nel mondo dell’artigianale e non ha aspettative particolarmente elevate. 

La Porter di Benaco 70 è di un bel color ebano scuro illuminato da riflessi rossastri: cremosa, compatta e dalla trame fine, la schiuma mostre buona ritenzione. Orzo tostato, qualche estero fruttato (bosco), accenni di caffè: al naso c’è il minimo indispensabile. Al palato ci sono invece troppi alti e bassi in un percorso che parte con una buona intensità per poi scivolare in pericolosi abissi acquosi. Caramello, tostature e fondi di caffè vengono quasi portati via da un’ondata acquosa che ripulisce il palato ma annulla anche il gusto: la porter si spegne improvvisamente per poi tornare timidamente in vita in un retrogusto di caffè e tostature che non brilla di eleganza. Gusto ed acqua sembrano quasi viaggiare su due binari paralleli, senza coesione. Nessuno si aspetta una bomba da una porter “sessionabile” (4.5%) ma gli esempi di birre “con poco alcool e tanto gusto” (semplificando) non mancano e qui il risultato è davvero molto mediocre: spiace dirlo ma, anche in assenza di difetti o off-flavours, il lavoro da fare su questa bottiglia è davvero tanto.
Nel dettaglio:
India Pale Ale, 33 cl., alc. 7.0%, IBU 60, lotto 18219, scad. 01/12/2019, prezzo indicativo 2.99 Euro (supermercato)
Porter, 33 cl., alc. 4.5%, IBU 32, lotto 18254, scad. 01/02/2020, prezzo indicativo 2.99 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 29 novembre 2018

Spezial Rauchbier Märzen

E’ stato fondato nel 1536 da Büttner Linhard Großkopf e dal 1898 è nelle mani della famiglia Merz: birrificio Spezial, Obere Königstraße 10, Bamberga. Un’importantissima via commerciale che nel medioevo collegava Erfurt, Bamberga, Norimberga e Augusta per poi proseguire a sud oltre le Alpi, collegandosi all’antica Via Augusta sino a Verona:  nei tipici edifici a graticcio sulla Königstraße che attraversava Bamberga vi erano un tempo oltre 22 birrifici e Spezial è uno dei pochi ancora rimasti in attività. 
Il nome deriva probabilmente dalla parola francone Spezeln  che significa “ritrovo di amici”; Spicial genannt, eyn Bräuer und auch Büttner gewesten ist  era il motto collegato al birrificio durante la gestione (1631-1664) del proprietario Nikolas Delscher. 
Come detto, la famiglia Merz ne detiene la proprietà dal 1898: alla guida è il birraio Christian Merz, discendente di quarta generazione che supervisiona una produzione annuale che si aggira sui 6-7000 ettolitri. 
Al numero civico adiacente (Obere Königstraße 8) dove vi era un tempo il birrificio Schwarzer Bär, vi è oggi la Gasthof di Spezial aperta ogni giorno dalle 9 alle 23, il sabato solo sino alle 14. Lager, Märzen, Weissbier,Ungespundetes e Bockbier formano una gamma classica e rispettosa della tradizione locale. Per chi non lo sapesse Bamberga è la città delle Rauchbier, birre affumicate; la leggenda racconta che a causa di un incendio un birraio si ritrovò con le proprie scorte di malto accidentalmente affumicate e, non potendo acquistarne altro, fu costretto ad utilizzarlo ugualmente. I motivi reali erano invece molto più pratici: l’orzo doveva essere in qualche modo essiccato e spesso non era possibile farlo lasciandolo all’aria aperta, sotto al sole. Per questo si utilizzava il fuoco che, assieme al fumo sprigionato dal legno, rendevano il malto affumicato. E’ solo grazie al processo tecnologico che è stato possibile utilizzare combustibili e tecniche diverse (i forni moderni) per essiccare il malto senza renderlo affumicato. Ma a Bamberga la tradizione  del malto affumicato tramite tizzoni ardenti di legno di faggio è ancora viva e, nel caso della Spezial, avviene ancora all’interno del birrificio stesso.

La birra.
La Märzen affumicata di Spezial si veste di color ebano con accesi riflessi ambrati; la schiuma, cremosa e compatta, ha un'ottima ritenzione. Difficile chiedere di più all'aroma di una Rauchbier:  ci sono profumi di speck (o geraucht Schinken per restare in zona), di camino acceso, caramello, legno, qualche nota terrosa. La scuola tedesca vuole birre facili da bere e questa non fa eccezione: la bassa carbonazione le permette di scorrere senza nessuno spigolo. Caramello, pane nero, qualche lieve nota biscottata sono il supporto sul quale s'appoggia l'intensa affumicatura: c'è più legno che speck in una bevuta intensa al cui equilibrio contribuiscono una discreta attenuazione, una lieve acidità ed un accenno d'amaro terroso. Tutti gli elementi elencati sino ad ora ritornano delicatamente anche nel retrogusto, un piccolo compendio di una una Rauchbier davvero ben fatta, pulita e precisa. Un piccolo gioiello da vedere, odorare e gustare, sopratutto se amate lo stile.
Formato 50 cl., alc. 5.3%, scad. 20/12/2018, prezzo indicativo 3.50-4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 28 novembre 2018

De Halve Maan Straffe Hendrik Wild 2015

La Brouwerij Halve Maan venne fondata nella splendida città belga nel 1856 da Leon Maes,  conosciuto anche come Henri I, capostipite della famiglia che ancora oggi la guida. Il marchio Straffe Hendrik fu inventato nel 1981 da Veronica Maes per celebrare la statua eretta a Bruges di St. Arnoldus, patrono di tutti i birrai; la birra (una Tripel) divenne molto popolare e si dice che il sindaco di Bruges l'avesse fatta divenire la bevanda ufficiale di tutte le ""celebrazioni"". Il calo dei consumi e le conseguenti difficoltà economiche costrinsero la famiglia Maes a cedere il marchio, nel 1988, alla Riva NV. E mentre la Riva era impegnata a fare altri acquisti (nel 2001 comprò anche la Liefmans), a Bruges Xavier Vanneste, figlio di Veronica Maes, si occupava della ristrutturazione e dell'ammodernamento della Halve Maan, che culminò nel lancio della Brugse Zot (2005). 
Nel 2007 la Riva dichiarò fallimento, ed i suoi marchi furono rilevati dalla Duvel Moortgat; l'anno successivo, Xavier riuscì a riacquistare dalla Duvel il brand Straffe Hendrik, riportandolo a casa. Brugge riebbe così la sua tripel: ""per me fu molto importante riprendere il marchio, dopo esattamente venti anni. Straffe Hendrik (“Henri il forte”) parla della dinastia della famiglia Maes, nella quale ci sono stati ben cinque Henri che hanno prodotto birra a Bruges"". Xavier adattò la ricetta originale agli impianti più moderni e capienti, che consentirono anche la nascita di una seconda  Straffe. Nel 2010 fu infatti lanciata la Quadrupel, una sostanziosa Belgian Strong Ale dall'importante contenuto alcolico (11%), seguita nel 2014 dalla Straffe Hendrik Wild, ovvero una tripel rifermentata con brettanomiceti.

La birra.
Viene proposta al pubblico per la prima volta nell’aprile del 2014 la versione “wild” della tripel Straffe Hendrik: i brettanomiceti vengono utilizzati per la rifermentazione nelle bottiglie che maturano per tre mesi nel magazzino del birrificio prima di essere messe in vendita. La ricetta della tripel annovera un mix di sei diverse varietà di malto, luppoli Saaz e Styrian. Da allora la Straffe Hendrik Wild viene prodotta ogni anno; vediamo che effetto hanno avuto sul millesimo  2015 i tre anni passati in cantina. 
Il suo colore è un arancio piuttosto velato, mentre l’esuberante schiuma pannosa è tipica espressione dei lieviti selvaggi, assoluti protagonisti al naso: cuoio, sudore e  pelle di salame disegnano un profilo “funky”  nel quale c’è davvero poco spazio per i ricordi sbiaditi di una tripel, ovvero biscotto e frutta candita. Molte, forse troppe bollicine rendono la bevuta molto vivace ma un po’ ruvida: ai brettanomiceti il compito di renderla molto secca e di nascondere l’alcool (9%) in maniera quasi diabolica. Il gusto rispecchia completamente l’aroma e il risultato non rientra particolarmente nelle mie corde: tanto funky, cuoio e terra, qualche nota pepata, mancano quei contrappunti e quei contrasti che dovrebbero provenire dalla componente tripel, quasi completamente sparita. Solo nel finale l’alcool mette la testa fuori dal guscio riscaldando gli ultimi istanti di una birra che mi pare troppo monocorde e noiosa, priva di spunti.
Formato 33 cl., alc. 9%, lotto 2015, scad. 09/03/2020

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 27 novembre 2018

Firestone Walker Velvet Merkin 2017

Velvet Merlin, Nitro Merlin e Velvet Merkin; chiudiamo il cerchio con la birra che ha dato origine a tutto. Nel 2004 il birrificio californiano Firestone Walker aveva lanciato la sua prima stout all’avena, elaborazione di una ricetta che il birraio Matt Brynildson aveva realizzato da homebrewer traendo ispirazione dal libro The Real Ale Almanac di Roger Protz. La birra, come prevede la prassi, venne “benestariata” dai proprietari Adam Firestone e David Walker che decisero di introdurla inizialmente come produzione autunnale disponibile solo alla taproom del birrificio: il nome scelto fu Velvet Merkin. Solo in seguito, quando la crescente  domanda dei clienti per birre “scure” ne permise la produzione su grande scala, venne decisa la messa in bottiglia: a quel punto il problema era nome.  Il termine “merkin” in inglese indica infatti una “mini parrucca" che viene utilizzata per coprire i genitali e che, al giorno d’oggi, viene utilizzata dall’industria cinematografica quando bisogna girare delle scene di nudo.  Per la distribuzione al grande pubblico la birra fu allora rinominata Velvet Merlin, un riferimento al mago Merlino ma anche al soprannome del birraio Brynildson: “inizialmente non ero contento, ma poi ho dovuto ammettere che potevano sorgere dei problemi a distribuire una birra chiamata Velvet Merkin. Dopo tutto la parola davvero importante nel nome è Velvet (velluto) in quanto descrive la consistenza che ho voluto dare a questa birra”. 
Scomparso dai radar, il nome Velvet Merkin è stato assegnato alla versione invecchiata in botti di bourbon della stessa birra: una variante che è sporadicamente apparsa per molti anni solo in fusto alla taproom del birrificio e che veniva principalmente utilizzata per formare l’Anniversary Ale (blend di birre barricate) con la quale ogni anno Firestone festeggia il proprio compleanno. Ciò non le ha comunque impedito di racimolare nel 2010 e nel 2011 due medaglie d’oro al Great American Beer Festival. 
E’ soltanto a settembre 2013 che Firestone Walker si decide ad imbottigliare la birra nell’ambito della Proprietor’s Reserve; questo l’annuncio del birraio Matt Brynildson: “sino ad ora si poteva assaggiare la Velvet Merkin solo in occasione di eventi speciali o alla nostra tasting room. Questa birra è diventata oggetto di culto e la gente ci perseguitava per averla. Quando si parla d’invecchiamenti in botte è facile orientarsi su birre dall’elevato contenuto alcolico, almeno 10%,  perché ciò favorisce la stabilità nel tempo della birra all’interno della botte. Ma col tempo siamo diventati sempre più bravi a gestire in botte anche birre dal contenuto alcolico più basso. L’alcool gioca un ruolo fondamentale nel carattere di una birra barricata, e se riesci ad abbassarlo tutti gli altri sapori emergono maggiormente. Nel caso della Velvet Merkin, nella birra di partenza dominano il caffè e il cioccolato fondente ma dopo un anno in botte emergono cioccolato al latte e vaniglia; per questo utilizziamo solamente botti ex-bourbon”. Per l’occasione vennero messe in vendita 3500 casse di bottiglie da 65 centilitri. Nel 2015 la terza edizione della Velvet Merkin vede una piccola modifica: “abbiamo aggiunto in botte una piccola percentuale di Milk Stout per arrotondare la sensazione palatale – dice Brynildson - E’ difficile da percepire, ma fa la differenza; avremmo potuto evitare di rivelare questo dettaglio, ma vogliamo essere trasparenti”. Anche nel 2015 furono commercializzate 3500 casse di bottiglie da 65 centilitri.

La birra. 
Non è ben chiaro quale percentuale di Firestone Walker sia rimasta in mano ai fondatori Adam e David dopo la “fusione” del 2015 con i belgi della Duvel Moortgat. L’aumentata capacità produttiva ha comunque permesso a noi europei di mettere le mani su birre un tempo inaccessibili per chi non si trovasse in California al momento della mesa in vendita. In Italia sono di recente arrivate bottiglie della edizione 2017 di Velvet Merkin, apparsa negli Stati Uniti nel settembre dello scorso anno nel nuovo e ridotto formato da 35,5 centilitri. La birra è stata invecchiata in varie botti di bourbon provenienti dalla distilleria Heaven Hill ed utilizzate per produrre marchi come Elijah Craig e Old Fitzgerald;  la ricetta (della Velvet Merlin) include malti Maris Otter, 2-Row Pale, Roast Barley, English Dark Caramel, Medium Caramel, Carafa  e avena (15%); l’unico luppolo utilizzato è il Fuggle coltivato negli Stati Uniti. 
Vestita di ebano scuro, forma un bel cappello di schiuma cremosa e compatta che mostra buona ritenzione. Il naso è pulito ma poco intenso; orzo tostato, caramello e caffè sono in primo piano e il contributo del passaggio in botte è un po’ sotto traccia. Si avvertono comunque sfumature di bourbon, legno, cocco tostato. Nonostante l’utilizzo dell’avena la sensazione palatale non è particolarmente cremosa e risulta meno morbida rispetto alla sorella non barrel-aged. Il carattere barricato è molto più evidente al palato dove il bourbon è subito protagonista e costringe al ruolo di semplice comparsa caramello, tostature, caffè, cioccolato. La chiusura  (legno e tannini) è abbastanza secca, il retrogusto di bourbon è caldo e avvolgente. Naso meno intenso ma più interessante e complesso di un gusto intenso che tuttavia risulta un po’ troppo monocorde:  la Velvet Merkin 2017 di Firestone Walker si sorseggia con piacere ma suscita qualche interrogativo, soprattutto perché il prezzo del biglietto è di prima fascia.
Formato 35.5 cl., alc. 8.5%, IBU 33, imbott. 21/08/2017, prezzo indicativo 12.00-20.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 26 novembre 2018

DALLA CANTINA: Extraomnes Quadrupel 2018 vs 2013


Sembra ieri ma sono già passati otto anni. Correva l’anno 2010 e debuttava uno dei birrifici italiani più attesi al varco: Extraomnes capitanato dal sanguigno Luigi “Schigi” D'Amelio. Blond, Saison, Bruin e Tripel  le birre scelte per iniziare un percorso che vide, per le festività natalizie dello stesso anno, l’arrivo della Kerst “qui pensiamo di fermarci per un bel po’, ci concentreremo per migliorare sempre di più queste piuttosto che ad allungare la lista delle referenze”. Così dichiarava D’Amelio in un intervista a Cronache di Birra, ma a pochi mesi di distanza, nella primavera del 2011, fu presentata all’Italian Beer Festival di Milano una birra destinata a diventare in poco tempo uno dei grandi successi del birrificio di Marnate, Varese:  la Zest. Nello stesso anno arrivarono anche la imperial stout al caffè Donker e, a Natale, la prima Kerst Reserva. 
Facciamo ora un salto in avanti nel tempo, tralasciamo altre novità arrivando al 2013 quando il birrificio festeggiava la cotta numero 200. Le celebrazioni per la numero cento erano state affidate alla Hond.erd, ma questa volta a Marnate decisero di fare le cose più in grande andando a colmare un importante vuoto nella gamma di un birrificio che si rispecchia nella tradizione belga: quella delle grandi Belgian Strong Dark Ales, o Quadrupel che dir si voglia. Una birra celebrativa ma non solo, come riportava a suo tempo il blog Varesenews: “vogliamo che la Quadrupel entri nella produzione standard; ovviamente aspettiamo il responso del mercato ma da questa birra ci attendiamo molto”.  Così è stato oggi la Quadrupel è una presenza fissa anche alle spine dei due locali di Extraomnes:  il Bier & Cibo a  Castellanza (Varese) e l’ultimo nato a Savona.

La birra.
Come ogni Quadrupel che si rispetti anche quella di Extraomnes  dovrebbe essere una buona candidata per passare del tempo in cantina. Mesi, anni? A voi la decisione e la scelta di correre il rischio che ogni invecchiamento porta inevitabilmente con sé.  Ho voluto oggi mettere a confronto una delle prime bottiglie prodotte nel 2013 con una nata all’inizio di quest’anno. 
Partiamo con la Quadrupel 2018 (9.3%) che si presenta vestita con la classica tonaca di frate (cappuccino, per i pignoli) la cui torbidità è illuminata da bagliori rossastri; la schiuma non è particolarmente generosa ma è cremosa, compatta ed ha una discreta ritenzione. Il naso è ricco, dolce, piacevolmente complesso: uvetta e datteri, prugna,  pera, miele e biscotto, caramello e zucchero candito, qualche accenno di pasticceria, una delicata speziatura infusa dal lievito trappista. La bevuta è perfettamente coerente con l’aroma anche se risulta un po’ meno definita e seducente:   il dolce è ben attenuato e bilanciato da un lieve amaro finale nel quale convivono note di frutta secca a guscio e delicate tostature, il congedo è un morbido e caldo ricordo etilico di frutta sotto spirito. Gran bel naso, interessante e complesso,  bevuta che forse non mantiene tutte le aspettative ma che rimane di ottimo livello. Alcool abbastanza ben gestito ma piuttosto evidente in alcuni passaggi.

La Quadrupel 2013 è visivamente più torbida della 2018  ed è sporcata da piccolissime particelle di lievito in sospensione; la schiuma  fa molta fatica a formarsi e si dissolve molto rapidamente. Dopo cinque anni in cantina l’aroma non regala piacevoli note ossidative che portano alla mente vini marsalati e liquorosi: scomparse le spezie, sono protagonisti gli esteri fruttati (prugna, uvetta, fico), lo zucchero candito e il caramello. Il naso è gradevole ma per eleganza ed ampiezza dello spettro aromatico la mia preferenza va alla bottiglia più giovane. Al palato la birra risulta molto morbida e tutti gli elementi molto ben amalgamati tra di loro; l’alcool è meno in evidenza ma la bevuta è ancora potente e vigorosa. Dominano prugna e uvetta ma numerose sono le suggestioni di vino fortificato e liquorose; anche in questa bottiglia il dolce è molto ben attenuato e bilanciato da leggere tostature ed è un piacere abbandonarsi alla lunga scia etilica che accompagna ogni sorso. Questa “vecchietta” di cinque anni è ancora in ottima forma anche se più mansueta rispetto alla giovane nipote: ogni spigolo è stato smussato e per quel che mi riguarda vince il confronto. E’ davvero un piacere passare una serata assieme a lei, come ad ascoltare il racconto dei nonni su di un tempo che non c’è più ma che sembra essere sempre più affascinante di quello in cui viviamo oggi.
Il verdetto? Lasciate qualche anno in cantina questa Quadrupel e lei saprà ricompensarvi.
Nel dettaglio:
Quadrupel 2018, 33 cl., alc. 9,3%, lotto 015 18, scad. 01/01/2020 
Quadrupel 2013, 33 cl., alc. 9,3%, lotto 136 13, scad. 31/05/2016
Prezzo indicativo 4.00-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 23 novembre 2018

Hoppin’ Frog Rocky Mountain DORIS

Ammetto il mio debole per le imperial stout di  Hoppin’ Frog, birrificio guidato dal 2006 da Fred “la rana” Karm ad Akron, Ohio.  BORIS The Crusher, DORIS The Destroyer  e TORIS The Tyrant rappresentano per me una delle massime espressioni dello stile: pochi fronzoli, tanta sostanza, e lontane dall’ondata di birre-dessert che ha invaso negli ultimi tempi il mondo della birra artigianale, soprattutto americana. BORIS viene prodotta dal 2006 ed è la birra che ha portato a Karm i primi riconoscimenti e le prime medaglie (oro nel 2008 e nel 2011) al Great American Beer Festival, contribuendo in maniera decisiva al successo di Hoppin’ Frog:  le sue sorelle maggiori DORIS e TORIS non sono da meno.
Giusto sfruttarne il successo realizzando quelle molteplici varianti che rappresentano uno strumento indispensabile per assecondare la sete di novità dei beer geeks: in questa occasione avevamo passato in rassegna quelle di BORIS; per quel che riguarda DORIS il proliferare è stato meno evidente. Oltre a tre diversi invecchiamenti (Barrel Aged DORIS, Barrel Aged DORIS Royale e Rocky Mountain DORIS) abbiamo le derive Marshmallow DORIS e Peanut Butter DORIS, avvistate sporadicamente solo alle spine della taproom.

La birra.
Fred  Karm è notoriamente molto restio nel divulgare informazioni sulle proprie birre e quindi nulla sappiamo sulla ricetta di DORIS; non è neppure mai stata rivelata la provenienza delle botti di whiskey (Heaven Hill?, si mormora) utilizzate per produrre la versione “standard” della Barrel Aged DORIS.  Nel 2016 Hopping Frog ha comunque messo in vendita due nuove edizioni “Rocky Mountain” di BORIS e DORIS, realizzate con botti ex-whiskey single malt provenienti, come il nome suggerisce, dal Colorado. Rocky Mountain DORIS debutta al birrificio il 14 maggio 2016 con, garantisce Karm, un “carattere molto più assertivo rispetto alla nostra standard Barrel-Aged D.O.R.I.S. Questa versione è una dimostrazione di come lavoriamo duro per dare ai nostri clienti solo il meglio”.   
DORIS è vestita completamente di nero ma come al solito ad impressionare è il colore scuro e minaccioso della propria schiuma che, in questa versione, ha una discreta ritenzione. Il naso è ricco e caldo, avvolgente: il whisky bagna delicatamente fruit cake, cioccolato, toffee, prugne e uvetta, tostature e qualche accenno di vaniglia. La sensazione palatale è oleosa e densa, ma leggermente meno morbida e “delicata” (per quanto può essere una imperial stout da 10.5%) della versione non barricata. Potente ed esuberante, bilanciata e non priva di una certa eleganza: nessuna sorpresa nel bicchiere, anche questa versione di DORIS regala grandi soddisfazioni a colpi di melassa, fruit cake, vaniglia, cioccolato e frutta sottospirito; l’amaro delle tostature e qualche ricordo di caffè viene enfatizzato dalla generosa luppolatura. Lascia una calda, lunga e morbida scia etilica ricca di whisky, legno e frutta sotto spirito. 
Il modus operandi è sempre quello: comodi in poltrona, bicchiere tra le mani, sorseggiare in tutta tranquillità, riscaldati e coccolati. I due anni dalla messa in bottiglia l’hanno ammorbidita e resa un po’ più mansueta: amaro, tostature ed alcool sono molto ben amalgamati tra di loro e nessuno cerca di prevalere. Livello alto e, anche se impegnativa, delizia per il palato e piacere per i sensi. 
Formato 65 cl., alc. 10.5%, imbott.05/2016, prezzo indicativo 19,00-27,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 21 novembre 2018

Electric Bear Above the Clouds IPA & Inspector Remorse Porter

Liquidata nel 2012 la propria società di informatica, Chris Lewis ha deciso d’investire 300.000 sterline per trasformare l’hobby dell’homebrewing in una professione.  Nell’estate del 2015 nella bella Bath,Somerset inglese, nasce il birrificio Electric Bear: 450 metri quadrati in un edificio industriale (curiosamente chiamato The Maltings) nel quale ha trovato posto un impianto da 23 ettolitri. Il nome scelto è un tributo al vecchio birrificio Bear che ha operato nella stessa area sino all’aprile del 1942, quando fu distrutto da un bombardamento tedesco. I maligni vociferano che le produzioni casalinghe di Lewis non fossero granché: che sia vero o no, per avviare il birrificio viene assunto Guillermo Alvarez giovane birrario predestinato. Suo nonno era uno dei proprietari del Gruppo Modelo in Messico (quelli della Corona, per intenderci) e suo zio possiede tre birrifici (BridgePort  in Oregon, Trumer in California e Spoetzl in Texas) nonché un distributore di birra negli Stati Uniti. Tra le precedenti esperienze professionali di Alvarez nel Regno Unito si sono St Austell e Rebel Brewing in Cornovaglia. All’agenzia media Clarity viene affidata la campagna #BuildingaBrewery che documenta su tutti i social media la costruzione e il debutto del birrificio: “mi ha facilitato il lavoro, era come se i clienti mi stessero già aspettando – dice  Justin Roberts, Electric Bear sales manager – ci avevano visto su Twitter ed erano già ansiosi di conoscere le nostre birre”. 
Il birrificio festeggia il primo compleanno aggiungendo due fermentatori da 4000 litri e aumentando il ritmo da due a quattro cotte la settimana per poter soddisfare tutta la domanda; la Milk Stout Mochachocolata Ya Y0, la Heisenberg Doppelbock e la lager alla segale SamuRye portano a casa medaglie ai World Beer Awards del 2016.  Nello stesso anno viene anche inaugurata la taproom dove viene attivato lo Speidel Braumeister da 20 litri un tempo usato da Lewis nel proprio garage di casa: a lui il compito di produrre birre sperimentali e in esclusiva per la taproom, aperta sabato e domenica da mezzogiorno alla sera.  Tutti i giorni è comunque possibile recarsi in birrificio per acquistare direttamente bottiglie, lattine e merchandising. 
A gennaio del 2017 Alvarez viene sostituito dal nuovo head brewer Ian Morris, proveniente da Arbor Ales e Bingham Brewery: assieme al nuovo birrario arrivano anche le prime lattine, formato ormai imprescindibile per competere nella scena UK. In quasi tre anni d’attività sono già state commercializzate un centinaio di diverse etichette.

Le birre.
Debutta nel febbraio del 2017 la Above the Clouds (6.2%) una IPA che il birrificio promette essere poco amara, morbida e più facile da bere di un succo di mango. La ricetta prevede malti Pale e Cara Light, frumento, luppoli Summit, Citra e Chinook. Il suo colore è dorato e piuttosto velato, la schiuma generosa schiuma candida è compatta e mostra buona ritenzione.  Ananas, arancia, lime, litchi e mango formano un aroma pulito e di buona intensità anche se non troppo definito. Le premesse comunque positive non vengono completamente soddisfatte al palato: gli elementi in gioco sono sempre gli stessi ma l’intensità subisce un calo, soprattutto per quel che riguarda la componente fruttata. C’è poca secchezza e non metterei la mano sul fuoco del diacetile, ma l’impressione c’è: l’amaro è abbastanza intenso ma di breve durata, l’alcool non è in evidenza ma potrebbe essere celato maggiormente. Nel complesso è una IPA discreta ma ancora poco definita, la bevuta è piacevole ma risulta un po’ anonima e priva di personalità. Difficile ricordarsela in un mercato sempre più affollato di birre più o meno simili. 

Passiamo ora alla Inspector Remorse (4.7%), prima Porter prodotta dal birrificio di Bath:  il nome “ispettore rimorso” è abbastanza singolare ma non sono riuscito a capire se dietro a questa scelta ci sia un riferimento cinematografico, musicale o cos’altro.  Non ci sono ingredienti aggiunti ma il birrificio asserisce di aver prodotto una specie di biscotto (digestive) al cioccolato in forma liquida; la ricetta elenca malti Pale, Chocolate, Biscuit, Crystal, avena, frumento e luppolo Willamette. 
Nel bicchiere si presenta di color ebano, la schiuma è cremosa, compatta ed ha buona persistenza. Annusando il bicchiere “alla cieca” punterei sicuro su di una Brown Ale: affiorano profumi di biscotto e pane nero, frutta secca, caramello, qualche remoto accenno di frutti di bosco e di caffè. Nonostante l’utilizzo di avena Electric Bear realizza una Porter che asseconda la sua gradazione alcolica quasi sessionabile, puntando a scorrere veloce senza nessun impedimento. Il gusto è invece molto più “in stile” e offre una buona intensità nella quale caramello e tostature trovano un ottimo equilibrio per supportare l’amaro del caffè  (e mi ritrovo perfettamente con la descrizione dell’etichetta) estratto a freddo. Il percorso va poi via via scemando in un finale meno amaro nel quale si fanno strada biscotto e cioccolato: pulizia ed equilibrio non mancano in una bevuta facile ma non banale, piuttosto gradevole. Una birra ben riuscita, ha quella personalità che manca alla IPA, ma secondo me si potrebbe osare ancora un po’ di più.
Nel dettaglio
Above the Clouds IPA, 44 cl., alc.6,2%, lotto 1193, scad. 10/04/2019, prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)
Inspector Remorse, 44 cl., alc. 4,7%, lotto 1191, scad. 03/04/2019,  prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 20 novembre 2018

Stijl Russian Imperial Stout

Con un impianto Speidel da 50 litri in una stanza di soli otto metri quadrati il birrificio Stijl è sicuramente tra i più piccoli in attività nei Paesi Bassi; lo inaugurano ad Almere nel gennaio del 2016 Raymond Geraads, la moglie Anneke Geraads-Broeren e l’amico nonché vicino di casa Robin de Winter. Raymond, pilota civile, ha partecipato come giudice birrario in diversi concorsi regionali e viene da cinque anni di homebrewing nel corso dei quali ha racimolato diversi premi con il proprio impianto casalingo “De Bolle Beer”; Robin è invece cuoco e lavora nell’horeca/catering. 
Quattro sono le birre con le quali Brouwerij Stijl  decide d’iniziare il proprio percorso:  Saison, Wheat Ale, Double India Pale Ale e Russian Imperial Stout. Il nanobirrificio nasce essenzialmente dalla necessità di poter vendere commercialmente le birre prodotte in casa, ma a colpi di cinquanta litri alla volta non è ovviamente possibile far molta strada. Ben presto le ricette vengono eseguite su scala maggiore presso la Berging Brouwerij, a cinquanta chilometri di distanza. L’impianto da cinquanta litri, rinominato Stijl Bierlab, viene utilizzato per testare le nuove ricette o realizzare birre sperimentali/occasionali su piccola scala: la prima Bierlab ad essere commercializzata è stata una Milkshake IPA, disponibile in ben 24 bottiglie. 
Internet non abbonda d’informazioni sul birrificio Stijl, ma da quanto ho capito all’inizio del 2017  Robin de Winter ha lasciato la società che è ora gestita solamente dai coniugi Geraads: Raymond in sala cottura, Anneke alle prese con la parte amministrativa e quella creativa, sia che si tratti di ricette, etichette o di social media.  

La birra.
Imperial Stout prodotta con sale marino e vaniglia: lo ammetto, in linea di principio non l’avrei presa in considerazione in quanto l’abbinamento tra i due ingredienti non mi pare particolarmente invitante. Mi è sfuggito quel “zeezout” (sale marino) su di un etichetta che annovera malti Pale Ale, Chocolate, Special B, Crystal , orzo tostao, luppolo Columbus e vaniglia. 
Nel bicchiere si presenta vestita di nero, la poco generosa schiuma è cremosa e compatta ed ha una discreta persistenza. Al naso arrivano profumi di fruit cake, vaniglia, orzo tostato, tabacco, un filo di fumo; pulizia e finezza non sono esemplari ma l’intensità è piuttosto buona.  Le bollicine sono fini ma un po’ troppo presenti e disturbano quella che sarebbe una sensazione palatale oleosa con un corpo medio-pieno. Il gusto? Segue con buona corrispondenza l’aroma riproponendone le caratteristiche: c’è intensità ma eleganza e precisione scarseggiano un po’ e i passaggi sono un po’ bruschi: il risultato è un agglomerato gradevole nel quale si riconoscono caramello e fruit cake, vaniglia, frutta sotto spirito. Il carattere tostato/torrefatto si fa più evidente nella seconda parte della bevuta, quando emerge anche una leggera nota salina/salmastra. L’alcool (10%) riscalda senza fare male e il percorso si chiude con l’amaro intenso di tostature e fondi di caffè, sospinto da una generosa luppolatura e “sporcato” da qualche frammento di cenere.  Sale e vaniglia evitano lo scontro entrando in scena in momenti diversi: l’imperial stout di Stijl è apprezzabile nelle intenzioni, un po’ meno nell’esecuzione, discreta e non memorabile. 
Formato 33 cl., alc. 10%, scad. 01/05/2019, prezzo indicativo 4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 19 novembre 2018

Bavaria 8.6 IPL

Ha di recente cambiato nome in Swinkels Family Brewers, ma è a tutti meglio nota come Bavaria: secondo maggior produttore olandese di birra dietro al colosso Heineken nonché una delle più grandi malterie europee. Un fatturato di circa 700 milioni di euro, due terzi dei quali provenienti dall’export in Europa (Belgio, Francia e Italia soprattutto) e in Etiopia. 
La famiglia Swinkels controlla Bavaria da sette generazioni: le prime evidenze documentate risalgono al 1680 quando Dirk Vereijken possedeva un birrificio a Lieshout, poi passato nelle mani delle sue tre figlie. L’ultima, Brigitta Moorrees, sposò nel 1764 Ambrosius Swinkels e assieme ottennero il controllo di un birrificio che da allora è nelle mani della stessa famiglia. Il nome Bavaria venne utilizzato a partire dal 1923 quando il birrificio si specializzò nella produzione di quelle lager a bassa fermentazione che dominavano il mercato: all’inizio della seconda guerra mondiale la produzione annua toccò i 40.000 ettolitri distribuiti in quasi ogni regione dei Paesi Bassi. E’ solamente all’inizio degli anni ’70 che Bavaria iniziò a guardare al di fuori dei confini nazionali: Europa ma anche paesi islamici, grazie all’introduzione della prima birra analcolica. Negli anni 80 la produzione aveva già raggiunto il milione di ettolitri: il 2017 si è chiuso a quota 7.500.000 grazie a tre siti produttivi nei Paesi Bassi, due in Belgio e uno in Etiopia. 
Oggi gli Swinkels operano attraverso una serie di marchi: oltre a Bavaria abbiamo Cornet, Swinckels', 8.6 Original, Habesha, Arthur's Legacy, Estaminet, Claro, Bock, Hollandia, Kroon e Landerbräu, ma non solo. Nel 1998 fu stipulato un accordo con i monaci trappisti di Koningshoeven per la produzione e la distribuzione del marchio La Trappe; venendo a mancare uno dei requisiti fondamentali per il riconoscimento di “birra trappista” (la produzione, o almeno il suo controllo, da parte di monaci trappisti), la International Trappist Association ordinò dalle etichetta la rimozione del logo “Authentic Trappist Product“. I monaci ottennero il diritto a riutilizzarlo solo nel settembre 2005 dopo aver dimostrato di aver ripreso il controllo del processo produttivo all’interno del monastero. Nel 2015 gli Swinkels hanno acquistato il 35% del birrificio olandese De Molen per una partnership focalizzata sulla distribuzione nel BeNeLux: “per un piccolo birrificio non è facile vendere la birra nei Paesi Bassi  – ha tagliato corto Olivier Menno, che detiene ancora la maggioranza assieme a  John Brus – e se non hai una rete distributiva puoi creartene una, ma è costoso”. Arriviamo così al 2016 quando Bavaria ha acquistato il 60% del birrificio belga Palm (e quindi anche Robenbach, Steenbrugge e Brugge Tripel); è qui dove viene prodotto oggi il marchio Urthel, acquisito nel 2012 assieme al microbirrificio De Leyerth di Hildegard Overmeire.

La birra.
Il marchio 8.6, nato con la prima Strong Lager dalla corrispondente gradazione alcolica in percentuale, è andato via via espandendosi con la 8.6 Black (7.9%), la 8.6 Gold (6.5%), la 8.6 Extreme (10.5%) e la 8.6 Red (7.9%). Lo scorso marzo alcuni mercati europei hanno visto il lancio della 8.6 IPL – India Pale Lager (7.0%) la cui pubblicità redazionale recita:  "profumatissima  e fresca, l’ultima  novità del Gruppo Bavaria risponde alle richieste di un consumatore sempre più consapevole, attento e desideroso di sperimentare nuovi stili di birra. Ispirandosi alla IPA – India Pale Ale, di cui mantiene il carattere luppolato intenso e la naturale ricchezza aromatica, 8.6 IPL è caratterizzata dalla bassa fermentazione tipica delle lager, che la rende meno amara e più facile da bere (sic!). Grazie alla tecnica di fermentazione tipica delle lager infatti, 8.6 IPL risulta non solo più rinfrescante e amabile, ma anche priva del difficile retrogusto tipico della IPA. Prodotta con malto  di  frumento e  malto  d’orzo,  8.6  IPL ha  un  piacevole retrogusto agrumato e fruttato  grazie ai luppoli Citra e Calypso, che esaltano il suo carattere esclusivo e unico.” 
Ma quello a cui non ho colpevolmente fatto caso è la  texture polisensoriale della lattina “che esalta il vero protagonista di questa birra: il luppolo. Stampato con inchiostro termico sulla parte frontale della lattina, il fiore di luppolo cambia colore e diventa verde quando si raggiunge la perfetta temperatura di servizio (7°)”. 
Dorata e limpida, forma nel bicchiere un impeccabile cappello di candida schiuma  compatta e cremosa. L’aroma non è particolarmente intenso ma, benché privo di fragranza, risulta pulito: pane, crackers, qualche traccia di agrumi, soprattutto arancia. Un biglietto da visita poco entusiasmante che rimane tuttavia la parte migliore di questa 8.6 IPL.  La bevuta scende ulteriormente d’intensità e si risolve in una mediocre lager industriale dolciastra e lievemente burrosa nella quale c’è qualche traccia di marmellata d’agrumi. Le manca secchezza ma quello che non si fa mancare è il classico "colpo d’alcool” tipico della gamma “strong” 8.6: chi le ha provate saprà a cosa mi riferisco; il percorso termina debolmente con un amaro erbaceo abbastanza corto, subito incalzato da un retrogusto dolciastro che vuole tenere a distanza quel “difficile retrogusto tipico della IPA”.   Aroma complessivamente accettabile, gusto poco intenso e poco piacevole: per gli stessi soldi meglio virare sulla  IPA della Faxe. Mi spiace, ma per quel che mi riguarda la 8.6 IPL può restarsene tranquillamente dov’è, sullo scaffale del supermercato.  
Formato 50 cl., alc. 7.0%, lotto CBLG 50153 R, scad. 01/02/2019, prezzo indicativo 1,59 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 15 novembre 2018

Amager / Modern Times Black Nordic Skies

Il birrificio danese Amager celebra ogni anno il 4 di luglio con l’Amerikanerdag, un weekend nel quale gli Stati Uniti sono protagonisti a trecentosessanta gradi con birra, cibo, musica rockabilly ed esibizioni motoristiche. Per l’occasione vengono anche rivelate offerte per la prima volta al pubblico una serie di birre che il birrificio fondato nel nel 2006 da Morten Valentin Lundsbak e Jacob Storm ha realizzato assieme a colleghi statunitensi: sovente molti di loro si  trovano Copenhagen qualche mese prima per partecipare alla Mikkeller  Beer Celebration. 
A luglio 2018 sono quindi arrivate sette nuove collaborazioni, tutte nel nuovo formato da 33 centilitri che Amager ha da poco iniziato ad utilizzare. Con Other Half (New York) è stata realizzata la Heavy Mental, una Double Dry-hopped Imperial IPA  (9.4%); assieme a Mikerphone (Chicago) la  All Shoo Up, una Double Dry-Hopped Vanilla Milkshake IPA  (7%);  KCBC  - Kings County Brewers Collective (New York) ha sfornato la Viking Tango Time, una Double Dry- Hopped Rye IPA  (7%);  da Coppertail Brewing  (Tampa, Florida) è arrivata Kiss Of The Coppertail, una Florida-Style IPA  (6,5%). Con Pipeworks (Chicago) ci si è invece cimentati con  Electric Rattlesnæke, un Oaked Dark Barley Wine (9%) mentre il frutto della collaborazione con TRVE Brewing (True Heavy Metal Brewery, Colorado) è stata una Farmohouse Ale con mela cotogna (6%); dalla California sono infine arrivati i ragazzi di Modern Times per realizzare una imperial stout al caffè.

La birra.
Vi risparmio la lettura della storia del Cavaliere Solitario riportata sul retro dell’etichetta e passo dritto al sodo. Black Nordic Skies è un’imperial stout (10%) la cui ricetta prevede malti Pilsner, Pale, Munich, Chocolate, Low Chocolate e Special B, luppoli Columbus e Citra, lievito UK e caffè di imprecisata provenienza; da notare che Modern Times a San Diego produce anche il proprio marchio di caffè. 
Il suo colore è coerente con il nome: nera e impenetrabile alla vista mentre la schiuma, benché cremosa e compatta, è di dimensioni abbastanza modeste e poco persistente.  L’aroma è intenso e pulito, dominato dal caffè in chicchi ed espresso; c’è giusto lo spazio per qualche nota terrosa, di orzo tostato e di cacao amaro in sottofondo. Il corpo è medio-pieno, la consistenza è oleosa e leggermente viscosa ma la sua morbidezza è un po’ disturbata dalle bollicine. Anche al palato c’è caffè in abbondanza, accompagnato da quella liquirizia che non può mancare in una stout danese, tostature, cacao amaro  e qualche estero fruttato (prugna, uvetta); la bevuta è intensa ed offre una maggior complessità rispetto all’aroma, pur risultando meno pulita e meno definita. L’alcool potenzia e riscalda ogni sorso senza strafare, si chiude con l’amaro del torrefatto e del luppolo seguito da una lunga scia di caffè “corretto”. Livello indubbiamente alto ma anche qualche imprecisione in questa imperial stout prodotta a quattro mani da due stelle del firmamento brassicolo europeo ed americano; le “critiche” sono un atto dovuto sulla carta, per godersela è sufficiente rilassarsi in poltrona con il bicchiere tra le mani.
Formato 33 cl., alc. 10%, lotto 1858, scad. 01/07/2023, prezzo indicativo 6.00-7.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 14 novembre 2018

Jester King / Perennial Artisan Ale Enigmatic Taxa

Sono 1400 i chilometri che separano St. Louis, Missouri, da Austin, Texas: un viaggio attraverso le grandi pianure dell’Oklahoma che si svolge quasi tutto lungo la Interstate 44, una delle principali autostrade degli Stati Uniti centrali che core oggi su quello che sino al 1950 era parte della mitica Route 66. 
A St. Louis si trova Perennial Artisan Ales (qui gli incontri precedenti), birrificio fondato dal birriario Phil Wymore assieme alla moglie Emily, che dopo aver lavorato alla Grindstone (Columbia, Missouri), alla Goose Island ed alla Half Acre (Chicago) ha deciso di ritornare in Missouri per inaugurare il proprio birrificio, con l’intento dichiarato di “puntare ai beergeeks. Vogliamo fare birre per le quali la gente si entusiasmi”. Promesse mantenute, soprattutto se si guarda all’hype che aleggia attorno ad alcune delle loro imperial stout barricate. 
Altra “vecchia conoscenza” del blog è Jester King Craft Brewery, birrificio texano di Austin che ha aperto le porte nel 2010: a guidarlo i fratelli Jeffrey e Michael Stuffings. Dal 2013 Jester King ha deciso di focalizzarsi esclusivamente sulle fermentazioni miste e spontanee e, dal 2015, si definisce una vera e propria Farmhouse Brewery avendo acquistato altri 58 acri di terreno nei quali coltiva frutta e verdura.  Anche in Texas non sono immuni all’hype, con beergeeks che spesso si mettono pazientemente in fila per ore per acquistare bottiglie. 
Jester King e Perennial hanno in comune l’amore per la tradizione belga, anche se in Missouri l’hanno un po’ “trascurata” (virgolette d’obbligo) in favore delle imperial stout, stile che invece Jester King ha quasi completamente abbandonato, eccezion fatta per la Black Metal. Non poteva quindi che essere il Belgio il terreno sul quale confrontarsi ed incontrarsi per una collaborazione, chiamata Enigmatic Taxa, che è stata realizzata nel 2017; Stuffings di Jester King ammette di amare le Hommel Bier realizzata da Perennial, a sua volta ispirata dalla a noi più nota Poperings Hommelbier prodotta dal birrificio Van Eecke, una Belgian Ale generosamente luppolata con oli Brewer's Gold ed Hallertau raccolti nei vicini campi di Poperinge. Nella Hommel Bier di Perennial, birra con la quale il birrificio di St. Louis debuttò nel 2011, ci finirono però luppoli americani (Chinook, Columbus e, in dry-hopping, Simcoe, Cascade e Mt. Hood). Jester King ha invece intenzione di mettere in pratica quella che è una delle sue specialità: inoculo spontaneo di lieviti e fermentazioni in foudres di legno.

La birra.
L’acqua è quella proveniente direttamente dal pozzo del birrificio di Austin; i malti sono Abbey, Biscuit e Carafoam, i luppoli  Zythos, Cascade e Simcoe.  In una notte di febbraio 2017, Jester King e Perennial mettono a raffreddare il mosto nella coolship all’aria aperta aggiungendo scorza e succo di pompelmo fresco. La mattina successiva avviene il travaso in botti di legno:  nei foudres è stato lasciato il lievito utilizzato per fermentare la birra precedente, la brown ale Ol Oi. Dopo due mesi la birra è stata trasferita in tini d’acciaio per effettuare un dry-hopping di Cascade, Simcoe e un luppolo sperimentale della Oregon Hophouse chiamato X17; l’imbottigliamento è avvenuto il 15 maggio 2017 e la birra è stata poi fatta maturare per quattro mesi prima di essere messa in vendita, il 15 settembre alla tasting room del birrificio.  2700 bottiglie disponibili al costo di 14 dollari cadauna. 
Il suo colore è dorato antico, leggermente velato: leggero gushing, schiuma biancastra compatta e cremosa, praticamente indissolubile. Al naso pompelmo e limone sono accompagnati da note funky di legno, sudore, cantina e cuoio; man mano che la birra si scalda emergono in sottofondo piacevoli note di ananas e frutta a pasta gialla. Al palato le vivaci bollicine sono ammorbidite da accenni cremosi in sottofondo che non t’aspetteresti di trovare; il risultato è comunque azzeccatissimo. La bevuta è molto secca e caratterizzata dall’asprezza di pompelmo, limone, lime, mandarino e, in tono minore,  uvaspina e  mela verde; la componente rustica/funky si  snoda attraverso terra, cuoio, legno e cantina. Si chiude ovviamente con l’amaro della scorza d’agrumi ma c’è spazio anche per qualche tannino: è una birra estremamente rinfrescante e dissetante che, se lasciata riscaldare, regala anche qualche inatteso spunto vinoso.
Dietro ad un’apparente semplicità ci sono piccoli dettagli a creare una sorprendente complessità: non è il paradiso ma il risultato finale mi sembra di livello piuttosto alto.
Formato 75 cl., alc. 6.9%, 30 IBU, lotto 05/2017, prezzo indicativo 17.00-28.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 9 novembre 2018

DALLA CANTINA: Maredsous 8 (2010)

L’abbazia benedettina di Maredsous fu fondata nel 1872  a Deneé,  25 chilometri a sud di Namur: lo spettacolare edificio fu commissionato all’architetto Jean-Baptiste Béthune, massimo esponente del neogotico belga, dalla famiglia Desclée che ne finanziò la costruzione. Al suo interno vivono oggi una trentina di monaci; non vi è più in funzione un birrificio ma i monaci utilizzano ugualmente la birra come fonti di sostentamento per le proprie attività. Nel 1963, dopo essere consultati con l’Università di Lovanio, hanno concesso la licenza di produrre le proprie ricette al birrificio Duvel Moortgat: Blond (6%), Bruin (8%) e, a partire dal 1990, la  Tripel (10%).  
Parliamo oggi della scura Bruin/Brune che avevamo già incontrato sette anni fa; invecchiare una birra comporta quasi sempre più rischi che certezze, soprattutto se si esce dal quel perimetro di sicurezza costituito da quelle relativamente poche etichette che sappiamo essere in grado di affrontare il tempo regalando delle piacevoli soddisfazioni.  La Maredsous Bruin non è tra queste ma ho voluto ugualmente tentare la sorte, trattandosi di una birra che in teoria avrebbe alcune delle caratteristiche giuste per essere dimenticata in cantina, almeno secondo il manuale d’invecchiamento Vintage Beer di Patrick Dawson: colore scuro, gradazione alcolica sostenuta (8%), rifermentata in bottiglia.

La birra.
Dopo otto anni passati in bottiglia la Maredsous 8 si presenta visivamente ancora in splendida forma; la sua classica “tonaca di frate” è luminosa ed accesa da riflessi rossastri, la schiuma è ancora generosa, compatta e mostra una buona ritenzione. L’aroma ha perso in eleganza ma è ancora intenso, anche se gli esteri “sparano” un po’ troppo alle narici: dominano le note dolci della melassa e dello sciroppo di ciliegia, ci sono suggestioni di fragola e di uvetta, datteri, frutta secca a guscio, biscotto. 
Al palato risulta ancora molto carbonata ma il corpo ha inevitabilmente perduto un po’ di smalto e mostra qualche segno di cedimento. Il gusto è però molto meno interessante dell’aroma e, soprattutto, assai meno intenso: ci sono tracce di caramello, prugna e uvetta, un sciroppo dolce che richiama - fortunatamente in tono minore  - l’aroma. La bevuta parte dolce e poi si asciuga improvvisamente terminando con una fastidiosa astringenza; le bollicine sono troppo in evidenza e la birra non risulta particolarmente piacevole. Non c’è profondità e, in questo caso, gli anni passati in cantina non hanno apportato nulla di positivo, anzi. Esperimento fallito, almeno per il momento.
Formato 33 cl., alc. 8%, lotto 411, scad. 06/2013 (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 8 novembre 2018

Mastino Teodorico Baltic Porter

Debutta sul blog solamente oggi, con colpevole ritardo, il birrificio veronese Mastino che è in attività dal dicembre del 2007:  lo fondano i fratelli  Oreste e Mauro Salaorni, entrambi ex-homebrewers,  in un piccolo locale di cinquanta metri quadrati adiacente alla pizzeria di famiglia, “La Fonte” a Mezzane di Sotto. Il nome scelto, in onore della dinastia governò la città di Verona per oltre un secolo, è Birrificio Artigianale Scaligero - Mastino II° e anche le prime birre prodotte riportano i nomi di alcuni componenti di quella importante famiglia: l’impianto Brew Tech da 250 litri è in funzione di giorno mentre la sera i due fratelli operano dietro al bancone della pizzeria dove le birre vengono servite ai tavoli. 
Nel 2013  la sede si sposta una decina di chilometri più a valle, in un ampio capannone della zona industriale di San Martino Buon Albergo, dove viene posizionato il nuovo impianto da 30 ettolitri, con maturato orizzontali Ma il cambiamento più radicale arriva due anni più tardi, nel 2015:  Oreste lascia la società lasciando Mauro a gestire la produzione assieme al nuovo socio Christian Superbi che si occupa della parte commerciale.  Per l’occasione avviene anche il completo restyling della gamma, del logo e delle etichette: arrivano la Helles Cangrande, la Amber Lager Monaco, la Blanche Altaluna, la Pils 1291 e la Ipa Hop.E, affiancate da altre birre stagionali e occasionali. L’aumentata capacità produttiva impone d’adottare nuove strategie produttive e distributive per collocare i circa 2000 ettolitri che vengono attualmente imbottigliati ed infustati: “fino al 2015racconta Mauro - abbiamo prodotto birre molto ricercate, che fondamentalmente piacessero soprattutto a noi. Poi abbiamo cominciato a produrre birre più classiche, ma ben fatte. E riuscirci non è affatto facile”. Ma i riconoscimenti non tardano ad arrivare: quarto posto all’edizione 2017 di Birraio dell’Anno, medaglia d’oro nella sua categoria alla Pils 1291 a Birra dell’Anno 2017 e alcune “menzioni d’onore” all’edizione 2018.

La birra.
A Teodorico, re ostrogoto che a lungo risiedette a Verona, il birrificio Mastino dedica la propria Baltic Porter, prodotta con il metodo della decozione e con aggiunta di melata di bosco di produzione locale, luppoli  Magnum e Mittelfrueh: non rivelato il parterre dei malti. 
Il suo colore è un bell’ebano impreziosito da venature rossastre, quasi limpido: la schiuma, cremosa e compatta, ha un’ottima ritenzione. Toffee, pan di spagna, pane nero, miele, uvetta e prugna danno forma ad un aroma caldo e avvolgente, pulito e intenso. La sensazione palatale è morbida e la bevuta non presenta difficoltà, anche se il tenore alcolico è abbastanza elevato (9%). Il gusto ripropone gli stessi elementi dell’aroma ma lo fa con meno precisione: la bevuta è comunque piacevole nonostante i singoli elementi non emergano in maniera definita. Al dolce di miele, toffee e della frutta sotto spirito si contrappone un amaro delicato terroso e di frutta secca a guscio, leggermente tostato al punto da offrire qualche suggestione di caffè. L’alcool rimane in sottofondo riscaldando con giudizio ogni sorso ed è un piacere passare l’intera serata in compagnia di Teodorico. Il livello è buono, con maggior pulizia e definizione in bocca si farebbe davvero un grosso salto in avanti. 
Formato 33 cl., alc. 9%, IBU 27, lotto 1011-17A3 , scad, 15/04/2020, prezzo indicativo 4.00 euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 7 novembre 2018

Kinnegar Big Bunny

Kinnegar Brewing nasce nel 2011 a Rathmullan, contea di Donegal, all’estremità settentrionale dell’Irlanda. A fondarla Rick LeVert assieme alla moglie Libby Carton: Rick, americano nato a Boston, è residente in Irlanda da oltre vent’anni dove ha lavorato nel campo di design, marketing e comunicazione. Non ha nessuna esperienza in campo brassicolo se non qualche esperimento casalingo che rapidamente evolve in qualcosa di più grande; nel 2011 mette in funzione un mini impianto da 50 litri sul quale nascono le prime ricette, la Pale Ale Limeburner e l’Amber Ale Devil's Backbone. Nel frattempo si reca a seguire alcuni corsi di formazione alla UC Davis in California e al VLB - Versuchs und Lehranstalt für Brauerei di Berlino. 
E’ solamente nel 2013 che Kinnegar (il nome deriva da una della spiagge della zona) fa il suo debutto commerciale con un nuovo impianto da dieci ettolitri  utilizzato sino alla fine del 2016 quando il birrificio ha completamente saturato la sua capacità di 4000 ettolitri l’anno. Un piano di espansione da un milione di sterline consente di realizzare il nuovo birrificio da 35 ettolitri di Letterkenny, ad una ventina di chilometri di distanza, che permette quindi di triplicare la capacità.  “Volevamo restare a Rathmullan ma avremmo dovuto aspettare dai 18 ai 24 mesi per avere tutte le autorizzazioni e il nostro business non poteva permetterselo; non volevamo continuare a produrre birra dalle quattro del mattino sino a mezzanotte”.  
Sull’impianto che entra in funzione nella primavera del 2017 vengono realizzate quattro birre disponibili tutto l’anno affiancate da produzioni stagionali e occasionali: le prime sono la Scraggy Bay Golden Ale, La Rustbucket Rye Ale, la Yannaroddy Porter al cocco e l’American IPA Crossroads. Lo scorso giugno sono arrivate anche le lattine, formato utilizzato per le birre stagionali/speciali e per tutte quelle che vengono esportate all’estero: quelle in produzione tutto l’anno, reperibili anche nei supermercati irlandesi, continuano ad essere imbottigliate.  
“Spesso la gente pensa che la birra artigianale abbia un elevato contenuto alcolico dice  Rick   – e anche se non è vero questo potrebbe creare degli ostacoli. Noi vogliamo che le nostre birre siano accessibili, che la gente possa berne due o tre senza accusare il colpo; sono un mix d’influenze americane, europee ed irlandesi. Esportiamo anche in Europa ma un microbirrificio può resistere solo se ha una forte presenza locale”.

La birra.
Big Bunny (6%) è una delle molte produzioni occasionali di Kinnegar, una New England IPA che ha debuttato nella primavera del 2017 ed è poi stata replicata anche quest’anno: per un birraio nato a Boston, era forse inevitabile confrontarsi con lo stile più in voga tra i beergeeks. Il coniglio è simbolo del birrificio e lo slogan “follow the hops”  ovviamente non si riferisce solo ai salti dell’animale ma soprattutto ai luppoli.  Non sono stati rivelati quelli utilizzati per questa NEIPA ma Kinnegar promette una birra “succosa” e una sensazione palatale cremosa. 
Il suo colore dorato/arancio pallido è opalescente senza raggiungere le fangose torbidità di alcune interpretazioni dello stile. Apro questa lattina nata lo scorso luglio con qualche mese di colpevole ritardo e l’intensità dell’aroma inevitabilmente ne risente: non c’è esplosività ma i profumi sono eleganti e gradevoli. Cedro, limone, bergamotto e lime sono protagonisti, in sottofondo si scorgono tracce di frutta tropicale. Il mouthfeel è leggermente cremoso e non provoca nessun intoppo ad una scorrevolezza che è davvero eccellente. Il gusto replica l’aroma con buona fedeltà disegnando un percorso dominato dagli agrumi, supportati dalla discreta presenza di pane e frutta tropicale; il finale è secco e moderatamente amaro, resina e scorza d’agrumi si dividono il compito quasi a metà. L’alcool non è pervenuto.  Kinnegar realizza una “East Coast Style IPA” con criterio e raziocinio: equilibrio e pulizia, nessun estremismo o voglia di strafare: nella bicchiere c’è una birra fruttata e non un succo di frutta.  Il risultato pecca un po’ di personalità  ma è comunque molto piacevole e questo basta e avanza.
Formato 44 cl., alc. 6%, lotto 10/07/2018, scad. 03/2019, pagata 3.75 euro (beershop, Irlanda)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 6 novembre 2018

Lervig Toasted Maple Stout

E’ sempre un piacere ospitare sul blog il birrificio norvegese Lervig guidato dall’instancabile birraio americano Mike Murphy; qui trovate tutte le birre assaggiate negli anni scorsi. Nel 2017 Lervig aveva lanciato circa 35 nuove birre, una ogni 10 giorni, e la tendenza nel 2018 è leggermente in calo, visto che siamo  attualmente fermi a 22 : “facciamo tanti nuovi prodotti e il nostro ufficio vendite non riesce a tenere il passo – ci scherza sopra Mike  - Una birra nuova significa un codice a barre nuovo, un codice prodotto, un inserimento a sistema, un illustratore che faccia l’etichetta e informare chi deve poi venderla. Abbiamo lavorato sodo tutta l’estate ma ora stiamo rallentando perché il nostro confezionamento, ora che un dipendente tornato in Inghilterra, è ingolfato”. E ancora:  “un buon birraio deve lavorare sodo, avere passione ed essere fiero di quello che fa: deve sapere cosa gli piace in una birra e attenersi a quello.  Avere un buon palato è assolutamente necessario. Come uno chef, non è molto diverso. Alcuni birrai  sono bravi a fare le birre, altri sono bravi anche se non realizzano personalmente la birra perché sono bravi a comunicare la ricetta alla gente che lavora con loro. In teoria potrei farlo anch’io, e invece sono ancora qui. Se qualcosa si rompe, devo aggiustarla io. Sarei felice se riuscissi a trovare un altro Mike, così potrei fare un passo indietro. Mi sono sempre fatto il culo. Lunghe giornate, finchè non si finisce. Il nostro orario di lavoro è “finchè non si finisce”.  Fare birra non è un lavoro affascinante come si pensa: non è ammirare i tini luccicanti e pensare tutto il giorno alle ricette. La maggior parte consiste nel pulire, sollevare e spostare materiale chimico pericoloso, scaricare camion, avere a che fare con liquidi bollenti e Co2.  Io porto anche fuori la spazzatura.”

La birra.
Non è esattamente una novità 2018 ma poco ci manca: Toasted Maple (Imperial) Stout è arrivata in fusto nel dicembre del 2017, seguita a gennaio dalle lattine adornate dall’etichetta realizzata da Nanna Guldbæk, dal 2017 collaboratrice fissa di Lervig.  La ricetta prevede malti Pilsner, Chocolate e Caramalt, avena, luppolo Aurora, sciroppo d’acero, vaniglia e un tocco di lattosio; abbinamento consigliato da Lervig?  Pancakes. 
Si presenta vestita di nero e la sua piccola testa di schiuma cremosa è piuttosto rapida a dileguarsi. L’aroma restituisce quanto promesso dal nome della birra: sciroppo d’acero e vaniglia compongono un dessert abbastanza intenso ma poco raffinato. In sottofondo si scorgono profumi di cola, liquirizia, caramello. Al palato è leggermente oleosa ma la sua consistenza non è particolarmente impegnativa: meglio così, perché una coltre di catrame dolce sarebbe davvero difficile da digerire. Ammetto di non amare alla follia le “pastry stout”, nelle quali gli ingredienti aggiunti sovrastano completamente la birra anziché semplicemente arricchirla. E questa di Lervig non fa eccezione, sebbene non appaia completamente finta o artificiosa:  è sbilanciata sul dolce ma non è fuori controllo. E' tuttavia  una di quelle birre che dopo qualche sorso ti fanno venir voglia di staccare la spina e bere qualcos’altro.  Caramello, sciroppo d’acero e vaniglia annaffiano uvetta e prugna, l’alcool (12%) è nascosto bene e riscalda senza esagerare; quel poco d’amaro che c’è  proviene dal luppolo e non dalle tostature dei malti. Finezza ed eleganza non sono ovviamente la sua caratteristica principale, nel bicchiere non c’è una gran profondità ma se siete amanti del genere probabilmente l’apprezzerete perché non è affatto cattiva, anzi. Per tutti gli altri, il consiglio è di trovare qualcuno con cui almeno smezzare la lattina. 
Formato 33 cl., alc. 12%, IBU 55, lotto 08/01/2018, scad. 08/01/2023, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 5 novembre 2018

Odell Settle Down Brown

E’ Doug Odell a fondare assieme alla moglie Wynne ed alla sorella Corkie la Odell Brewing Company a Fort Collins, Colorado, nel 1989: l'avevamo incontrata cinque anni fa. Homebrewer dal 1975 nella sua cucina di Los Angeles, anno in cui termina il college, Doug  lavora per sei mesi  come pulitore/ragazzo tuttofare alla Anchor Brewing  mentre studia all’Università di San Francisco. Terminati gli studi ed ottenuta una seconda laurea a Sonoma, Odell si sposta a Seattle dove incontra Wynne, che sposa nel 1986: lì fa ripetutamente domanda per essere assunto alla Redhook Brewery ma  non ottiene il lavoro: “per fortuna, perché se mi avessero preso probabilmente non sarei dove sono adesso”.  
Nel 1989 si sposta in Colorado per raggiungere la propria sorella e, assieme alla moglie, apre in un ex-granaio alla perifieria di Fort Collins il birrificio Odell che, per sette anni, produrrà solamente birra in fusti che Doug distribuisce personalmente. Il debutto avviene con la Odell Golden Ale seguita a breve distanza  dalla 90 Shilling, una Amber Ale che è ancora oggi la flagship beer del birrificio; nel 1994 avviene il trasferimento nella nuova sede della vicina 800 E. Lincoln Ave, luogo dove Odell si trova ancora oggi.  
Nel 1996 entra finalmente in funzione una linea d’imbottigliamento e, nel 2009, il birrificio affronta una nuova espansione che raddoppia i metri quadrati a disposizione (4200), aggiunge un beergarden e ridisegna completamente la taproom: la produzione supera i 50.000 ettolitri/anno. Nel 2014 Odell festeggia il suo venticinquesimo compleanno con una nuova espansione e l’anno successivo arrivano le prime lattine ma non è questa la principale novità: i fondatori Wynne, Doug e Corkie Odell annunciano la vendita della società ai propri dipendenti, mantenendo in loro possesso solamente il 10% a testa. Il 51% viene ceduto a Eric Smith, Brendan McGivney e Chris Banks, rispettivamente direttore commerciale, di produzione e finanziario; il 19% viene rilevato dagli altri 115 altri dipendenti.  
Attualmente Odell ha una capacità di circa 300.000 ettolitri/anno e possibilità di espandersi in futuro sino a 470.000: gli ettolitri prodotti nel 2017 sono stati però “solo” 150.000: “vogliamo restare in ambito regionale – dice Doug -   distribuiamo in 11 stati e ne aggiungeremo altri solo se avrà senso: non abbiamo tutta questa ostinazione nell’espanderci in maniera esponenziale”.  Secondo i dati 2017 rilasciati dall’American Brewers Association, Odell è attualmente il ventiduesimo produttore craft statunitense.

La birra.
Produzione stagionale invernale, la Settle Down Brown Ale di Odell è arrivata a gennaio 2018 ad “aiutare”  lo storico winter warmer della casa, la Isolation Ale. “E’ il nostro tributo a quel periodo speciale dell’anno in Colorado dove tutti desideriamo rilassarci davanti al caminetto. La Isolation Ale è stata per 20 anni la nostra offerta invernale, con questa nuova birra vogliamo movimentare il parterre dei malti con qualche nota tropicale portata dai luppoli”. 
Il suo bellissimo colore ricorda effettivamente il colore ed il calore del legno nel caminetto, “acceso” da intensi riflessi rossastri; la schiuma è cremosa, compatta ed ha ottima persistenza. L’aroma mette in evidenza caramello e biscotto, pane leggermente tostato, uvetta e prugna, qualche accenno di ciliegia  e terroso. La bevuta non è impegnativa e di fatto questa Brown Ale di Odell è un “winter warmer” che scorre con ottima velocità e riesce a nascondere l’alcool in maniera forse persino eccessiva. Se le si può fare un appunto, è proprio quello di essere ben realizzata tecnicamente ma un po’ fredda:  la dolcezza di caramello, biscotto, uvetta e prugna non riscalda molto il cuore e il finale amaro, delicatamente tostato e resinoso, asciuga subito il palato preparandolo ad un nuovo sorso. Un “winter warner” di fatto sessionabile che non regala grandi emozioni ma si beve con soddisfazione. 
Formato 35.5 cl., alc. 6.5%, IBU 50, imbott.  27/04/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.