mercoledì 26 febbraio 2020

BrewDog Off Duty King

E’ stato uno dei principali protagonisti della craft beer revolution nel Regno Unito ma oggi per me è onestamente difficile associare il nome BrewDog alla parola “artigianale”. Il birrificio non ha ceduto quote a nessuna multinazionale (la maggioranza è posseduta dalla TSG Consumer Partners, private equity) ma ha sviluppato un modello di business che, per quel che mi riguarda, mi ricorda molto più quello di una grande impresa: un beer-hotel in Ohio (USA), una linea aerea, altri due piccoli hotel in Scozia, una cinquantina di BrewDog bar sparsi in tutto il mondo e cinque siti produttivi sparsi tra Scozia (due ad Ellon), Germania (l’ex Stone Berlin), USA (Columbus, Ohio) e Austrialia (Brisbane). 
I due fondatori, gli ex-punk James Watt e Martin Dickie, non sono più birrai ma imprenditori che hanno scelto di privilegiare la quantità sulla qualità: BrewDog si trova quasi ovunque e nel corso degli anni ha modificato i propri prodotti per cercare di raggiungere il maggior numero di persone. La loro birra simbolo, la Punk IPA, è oggi un prodotto completamente diverso da quello che era nato nel 2007 e che si era fatto largo con campagne pubblicitarie provocatorie e aggressive; la Punk IPA è oggi una birra docile e facile da bere che non riesce più come una volta a stupire il palato di chi è già abituato a bere prodotti artigianali. BrewDog ha indubbiamente avuto il merito di contribuire alla diffusione della birra artigianale ed è ancora oggi una valida alternativa ai prodotti industriali ma la scena craft offre alternative molto più allettanti per gli appassionati. Per tutti gli altri, BrewDog può ancora rappresentare una porta d’accesso per passare dal mondo industriale a quello artigianale.
Quel che è certo è che in Scozia non stanno mai fermi: nelle scorse settimane è stato lanciato il manifesto ”ecologista” BrewdogTomorrow che vuole promuovere il riciclo delle lattine, la trasformazione delle birre venuta male in distillato/Vodka (sai che novità) e l’invito all’homebrewing (ovviamente usando i kit di BrewDog) per evitare d’inquinare andando a berla o a comprarla in giro. Il birrificio ha inoltre annunciato che investirà un milione sterline in ricerca e iniziative di tipo ecologico. Il tutto sarà accompagnato da un completo restyling di grafiche ed etichette, quest’ultime sempre meno punk.

La birra.
Dal punto di vista brassicolo vale ancora la pena andare a cercare BrewDog o conviene lasciare che sia lui a trovare voi, dai bar agli scaffali dei supermercati? Ci sarebbe in teoria la “Small Batch Series” il cui nome indica esattamente la direzione opposta a quella presa dal birrificio di Ellon: parliamo principalmente di birre acide e invecchiamenti in botte.  Una delle ultime arrivate in questo “catalogo” è la Off Duty King, una Export (imperial) Stout invecchiata per sei mesi in cask di whisky scozzese ed ulteriori sei mesi in botti che avevano in precedenza contenuto whiskey di segale: in questo caso oltre al cereale è anche la vocale “E” a fare la differenza. Dalla Scozia ci di sposta in Irlanda o negli Stati Uniti, non ci è dato a sapere. BrewDog ci comunica che per la produzione dell’imperial stout sono state impiegate sette diverse varietà di malto e sei di luppolo: è stata messa in vendita nella prima settimana di dicembre 2019. 
Il suo vestito è di colore ebano scuro, la schiuma è generosa, compatta ed ha buona persistenza. L’aroma è davvero un bel biglietto da visita: whisky, melassa, liquirizia, vaniglia, legno, fruit cake, accenni di cioccolato, fudge, uvetta e prugna disidratata: l’intensità è discreta ma c’è profondità e soprattutto un buon livello di pulizia. Purtroppo le belle notizie finiscono qui: la Off Duty King non mantiene le splendide promesse a partire da un mouthfeel troppo leggero per una birra che dichiara in etichetta 13.2%. Ma sarei anche ben disposto a perdonare questo vizio se il gusto mi rappresentasse anche solo il 50% dell’aroma: la bevuta è invece un lento incedere marcatamente caratterizzato dal distillato con qualche concessione alla frutta sotto spirito, al caramello, quasi alla cola. Niente rullo di tamburi finale: è una birra che si congeda quasi in sordina, senza nessun accenno di caffè o torrefatto. Rimane una scia mediamente lunga di whisky come ricordo di una imperial stout non difficile da sorseggiare ma poco profonda e molto noiosa. Un’occasione mancata ad un costo che non vale assolutamente il prezzo del biglietto. 
Formato 33 cl., alc. 13.2%,  lotto 1911065C, scad. 11/21/2029, pagata 8,50 sterline (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 25 febbraio 2020

De Molen / Bakunin: Terpenije & Trud (Patience & Labour) Barley Wine

Da febbraio 2019 De Molen non è più un birrificio artigianale: il gruppo Bavaria (Swinkels) ne ha rilevato il 100% dopo che nel 2015 si era già impossessata del 35% tramite una società di distribuzione controllata nella quale partecipava anche il birrificio di De Koningshoeven (La Trappe). In quell’occasione pare che le azioni fossero state acquistate da tanti azionisti minoritari di De Molen, senza nessun investimento diretto nel birrificio: Bavaria aveva solamente ottenuto il diritto di distribuzione in esclusiva per tutto il BeNeLux. Come però avviene in questi casi l’entrata in gioco di una multinazionale è solo il primo passo verso l’acquisizione della maggioranza: chi ha voglia può leggere il comunicato ufficiale di De Molen nel quale viene ovviamente ribadito che non cambierà assolutamente nulla, che non ci saranno compromessi sulla qualità e che le persone resteranno al loro posto continuando a gestire in piena autonomia il birrificio. 
Chissà cosa accadrà al Borefts Festival che ogni anno De Molen organizza dal 2009 e che era diventato uno dei punti fermi nel nostro continente? Sarà ignorato dalla maggior parte dei birrifici artigianali?  L’edizione 2019 che si è tenuta a settembre, quindi dopo l’annuncio della vendita, è andata comunque sold out ed ha visto la partecipazione di questi birrifici.   
Facciamo un passo indietro all’edizione 2016 quando tra gli invitati al festival vi era anche il birrificio russo Bakunin, fondato nel 2013 a San Pietroburgo da Alexander Romanenko, proprietario del Café Bakunin, dall’homebrewer Yury Mitin  e dal birraio professionista Vladimir Naumkin. Da quanto ho capito dopo aver iniziato come beerfirm Bakunin si è ora dotato d’impianti propri ma ha soprattutto aperto tre locali le cui spine e i cui scaffali ospitano anche altri birrifici russi ed esteri: Bakunin Café (bar e beershop) il Rockets & Bishops Bar (birra e burgers) il Kiosk Bar  (Bottle Shop & Taproom). Oltre a partecipare al Borefts 2016 i russi realizzarono in Olanda una birra collaborativa con Menno Oliver di De Molen: per l’occasione nacque Terpenije & Trud (Patience & Labour) un vigoroso barley wine (10.6%) prodotto con malti Pils e Caramello, luppoli Saaz, Apollo e Premiant ed aggiunta di uvetta ad albicocche disidratate in fermentazione.  L’idea era quella di produrre un barley wine “fruttato”: al “juicy barley wine” fortunatamente non ci siamo (ancora) arrivati.

La birra.
Nel bicchiere si presenta di color ambrato carico con riflessi arancio, la schiuma è poco generosa, grossolana, scomposta e svanisce piuttosto rapidamente. Caramello, biscotto, uvetta, albicocca disidratata, mela al forno, qualche lieve traccia di solvente e di cartone bagnato: l’aroma è piuttosto intenso ma non è esattamente entusiasmante.  Niente da dire sul mouthfeel, invece: corpo medio-pieno, poche bollicine, consistenza morbida ed oleosa. La bevuta è davvero molto, troppo dolce e ricca di uvetta, miele e caramello: ma quando il naufragio sembra inevitabile ecco arrivare un po’ d’asprezza dall’albicocca e un po’ d’alcool a riportare la nave in acque più tranquille e la birra si riesce a bere con discreta soddisfazione anche se, citandone il nome, ci vuole un po’ di “pazienza e duro lavoro”. Vi sono ampi margini di miglioramento per quel che riguarda pulizia e finezza in questo barley wine un po’ grossolano, sbilanciato, sgraziato che mostra già qualche nota ossidativa precoce, a soli due anni dalla messa in bottiglia.
Formato 33 cl., alc. 10.6%, IBU 32, imbott. 13/04/2018, scad. 13/04/2023, prezzo indicativo 5,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 20 febbraio 2020

HOMEBREWED! Old Fashion Beers: Goes to Goslar, Point Break Saison & Blood Red Wine


Dopo una lunga assenza torniamo a parlare di birra fatte in casa con la rubrica HOMEBREWED!  Sul blog ritorna Andrea Di Grancio e il suo birrificio casalingo chiamato “Old Fashion Beers”, localizzato ad Empoli:  tre anni fa l’incontro fortuito con la birra artigianale che ha per sempre cambiato la sua percezione di questa bevanda. E’ stato l’inizio di un viaggio alla scoperta di stili e tradizioni brassicole, al quale si è presto affiancata la voglia di provare a fare la birra in casa districandosi tra pentoloni e fermentatori di plastica. 
A maggio 2018 mi aveva fatto assaggiare una Bitter ed un’American IPA che trovate qui; ad un paio d’anni di distanza Andrea è ancora attivissimo e mi ha mandato altre tre bottiglie. Vediamole: come sempre accade per le produzioni casalinghe aggiungo anche un ipotetico punteggio su scala BJCP.

Partiamo dalla Goes to Goslar: come il nome fa intuire si tratta di una Gose (3.8%) prodotta con malti Pilsner e Wheat Pale, fiocchi d’avena, luppoli Target ed East Kent Golding, lievito Voss Kveik#1, coriandolo e sale dell’Himalaya al momento dell’imbottigliamento. Si presenta di color paglierino, leggermente velata, schiuma cremosa e compatta, buona persistenza. L’aroma è fragrante, fresco, pulito e abbastanza intenso: pane, cereali, fiori bianchi, accenni di limone e mandarino, una delicata mineralità abbinata ad un pizzico di coriandolo. Al palato è leggera e scorrevolissima, vivacemente carbonata. La bevuta è ben bilanciata tra la dolcezza e l’asprezza della mela verde e del limone; la chiusura è secca e il finale delicatamente zesty. Una Gose pulita e precisa, molto in stile, caratterizzata da un uso molto razionale di sale e coriandolo; il risultato è assolutamente convincente e la birra evapora in pochi minuti. Segnale assolutamente positivo. C’è forse qualche lieve accenno acquoso di troppo a fine corsa ma è un dettaglio perdonabile in una birra così leggera. Per me è pronta per essere venduta commercialmente: le manca solo l’etichetta.
Aroma 9/12, Aspetto 3/3, Gusto 16/20, Mouthfeel 4/5, Impressione generale 8/10: totale 40/50

Point Break è invece una Saison (6.3%)  la cui ricetta prevede Pilsner e Wheat Pale, farro, luppoli Magnum e EastWell Golding, quest’utlimo autocoltivato.; il lievito è  WLP590 French Saison. Il suo aspetto è inappuntabile: dorata, schiuma generosa, pannosa, lunga ritenzione.  Fiori, banana, coriandolo, chiodi di garofano formano un bouquet discretamente pulito e non molto raffinato. In bocca le bollicine sono troppe anche per una Saison e tendono a mascherare quei sapori che già di loro non sono particolarmente intensi: pane, deboli accenni di miele e frutta a pasta gialla, un amaro finale terroso e zesty/curaçao di breve durata. C’è ancora molto da lavorare su questa ricetta: troppa banana, fenoli un po’ invadenti, carbonazione aggressiva, lieve astringenza e soprattutto bassa intensità. Per farla uscire un po’ dal guscio bisogna arrivare a temperatura ambiente ma in questo caso si annulla il suo potere rinfrescante. Bisognerebbe far risaltare maggiormente la componente fruttata, limitando la banana e bilanciarne il dolce con una leggera acidità: senza dimenticare quel carattere rustico che in una Saison non dovrebbe mancare mai.  Saison al farro? Per me è questa la massima espressione alla quale qualsiasi altra produzione dovrebbe cercare di avvicinarsi.
Aroma 5/12, Aspetto 3/3, Gusto 10/20, Mouthfeel 3/5, Impressione generale 6/10: totale 27/50

Passiamo a Blood Red Wine, Barley Wine (8.4%) con aggiunta di castagne affumicate, malti Maris Otter, Castagne, CaraPils, Crystal 240, Special B e CaraRed, luppolo Magnum, lievito US05. Anche questa è una birra molto bella da vedere, anche se la fotografia non le rende giustizia: ambrata con accesi riflessi rossastri, schiuma cremosa e compatta. L’aroma regala profumi di marmellata d’arancia e d’albicocca, caramello e biscotto: intensità e pulizia ci sono, peccato per l’affumicato che ricorda la plastica bruciata. Il mouthfeel è molto buono; barley wine dal corpo medio, delicatamente carbonato, morbido. La bevuta è coerente con l’aroma delineando una birra abbastanza pulita e intensa, dal profilo ovviamente dolce caratterizzato da biscotto, caramello, uvetta e prugna disidratata, marmellata d’albicocca. L’alcool si fa sentire ma non disturba, in chiusura c’è un breve passaggio amaricante terroso ma anche una leggera astinenza. Dedico un paragrafo a parte alla castagna affumicata: personalmente bandirei per legge l’uso della castagna nella birra, ma in questo caso il mezzo vuole soprattutto veicolare il carattere affumicato. Purtroppo è un fumo che a me continua a ricordare la gomma e la plastica bruciata e quindi lo trovo piuttosto penalizzante per la base di un Barley Wine che sarebbe invece abbastanza ben fatto. Per quel che mi riguarda tenterei altre soluzioni per affumicare la birra.
Aroma 6/12, Aspetto 3/3, Gusto 12/20, Mouthfeel 4/5, Impressione generale 6/10: totale 31/50

Concludendo: benissimo la Gose, da rivedere la Saison, via le castagne dal Barley Wine  😉.  Ringrazio di nuovo Andrea per avermi fatto assaggiare le birre e spero che le mie indicazioni possano essergli utili per migliorare le ricette.

martedì 18 febbraio 2020

Sierra Nevada Narwhal Imperial Stout 2019

Il birrificio californiano Sierra Nevada non ha certo bisogno di presentazioni: era il 5 novembre del 1980 quando Ken Grossman accendeva il suo impianto da sei ettolitri assemblato con pezzi di seconda mano provenienti dall’industria casearia per produrre il primo lotto di una stout, seguito qualche settimana dopo da un’american pale ale destinata a  divenire la birra più influente della craft beer revolution americana. Con circa 1.400.000 ettolitri di birra (2016) prodotti ogni anno Sierra Nevada è oggi il terzo maggior produttore craft e il decimo statunitense, se si estende la classifica all’industria. 
Nel 2019 dopo quarant’anni passati al timone della nave Grossman ha fatto un passo “laterale” assumendo la carica di presidente: amministratore delegato è stato promosso Jeff White, in azienda dal 2013 dopo esperienze alla MillerCoors ed alla Boston Beer Company. Come tutti i padri fondatori dalla craft beer revolution che hanno raggiunto dimensioni ragguardevoli anche Sierra Nevada sta soffrendo le dinamiche di un mercato sempre più volubile e sempre più frammentato da nuovi microbrrifici locali che stanno rosicando quote di mercato ai vecchi. Dopo essere cresciuto anno dopo anno in doppia cifra, il birrificio di Chico ha sperimentato due anni consecutivi di recessione che si sono conclusi nel 2018 con un ritorno in positivo dello 0.2%.  White ha attribuito il merito soprattutto alla Hazy Little Thing, la nuova NEIPA entrata in produzione regolare nel 2018 le cui vendite hanno raggiunto quota 24 milioni di dollari, raggiungendo il quarto posto nella classifica interna. Si è comportata bene anche la Hop Bullet IPA, una birra stagionale (primavera) che in autunno è entrata in produzione stabile grazie alla forte richiesta del mercato.  Non se la passano invece bene le storiche Pale Ale e Torpedo, in declino rispettivamente del 5.5 e del 7.3%: ciò nonostante la Sierra Nevada Pale Ale rimane ancora la birra artigianale più venduta negli Stati Uniti con vendite per 108 milioni di dollari che equivalgono al 40% del fatturato del birrificio.

La birra.
Sierra Nevada ha iniziato la sua avventura nel 1980 producendo una stout ma ci sono voluti oltre trent’anni d’attesa per veder arrivare la sua versione imperiale. Nel 2010, nel corso dei festeggiamenti per il trentesimo compleanno del birrificio, vedeva la luce la 30th Anniversary Fritz & Ken's Ale, imperial stout  prodotta in collaborazione con un altro dei pionieri del craft americano, Anchor Brewing Company, e mai più ripetuta.  Un paio di anni dopo, nell’agosto del 2012, veniva annunciata Narwhal nuova imperial stout stagionale disponibile ogni anno da settembre a dicembre che prende il suo nome dal narvalo, il famoso “cetaceo-unicorno”. 
Ma c’è un’altra storia che vale la pena raccontare: nel 2010 sull’altra costa americana, quella ad est, Basil Lee e Kevin Stafford stavano elaborando il business plan per aprire un microbirrificio a Brooklyn. Non avevano ancora prodotto commercialmente nulla ma qualche loro birra era già circolata sottobanco nelle apposite sezioni di alcuni festival; nel 2011 avevano registrato la denominazione della loro start-up e già prodotto un po’ di merchandising ma non avevano potuto registrare il marchio in quanto non esisteva ancora nessun prodotto commerciale.  Sarebbero dovuti partire nel 2013. Il nome scelto? Narwhal Brewing.  
Quando vennero a sapere dell’arrivo della Narwhal Imperial Stout i ragazzi telefonarono subito in California: Sierra Nevada stava registrando quel marchio e avevano paura che ciò avrebbe potuto causare loro dei problemi. A quanto pare le due parti arrivarono ad un accordo “informale”: i newyorkesi Basil e Kevin rinunciarono ad intraprendere qualsiasi disputa legale che potesse ritardare il lancio commerciale della nuova birra di Sierra Nevada, mentre i californiani promisero di non procedere alla registrazione del marchio Narwhal: la birra sarebbe stata venduta con quel nome solo in quell’unica occasione per non sprecare etichette, packaging e materiale pubblicitario.  . Tutto bene? Nient’affatto: poche settimane dopo la messa in vendita della Narwhal Imperial Stout a Brooklyn arrivò una lettera dagli avvocati di Sierra Nevada annunciando che il birrificio aveva cambiato idea e che avrebbe proceduto alla registrazione del marchio, minacciando azioni legali contro eventuali usurpatori.  “Ogni volta che lanciamo una nuova birra – dissero da Chico – facciamo lunghe ricerche e per l’occasione scoprimmo che ancora nessuna birra o bevanda alcolica con il nome Narwhal era stata venduta negli Stati Uniti. I legali ci dissero che in caso di contenzioso giudiziario avremmo avuto ragione”.  
I giovani ragazzi ovviamente preferirono continuare a lavorare al progetto del loro nuovo birrificio anziché destinare le loro risorse economiche in qualche contenzioso legale che si sarebbe probabilmente concluso sfavorevolmente: e così Narwhal Brewing diventò Finback Brewery (la balenottera), attualmente uno dei birrifici più trendy della Grande Mela. 

Malti Two-row Pale, Caramel, Chocolate, Carafa III, Honey, Roasted Barley, luppoli Challenger e Magnum, lievito di tipo Ale. Questa la ricetta di quella Narwhal Imperial Stout che ho sempre voluto provare ma chiese non erro in Italia non è mai arrivata, almeno sino ad ora (spoiler). Nel bicchiere è nera e sontuosa, con una splendida testa di schiuma cremosa e compatta dall’ottima persistenza. L’aroma non è esplosivo ma è pulito e definito: tostature, caffè, tabacco, accenni di cioccolato fondente e resinosi. Al palato non è particolarmente densa ma riesce benissimo a compensare questa sua mancanza con un mouthfeel cremoso, quasi vellutato.  Qualche accenno dolce di frutta sotto spirito e melassa sono la veloce introduzione ad una bevuta che picchia quindi forte su torrefatto, caffè e resina. L’alcool è abbastanza ben nascosto e nel retrogusto, dopo che le acque si sono un po’ calmate, emergono anche dei bei ricordi di cioccolato fondente. 
Un American Imperial Stout classica, amara ma bilanciata, pulita, intensa e facile da bere: non cercate in lei la contemporaneità, ma se anche voi come me diffidate dalle mode effimere e preferite affidarvi alle certezze questa Narwhal è un’ottima birra da non lasciarsi sfuggire. Ai prezzi statunitensi (dieci dollari per un 4 pack) ci sarebbe da metterne un bel po’ in cantina.
Formato 35,5 cl., alc. 10.2%, IBU 60, imbott. 01/10/2019, pagata 5,00 sterline (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 17 febbraio 2020

Abbaye des Rocs Blonde

Il Belgio virtuale (della birra) sta cambiando?  A guardare il sito internet della Brasserie des Rocs si potrebbe affermare di sì.  Sino a qualche tempo fa il suo era il tipico sito di un birrificio belga: amatoriale, poco bello, con pochissime informazioni spesso solamente in francese e/o fiammingo. Non lo visitavo da un po’ ed oggi mi trovo di fronte ad un sito completamente rinnovato che fa anche riferimento al beer-rating: Untappd e Ratebeer, riportando alcune recensioni particolarmente positive.  Al rinnovamento del sito ha fatto seguito anche quello (per me sciagurato) delle etichette. Prendiamo la Brune dell’Abbaye des Rocs: molti anni fa era una gioia trovarla sugli scaffali dei supermercati con un ottimo rapporto qualità prezzo.  La sua storica etichetta “a trifora” è stata ora sostituita da una grafica asettica che mette in evidenza l’anno di fondazione del birrificio, il 1979. Per me è un pezzo di storia che se ne va.  
In quell’anno nasceva la Brasserie Eloir-Bertiau, la “sfida” che Jean Pierre Eloir, ex-impiegato al catasto, aveva lanciato al suocero, un birraio ormai in pensione che passava il suo tempo a lamentarsi di quanto quel lavoro fosse stato difficile e faticoso.  Jean Pierre iniziò con l’homebrewing per dimostrargli che era possibile  produrre una buona birra anche nella propria cantina con pochi mezzi, pochi sforzi e con poca esperienza.  Il gioco si trasformò poi in un hobby, con una ottantina di litri di birra che venivano prodotti ogni due settimane in garage; la necessità di smaltire la produzione convinse Jean Pierre a richiedere i permessi e le autorizzazioni necessarie per operare commercialmente e vendere l’unica birra da lui prodotta, chiamata Abbaye des Rocs, che realizzava con un ceppo di lievito recuperato da alcune bottiglie di Rochefort e Westmalle. E’ questo l’unico legame – se lo si vuole cercare – con la cosiddetta “birra d’abbazia” belga.  Il nome Abbaye des Rocs si riferisce solamente ad un vecchio rudere di  campagna che si trova a qualche centinaia di metri dalla casa dei coniugi, un tempo possedimento dell’Abbazia di Crespin. 
L’Abbaye des Rocs rimase l’unica birra prodotta sino al 1985 quando, in occasione delle festività, venne realizzata l’Abbaye des Rocs Spéciale Noel seguita l’anno successivo da La Montagnarde.  Fu solo nel 1987 che il birrificio divenne una società a responsabilità limitata e venne costruito un nuovo locale adiacente alla casa di famiglia per ospitare i nuovi impianti di seconda mano  (l'ammostatore era stato utilizzato anche nell’abbazia di Chimay)  che consentirono di aumentare la produzione da 80 a 1500 litri. Nel 1991 il birrificio cambiò nome in Brasserie des Rocs  e nel 1996 , quando la produzione annuale aveva raggiunto gli 800 ettolitri, il testimone passò da Jean Pierre nelle mani della figlia Nathalie Eloir che andò in sala cottura lasciando il padre ad occuparsi degli aspetti commerciali. Arrivarono una dopo l'altra Abbaye des Rocs Blonde, Abbaye des Rocs Grand Cru e Abbaye des Rocs Triple Imperiale; la produzione è destinata per la maggior parte all'esportazione, con Stati Uniti, Francia e Italia come mercati principali

La birra.
La Blonde dell’Abbaye Des Rocs non ha soltanto un vestito nuovo ma, secondo quanto riporta il sito del birrificio, anche una ricetta nuova. Il suo colore è dorato e velato, la schiuma è cremosa e compatta ma non così generosa come vorrebbe la scuola belga. Nel bicchiere ci finisce anche qualche “fiocco” di lievito, ma questo è un po’ il marchio di fabbrica della casa. Il naso è piuttosto interessante, fresco, pulito e intenso: una bella speziatura che richiama pepe e coriandolo, profumi floreali, miele, cereali, accenni di pera e di scorza di limone. Vivacemente carbonata, la bevuta procede spedita e abbastanza snella: cereali e pane fragrante, un pizzico di spezie, accenni di pera, mela e frutta a pasta gialla. Un nel percorso che tuttavia si ferma sul più bello: nel finale la birra si nasconde ed emerge una sensazione un po’ troppo acquosa: l’alcool è un fantasma ma questa “nuova ricetta” della Blonde des Rocs si ricollega piuttosto alla vecchia equazione “birra belga = dolce”. E’ secca ma priva di amaro: per il mio gusto, e per essere non dico nuova ma almeno moderna, è una mancanza fondamentale. Formato 33 cl., alc. 6.5%, lotto 1909 00467, scad. 05/07/2021, prezzo indicativo 3.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 12 febbraio 2020

Amager Double Black Mash 2018

Del birrificio danese Amager, fondato sull’omonima isola danese nei pressi dell’aeroporto di Copenhagen da Morten Valentin Lundsbak e Jacob Storm nel 2007, abbiamo parlato svariate volte. Qui trovate un'ampia carrellata di birre.  Per chi è interessato il birrificio offre oggi visite guidate dal lunedì al sabato per gruppi di almeno 10 persone: il tour dura un paio d’ore e comprende quattro assaggi di birre e qualche snack.  Chi ha un po’ più d’appetito può invece scegliere per un paio di menù supplementari proposti a 23 o 31 Euro. Amager non dispone tuttavia di una vera e propria taproom e non può servire le birre come se fosse un bar: al di fuori della visita guidata resterete quindi con il bicchiere vuoto. Potete tuttavia acquistare bottiglie e merchandising da portare a casa. 
Il birrificio si trova in un’anonima zona industriale: se non volete sobbarcarvi i trenta minuti di viaggio in pullman da Copenhagen potete in alternativa dirigervi alla più comoda Amager Bryghus Taproom (Nørre Voldgade 27) che si trova in pieno centro, ad un solo chilometro dal pittoresco Nyhavn. E’ aperta ogni giorno a partire dalle ore 14, venerdì e sabato da mezzogiorno: troverete una quindicina di spine, la metà delle quali dedicate a birrifici ospiti, con la possibilità di fare un beer-flight di cinque assaggi a 100 corone (13 euro), prezzo abbastanza equo se confrontato alla media della capitale danese. Le alternative per bere in città non mancano assolutamente, a voi la scelta su dove orientarvi.

La birra.
Nata nel 2013, l’Imperial Stout Double Black Mash (12%) è l’ammiraglia scura di Amager: “prendi una cosa già buona e rendila migliore – ecco la filosofia dietro questa birra. Questa massiccia Imperial Stout era già potente dopo il primo ammostamento, ma abbiamo pensato di andare oltre e farne un secondo, raddoppiando la quantità degli ingredienti. Abbiamo raggiunto lo scopo? Sta a voi deciderlo. Se vi piace grossa e nera sicuramente questa è la birra che fa per voi”.  La Double Black Mash è una produzione stagionale che viene messa in vendita ogni inverno: la ricetta dovrebbe prevedere (condizionale d’obbligo) malti Pilsner, Pale, Munich, Roasted, Carahell, Melanoidin, Light chocolate, Caraaroma, Crystal e Black, luppoli Cascade e Chinook. 
Sontuosamente nera come le tenebre, forma un’appetitosa testa di schiuma “abbronzata”, cremosa e compatta. L’aroma sacrifica eleganza e finezza a favore dell’intensità: melassa, fruit cake, liquirizia, qualche tostatura, remoti accenni di cioccolato. Ma è solo un preambolo alla vera festa che sta per iniziare: mouthfeel perfetto, pieno, denso e cremoso. Immaginate che qualcuno vi accarezzi il palato con uno scampolo di velluto: è quello che vorrei idealmente trovare in ogni Imperial Stout. La bevuta scende maggiormente in profondità rispetto all’aroma, riproponendolo e impreziosendolo di ulteriori elementi: si parte dal dolce (fruit cake, melassa, liquirizia) per poi virare in una bella ed intensa progressione amara ricca di caffè, tostature, cioccolato fondente, tabacco. Anche i luppoli si fanno sentire mentre l’alcool potenzia una birra la cui scia finale di alcool-cioccolato-caffè sembra non voler finire mai. Le si perdona volentieri qualche imprecisione, qualche lieve accenno di carne/salsa di soia, qualche pecca nella pulizia e nella definizione. Imperial Stout sontuosa, tra quelle europee che più si avvicinano agli standard qualitativi dei migliori esemplari americani. Se amate lo stile, non fatevela assolutamente scappare.
Formato 50 cl., alc. 12%, lotto 1777, scad. 03/2023, prezzo indicativo 10-12 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 10 febbraio 2020

DALLA CANTINA: Birrificio del Ducato La Prima Luna 2012

E’ un po’ sparito dal mio radar ma non per questo bisogna dimenticare la rilevanza che il Birrificio del Ducato, fondato nel 2007 da Giovanni Campari e Manuel Piccoli, ha avuto nella scena della birra artigianale italiana. Sono trascorsi “solamente” tredici anni ma di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia: dai numerosi riconoscimenti per la keller Via Emilia, la birra-simbolo del birrificio, al lancio della  gamma BIA: era una delle prime volte che la birra artigianale s’affacciava sugli scaffali dei supermercati italiani ad un prezzo contenuto.
In tutto questo tempo le etichette sono cambiate, la forma delle bottiglie si è allungata per poi tornare alla panciuta forma con le quali il birrificio aveva debuttato.  Nel 2010 il Ducato si espandeva acquistando un secondo sito produttivo a Fiorenzuola che affiancava quello storico di Roncole Verdi (PR), oggi esclusivamente dedicato alla realizzazione di birre acide e agli affinamenti in botte. Nel 2015 l’impianto principale veniva trasferito nella nuova sede di Soragna e il sito di Fiorenzuola veniva dismesso: nello stesso anno il Ducato lanciava l’ambizioso The Italian Job, pub londinese dedicato al craft italiano che negli anni a venire avrebbe inaugurato altre succursali. Oggi a Londra ve ne sono quattro: Notting Hill, Hackney, Chiswick  e  Mercato Metropolitano.
Nell’estate del 2017 Campari e soci furono costretti – con molte polemiche - a rendere pubblica un’operazione che era avvenuta alla fine del 2016: la cessione del 35% delle quote societarie ai belgi della Duvel Moortgat. “Si cede una quota di minoranza, al fine di poter ottenere le risorse necessarie da destinare al birrificio Del Ducato” recitava il comunicato stampa: ma come quasi sempre accade in questi casi, gli investimenti di un pesce grosso sono solo il preambolo alla cessione della maggioranza, avvenuta di fatto nella primavera del 2018. Oggi Duvel possiede il 70% del Ducato che non può più definirsi “artigianale”, anche se la gestione operativa continua ad essere seguita da Campari e Piccoli; dall’arrivo dei belgi la produzione annua è salita da 5000 e 9000 ettolitri e qualche bottiglia è tornata sugli scaffali della grande distribuzione con la linea “Parma Vecchia”: Lager, Amber e IPA. 

La birra.
Qualche anno fa avevamo assaggiato L’Ultima Luna, potente Barley Wine invecchiato almento 18 mesi in botti che avevano in precedenza contenuto Amarone della Valpolicella. Per produrla è stato ovviamente necessario un Barley Wine “fresco”, ricetta che nelle intenzioni di Campari doveva servire esclusivamente per quello scopo, ma “durante la maturazione de L’Ultima Luna in serbatoio, prima di andare in botte, ci siamo accorti di come fosse già interessante e quali margini di evoluzioni avrebbe potuto avere la birra anche senza l’invecchiamento nel legno. Fu così che decidemmo di imbottigliare La Prima Luna, utilizzando la stessa base de L’Ultima Luna. Naturalmente un barley wine di questo calibro ha bisogno di molto tempo in bottiglia per armonizzarsi, è per questo che iniziamo a far uscire le bottiglie dopo almeno 10 mesi di affinamento. Il risultato è una birra meno complessa de L’Ultima Luna, in cui non si avverte l’influenza della botte e del vino che essa conteneva, le ossidazioni poi sono appena accennate (mentre nell’altro caso sono esasperate) ma la birra è molto più coerente allo stile e regala grandi soddisfazioni agli amanti del genere”.
Prima e Ultima Luna non sono inserite tra la gamma in attuale produzione, almeno stando a quanto riporta il sito ufficiale del birrificio. Andiamo allora a vedere come ha retto alla prova del tempo una bottiglia del 2012. La sua vesta è splendida, di color rubino intenso: in superficie si forma una piccola coltre di bolle che  svanisce molto rapidamente. Ciliegia, frutti di bosco, mela al forno, uvetta e datteri, melassa, note ossidative che richiamano lo sherry: dalle premesse si direbbe che abbiamo di fronte una vecchietta ancora arzilla e in forma. Anche la sensazione palatale è positiva: c’è qualche cedimento dovuto all’età, nulla di grave, e le bollicine sono ancora presenti. La bevuta ripropone l’aroma con intensità e buona pulizia dando forma ad un Barley Wine caldo ad accogliente, ricco di ciliegia, uvetta e frutti di bosco, spunti vinosi.  Un filo quasi invisibile di cartone bagnato è forse l’unica avvisaglia negativa dell’età, mentre una lieve acidità e un tocco amaricante finale di frutta secca a guscio riescono a bilanciarne la dolcezza. L’alcool si fa sentire senza eccessi in un lungo finale che riporta alla memoria i grandi vini fortificati: è invecchiata davvero bene questa bottiglia di La Prima Luna. Non raggiunge profondità eccelse ma si beve davvero con grande soddisfazione: se ne avete anche voi ancora una bottiglia del 2012 direi che è il momento di aprirla.
Formato 33 cl., alc. 12%, lotto  L011 12, scad. 01/12/2022, pagata 8,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 7 febbraio 2020

Port Brewing Old Viscosity

Alla fine degli anni ’90 la città californiana di San Diego era in pieno fermento e si stava preparando a diventare una della capitali della Craft Beer Revolution americana.  La Swami’s IPA del brewpub Pizza Port (1992) aveva gettato le basi per quello che sarebbe poi divenuto lo stile di birra più rilevante dell’ultimo trentennio: la West Coast IPA.  Stone, AleSmith, Alpine e Ballast Point si stavano lentamente espandendo dopo aver mosso i primi passi e così faceva anche Pizza Port: i fondatori Vince e Gina Marsaglia rilevarono a San Marcos  il primo sito produttivo di Stone e vi mandarono il loro birraio Tomme Arthur a seguire i marchi/spin-off The Lost Abbey, ispirato alla tradizione belga, e Port Brewing, ovvero Pizza Port in bottiglia, per semplificare.  
Arthur era stato assunto nel 1997 e nel 2002, in occasione del quinto San Diego Strong Ale Festival organizzato da Pizza Port, aveva realizzato una birra commemorativa da imbottigliare in formato 75 centilitri: nasceva la Old Viscosity, la cui etichetta rappresentava anche l’esordio di Arthur come scrittore. Nulla in confronto alle logorroiche etichette di Lost Abbey destinate ad arrivare negli anni successivi: su quella bottiglia vi era  semplicemente scritto “sappiamo che questa birra vi piacerà. E’ stata fatta da tre nativi di San Diego che credono che San Diego sia una grande città per la birra e hanno passato gli ultimi cinque anni a dirlo a tutti coloro che ci ascoltavano. E allora te lo diciamo, questa è una grande birra.”  
Nel 2007 Arthur replicò quella birra per inaugurare la prima di una lunga serie di birre “speciali” a marchio Port Brewing realizzate sul nuovo impianto: e per l’occasione la Old Viscosity fu affiancata dalla prima birra barricata mai commercializzata da Port Brewing: quella la Older Viscosity di cui vi avevo parlato con entusiasmo un po’ di anni fa.

La birra.
Per molti anni la Old Viscosity è stata assemblata con un blend di birra fresca in percentuale variabile (70-80%) e birra invecchiata in botti di bourbon (20-30%), ovvero Older Viscosity. Attualmente il sito di Port Brewing non fa nessun riferimento al blend e quindi credo che la Old Viscosity sia divenuta una birra solamente “fresca” . In tutti questi anni Tomme Arthur si è divertito a definirla in mille modi diversi:  Black Barley Wine, Strong Dark Ale, un ibrido tra Porter, Stout, Old Ale e Barleywines.  Oggi sulle lattine è stampato in bella evidenza Imperial Stout: lo stile è abbastanza richiesto, soprattutto negli Stati Uniti, e bisogna quindi accontentare il mercato. 
La ricetta originale prevedeva malti Two Row, Carafa III, Crystal (inglese ed americano), Chocolate e frumento, luppolo tedesco Magnum,  lievito California Ale. Dalle parole passiamo ai fatti: liquido nero, schiuma cremosa e compatta, ottima persistenza. Il naso non è esplosivo ma ci avverte di quello che sta per arrivare al palato: intense tostature, caffè, tabacco, accenni resinosi e di cioccolato fondente. L’etichetta fa pensare ad una birra densa come l’olio del motore di una macchina ma al palato la sua viscosità non è particolarmente pronunciata. Probabilmente lo era se paragonata agli standard di quindici anni fa: a me sembra morbida, delicata e quasi cremosa, scommetterei su di un abbondante utilizzo di avena.
E’ questa l’unica smanceria di una American Imperial Stout Old School che picchia duro: tracce di caramello e liquirizia sono il minimo indispensabile a sorreggere una robusta impalcatura di tostato e torrefatto, caffè ed un finale molto luppolato terroso e resinoso. L’alcool la sospinge per tutto il suo percorso ma la Old Viscosity è una birra che si sorseggia senza difficoltà: lasciatela scaldare per bene se volete qualche coccola di cioccolato fondente ad ammorbidire il suo lungo retrogusto. Nella sua relativa semplicità è quasi perfetta.
Un classico senza tempo, un pezzo di storia da non dimenticare: astenersi palati deboli o inclini alle derive pastry.
Formato 56,7 cl., alc. 10%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 12.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 5 febbraio 2020

Burning Sky Beer: Arise & Indecision Time Simcoe Sabro


Mark Tranter: agli appassionati birrofili di lunga data questo nome provocherà forse qualche sussulto. Era il 1996 quando a questo giovane diplomato in arte con l’hobby dell’homebrewing che lavorava come cuoco e gestiva una piccola etichetta discografica venne offerta l’opportunità di lavorare come birraio su di un impiantino nel retro del pub The Evening Star di Brighton. La craft beer revolution inglese doveva ancora sbocciare ma il microbirrificio Dark Star produsse una Pale Ale molto luppolata, chiamata Hop Head (3.8%) che anticipava i tempi di una decina d’anni: “in quel periodo – ricorda Mark –  veniva considerata sbilanciata e troppo luppolata, ma noi l’amavamo”. Nel 2001 Dark Star traslocava dal retro del pub e inaugurava un nuovo birrificio da 45 ettolitri: “la gente pian piano si abituò a quei nuovi sapori, arrivarono birrifici come Thornbridge e Brewdog, grazie ad internet le informazioni erano molto più reperibili e la birra artigianale iniziò a diventare trendy”. 
Tranter guidò gli impianti di Dark Star per diciassette anni, sino al 2013: si dice che fosse stanco di fare sempre le solite birre e che la proprietà non gli lasciava libertà di sperimentare.   “Volevo fare birre difficili da realizzare nel Regno Unito, l’idea mi ossessionava e mi resi conto che l’unico modo in cui potevo farlo era mettendomi in proprio - ricorda - ma mai avrei pensato di aprire un birrificio tutto mio. L’idea mi terrorizzava. Oggi io non possiedo un auto, non possiedo una casa ma possiedo un birrificio! Ogni penny guadagnato in diciassette anni di lavoro è stato investito nella sua costruzione”.
Le birre “difficili” di cui parla Tranter sono quelle della tradizione belga: fermentazioni selvagge e spontanee.  Nel 2014, in una vecchia fattoria a Firle, nella campagna del Sussex, debutta Burning Sky con un impianto da 25 ettolitri, dimensioni che consentono di abbinare volumi sostenibili commercialmente a una buona flessibilità produttiva.  All’acciaio s’affianca il legno delle botti e dei foeders ma la vera sorpresa si trova in cima ad una scala di quello che una volta era un granaio dove viene installata una coolship: era dal 1930 che un birrificio inglese non commissionava la produzione di una vasca di fermentazione aperta. “Mi sono spostato da Brighton per stare in campagna, dove la pace e la tranquillità sono la norma. Questo luogo ha un ruolo fondamentale nelle birre che facciamo, è stata una grossa fonte d’ispirazione e ora la sua microflora ha anche un ruolo attivo e determinante per la inoculazione del lievito nella vasca aperta. Siamo un team di sei persone, siamo sempre molto impegnati ma l’ambiente in cui lavoriamo è un bel contrappeso. La qualità della vita è per me molto importante e voglio che lo sia per tutti quelli che lavorano alla Burning Sky; non vogliamo fare orari impossibili e turni notturni: iniziamo alle 9 del mattino e alle 5 del pomeriggio ci beviamo tutti assieme una birra prima di andare a casa”. 
Nel 2015 la British Guild Of Beer Writers elegge Burning Sky Birrificio dell’Anno 2014 e il popolo di Ratebeer lo vota quarto miglior nuovo birrificio al mondo: Tranter si definisce “Artisan Brewer and Blender”: una volta l’anno attraversa la Manica per recarsi in Belgio da Girardin ad acquistare centinaia di litri di Lambic che viene poi utilizzato per assemblare Cuvée, un blend della Provision Saison della casa con Lambic che viene poi invecchiato in botti di Chardonnay. “E’ vero che al momento le birre acide vanno abbastanza di moda, ma io credo che se fai qualcosa in cui credi fortemente, e lo fai al meglio, la gente ti seguirà. Voglio solo fare le birre che amo fare e non seguire le tendenze del mercato; sono ancora un punk rocker testardo che fa quello che gli pare fregandosene degli altri. Ovviamente facciamo anche molte Pale Ales e birre luppolate. Sono quelle che ci permettono di pagare le bollette. Ma gli invecchiamenti in botte rimangono la mia passione e la cosa che voglio approfondire nei prossimi anni”. 
Il birrificio non è visitabile e non disponde di taproom ma gode di una buona distribuzione nei dintorni di Brighton e nel Sussex.

Le birre.
La nostalgia per la Hop Head di Dark Star mi ha orientato su alcune delle Pale Ales “moderne” che Mark Tranter ha creato alla Burning Sky: vent’anni fa c’era sicuramente più spazio per innovare in quanto esistevano pochi pilastri ben radicati da estirpare. Oggi il mercato craft è in continua evoluzione e, quando tutti fanno uscire qualcosa di nuovo, niente è nuovo. Dallo scorso ottobre 2019 Burning Sky si è dotato di una linea per la messa in lattina e restare al passo coi tempi. 
Arise è una Session IPA (4.4%) di colore oro pallido velato e dalla candida testa di schiuma, cremosa e compatta. Mandarino, limone, arancia zuccherata, pesca e frutta tropicale disegnano un bouquet aromatico fresco e pulito, piuttosto elegante.  Gli stessi elementi, con qualche suggestione di ananas, ritornano al palato in una bevuta secca e scattante che non lesina comunque intensità. In sottofondo c’è sempre quella sensazione di cereale/crackers tipica delle Golden Ale inglesi, il carattere fruttato è evidente e domina la scena senza mai risultare sfacciato o cafone. L’amaro finale resinoso si fa sentire ma si congeda abbastanza rapidamente lasciando subito il palato pronto per ricominciare. Mouthfeel perfetto: è una session beer che tramette pienezza nella sua leggerezza e nel suo morbido tocco. Moderna, ma con un occhio di riguardo per la tradizione. Disponibile – per fortuna – tutto l’anno.

Indecision Time è invece una Pale Ale “moderna” (5.6%) che viene prodotta ogni volta con un diverso mix di luppoli; lo scorso dicembre ne è stata realizzata una versione a colpi di Simcoe e Sabro. Quest’ultimo è una varietà in commercio dal 2018 dalla Hop Breeding Company (Yakima Valley): era precedentemente noto con il codice sperimentale HBC 438. L’avevamo già incontrato qui e qui
Dorata, opalescente, dalla schiuma compatta e cremosa, ha un naso solare e mediterraneo: cedro, bergamotto, pompelmo, lime. In sottofondo note floreali, qualche accenno vegetale e di crackers. Anche lei facilissima da bere, scorre con a grande velocità sospinta da una carbonazione molto vivace per la scuola anglosassone. Al palato domina il dolce della frutta tropicale ma crackers e cereali sono sempre presenti in sottofondo: il fruttato è intenso, pulito ed elegante e dà forma ad una birra moderna ma non estrema, assolutamente piacevole da bere. Chiude abbastanza secca con una breve coda amaricante tra il terroso e lo zesty. Due birre quasi perfette che hanno l’estate nel bicchiere: profumate, facilissime da bere, rinfrescanti, scorrevolissime: è l’Inghilterra moderna, scevra di estremismi e di esagerazioni, che personalmente vorrei sempre trovare nel bicchiere. 
Nel dettaglio
Arise, 44 cl., alc. 4.4%, lotto 28/11/2019, scad. 26/05/2020, pagata 4,40 sterline (beershop)
Indecision Time Simcoe Sabro, 44 cl., alc. 5.6%, lotto 10/12/2019, scad. 07/06/2020, pagato 5.00 sterline (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 3 febbraio 2020

DALLA CANTINA: AleSmith Old Ale 2015

Nel 2005 il birrificio californiano AleSmith celebrava il suo decimo compleanno con la Decadence Anniversary Ale, una potente Old Ale (11%) molto cara al suo creatore Peter Zien, l’ex homebrewer che nel 2002 aveva rilevato il birrificio dai fondatori Skip Virgilio e Ted Newcomb: con una versione casalinga di questa birra Zien aveva infatti ottenuto la sua prima medaglia in un concorso per homebrewers. Da quell’anno in poi la serie Decadence ha festeggiato ogni compleanno di AleSmith in forma leggermente diversa: nel 2006 con un’American Strong Ale, nel 2007 con una Imperial Porter, nel 2008 con un Wheat Wine e nel 2009 con una Weizenbock. La Decadence Old Ale ritornò nel 2010 e, con cadenza quinquennale, nel 2015 con il nome di AleSmith Olde Ale: dal 2016 in poi entrò invece tra le birre stagionali (primavera) e fu prodotta una volta all’anno con il nuovo nome di Private Stock Ale. Per gli aficionados, visto che siamo a San Diego, era una ghiotta occasione per mettere in cantina qualche bottiglia e magari organizzare qualche verticale.
I gusti degli appassionati sono però molto volubili e oggi la Olde/Stock Ale non è più in produzione: la stessa AleSmith IPA, che aveva dominato per anni le classifiche del beer-rating, è oggi scomparsa dai radar sostituita dalle lattine delle più moderne Juice Stand e Luped In IPA, più fruttate e meno amare: spero sia ancora prodotta almeno in fusto. Nell’attesa che la moda del New England tramonti anche in California  si sono dovuti adeguare al mercato. Eppure la Olde Ale aveva portato a San Diego un numero notevole di riconoscimenti: oro alla World Beer Cup del 2008 (versione Decadence 2005), argento a quella del 2012 (Decadence 2010) e ancora oro a quella del 2014 (AleSmith Old Ale 2013). Oro al Great American Beer Festival del 2008 (Decadence 2005), argento a quello del 2011 (Decadence 2010) e bronzo a quello del 2012 (ancora Decadence 2010).

La birra.
AleSmith la considera una perfetta birra da invecchiamento e allora andiamo a scoprire se ciò corrisponde a verità stappando una bottiglia di Olde Ale 2015. La sua livrea richiama la tonaca di frate (cappuccino), nel bicchiere è piuttosto torbida e la schiuma è cremosa e compatta. L’aroma rivela un’intensità davvero notevole: uvetta, prugna disidratata, mela al forno. In secondo piano emergono accenni di vino fortificato, pane tostato, suggestioni di creme brulè. Ottime premesse che vengono assolutamente confermate, a partire da un mouthfeel che non mostra nessun cedimento dovuto al passaggio del tempo: la sua consistenza è ancora quasi piena ed il palato è coccolato da morbide carezze. La bevuta ripropone l’aroma con perfetta corrispondenza: a sei anni dalla messa in bottiglia la Olde Ale di AleSmith è ancora vigorosa e potente, ricca di frutta sotto spirito e richiami ai vini fortificati. L’alcool e una timida nota amaricante finale di frutta secca a guscio bilanciano la sua dolcezza: una birra perfetta ed emozionante, nella sua semplicità, da godersi in tutta tranquillità, come fosse un liquore, alla fine di una serata. Per quel che mi riguarda è una delle migliori AleSmith mai bevute. Se anche voi ne avete ancora una in cantina è il momento di aprirla.
Formato 75 cl., alc. 11%, IBU 25, prezzo indicativo 16.00-18.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.