martedì 29 ottobre 2019

Tempest In The Dark We Die

Il destino è stato crudele ma forse non casuale: le Black IPA erano nate come un divertissement, a partire da quell’ossimoro (Black-Pale) contenuto nel loro stesso nome, e in quanto nonsense hanno avuto vita relativamente breve.  La loro popolarità negli Stati Uniti, mercato che le ha inventate, è durata un lustro (2009-2014) obbligando in quegli anni praticamente ogni birrificio ad averne una nel proprio portfolio: oggi nessuno o quasi le vuole più. Potremmo considerare il 29 gennaio 2015 la data della morte delle Black IPA: quel giorno il birrificio americano Stone Brewing annunciò che a causa della scarse vendite la propria Sublimely Self Righteous Ale, Black IPA molto ben riuscita che per anni aveva dominato le classifiche del beer-rating, sarebbe andata in pensione. In teoria non sarebbe una grande perdita: dopo tutto per definizione le Black IPA dovevano essere in tutto e per tutto delle IPA, eccetto che per il colore e quindi inutili. Ma spesso i birrifici non riuscivano a realizzare completamente quella illusione ottica ed il risultato erano delle IPA ibride e piacevolmente complesse che presentavano accenni di caffè, torrefatto, cioccolato.  Beergeeks ed appassionati amavano discuterne davanti al bicchiere: era davvero una Black IPA? O una porter molto luppolata? Una Cascadian Dark Ale? 
Il birrificio scozzese Tempest, che abbiamo già incontrato in numerose occasioni, è attivo dal 2010 ed ha prodotto la sua prima Black IPA, In The Dark We Live, nel 2013: in Europa siamo sempre un po’ indietro rispetto agli USA e la richiesta per le Black IPA è andata scemando con qualche anno di ritardo. Alla Tempest non si sono però persi d’animo ed hanno cercato di rivitalizzare uno stile ormai decaduto: nel 2017 è infatti arrivata In The Dark We Live Fruit Edition, con aggiunta di ribes nero, more e lamponi neri e, da buoni testardi (scozzesi), nel maggio del 2019 hanno replicato.

La birra.
In The Dark We Live è/era una Black IPA già di suo piuttosto robusta (7.2%). Per la sorella maggiore In The Dark We Die in Scozia hanno alzato ulteriormente l’asticella portando l’ABV in doppia cifra (10%). La ricetta è stata solo leggermente modificata nei malti (Pale, Munich, Carafa, Caramalt) ed è stato effettuato un Double Dry Hopping stranamente non sbandierato in etichetta; i luppoli sono gli stessi della sorella minore, ovvero Mosaic, Columbus e Simcoe.  
Non è completamente nera ma poco ci manca; la schiuma è cremosa e compatta ed ha ottima ritenzione. L’aroma, pulito, ancora intenso e pungente, è resinoso e terroso, balsamico: a portare un po’ di luce nel buio ci sono accenni di frutti di bosco e di marmellata d’agrumi. Il mouthfeel è il vero punta di forza di questa potente Imperial Black IPA: molto morbido, quasi vellutato, un’inaspettata carezza che cerca d’ammansire una birra dura che picchia subito forte con il suo amaro resinoso e terroso. Caramello e frutti di bosco sono le deboli ma imprescindibili fondamenta che sorreggono una poderosa impalcatura amara dalla quale, nel finale, spunta anche qualche accenno di caffè e di cioccolato. L’alcool parte quasi in sordina per poi rivelare tutto il suo contenuto a fine corsa riscaldando il palato e potenziando le pungenti note pepate dei luppoli. 
In un periodo in cui spopolano le birre dolci (New England IPA, Pastry Stout) è un piacere tornare indietro nel tempo a quando i birrifici si sfidavano a colpi di IBU: non raggiunge vette elevate ma questa  In The Dark We Die di Tempest è una roccia la cui scalata regala grandi soddisfazioni. Pulita, precisa, potente: una birra per uomini duri, si diceva un tempo. La Old School non va più di moda ma è ancora capace di stupire: un po’ come quando tirate fuori dal ripostiglio uno dei giocattoli della vostra infanzia.
Formato 33 cl., alc. 10%, IBU 65, lotto 728, scad. 05/2020, prezzo indicativo 5.50-6.00 (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 28 ottobre 2019

Foley Brothers Big Bang IPA

Fino a sei-sette anni fa il Vermont non era certamente uno degli stati americani che apparivano sui radar e sulle mappe dei beergeeks. C’è voluto l’hype causato dai birrifici The Alchemist ed Hill Farmstead per trasformare uno stato freddo, nevoso e boscoso, famoso soprattutto per il foliage, le piste da sci e lo sciroppo d’acero, in una meta turistica per gli appassionati di birra. Oggi in Vermont ci sono in attività quasi sessanta birrifici
 I fratelli Patrick e Daniel Foley hanno aperto le porte del loro microbirrificio (18 ettolitri) Foley Brothers nel 2012 in un angolo dell’azienda vinicola di famiglia, la Neshobe River Winery, a Brandon. Da qui a The Alchemist, tanto per darvi qualche coordinata, ci sono circa settanta chilometri. Per aiutare i genitori ad avviare l’azienda vinicola (2008) Daniel Foley si è recato in California e in Nuova Zelanda ad imparare i segreti del vino ma, una volta a casa, è tornato ad occuparsi del suo vero amore, l’homebrewing; le conoscenze apprese sul vino lo hanno comunque aiutato molto, a suo dire. Daniel è affiancato dal fratello Patrick e occasionalmente dalla sorella Christine. Foley Brothers, primo birrificio della contea di Rutlan,  debuttò con una Wheat Ale allo zenzero ed una Brown Ale con aggiunta di sciroppo d’acero ed è solamente a partire dal 2015 che ha svoltato nella direzione di quelle New England IPA che hanno reso famoso il Vermont. Sino a quell’anno produceva solamente la Native IPA e la Fair Maiden Double IPA: dal 2015 ad oggi ne ha invece prodotte un’altra ventina, sostituendo le bottiglie dell’esordio con le più moderne lattine.  Abbastanza sorprendentemente, qualche lattina di un birrificio così piccolo è arrivata nei mesi scorsi anche in Europa.

La birra.
Etichetta abbastanza amatoriale, nessuna informazione sulla data di produzione: non avrei scommesso molto su questa Big Bang IPA di Foley Brothers e  invece è stata una bevuta piuttosto gradevole. Nel bicchiere si presenta di color oro pallido, la schiuma è cremosa e abbastanza compatta. Immagino siano passati i classici tre mesi dalla messa in lattina ma l’aroma è ancora intenso e, soprattutto, discretamente fresco: qualche profumo dank e tropicale fanno da cornice ad un bel bouquet di agrumi nel quale si mettono in evidenza cedro, bergamotto, limone e lime. Big Bang è una IPA dal contenuto alcolico molto modesto (5.5%) per gli standard americani e questo le dona una bevibilità davvero elevata: pane, miele e un po’ di frutta tropicale fanno da supporto ad una birra dal carattere prevalentemente agrumato e secco. Il suo rapido percorso si chiude con un amaro di media intensità, zesty e terroso. Molto pulita, bilanciata ed educata; una birra perfetta per l’estate, ben carbonata, dall’elevato potere dissetante e rinfrescante. Ottima intensità a fronte di un ABV contenuto.  Di solito è l’aroma a subire maggiormente gli effetti della traversata oceanica, ma in questo caso il  “naso” si è rivelato addirittura migliore del gusto. Una bella sorpresa.
Formato 47,3 cl., alc. 5.5%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 8,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 25 ottobre 2019

Modern Times Black House Nitro

Gli esperti dicono che sia un birrificio perfetto per essere acquistato da una multinazionale, ma il fondatore Jacob McKean nel 2017 ha deciso di “vendere”  il 30% della propria azienda ai dipendenti, con la possibilità di aumentare la quota al 100%. Parliamo di Modern Times Beer (qui la storia), nato nel 2013 grazie ad un crowfunding da oltre un milione di dollari e ancora oggi uno dei birrifici più alla moda di San Diego (hipsters, nonché uno dei precursori del formato che oggi sembra essere imprescindibile, le lattine. 
Nell’anno del debutto il birrificio aveva prodotto quasi 3000 ettolitri, nel 2018 ha raggiunto quota 80.000.  Il Lomaland Fermentorium, la sede originale nel quartiere di Point Loma di San Diego, oggi è affiancata dalla succursale Flavordome che si trova nella zona di North Park. Proseguendo verso nord, ad Encinitas troverete il Far West Lounge, a Los Angeles il Dankness Dojo, a Santa Barbara l’Academy of Recreational Sciences e a Portland, in Oregon, il Belmont Fermentorium.  Ma il progetto più ambizioso è ancora in costruzione: parliamo del Leisuretown di Anheim, California,  proprio di fronte a Disneyland. Birrificio (9000 hl/anno), torrefazione, ristorante, ampio beer garden e piscina con bar annesso. Annunciato in pompa magna nel 2017 ha subito qualche ritardo ma  dovrebbe finalmente essere inaugurato entro la fine del 2019.

La birra.
Modern Times è birrificio e torrefazione ed è quindi perfettamente naturale che birra e caffè si siano incontrati più di una volta nei loro bicchieri.  Una delle poche birre che il birrificio di San Diego produce tutto l’anno è infatti la (ottima) stout al caffè Black House. Il suo successo ne ha inevitabilmente fatto nascere molteplici varianti: già nel 2014 alle spine di Point Loma era possibile assaggiare la sua versione nitro, ovvero al carboazoto. Nel 2016 la birra fu venduta per la prima volta anche in lattina impreziosita dall’aggiunta di due ulteriori ingredienti: cocco e cacao. Il caffè utilizzato è un blend di Etiopia Hambela (75%) e di Sumatra Mandheling (25%): la lista dei malti include 2 row, Crystal 60, Munich, Chocolate Pale, roasted barley, flaked barley, Midnight wheat, Carapils and Kiln coffee malt, avena, fiocchi d’orzo. 
L’apparenza è ovviamente la prima delle componente che il carboazoto deve valorizzare: versatela con vigore nel bicchiere per assistere a quella “fontana di birra al contrario” che le pubblicità della Guinness hanno reso celebre, giusto per darvi un’idea. Caffè e tostature sono protagoniste di un aroma molto pulito ed elegante che rispecchia gli elevati standard qualitativi delle produzioni Modern Times; in secondo piano cacao, tabacco, qualche nota terrosa. L’intensità non è particolarmente elevata ma a dieci mesi dalla messa in lattina non si possono pretendere miracoli. Al palato c’è quella cremosità, in questo caso molto soffice e quasi impalpabile, che si richiede ad una birra nitro:  una carezza di seta percorre effettivamente tutto il palato ma le bollicine sono quasi assenti, rendendo di fatto la birra quasi piatta.  E’ questo l’unico appunto che mi sento di fare ad una stout dal gusto intenso e dal contenuto alcolico (5.8%) inavvertibile: caffè e torrefatto sono in prima linea ma è nelle retrovie che si apprezza il bello di questa birra e sono questi dettagli a fare la differenza: cacao, cocco, fruit cake, acidità molto ben dosata, finale secco. La bevibilità è impressionante e nel finale caffè e cioccolato s’incontrano per un ultimo morbido abbraccio. Se come me avevate apprezzato la Black House “normale”  non potrete che amare anche la sua edonistica versione nitro, delizia per il palato e per le sue papille gustative.
Formato 47,3 cl., alc. 5.8%, IBU 30, lotto 04/01/2019, prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 24 ottobre 2019

Nevel Minne

Nel 2014 i poco più che ventenni Vincent Gerritsen e Mattias Terpstra fondano a Nijmegen (Olanda) il nanobirrificio Katjelam: è l’evoluzione naturale del loro hobby, l’homebrewing , col quale si esercitavano mentre erano alle prese con i loro studi di fisica. La produzione di Katjelam è tuttavia quasi subito insufficiente ad esaudire tutte le richieste, nonostante non si tratti di birre “convenzionali”: i due producono infatti esclusivamente birre a fermentazione mista. Terminati gli studi decidono di ripartire da zero: nome ed impianto nuovi, quest’ultimo situato all’interno dello stesso complesso industriale Honig di Nimega. “Il nome precedente, Katjelam, era troppo giocoso e la gente s’aspettava di bere delle birre completamente diverse da quelle un po’ acide che producevamo. Ciò ci ha portato anche molti commenti negativi su siti come Untappd”, ricordano i due
Nevel Artisan Ales è il nuovo birrificio che debutta alla metà del 2017 portando avanti la stessa filosofia di Katjelam: non sono i luppoli ad essere protagonisti, ma i lieviti. Nel team entrano anche Vincent Gerritsen (amministrazione) e  Joyce Janssen (sales e marketing): a disposizione vi sono anche quasi 200 botti che in precedenza avevano ospitato vino. Quasi metà della produzione Nevel subisce infatti un passaggio in botte. I quattro giovani sembrano avere le idee piuttosto chiare: produrre birre facili da bere, dal basso contenuto alcolico (4-6%) e utilizzando il più possibile ingredienti locali. Le ciliegie provengono da un piccolo frutteto nel sobborgo di Lent, erbe, fiori e mirtilli vengono raccolti nei campi circostanti o forniti dal progetto Foodforest Ketelbroek che si trova a dieci chilometri di distanza da Nimega. 
Nevel collabora anche con la Staatsbosbeheer (organizzazione governativa olandese per la silvicoltura e la gestione delle riserve naturali) affidando la crescita ed il raccolto del proprio orzo ad alcuni agricoltori nei dintorni; il luppolo proviene dall’unico produttore biologico olandese, Hop voor Bier. E il lievito, vero protagonista delle birre?  “Abbiamo sviluppato il nostro ceppo partendo dalle bucce degli acini d’uva che crescono nel giardino di mia madre”, dice  Mattias “vogliamo che la gente s’avvicini e s’appassioni al mondo alle fermentazioni selvagge”.
Per fare questo a maggio 2018 Nevel ha inaugurato il proprio Proeflokaal (tasting room) con piccolo bottleshop annesso e una bella terrazza affacciata sul fiume Oversteek che è attualmente pronta ad accogliervi ogni venerdì e sabato, dal primo pomeriggio sino alle dieci di sera.

La birra.
Minne è una saison a fermentazione mista  (brettanomiceti ed il lievito della casa) prodotta con un piccola quantità di mele cotogne. La mela cotogna è il simbolo dell’amore e dell’amicizia – dicono alla Nevel -  amare qualcosa o qualcuno, aprire il vostro cuore. E per il primo lotto Foodforest Ketelbroek ci ha donato l’intero raccolto di un annata molto poco fortunata, un paio di casse:  per fortuna nel 2019 il raccolto è stato molto più generoso. 
Assaggiamo una bottiglia del primo lotto che nacque a gennaio del 2018: il  suo colore è assolutamente solare e luminoso, benché opalescente; la schiuma è pannosa ed ha una buona persistenza. Negli occhi e nelle narici c’è l’estate: fiori, agrumi, paglia, una delicata speziatura e un accenno dolce di frutta a pasta gialla. Fresco, intenso, pulito: un bel biglietto da visita che al palato trova le dovute conferme. La bevuta è snella e secca, estremamente dissetante e rinfrescante grazie ad una leggera acidità ed all’asprezza degli agrumi. Un tappeto fruttato dolce (mela cotogna? pesca e ananas) in sottofondo fa da bilanciere prima di un finale zesty e terroso dal livello d’amaro piuttosto contenuto. Quasi tutto bene, non fosse per qualche calo d’intensità che Minne subisce verso la fine del suo rapido percorso. Il livello è comunque molto buono: pulizia, carattere e quel tocco rustico che in birre di queste tipo non dovrebbe mai mancare.
Formato 37,5 cl., alc. 5.2%, imbott. 04/01/2018, scad. 04/01/2020, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 21 ottobre 2019

Firestone Walker Bravo 2017

Del birrificio californiano Firestone Walker abbiamo già parlato in diverse occasioni:  lo fondarono nel 1996 Adam Firestone e David Walker a Paso Robles, Contea di Santa Barbara, per poi cederne nel 2015 la maggioranza  (? -  i dettagli dell’accordo non sono mai stati resi noti) ai belgi della Duvel Moortgat il cui arrivo ha dato il via ad un ambizioso piano d’espansione. Al birrificio originale, situato all’interno della tenuta vinicola del padre di Adam  (la Firestone Vineyard LLC) si è affiancato il sito di Buellton, 650 metri quadri destinati allo stoccaggio di migliaia di botti ed alla produzione di birre acide, e del brewpub di Venice Beach (Los Angeles): tutte e tre le location sono dotate di taproom. 
Facciamo ora un passo indietro nel tempo all’anno 2005 quando Firestone celebra il suo decimo anniversario con la birra “10”, blend di alcune birre barricate. Per prepararsi all’evento il birraio Matt Brynildson aveva iniziato quasi per gioco qualche anno prima a sperimentare con il legno: il risultato fu davvero notevole e da quell’anno le birre-anniversario di Firestone sono divenute un appuntamento fisso che ha goduto di parecchio hype. Il fatto che alcune bottiglie dei compleanni più recenti siano arrivate anche in Italia è significativo di come sia aumentata la produzione facendo contemporaneamente scemare l’interesse dei beergeeks americani. 
Le birre che componevano il “blend dell’anniversario” variavano leggermente di anno in anno ma una era sempre predominante: si tratta della imperial brown ale chiamata Bravo, la prima birra che Brynildson provò ad invecchiare in una botte: “a quel tempo (2004) la maggior parte delle birre barricate erano molto dolci e noi volevamo realizzare qualcosa di più secco in modo da valorizzare al massimo il bourbon. Prima del passaggio in botte Bravo è una birra piuttosto impegnativa, ma poi si ammorbidisce e il bourbon diventa protagonista; ha tutte le caratteristiche di una birra dolce senza essere stucchevole ed è priva di note ossidate”. 
Per dodici anni Bravo è stata utilizzata solo per assemblare le birre anniversario; è solo nel gennaio del 2017 che Firestone decide di darle finalmente la visibilità che merita rendendola disponibile per la prima volta in bottiglia: per l’occasione viene inaugurato anche il nuovo formato da 35,5 centilitri che sostituisce quello più impegnativo da 65: “ci pensavamo da molto – dice Brynildson – e la gente ce lo chiedeva da tempo. Il formato da 35,5 centilitri è quello perfetto per questo tipo di birre, si può bere tranquillamente in due. Il prezzo per bottiglia è meno impegnativo ed è più facile acquistarne una da bere subito e una da invecchiare. E inoltre riusciamo a distribuire la stessa quantità di birra a più persone”.

La birra.
Bravo deve il suo nome a quella che nel 2004 era ancora una varietà sperimentale di luppolo. La ricetta attuale curiosamente non lo prevede: i luppoli scelti sono Columbus e Tettnanger, affiancati da un ricco parterre di malti che comprende Two Row, Munich, c-75, Simpsons Dark, Roast Barley, destrosio. 
Splendida, affascinante: dipinge il bicchiere di color ambrato scuro con accese venature rosso rubino. La schiuma ocra è cremosa e compatta ed ha una discreta persistenza. L’aroma è altrettanto suadente: uvetta, prugna, dattero, ciliegia, caramello e toffee, bourbon. Pulizia e finezza permettono di scorgere in secondo piano i ricami di vaniglia e cocco, legno.  Un naso molto definito, preciso, caldo, suadente, davvero notevole. Purtroppo il gusto non mantiene queste elevatissime aspettative e riesce solo parzialmente, ovvero con meno precisione, a replicare l’aroma.  In verità gli elementi ci sarebbero tutti, ma la componente etilica è davvero troppo in evidenza e li copre, li “brucia”, obbligando il palato a frequenti soste defaticanti. La bevuta è ovviamente dolce ma ben asciugata dall’alcool, la sensazione palatale è morbida e quasi piena, gradevole. E’ solo nel finale, quanto la acque si sono un po’ calmate, che ritrovo la birra dell’aroma: una scia lunghissima, finalmente addomesticata, ricca di frutta sotto spirito, bourbon e vaniglia.  Se il gusto riuscisse a riproporre l’aroma sarebbe probabilmente la Imperial Brown Ale barricata perfetta: il livello rimane comunque alto, chissà se ancora un po’ di cantina potrebbe contribuire ad ammorbidire un po’ la componente etilica. 
Formato 35,5 cl., alc. 13.2%, IBU 28, imbott. 02/2017, prezzo indicativo 18-20 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 9 ottobre 2019

Port Brewing Board Meeting Brown Ale

A distanza di poche settimane torniamo a parlare di uno dei marchi di Pizza Port, storico birrificio di San Diego fondato nel 1992 a Solana Beach (San Diego County) da  Gina e Vince Marsaglia.  La loro storia ve l’avevo raccontata qui.  Mentre Pizza Port apriva altri brewpub-succursali nelle vicine Carlsbad, San Clemente, Ocean Beach e Bressi Ranch a San Marcos il birraio Tomme Arthur curava nel 2006  la nascita delle due costole/marchi Lost Abbey e Port Brewing: il primo realizzava birre ispirate principalmente dalla tradizione belga, il secondo era invece dichiaratamente californiano e procedeva soprattutto a ritmo di IPA e Double IPA.  A quel tempo le luppolate di Port Brewing era quanto di meglio si potesse desiderare non solo dalla California, ma da tutti gli Stati Uniti: ora le cose sono un po’ cambiate e i sogni dei beergeeks si sono spostati altrove. Ma per chi non ha interesse nel seguire la moda Port Brewing rimane ancora un imprescindibile punto fermo quando si parla di West Coast IPA classiche.
All’inizio del 2013 Tomme Arthur dichiarava: “con i nostri due marchi produciamo in totale una quarantina di birre che toccano diversi stile. Stranamente non avevamo mai fatto una Brown Ale, e quindi la Board Meeting era un completamento quasi naturale al nostro portfolio”. Era da due anni che Port Brewing non aggiungeva una nuova birra a quelle che venivano prodotte regolarmente tutto l’anno: Wipeout IPA, Shark Attack Imperial Red, Old Viscosity and Mongo Double IPA.

La birra.
Luppoli Challenger e Magnum, un’imprecisata varietà di malti, caffè prodotto dalla torrefazione Ryan Brothers di San Diego e fave di cacao della TCHO Chocolate di San Francisco: questi gli ingredienti di una robusta/imperial  (8%)  brown ale la cui veste grafica ha subito alcuni ritocchi nel corso del tempo. Personalmente preferivo l’etichetta originale a quella più minimalista e pulita che caratterizza le lattine e le bottiglie vendute oggi. 
Il suo colore è un ebano piuttosto scuro e prossimo al nero, la schiuma cremosa ed abbastanza compatta. Non ci sono informazioni utili per risalire all’età anagrafica di questa lattina e l’aroma non è esattamente eccitante: poco intenso e neppure tanto definito. E’ rimasto un po’ di caffè ma i protagonisti sono soprattutto le tostature di orzo e pane; in secondo piano ci sono gli esteri, soprattutto la prugna. Per intravedere un po’ di cacao bisogna attendere che la birra raggiunga quasi la temperatura ambiente. Per fortuna le cose vanno molto meglio al palato: corpo medio e mouthfeel morbido rendono questa Imperial Brown Ale abbastanza scorrevole e per nulla ingombrante. Dopo un preambolo dolce (caramello, frutta sotto spirito) la bevuta si dirige senza esitazioni nel territorio dell’amaro del luppolo e del torrefatto: il caffè e il cioccolato si fanno un po’ attendere e diventano protagonisti solo a fine corsa. E’ però una bel finale, pulito, intenso e piuttosto lungo: alcool, caffè e cioccolato sono un epilogo perfetto di una Brown Ale all’americana, “supercharged”, molto amara. Il confine con una Imperial Porter/Stout è davvero labile.  Il naso la penalizza un po’, forse a causa dell’età anagrafica, ma questa Board Meeting di Port Brewing è davvero un gran bel bere e soprattutto una birra dalla personalità forte, caratteristica che contraddistingue da sempre il marchio Port Brewing.
Formato 45,4 cl., alc. 8%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 4 ottobre 2019

Ritual LAB / De Moersleutel Four Brothers

Il birrificio laziale Ritual Lab è una presenza abbastanza regolare sul blog dal 2016 ad oggi: il suo percorso sta proseguendo a gonfie vele grazie al nuovo impianto Easybräu-Velo da 25 ettolitri che è entrato in funzione proprio quest’anno. L’incremento di capacità produttiva ha permesso di raggiungere nuovi mercati all’estero, soprattutto nell’Europa settentrionale; per quel che riguarda i riconoscimenti, il birraio Giovanni Faenza dopo aver ottenuto nel 2018 l’incoronazione come Birraio Emergente del 2017 si è classificato al secondo posto tra i ”big” nell’edizione 2018-2019 nella kermesse fiorentina organizzata da Fermento Birra. 
E tra le novità non possono certamente mancare le collaborazioni, da sempre uno dei motori trainanti dell’economica della craft beer. L’ultima arrivata in ordine cronologico (giugno 2019) è una Baltic Porter chiamata Four Brothers realizzata assieme agli olandesi di De Moersleutel, birrificio che abbiamo già incontrato in un paio di occasioni. Quello della famiglia Zomerdijk è un business di famiglia che si è espanso alla fine del 2018 con l’inaugurazione del nuovo sito produttivo ad Alkmaar. Il padre Sjaak ha dato il via all’attività ma sono stati i quattro giovani figli Pim, Tom, Rob e Max (Four Brothers), tutti nati tra il 1990 e il 1998, a portarlo al successo. Sono loro a seguire le mode e a dare ai beergeeks quello che vogliono: IPA e Imperial Stout, possibilmente in lattina, al ritmo incessante di una novità dietro l’altra. 
Cosa aspettarsi dall’incontro tra Ritual Lab e De Moersleutel? Una IPA? Una Imperial Stout?  Quasi: una Baltic Porter adornata dalla splendida etichetta realizzata da Pierluigi Bellacci, artista classe 1948 con alle spalle diverse esposizioni personali in Italia ed in Europa.  Parlare di etichetta come opera d’arte non è affatto un azzardo, in questo caso.

La birra.
Si presenta vestita quasi di nero con una cremosa e compatta testa di schiuma che ha ottima ritenzione. Orzo e pane tostato, caffè e qualche estero fruttato danno forma ad un aroma pulito e discretamente intenso: in secondo piano emerge anche qualche nota di tabacco e cenere.  Al palato i parametri stilistici non prevedono particolari asperità e questa Four Brothers li rispetta: corpo medio, morbida, carbonazione contenuta. Caramello e frutta sotto spirito (prugna, frutti di bosco) iniziano un percorso dolce che vira presto verso l’amaro dell’orzo e del pane tostato, del caffè e del cacao. Amaro che s’intensifica ulteriormente nel finale quando il torrefatto viene rafforzato dall’apporto del luppolo.  Il risultato finale si spinge probabilmente un po’ troppo nel territorio delle imperial stout ma poco importa, qui non siamo ad un concorso: è una Baltic Porter molto ben riuscita, precisa, pulita e facile da bere grazie ad un contenuto alcolico (7%) ben mascherato.  Perfetta per l’autunno che tarda ad arrivare, ma non solo.
Formato 33 cl., alc. 7%, IBU 40, lotto e scadenza non leggibili, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 3 ottobre 2019

Anchorage Nelson Sauvin Saison

Ritorna sul blog il birrificio americano Anchorage fondato a  giugno 2011 nell’omonima città dell’Alaska da Gabe Fletcher. Dopo tredici anni passati a lavorare per la Midnight Sun Brewing Company, prima sulla linea d’imbottigliamento e poi come birraio, Fletcher decide di mettersi in proprio e di lavorare su quella che è la sua vera passione: le birre acide e a fermentazione spontanea, l’utilizzo di lieviti selvaggi.  In assenza d'impianto produttivo, Fletcher affitta uno spazio di circa 300 metri quadri all’interno del Snow Goose Restaurant and Sleeping Lady Brewing Co; il mosto viene prodotto al piano di sopra, dove si trova l’impianto, e poi trasferito attraverso tubazioni direttamente al piano di sotto dove Fletcher ha posizionato 250 botti, due foeders da 70 litri, due tank in acciaio, una linea d’imbottigliamento e la cella frigorifero.  Anchorage debutta come una specie di beerfirm e nell’anno successivo (2012) il popolo di Ratebeer lo annovera già tra i cinque migliori nuovi birrifici al mondo. Senza fretta Fletcher lavora in parallelo alla costruzione del proprio birrificio, poi inaugurato nella primavera del 2014; la nuova location all’incrocio tra la 148 W e la 91st Avenue dispone di 750 metri quadri ed una suggestiva tasting room che è praticamente posizionata in mezzo ai grandi foeders. Sulle pareti, il motto scelto da Fletcher: “Where brewing is an art, and Brettanomyces is king“.  Nella piccola tasting room, dominata dal legno degli arredi e dei foeders, trovate merchandising, spine, bottiglie e anche qualche piattino di formaggi e salumi da sgranocchiare.

La birra.
Dopo Rondy Brew  e Mosaic è ora di stappare un’altra Saison a firma Anchorage: si tratta della Nelson Sauvin, prodotta ovviamente utilizzando esclusivamente l’omonima varietà di luppolo. Come lei sue sorelle anche fermenta in foeders di legno con brettanomiceti: il primo lotto è stato prodotto a aprile 2017 e non so se da allora ne siano stati prodotti altri. 
Il suo colore è arancio pallido, in controluce affiorano quasi dei riflessi verdastri: la schiuma è generosa, scomposta e poco persistente. L’aroma è fresco e solare: pepe, spezie, uva e uvaspina, limone, pompelmo: in sottofondo si scorge il legno e il “funky” dei brettanomiceti. A due anni e mezzo dalla messa in bottiglia questa saison di Anchorage rivela una freschezza ancora sorprendente: vivaci bollicine, corpo medio e un carattere fruttato nel quale convivono l’asprezza di uva bianca e agrumi con la dolcezza di ananas, pesca e qualche accenno biscottato. La chiusura è secchissima, il Nelson Sauvin lascia una scia finale amaricante nella quale s’incontrano note vegetali e di scorza d’agrumi. Ad aggiungere profondità e complessità ci pensano il legno ed il funky dei brettanomiceti: l’alcool (6.5%) si fa sentire solo a fine corsa, riscaldando il palato e contribuendo a costruire quel carattere vinoso che è parte fondamentale di questa birra. 
Gran bella bevuta, emozionante, sicuramente la migliore tra le Anchorage bevute sino ad ora.
Formato 75 cl., alc. 6.5%, lotto #1 04/2017, prezzo indicativo 18,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.