mercoledì 28 febbraio 2018

DALLA CANTINA: The Bruery Sucré (2014)

Maggio è mese di festeggiamenti a Placentia (California) dove nel 2008 ha aperto i battenti il birrificio The Bruery fondato da Patrick Rue: qui trovate le birre passate in rassegna sul blog nel corso degli anni. The Bruery ha (anche) costruito buona parte della propria fama grazie a birre dal notevole contenuto alcolico e ovviamente la birra con la quale ogni anno celebra il proprio compleanno non è qualcosa per palati delicati. 
Nell 2009 quando nasce Papier, ovvero “carta” in francese: il birrificio la definiva un’interpretazione abbastanza libera di una Old Ale inglese prodotta con il ceppo di lievito (belga) della casa e poi invecchiata in botti di bourbon. 14.5% l’ABV finale. Le cose iniziano a farsi più interessanti a partire dal secondo compleanno quando arriva Coton (“cotone”, 14.5%), riedizione della Papier che viene però blendata proprio con un’imprecisata percentuale della birra prodotta un anno prima.  Ad invecchiare nelle botti di bourbon ci finisce dunque una birra “fresca”  e una percentuale di una che ha già un anno d’età.  Nel 2011 tocca alla Cuir (“pelle”, 14.5%) celebrare il terzo compleanno di Bruery: anche questa prodotta con metodo solera, ovvero blend tra una Old Ale “fresca” e altre due già invecchiate, sottoponendo poi il blend ad un nuovo invecchiamento in botti di bourbon. Nel 2012 Fruet (15.5%) festeggia il compleanno numero cinque seguita l’anno successivo da Bois (“legno”, 15%)  e  nel 2014 dalla Sucrè (“zucchero”)  che alza pericolosamente la gradazione alcolica in percentuale al 16.9.   Cuivre (16.2%) spegne la settima candelina nel 2015 e Poterie (“ceramica”, 16.8%) la numero otto; gli ultimi festeggiamenti di maggio 2017 sono avvenuti con Saule (“il salice”, 16.1%). Vero o no, Patrick Rue afferma che nel blend c’è ancora una piccola percentuale di birra di ognuno dei compleanni precedenti.  
Mentre la birra dell’anniversario (100% bourbon) è disponibile per tutti e commercializzata attraverso la regolare rete distributiva di The Bruery, ci sono poi svariate varianti accessibili solamente ai soci dei club Preservation Society e Reserve Society. Tra le botti utilizzate per queste versioni speciali della birra dell’anniversario: whisky di segale, brandy, rum, cognac, porto, tequilia, madeira.

La birra.
Facciamo un passo indietro al 2014 quando Bruery festeggia il suo stesso compleanno con Sucré, “old ale prodotta con lievito belga”  invecchiata in botti di bourbon assieme a piccole quantità di altre birre-anniversario realizzate dal birrificio negli anni precedenti. Le candeline vengono spente il 10 maggio in un’appropriata festa che si svolge presso la taproom a Placentia. Senza farlo apposta l’ho stappata esattamente quattro anni dopo la data dell’imbottigliamento stampata al laser sulla bottiglia, ovvero il 25 febbraio 2014.  
Nel bicchiere è di uno splendido color ambrato illuminato da intensi riflessi rosso rubino; considerata la gradazione alcolica (16.9%) la schiuma è di dimensioni dignitose e mostra una discreta compattezza e persistenza. L’aroma è potente e caldo, ricco di frutta sotto spirito: immaginate un bicchiere di bourbon nel quale si tuffano uvetta, prugna, fichi, ciliegia e frutti di bosco, solo per citare i più evidenti. In secondo piano c’è una maggior complessità che non è tuttavia difficile da cogliere: dettagli che parlano di vini fortificati, legno e radici, vaniglia, forse cocco tostato. Il mouthfeel non è particolarmente ingombrante ed è un requisito quasi fondamentale per una birra così alcolica: poche bollicine, corpo tra il medio e il pieno. Sorseggiarla, come fareste con un Porto, non è troppo difficile ma richiede tempo e impegno, perché questa Sucré riscalda, e molto: inevitabile pensare a vini fortificati e a tanta frutta sotto spirito, mentre a ricordarci che nel bicchiere c’è comunque una birra ci pensa giusto qualche ricordo caramellato. A quattro anni dalla messa in bottiglia la bevuta è ancora potentissima: una lieve ossidazione è tuttavia percepibile con qualche leggerissima nota di cartone bagnato che si mescola a quelle legnose. Nessun fastidio. Il viaggio termina con un finale infuocato nel quale il bourbon riesce ad asciugare quasi tutta la componente dolce: a seguire c’è una scia praticamente interminabile, un’intensa ondata calda che vi tiene compagnia per diversi minuti, coccolandovi, riscaldandovi e, se non fate attenzione, mandandovi al tappeto. 
Prezzo in fascia elevata ma esperienza che secondo me vale la pena fare almeno una volta nella vita, anche perché non è certo questa una birra che vorreste bere tutti i giorni: pur non essendo un mostro di complessità Sucré regala grandi soddisfazioni e più di un’emozione. Obbligatorio condividere l’esagerata bottiglia da 75 centilitri almeno con altre due persone: per chi non ha questa opportunità, è fondamentale dotarsi di un buon tappo per champagne in modo da potervela gustare con calma nel giro di qualche serata.
Formato 75 cl., alc. 16.9%, IBU 25, imbott. 25/02/2014, pagata 31.99 dollari (beershop, USA)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 27 febbraio 2018

Bevog Zo Session IPA

Dopo una lunga serie di birre invernali piuttosto robuste e pesanti, soprattutto per quel che riguarda la gradazione alcolica, prendiamoci una pausa defaticante. Session IPA, sottostile che evidentemente piace molto al birrificio austriaco-sloveno Bevog, presenza abbastanza frequente sul blog.  Tutto inizia nell’agosto 2015 quando la session IPA chiamata This Mess (4.5%) viene realizzata in occasione del decimo compleanno dell’etichetta discografica slovena God Bless This Mess. 
Sempre nell’ambito delle “Who Cares Editions”, ovvero birre occasionali e/o prototipali con le quali si cerca di capire il feedback da parte di chi le beve, al fine di valutarne l'entrata in produzione stabile, arriva a marzo 2016 la molto ben riuscita Freezbee Beer Session IPA (4.4%) che abbiamo ospitato in questa occasione. A maggio 2017 una Session IPA fa finalmente il suo ingresso tra le birre che vengono prodotte regolarmente tutto l’anno: è la Zo (4.3%).  A settembre arriva invece Panikka, Session IPA ancora più leggera (3.8%) realizzata per il club culturale sloveno MIKK, dove i membri del birrificio ammettono di passare la maggior parte del proprio tempo libero.

La birra.
Bevog non è solito fornire molte notizie sulle proprie birre e sulle belle grafiche che adornano le lattine; anche la Session Ipa Zo non fa eccezione. Nessuna informazione se non che viene utilizzato un imprecisato mix di luppoli americani ed australiani.
Il suo colore è un dorato piuttosto velato, nel bicchiere si forma una testa di schiuma bianca cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. L’aroma è piuttosto gradevole, ci sono profumi floreali che ben si sposano con quelli di mango e passion fruit, arancia e pompelmo; l’intensità è discreta, pulizia ed eleganza rispondono presente. Molto bene. Anche la sensazione palatale è buona, senza quegli eccessi acquosi che a volte si riscontrano in queste birre “sessionabili”: la luppolatura è dosata con intelligenza in modo da non annientare completamente la componente maltata. Pane e crackers in sottofondo sorreggono il dolce della frutta tropicale e l’amaro del pompelmo. La giusta quantità di bollicine le dona vitalità, il finale è abbastanza secco e caratterizzato da un amaro di media intensità nel quale s’incontrano note terrose e di resina. Ignoro la data di produzione di questa lattina, ma nel bicchiere c’è ancora una gratificante freschezza. 
Grande facilità di bevuta, com’è giusto che sia, buona intensità di sapori e aromi, equilibrio: una birra da bere ad oltranza che non vuole stupire e catturare l’attenzione, ma solo accompagnare pinta dopo pinta una serata, senza mai annientare il palato. Missione compiuta.
Formato 33 cl.,  alc. 4.3%, lotto 765A, scad. 24/07/2018, pagata 2.50 euro (beershop, Austria)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 26 febbraio 2018

Jackie O's: Coffee Bourbon Barrel Oil Of Aphrodite & Black Mask (Bourbon Barrel)


Jackie O’s Pub & Brewery, birrificio dell’Ohio che sul blog è di recente transitato con una buona frequenza: qui il suo profilo. Qualche settimana fa Art Oestrike, fondatore di Jackie, ha dovuto pubblicamente ammettere problemi qualitativi annunciando una “campagna di risanamento” chiamata Making it Right . Su questa pagina trovate tutte le birre potenzialmente coinvolte  e le modalità per ottenere delle birre in sostituzione di una bottiglia infetta; tutto quello che dovete fare è prendere appuntamento e recarvi in birrificio con i vuoti infetti e cambiarle con qualcos'altro. Un gesto apprezzabile per chi vive nei paraggi, ma come saranno rimborsati i consumatori che abitano lontano o che si trovano addirittura all’estero? Alcune di quelle bottiglie sono da poche settimane arrivate nel nostro continente e anche nella mia cantina; avevo in previsione di gustarmele piano piano nei prossimi mesi ma il rischio infezione mi costringe ad accelerare i tempi di bevuta per cercare di limitare l'eventuale danno e, eventualmente, chiedere un rimborso al venditore. 

Partiamo con la Bourbon Barrel Coffee Oil Of Aphrodite (12.1%), ovviamente versione barricata di una imperial stout (10%) prodotta con noci nere e sciroppo di zucchero candito belga, mix non precisato di malti inglesi, tedeschi, belgi e americani, luppoli provenienti dal nordovest americano. In questo caso la Oil Of Aphrodite viene messa ad invecchiare per un periodo che varia da otto a dodici mesi in botti ex-bourbon, con aggiunta di chicchi di caffè peruviano: il suo debutto è datato dicembre 2013. 
Nel bicchiere l’edizione 2017 è prossima al nero e forma una bella testa di schiuma cremosa e abbastanza compatta, dalla buona persistenza. Il naso è “caldo”, con il bourbon che si entra subito in scena portandosi dietro legno e vaniglia; caffè, uvetta e prugna, ma anche carne e cuoio, compongono un bouquet non molto intenso e che non brilla per finezza e pulizia, pur essendo ugualmente gradevole. Al palato è morbida e abbastanza avvolgente anche senza indulgere in particolari viscosità o cremosità: la bevuta è ricca e potente con caffè ed intense tostature sostenute dalla spinta etilica del bourbon. In sottofondo affiorano melassa, uvetta e prugna, legno e vaniglia che donano un po’ di gentilezza ad una birra tosta e dura, per “uomini (o donne) forti” si potrebbe dire. La chiusura è abbastanza secca, il caffè si fa da parte per lasciare campo libero al bourbon e a note quasi ancestrali di pellame, legno e terra. Scongiurato il pericolo infezione, questa di Jackie O’s è una imperial stout intensa che si sorseggia piuttosto lentamente ma con buona soddisfazione: nera più di carattere che di colore, picchia duro con bourbon e torrefatto a guidare le danze. Non è un mostro di profondità e complessità e il prezzo al quale è reperibile in Europa  (12 dollari nel paese d’origine) rende purtroppo l’esperienza un po’ meno gratificante di quanto potrebbe essere. Livello comunque abbastanza elevato anche se il prezzo del biglietto non vale tutto il viaggio.

Black Mask è invece un’imperial stout invecchiata in botti di bourbon con chicchi di caffè, fave di cacao e baccelli di vaniglia, ingredienti “aggiunti” che Jackie O’s ha individuato come responsabili dei problemi qualitativi. E’ una delle novità barricate del birrificio dell’Ohio ed ha debuttato a settembre 2017; fortunatamente la bottiglia giunta a me si è salvata e non presenta nessuna problema.  La birra è ispirata a Barley, il cane carlino del mastro birraio che appare anche in etichetta travestito da samurai: meglio passare oltre. 
Black Mask (12%) tiene fede al suo nome e si veste completamente di nero:  la schiuma è perfettamente cremosa e compatta ed ha un’ottima persistenza L’aroma mantiene le premesse visive e delinea una birra elegante che profuma di chicchi di caffè, cacao amaro e tostature, tabacco e carne, vaniglia e legno in sottofondo: gli elementi giusti ci sono tutti, peccato solo che l’intensità sia un po’ dimessa e che ci voglia molta attenzione per coglierli. Il mouthfeel è appagante, con una consistenza tattile delicata e quasi setosa: le manca forse un po’ di “ciccia” (viscosità) e per il mio gusto c’è qualche bollicina di troppo.  Dettagli che comunque non pregiudicano la qualità elevata di una imperial stout ricca di caffè e cacao amaro, liquirizia e orzo tostato; vaniglia e melassa costituiscono il delicato sottofondo a sostegno dell’amaro, mentre come nella Oil Of Aphrodite il bourbon prende pian piano possesso della scena rimpiazzando l’amaro del caffè e delle tostature per regalare un lunghissimo finale caldo ed etilico. 
Più pulita al naso che in bocca, la Black Mask di Jackie O’s raggiunge indiscutibilmente alti livelli  pur senza entrare nell’olimpo: potente e ricca, si sorseggia con calma e grande soddisfazione. Il passaggio in botte le dona una bella caratterizzazione e gli “ingredienti gourmet” sono usati con intelligenza e raziocinio, ovvero apportano livelli di complessità alla birra senza volerla prevaricare come invece accade in certe deplorevoli birre dessert. In questo caso il prezzo (elevato) non fa troppo male.
Nel dettaglio:
Bourbon Barrel Coffee Oil Of Aphrodite, formato 37.5 cl., alc. 12,1%, lotto 2017, prezzo indicativo 19.00-21.00 euro (beershop)
Black Mask (Bourbon Barrel), formato 37.5 cl., alc. 12,0%, lotto 2017, prezzo indicativo 16.00-18.00 euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 25 febbraio 2018

DALLA CANTINA: Montegioco Draco 2012

Sino al 2015 è stata "l'ammiraglia alcolica" del birrificio Montegioco, poi ha ceduto lo scettro alla nuova arrivata Zorzona (13%), realizzata appositamente per il festival “Birre della Merla” che il birrificio organizza ogni anno alla fine del mese di gennaio: parliamo di Draco, possente barley wine (11%) che Riccardo Franzosi produce partendo dalla Demon Hunter, birra alla quale viene aggiunto (3%) sciroppo di mirtillo biologico durante la fermentazione. 
Un barley wine importante che dichiara di non temere il tempo: "consumare entro il giorno del giudizio (compreso)", recita l'etichetta.  Del resto il tempo non è mai stato un problema alla Frazione Fabbrica di Montegioco, provincia di Alessandria: la versione barricata della Draco è chiamata "metodo cadrega", ovvero mettiti a sedere e aspetta. Nessun progetto futuro di espansione o di crescita, niente di tutto quello che la maggior parte dei birrai sembrano desiderare: "purtroppo o per fortuna, ho deciso che i miei volumi sono quelli attuali - racconta Franzosi - Montegioco produce 700 ettolitri all’anno, impiega quattro persone e se anche venissi eletto Birraio dell’Universo non potrei fare più di questo. Mi piace lavorare così, ho saldato i miei debiti, sono sereno".
E allora ho anch'io deciso di dare un po' di tempo a questa bottiglia di Draco dell'anno 2012, dimenticandola in cantina per un po': ma visto che non posso e non voglio attendere il giorno del giudizio, è arrivato il momento di aprirla.

La birra.
Il tempo la ha donato un torbido color ambrato sul quale si forma una piccola testa di schiuma ocra, bolle un po' grossolane e persistenza piuttosto ridotta. L'aroma è pulito e, sebbene potrebbe essere più raffinato, regala comunque una bella complessità fatta di uvetta e prugna, caramello, mela al forno, ciliegia e mirtillo sciroppato: il trascorrere del tempo l'ha anche impreziosita di qualche piacevole accenno di vino liquoroso. A quasi sei anni dalla messa in bottiglia questa Draco ancora vigorosa e presenta una sensazione palatale gradevole e caratterizzata da poche bollicine. Il gusto non ha la stessa intensità e ricchezza dell'aroma ma si tratta di una bevuta comunque soddisfacente che ricalca ripropone caramello, miele e frutta secca (uvetta, prugne e fichi, frutti di bosco) per poi evolvere in una conclusione abbastanza secca nella quale c'è anche un'impercettibile nota amaricante (radice, terra) che aiuta a portare equilibrio. Negli ultimi passi del suo percorso la birra tende ad assottigliarsi un pochino troppo, forse a causa dell'età, e non c'è quel gran finale che ti aspetteresti. Anche l'alcool, sino ad allora capace di riscaldare con giudizio il palato evocando vini liquorosi, sembra farsi un po' da parte; invece che con un lungo e caldo abbraccio, ci si congeda dal drago con un addio un po' frettoloso: il palato è pulito e pronto per un altro sorso, ma c'è un pochino di malinconia nell'aria. Per fortuna non è l'unica emozione che questa Draco lascia a chi se la ritrova nel bicchiere.
Formato 33 cl., alc. 11%, lotto 14/12, pagata 6.50 euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 23 febbraio 2018

Kaapse Gozer Imperial Oatmeal Stout

Kaapse Brouwers (letteralmente “i birrai di De Kaap”) è un brewpub che si trova a Katendrecht, vivace quartiere di Rotterdam, anche noto con il nome di De Kaap, "il promontorio": un tempo Chinatown e poi luogo d’incontro prediletto tra marinai e prostituite, oggi è una zona vibrante e alla moda popolata di bar, ristoranti e punti di ritrovo per giovani hipsters.  All’interno di un vecchio magazzino chimato Fenixloods si trova oggi la Fenix Food Factory, un complesso dedicato al cibo ove trovate sidro, formaggio, caffè, insaccati e carne, ristorantini e anche un brewpub. 
Kaapse Brouwers nasce nel 2014 dalla collaborazione tra Tsjomme Zijlstra, fondatore della Fenix Food Factory, John Brus e Menno Olivier del birrificio De Molen. I piccolo spazi del magazzino di Rotterman consentono solamente di realizzare piccoli lotti, mentre il resto della produzione, imbottigliamento incluso, se non erro dovrebbe avvenire sui più capienti impianti di De Molen. Alla guida dell’impianto c’è il giovane birraio Etienne Vermeulen che vanta esperienza alla Bierfabriek di Delft e che è anche titolare della propria beerfirm De Bebaarde Brouwer. Al brewpub, venti spine (anche di birrifici “amici”) e impianti a vista,potete accompagnare le birre con semplici stuzzichini, ma l’offerta culinaria all’interno della Food Factory è molto più ampia e potete portarvi al tavolo quanto acquistato altrove. Se volete approfondire il rapporto birra-cibo dovete invece recarvi al locale Kaapse Maria inaugurato a fine 2016 nel centro della città (Mauritsweg 52).

La birra.
Tutti i nomi delle birre Kaapse hanno un legame con il quartiere Katendrecht: non so cosa il termine “Gozer” significhi oltre al semplice “tipo, ragazzo” che mi suggeriscono i traduttori on-line. La sostanza parla comunque di una imperial (oatmeal) stout che viene quindi prodotta con una buona percentuale d’avena maltata oltre a malti Pils, Brown, Chocolate, Caramello, Roasted e luppolo Sladek. 
All’aspetto è di color ebano molto scuro, la schiuma cremosa non è molto generosa,  è un po’ scomposta e si dissolve abbastanza rapidamente. Eleganza e pulizia non sono le caratteristiche principali di un aroma che è tuttavia dignitoso: tostature, caramello bruciato, fondi di caffè, ricordi quasi svaniti di cioccolato fondente, un po’ di carne. Se in etichetta non ci fosse scritto “oatmeal” la sensazione palatale sarebbe anche discreta, ma visto che viene pubblicizzata l’avena sarebbe lecito aspettarsi una maggiore morbidezza o cremosità e, soprattutto, c’è qualche accenno acquoso che in una imperial stout non vorresti mai trovare.  La bevuta non è del tutto armoniosa e presenta diversi spigoli, soprattutto nel passaggio dal dolce all’amaro:  si pare con il dolce di caramello e liquirizia, frutta sotto spirito (uvetta e prugna) per poi passare all’acidità dei malti scuri e all’amaro  finale delle tostature e dei fondi di caffè: la bevuta è tutto sommato godibile nonostante gli ampi margini di miglioramento nell’eleganza e nella pulizia. L’alcool (9.8%) è sin troppo sotto traccia, la bevibilità ne trae beneficio ma personalmente vorrei che la “temperatura alcolica percepita” fosse un po’  più elevata;  si congeda coerente con se tessa, aggiungendo un po' di ruvida cenere al torrefatto e all'amaro dei fondi di caffè. Non è affatto una cattiva birra, ma ci sono molte cose da sistemare prima di raggiungere un certo livello all'interno della categoria stilistica di riferimento.
Formato 33 cl., alc. 9.8%, IBU 46, scad, 18/12/2025.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 22 febbraio 2018

Malheur 12

Per la birra di oggi dobbiamo ritornare indietro di un paio d’anni, quando sul blog ospitai la Malheur Dark Brut del birrificio  Landtsheer: una Dark Strong Ale belga che viene poi “sottoposta” al Méthode Champenoise  con remuage, degorgement ed aggiunta del liqueur d'expedition. La base di partenza per quella birra è proprio quella Malheur 12 di cui andiamo a parlare. 
Ricordo che la  famiglia De Landtsheer porta avanti una tradizione brassicola iniziata all’inizio del diciannovesimo secolo quando Balthazar De Landtsheer inaugurò a Baasrode il birrificio De  Halve Maan e suo nipote, qualche tempo più tardi,  il birrificio  De Zon a Buggenhout. La seconda guerra mondiale mise fine alla produzione e la famiglia scelse di dedicarsi soprattutto all’importazione e alla distribuzione di bevande, con un occhio di riguardo alla Pilsner Urquell e Westmalle, commissionando di tanto in tanto qualche birra ad alcuni terzisti.  Nel 1991 alla scomparsa di Adolf De Landtsheer il figlio Emmanuel  “Manu” si sente in dovere di riprendere le attività sospese quasi cinquant’anni prima e coronare un sogno a lungo discusso col padre: nell’agosto del 1997 nasce la Malheur Brouwerij, che dopo 20 anni d’attività vanta una produzione che dovrebbe assestarsi sui 20.000 ettolitri  l’anno.

La birra.
La Malheur 12 (11.5%) è l’ammiraglia di  De Landtsheer: il suo debutto avvenne nel 2001, l’anno successivo della sorella minore Malheur 10 (10%) detta anche Malheur Millennium, dove le due lettere iniziali M rappresentavano proprio l’anno 2000 secondo la numerazione romana. Filtrata, non pastorizzata e rifermentata in bottiglia, la sua ricetta dovrebbe prevedere luppoli Styrian Golding,  e Hallertauer Mittelfrüher e un parterre non dichiarato di malti. Il birrificio afferma di indicare la scadenza solo perché obbligato dalla legge, mentre ritiene che sarebbe più appropriato riportare in etichetta la data di produzione: perché non farlo, allora?   Detto questo, De Landtsheer assicura che la Malheur 12 è una birra che può invecchiare senza problemi. 
Difficile risalire alla data di nascita di questa bottiglia prossima alla scadenza, aprile 2018: l’ho acquistata nel 2015 quindi gli anni alle sue spalle sono almeno tre. Si veste di un bel color ebano scuro impreziosito da intensi riflessi rubino; la schiuma è cremosa e abbastanza compatta ma collassa abbastanza rapidamente.  Al naso frutta secca a guscio, biscotto e caramello brunito, qualche ricordo di amaretto e di pasticceria: è tuttavia predominante una componente fruttata non completamente definita che ricorda soprattutto i frutti di bosco “scuri”, in particolare il mirtillo.  Le bollicine sono ancora tante e una quantità minore, in una birra così importante, sarebbe forse auspicabile:  la Malheur 12 scorre tuttavia bene,  mimetizzando l’alcool nel modo in cui i belgi sono sovente maestri. Biscotto e caramello guidano una bevuta che s’arricchisce di frutta disidratata (prugna e mirtillo, ciliegia), liquirizia.  La componente dolce è importante ma viene bilanciata da una perfetta attenuazione, che quasi ricorda quella della Malheur  Dark Brut; il retrogusto accomodante è un caldo abbraccio di frutta sotto spirito, lungo ma quasi delicato. Complessità e profondità non sono le sue caratteristiche principali ma è comunque una soddisfacente bevuta, seppur non al livello della (gloriosa ma esosa) sorella Dark Brut. Non è affatto difficile finire questa bottiglia di Malheur 12 e pagarne le relative conseguenze: che sia forse questa la “disgrazia, cattiva sorte” alla quale il nome della birra fa riferimento? 
Formato 33 cl., alc. 11.5%,  lotto 14:07, scad. 23/04/2018, pagata 2.50 euro (beershop, Belgio)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 21 febbraio 2018

DALLA CANTINA: Weyerbacher Blasphemy 2014

E’ Dan Weirback  a fondare la Weyerbacher Brewing Company nel 1995 nella città di Easton, Pennsylvania: il nome è ovviamente la leggera storpiatura del suo cognome di origine tedesca avvenuta nel corso del tempo dall’altra parte dell’oceano atlantico. Operoso homebrewer dalla metà degli anni ‘80 ed appassionato beer hunter, Daniel ha alle sue spalle un passato da co-titolare di un’azienda che si occupava di fare manutenzione alle piscine e un’altra che distribuiva snacks e patatine fritte in sacchetto.  Nel 1993 è alla ricerca di un nuovo business da intraprendere ed è una vacanza in Vermont assieme alla moglie Sue (e una sosta alla Long Trail Brewery) ad aiutarlo nella decisione: tempo due anni (e trecentomila dollari di finanziamenti) ed è già operativo ad Easton il birrificio Weyerbacher, con l’aiuto del partner Joseph T. Nanovic, oggi ancora tra gli azionisti di minoranza. 
Nel 1997, per “cercare di farci notare in mezzo a tutti quei  birrifici che facevano American Pale Ale cercando di imitare Sierra Nevada”, Weirback decide di alzare l’asticella concentrandosi sulla produzione di birre più alcoliche; si parte con una Raspberry Imperial Stout  - idea elaborata nel passato da homebrewer - seguita dall’(english) barley wine “Blithering Idiot” che diventerà in seguito una della birre più apprezzate del birrificio. Nel 2001 Weyerbacher trasloca in una nuova location di dimensioni pressoché identiche ma con una disposizione degli spazi molto più funzionali alla produzione di birra:  l’impianto è stato ingrandito già un paio di volte e sulla decisione di produrre soprattutto birre “dall’alto contenuto alcolico” non si è tornati più indietro: Dan si è recato spesso in Belgio a “studiare” le Strong Ales e le grandi birre trappiste per poi ritornare negli Stati Uniti a realizzare una Tripel chiamata Merry Monks e soprattutto la strong ale “Quad”,  che leggo essere stata la prima “Quadrupel” americana a finire in una bottiglia. 
Nel 2016 Weyerbacher ha superato i 23.000 ettolitri di birra prodotti e ha chiuso il 2017 sfiorando i 30.000: siamo tuttavia ancora lontani da saturare il potenziale effettivo da 70.000 ettolitri.

La birra.
Blasphemy è la versione barricata (bourbon) della Quad: debutta nel 2007 come produzione occasionale ed arriva tutt’ora sugli scaffali una volta l’anno, di solito in primavera. Sino al 2010 era filtrata e non rifermentata, venduta in bottiglie da 35,5 cl.; Weyerbacher non era completamente soddisfatto del risultato e nel 2011 optò per bottiglie da 75 cl con tappo a gabbietta, rifermentate.  Nello stesso anno ci fu un restyling dell’etichetta raffigurante un corvo nero su di uno sfondo blu. L’etichetta attuale, disegnata da  Richardson Comly, risale invece al 2013; non ho trovato informazioni sulla ricetta se non che viene utilizzato il luppolo Simcoe, ma non è certo lui il protagonista di questa strong ale d’ispirazione trappista.  
La bottiglia di oggi è invece nata nel 2014 e dopo quattro anni di cantina di presenta di color ambrato piuttosto carico o tonaca di frate cappuccino, tanto per restare in ambito monastico: la schiuma è cremosa e abbastanza compatta, con una buona persistenza se si considera gradazione alcolica ed invecchiamento. L’aroma è pulito e ancora piuttosto intenso: uvetta, prugna, ciliegia, fichi e datteri; è la frutta a dominare relegando in secondo piano il dolce del caramello, mentre il bouquet viene impreziosito da dettagli di legno e di vaniglia. La sensazione palatale è abbastanza rispettosa della tradizione belga: non ci sono ingombranti viscosità ad ostacolare lo scorrimento, il corpo è medio con una delicata carbonazione a renderla morbida e gradevole, l’alcool è abbastanza ben mascherato. La bevuta riparte dall’aroma in un percorso dolce e ricco di biscotto e caramello, frutta sotto spirito (uvetta, prugna, fico), vaniglia: a bilanciare c’è una sorprendente virata finale che chiama in causa l'asprezza di frutti rossi come ribes ed amarena. E’ un finale abbastanza secco che riesce ad asciugare il palato permettendolo di godere in tutta tranquillità di un retrogusto lungo, caldo e morbido nel quale s’incontrano di nuovo frutti dolci ed aspri, delicatamente inzuppati in un tocco di bourbon. 
Niente male questa Blasphemy di Weyerbacher: non c’è grossa profondità ma quello che arriva nel bicchiere è godibile e soddisfacente, anche se il carattere belga non è particolarmente evidente/espressivo, e mi riferisco in particolare alla birra “base” che finisce poi ad invecchiare in botte. Il paragone con la St. Bernardus Oak Aged non è del tutto appropriato (botti di calvados anziché bourbon) ma rende vagamente l’idea di come dovrebbe essere la birra base: chi le ha assaggiate entrambe, potrà capire. Considerando che si tratta di una birra barricata che arriva dagli Stai Uniti, questa Blasphemy  si trova comunque ad un ottimo rapporto qualità prezzo.
Formato 75 cl., alc. 11.8%, imbott. 08/05/2014, scadenza 08/05/2019, prezzo indicativo 12.00-14.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 20 febbraio 2018

Lettonia: Valmiermuiža Tumšais Filtrets & Bauskas Tumšais Premium

Lettonia, paese a me completamente sconosciuto per quel che riguarda la birra: la mia esperienza è limitata a due birre Labietis assaggiate qualche mese fa. Ritorniamo nella repubblica baltica e precisamente nel villaggio di Valmiermuizas, dove si trova il birrificio Valmiermuiža. La società  è di proprietà del fondo d’investimento SIA Valmiermuižas ieguldījumu, a sua volta controllato dall’azienda Aigars Ruņģis (60%), dalla società austriaca Alcor  GmbH (16%) e dal fondo d’investimento austriaco ILAG - Industrieliegenschaftenvervaltungs AG (24%) che hanno investito nel progetto 2,4 milioni di euro con l’obiettivo di arrivare a conquistare l’1% del mercato lettone. 
Valmieras Alus è stata fondata nel 2005 ma il birrificio è entrato in funzione solamente nell’autunno del 2008:  nel 2011 aveva prodotto 821.947 litri di birra conquistando lo 0.5% del mercato domestico; il 2017 si è chiuso con un fatturato di 3,98 milioni di euro. A Valmiermuizas, in una sorta di castello, potete visitare gli impianti produttivi (guida in lettone, russo e inglese), acquistare bottiglie e mangiare nel ristorante; la “vetrina” vera e propria si trova tuttavia a Riga alla “Beer Ambassy” (A. Briāna iela 9a, Valdemāra pasāža) dove non c’è produzione ma potrete ugualmente fare acquisti e abbinare cibo alle birre Valmiermuiža e a quelle di altri piccoli produttori lettoni.  La gamma “classica” si compone di Amber Lager e Dark Lager, una birra al frumento estiva ed una bock invernale: ci sono poi alcune etichette stagionali, distillati, cocktail a base di birra e bevande analcoliche.

Le birre.
Valmiermuiža Tumšais Filtrets è una dark lager prodotta con malti Pilsner, Monaco e Caramel Dark; i luppoli sono Hallertauer Nugget e Hallertauer Mittelfrüh. Si presenta di un bel color ebano con un impeccabile cappello di schiuma cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. Al naso non c'è molta intensità e neppure la fragranza è di casa: c'è invece una buona pulizia che permette d'apprezzare profumi di pane nero e biscotto, caramello, qualche nota fruttata che ricorda uvetta e prugna, forse ciliegia. Il percorso prosegue con assolta precisione al palato, con la stessa modesta intensità e assenza di fragranza: è tuttavia una birra priva di difetti e tutto sommato gradevole che svolge il suo compito con un profilo moderatamente dolce che viene poi bilanciato dal quasi impercettibile amaro terroso e tostato finale. Considerata la gradazione alcolica (5.8%) si poteva pretendere un po' di più su quell'intensità dei sapori che viene invece minata da qualche cedimento acquoso. La bevuta è facile e scorrevole, con poche bollicine. La sufficienza è ampiamente guadagnata ma nel bicchiere non ci sono grosse emozioni.

Passiamo ora a Bauskas Alus, operativo dal 1981 a Bauska:  Il birrificio è ancora indipendente e vanta di annoverare tra le sue file il più esperto ed anziano birraio lettone ancora in attività, Kārlis Zālītis. Oggi ha 85 anni e, visto che il sito ufficiale di Bauskas ancora lo nomina, immagino sia ancora vivo e operativo: il suo segreto, dice, è che non beve birra e nessun altro alcolico
Gli impianti sono visitabili e le sette birre a bassa fermentazione prodotte sono affiancate da succhi di frutta e  kvass e bevande analcoliche a base di malto (Veselība e Porteris) due ricette sviluppate negli anni ’60 proprio da Zālītis. Bauskas dovrebbe avere una quota di mercato domestica del 5%, ottenuta soprattutto grazie a due birre: la lager Bauskas Gaisais e la dark lager Bauskas Tumsais, nata nel 1982. Visto che non ho trovato altre informazioni rilevanti su Bauskas, procedo all'assaggio.
Anche il suo aspetto è impeccabile e la livrea è più chiara rispetto alla Valmiermuiža. L'aroma propone pane nero e caramello, qualche nota biscottata e metallica, prugna e uvetta: la fragranza non è di casa, l'intensità è invece accettabile. Rispetto alla sua conterranea la sensazione palatale mi sembra migliore: non ci sono cedimenti acquosi e questa Tumšais Premium scorre rapida senza mai dar la sensazione di scivolare  via. Neppure il gusto fa dell'intensità il suo punto di forza: il canovaccio è sempre lo stesso (caramello/pane nero/uvetta e prugna) per una bevuta dolce che viene poi bilanciata da una rapida nota amaricante finale di pane tostato. Non c'è fragranza e la dolcezza caramellata appare un po' artificiosa: nel complesso è una dark lager bilanciata che si guadagna la sufficienza e che si beve con la stessa facilità con la quale si fa dimenticare. Sebbene si tratti ancora di un birrificio indipendente, quello che finisce nel bicchiere non mi sembra troppo distante dall'anonimato di una delle tante birre industriali.

Nel dettaglio:
Valmiermuiža Tumšais Filtrets, 50 cl., alc. 5.8%, IBU 23, lotto B2 IM, scad. 14/04/2018
Bauskas Tumšais Premium, 50 cl., alc. 5,5% Latvia, lotto 98-1520, scad. 03/01/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 19 febbraio 2018

PicoBrew Bomboclat

PicoBrew debutta nella primavera del 2016: a fondarlo il birraio Pietro Tognoni assieme agli amici/soci Jacopo Volontè e Milo Madia. Un picobirrificio è ancora più piccolo di un microbirrificio ma PicoBrew non è solo questo: interesse lo desta soprattutto il modo scelto per proporsi al pubblico utilizzando una sorta di “pub itinerante”. La birra viene infatti portata in giro per Milano a pedali su di una bicicletta cargo, dotata anche di un piccolo bancone. 
Tognoni inizia con l’homebrewing ai tempi del liceo, partecipa a numerosi concorsi e questa passione lo porta ad iscriversi alla facoltà di Agraria, Scienze e Tecnologie Alimentari: la birra e il "picobirrificio" sono parte della sua tesi di laurea che viene scritta mentre frequenta un periodo di tirocinio presso il Birrificio Italiano. Terminati gli studi le pentole casalinghe non bastano più e Pietro vuole trasformare il suo hobby in una professione: con i soci Volontè e Madia nasce la PicoBrew Srl che si sposta a produrre all’interno di una cascina a Cisliano (Milano) dove viene posizionato un impianto pilota professionale da 100 litri. L’idea del pub itinerante per Milano è accattivante ma il suo fascino è un po’ ridotto dal fatto che, se non erro,  la burocrazia non permette purtroppo di spillare la birra dei fusti: ci si deve accontentare delle bottiglie. L’offerta iniziale prevede la Big Up (imperial pils con bacche di Goji), la Bomboclat (Hoppy Belgian Ale), la Pull Up (Blanche) e la Schwarze Negher (ovviamente una schwarzbier) alla quale se ne sono via via aggiunte molte altre. 
Il pub si sposta a seconda degli eventi milanesi ma lo potete solitamente trovare in Alzaia Naviglio Grande e, dallo scorso ottobre, una seconda bicicletta sosta anche alle Colonne di San Lorenzo; seguite la pagina Facebook di PicoBrew se volete essere sempre aggiornati. Questo canale distributivo è ovviamente meteo-dipendente: difficile sedersi all’aperto a bere una birra nei mesi più freddi dell’anno o in caso di maltempo. Fortunatamente per PicoBrew le bottiglie e fusti sono richiesti anche da altri locali e, per far fronte all'aumento di domanda, la produzione oggi avviene principalmente sugli impianti di Serra Storta (Buscate, MI), birrificio italiano che produce unicamente per conto terzi. Il che rende tecnicamente PicoBrew una sorta di beerfirm. 
Nei progetti futuri c’è l’ulteriore ampiamento dell’offerta produttiva iniziando dalle birre acide e l’apertura di un pub vero e proprio, una dimora “fissa” che consenta di rimpiazzare le biciclette soprattutto nel periodo invernale.

La birra.
Bomboclat è un’espressione giamaicana che indica stupore e meraviglia: le stesse sensazioni, assicurano i ragazzi di PicoBrew, che proverete assaggiando questo Belgian Ale caratterizzata da una generosa ed abbondante luppolatura con varietà continentali ed americane. Sarà vero? 
All’aspetto è di un dorato leggermente velato sul quale si forma una generosa testa di schiuma pannosa, compatta e dall’ottima persistenza. Al naso c’è pulizia ed equilibrio tra esteri fruttati (banana, pera), spezie da lievito (coriandolo, pepe bianco), profumi floreali, frutta a pasta gialla e agrumi, in particolare cedro e limone. Il bouquet è espressivo e di buona intensità, preludio ad un gusto che mantiene le aspettative: è una Belgian Ale vivacemente carbonata (forse un pochino troppo) che scorre veloce senza incontrare resistenza. I malti (pane, accenni di miele) disegnano un tappeto leggero a sostegno di una bevuta fruttata che mostra buona corrispondenza con l’aroma: pesca e agrumi conquistano la scena, pera e banana rimangono nelle retrovie: una delicata speziatura amalgama le varie componenti. Si finisce con una bella secchezza e un amaro di buona intensità nel quale convivono note terrose, erbacee e zesty. 
Davvero una piacevole sorpresa questa Bomboclat, una Belgian Ale moderna e vivace che non potrà non piacere a chi ama le produzioni di De La Senne o, per restare nei nostri confini nazionali, Extraomnes. Il Belgio è sempre un banco di prova impegnativo per un birraio e qui il lievito lavora bene, con pulizia ed espressività: si potrebbe osare ancora qualcosa in più per quel che riguarda l’intensità, ma già così il risultato è ampiamente soddisfacente, dissetante e rinfrescante.
Formato 33 cl., alc. 5.0%, lotto 146 17, scad. 01/12/2018, prezzo indicativo 4.00-4.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 16 febbraio 2018

Tiny Rebel Clwb Tropicana IPA

Ritorna sul blog il birrificio gallese Tiny Rebel, già ospitato in più di un’occasione: fondato nel 2012 a Newport da due ingegneri con l’hobby dell’homebrewer, Gareth “Gazz” Williams  e Bradley Cummings.  In quell’anno il birrificio produsse 800 ettolitri con un impianto da 10 barili: oggi grazie ad un piano di espansione da 2,6 milioni di sterline Tiny Rebel dispone di un impianto da 30 barili e un potenziale annuo, ovviamente ancora non raggiunto, di 50.000 ettolitri. La nuova sede è stata inaugurata a gennaio 2017 e, un mese dopo, sono arrivate anche le prime lattine: negli anni precedenti Williams e Cummings avevano aperto la Urban House, primo  locale a Cardiff completamente dedicato alla “craft beer”, replicando poi nel 2015 con una succursale nella propria città di Newport. Nei concorsi nazionali TIny Rebel ha continuato a riscuotere consensi e medaglie e il birrificio ha anche acquistato un nuovo edificio di fronte alla nuova sede per futuri piani di espansione ancora non ben precisati (lieviti selvaggi?); oggi Tiny Rebel conta un centinaio di dipendenti
Tutto bene, quindi? Non proprio: la nuova “canning line” proveniente dagli Stati Uniti è stata inaugurata a febbraio 2017 con la  Red Ale Cwtch, l’American pale Ale  Cali e la IPA Clwb Tropicana ma nel bel mezzo della scorsa estate il birrificio è stato costretto a richiamare diverse lattine con problemi qualitativi  (ossidazione) che avevano provocato un’imprevista rifermentazione in bottiglia la quale, in alcuni casi, aveva portato all’esplosione delle lattine; la produzione di lattine è stata sospesa per alcuni mesi in attesa di trovare le giuste contromisure.

La birra.
Debutta in bottiglia a febbraio 2016 Clwb Tropicana, una IPA che era comunque già nota a chi frequentava la taproom del birrificio: fu proprio il successo riscosso tra le mura domestiche a convincere Tiny Rebel a renderla disponibile prima in bottiglia e poi ad inserirla tra le lattine che vengono attualmente prodotte tutto l'anno. Si tratta di un'American IPA nella cui ricetta ci finisce anche un'imprecisata percentuale di succo di frutta che dovrebbe includere pesca, ananas, mango e frutto della passione. 
Il suo colore è dorato, leggermente velato: la schiuma è invece cremosa e compatta e mostra una buona persistenza. L'aroma mantiene le promesse del nome della birra offrendo una macedonia tropicale pulita e fresca, abbastanza intensa ed elegante: ananas, mango e passion fruit in prima linea, melone pesca e qualche agrume nelle retrovie. La schiuma emana invece un nettissimo odore di chewing-gum alla fragola che fortunatamente svanisce dopo pochi istanti. Il gusto è un po' meno intenso rispetto all'aroma ma lo ricalca con buona precisione dando forma ad una bevuta molto fruttata che tuttavia non arriva a spingersi agli estremi del juicy. L'uso della frutta è molto sensato e discreto al punto che è difficile dire dove termina il contributo dei luppoli ed inizia quello del succo: in sottofondo si riesce anche a percepire la leggera base maltata (pane). L'amaro vegetale/resinoso del finale è di modesta intensità e dura giusto il tempo necessario a ripulire il palato permettendogli d'assaporare un breve ritorno di frutta tropicale nel retrogusto. Il risultato è un po' ruffiano e piacione ma la Clwb Tropicana è comunque una birra ben fatta e pulita, spensierata e leggera (5.5%) che si beve con grande facilità e piacere: questa lattina nello specifico mi sembra anche ben valorizzata dalla giovinezza, ovvero età anagrafica. 
Formato 33 cl., alc. 5.5%, IBU 40, lotto G183, scad. 03/08/2018, prezzo indicativo 4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 15 febbraio 2018

Mikkeller Beer Geek Vanilla Maple Cocoa

Chiudiamo questa piccola rassegna di birre allo sciroppo d’acero ritornano al punto di partenza, ovvero da quel Mikkeller con il quale l’avevamo aperta ovvero la Beer Geek Vanilla Maple Shake: una birra che mi era piaciuta nonostante non ami alla follia queste “pastry stout” o birre-dessert.
La lattina di oggi è una delle ultime declinazioni sul tema “Beer Geek” che arrivano dal quartiere della beerfirm-birrificio più famosa al mondo: Beer Geek Vanilla Maple Cocoa.  Sparisce la parola “shake” ma il lattosio è ugualmente presente nella ricetta assieme ad avena, caffè aromatizzato all’acero (1%) fave di cacao (1%), sciroppo d’acero (0.7%), vaniglia (0.5%).  Mi aspettavo quindi una birra abbastanza simile alla Beer Geek Vanilla Maple Shake con magari l’elemento cioccolato più in evidenza: c’è la componente “dessert” ma rimane anche ben percepibile la birra. Non è invece quello che accade con la sua sorella al cioccolato, nella quale purtroppo della birra si perdono le tracce.

La  birra.
Nel bicchiere è tuttavia bella e golosa: nera con una generosa e compatta testa di schiuma cremosa, compatta e dalla ottima persistenza. Davvero notevole se si considera la gradazione alcolica (13%) e l’utilizzo in ricetta di ingredienti “aggiunti” che a volta non aiutano la formazione di schiuma. L’aroma è tanto esuberante e sfacciato quanto dozzinale e privo di una qualsiasi eleganza:  vaniglia e cioccolato dominano il palcoscenico, ma invece che la patisserie di qualità evoca uno dei tanti snacks industriali. Aggiungeteci frutta secca, caramello e un caffè (in capsula, ovviamente) e ottenete un agglomerato molto dolce e non troppo pulito nel quale lo sciroppo d’acero si perde e non si fa notare. La sensazione palatale è piuttosto morbida: non ci sono viscosità eccessive e la birra si può sorseggiare come una sorta di soffice mousse liquida. 
Il gusto è fotocopia dell’amaro, in tutte le sue caratteristiche: sfacciato, esagerato e cafone nella sua dolcezza da snack industriale al cioccolato, caramello e vaniglia; intensa ma molto poco definita e neppure troppo pulita. L’alcool riscalda con vigore ogni sorso contribuendo ad asciugare un po’ la birra, l’amaro finale anziché da caffè e tostature proviene dai luppoli: una breve tregua prima di un retrogusto-dessert. Sciroppo d’acero non pervenuto neppure al palato, o forse sono io che non sono riuscito ad estrapolarlo dalla massa dolce. E’ una lattina da mezzo litro ma per me dieci centilitri bastano e avanzano:se la Beer Geek Vanilla Maple Shake aveva secondo me ancora un senso, riuscendo a trovare una sorta di compromesso tra birra e dessert, la Beer Geek Vanilla Maple Cocoa si spinge ben oltre il punto di non ritorno. Quindi se amate le Omnipollate e le birre (?) di quel genere fateci un pensiero,  magari riuscirete ad apprezzarla: se invece amate la birra, restatene alla larga.
Formato 50 cl., alc. 13%, imbott. 31/10/2017, scad. 31/10/2027, prezzo indicativo 12-14 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 14 febbraio 2018

Evil Twin Imperial Biscotti Break Bourbon Maple Syrup Barrel Aged

Birra e sciroppo d’acero: episodio numero 5 anch’esso ambientato negli Stati Uniti. La beerfirm (ormai quasi birrificio) Evil Twin non si tira di certo indietro ed è sempre pronta ad abbracciare le ultime tendenze; in collaborazione con la BLiS Gourmet, produttore di sciroppo d’acero invecchiato in botti di bourbon, il “gemello cattivo” di Mikkeller alias Jeppe Jarnit-Bjergsø si fa mandare alcuni barili esausti per riempirli di birra. Lo stesso fornitore utilizzato da Founders per la CBS. Il risultato si può apprezzare a partire dall’agosto 2016 quando arriva sul mercato la Imperial Biscotti Break Bourbon Maple Syrup Barrel Aged, versione barricata di una delle birre di maggior successo della beerfirm. Neppure il tempo di berla e a settembre spunta la Michigan Maple Jesus incalzata dalla Even More Jesus Bourbon Maple Syrup Barrel Aged: la differenza tra le due? Quasi nessuna: la prima (formato 35.5 cl.) era stata prodotta al birrificio Dark Horse, Michigan, la seconda (formato 65 cl) presso il birrificio Westbrook (Carolina del Sud). 
Infustata/imbottigliata l’imperial stout, le botti esauste fanno poi ritorno dai magazzini di Evil Tiwn a quelli della BLiS Gourmet per essere riempiti di salsa di soia e creare (l’interessante?) Michigan Maple Soy. Ma poteva il prolifico Gemello Cattivo limitarsi a queste poche etichette che hanno come protagonista l’acero? Certo che no, ed ecco nascere le varianti  Imperial Biscotti Break Maple Bourbon BA Chocolate Hazelnut, Imperial Biscotti Break Maple Bourbon BA Coconut e la  Biscotti Break Maple Bourbon BA Maple Bacon Coffee. In pratica alla già ricca ricetta della Biscotti Break caffè, vaniglia e mandorle tostate) viene aggiunto il passato in botti di bourbon che hanno ospitato acero con aggiunta di ulteriori adjuncts come vaniglia, cioccolato, cocco tostato, pancetta, caffè. L’ultima nata è invece la Imperial Biscotti Break Double Maple Barrel Aged che, dopo aver passato un anno in botti di bourbon/acero, riceve un ulteriore passaggio di sei mesi in botti di marsala. E se non siete ancora sazi vi ricordo che esiste anche la Maple Bourbon BA Imperial Mexican Biscotti Cake Break Imperial Stout, ovvero un blend di Imperial Biscotti Break di Evil Twin e Mexican Cake di Westbrook; sommandole otteniamo un’imperial stout con mandorle, cacao, caffè, cannella, vaniglia e habanero che viene poi barricata. Direi che può bastare.

La birra.
Meglio precisare di cosa stiamo parlando, visto il lungo elenco di birre appena passate in rassegna:  Imperial Biscotti Break Bourbon Maple Syrup Barrel Aged, quindi Imperial Biscotti Break invecchiata un anno in botti ex-bourbon che hanno più di recente ospitato sciroppo d’acero.
Si presenta nera e la piccola schiuma cremosa che si forma nel bicchiere è piuttosto rapida a dissiparsi: bourbon e un mix di cosiddetti “dark fruits” (prugna, uvetta, ciliegia) danno il benvenuto in un aroma intenso, abbastanza pulito e discretamente elegante che tuttavia mostra un bouquet abbastanza povero. In sottofondo c’è un po’ di sciroppo d’acero che fatica ad emergere in un contesto già molto dolce di suo. Se siete fra quelli che sostengono che non ci sia differenza tra stout e porter, fatevene una ragione: nella maggior parte dei casi per i birrifici americani una (imperial) porter avrà un corpo più modesto rispetto ad una (imperial) stout, e questa IBBBMSBA (perdonatemi l’acronimo) non fa eccezione. Quindi corpo medio, poche bollicine, nessun’indulgenza cremosa o particolarmente morbida: la facilità di bevuta è avvantaggiata ma personalmente sento la mancanza di un po’ di “ciccia” in più. Il gusto prosegue sul versante dolce con un carico di melassa e liquirizia, prugna/uvetta/ciliegia/, qualche nota di vaniglia: il bourbon e l’alcool riscaldano senza esagerare ogni sorso e contribuiscono a contrastare un po’ la dolcezza, ma non aspettatevi un vero e proprio equilibrio. E’ una birra molto dolce, a volte un po’ troppo: il bourbon lega molto bene la componente fruttata dando vita ad una birra da dopocena gradevole e intensa che tuttavia manca di adeguata complessità o profondità, non fosse altro per giustificare il prezzo salato del biglietto. Quando una birra costa circa 46 dollari al litro, che nei negozi europei diventano più o meno 46 Euro, è inevitabile che si generino delle aspettative abbastanza elevate che in questo caso non vengono corrisposte del tutto, benché non sia affatto una cattiva birra, intendiamoci. Nessuna emozione e un po’ troppo noia in una "big beer" che dovrebbe in teoria tenervi compagnia per tutta la sera, anche se dividete i 65 cl. con qualcuno: sciroppo d’acero quasi non pervenuto, o forse non sono riuscito io a coglierlo in un contesto che già abbonda di zuccheri e di dolce.

Formato 65 cl., alc. 11.5%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 27-30 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 13 febbraio 2018

Jackie O's Bourbon Barrel Black Maple

Per il quarto incontro tra birra e sciroppo d’acero restiamo negli Stati Uniti e precisamente ad Athens, Ohio, dove si trova il birrificio Jackie O’s che vi avevo presentato in questa occasione. In precedenza avevamo visto due birre prodotte con sciroppo d’acero (qui e qui) e una (qui) invecchiata solamente in botti di bourbon che avevano contenuto sciroppo d’acero. La proposta di Jackie O’s si trova a metà strada: una imperial porter prodotta con sciroppo d’acero che viene poi invecchiata in botti ex-bourbon. 
Era il 2014 e nel corso di una cotta aperta al pubblico nacque la Black Maple, con sciroppo d’acero prodotto localmente dalla Sticky Pete di Athens; dieci mesi di botte e venne alla luce la Bourbon Barrel Black Maple, disponibile inizialmente solo presso le spine della taproom di Jackie O’s e poi commercializzata anche in bottiglia. Dopo un’assenza di quasi tre anni lo scorso ottobre 2017  la Bourbon Barrel Black Maple è ritornata assieme alla “sorella” Vanilla Bourbon Barrel Black Maple: 12 dollari il prezzo di vendita al birrificio, con un limite massimo di dodici bottiglie a testa. Qualche bottiglia è stata poi anche destinata al mercato europeo. 
Il ritorno coincide purtroppo con un annata non troppo positiva per le birre barricate del birrificio dell’Ohio che, qualche settimana fa, ha dovuto pubblicamente ammettere problemi qualitativi annunciando una “campagna di risanamento” chiamata Making it Right. Su questa pagina trovate tutte le birre potenzialmente coinvolte (la Black Maple 2017 è tra queste)  e le modalità per ottenere delle birre in sostituzione di una bottiglia infetta; tutto quello che dovete fare è prendere appuntamento e recarvi in birrificio con i vuoti infetti e cambiarle con qualcos'altro. Un gesto apprezzabile per chi vive nei dintorni di Athens, ma come saranno rimborsati i consumatori che vivono lontano o che si trovano addirittura all’estero? Nel link sopracitato trovate anche i risultati dei test  condotti da Art Oestrike, proprietario e fondatore del birrificio: i problemi riguardano quasi solamente le cosiddette birre prodotte con “adjuncts”: noci e vaniglia sono i due ingredienti principalmente incriminati. Sulle birre “normali” non sono stati sino ad ora riscontrati casi d’infezione: Jackis O’s ha anche annunciato di aver commissionato una nuova imbottigliatrice che dovrebbe porre rimedio a questi problemi e, in giugno, avrà a disposizione anche un pastorizzatore che sarà utilizzato per tutte le adjunct beers.

La birra.
Visto che anche la Black Maple 2017 (barricata o no, non mi è chiaro) è inclusa nella lista delle birre nelle quali sono state riscontrate alcune infezioni, mi accingo a stapparla incrociando le dita. Fortunatamente la bottiglia è sana e colma il bicchiere di un liquido quasi nero: la schiuma, benché cremosa e compatta, è di dimensioni piuttosto modeste così come la sua persistenza. Non c’è infezione ma il naso non presenta quella ricchezza che ti aspetteresti da un potente imperial porter (12.1%); l’aroma non è neppur particolarmente elegante, benché abbastanza pulito: legno e bourbon, tostature, carne, liquirizia. Lo sciroppo d’acero è molto volatile e la sua presenza è davvero flebile: non avverto neppure la presenza di quelle piccola percentuale di malti affumicati che dovrebbero essere stati usati nella ricetta. Il suo corpo è medio, ci sono poche bollicine ed il mouthfeel è gradevole, anche se non regala nessuna coccola cremosa, morbida o viscosa. Al palato ci trovo un po’ troppa liquirizia incalzata dall’amaro del caffè e delle tostature che viene poi bilanciato  solo parzialmente dal dolce del bourbon: vaniglia e sciroppo d’acero rimangono molto, molto in sottofondo. La bevuta è potente, l’alcool riscalda ogni sorso con vigore ma nel complesso mancano complessità e profondità, nonché emozioni; una leggerissima astringenza a precede un finale ricco di bourbon, legno e liquirizia. 
Scongiurata l’infezione, questa bottiglia di Black Maple mi lascia comunque un po’ deluso, soprattutto per il rapporto qualità-prezzo. Una imperial porter dura e un po' ruvida,  segnata sopratutto dalla botte di bourbon: chi lo ama probabilmente avrà una percezione più entusiasta di questa birra. Del maple/acero incluso nel nome si perdono quasi le tracce e chi si aspettava una imperial porter dolce rimane con l'amaro in bocca.
Formato 37.5 cl., alc. 12.1%, lotto 2017, prezzo indicativo 17-20 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 12 febbraio 2018

Founders CBS (Canadian Breakfast Stout) 2017

Proseguiamo questa breve rassegna su birra e sciroppo d’acero con una bottiglia che sino a pochi anni fa sarebbe stata una “balena bianca”, termine col quale i beergeeks identificano le birre più difficili da trovare. Parliamo della CBS – Canadian Breakfast Stout del birrificio Founders (Michigan, USA), avvistata per l’ultima volta in bottiglia nel lontano 2011 e poi, in pochissimi fusti, anche nel 2014 e nel 2015.   
La CBS è una variante della KBS – Kentucky Breakfast Stout, a sua volta versione “potenziata” della Breakfast Stout, imperial stout prodotta con caffè e fave di cioccolato: per avere maggiori dettagli su queste due birre vi rimando alle specifiche pagine del blog. La CBS nasce nel 2009 quando Founders entra in possesso di alcuni botti usate di bourbon che più di recente avevano ospitato dello sciroppo d’acero: il birrificio le riempie con la stessa imperial stout base della KBS e il risultato è sorprendente. Per assaggiare i pochi fusti prodotti dovevate recarvi presso la taproom del birrificio, ma ciò non aveva impedito alla CBS di scalare le classifiche del beer-rating posizionandosi nella Top 5 delle migliori birre al mondo secondo Beer-Advocate, facendo compagnia alla sorella KBS. E’ solo nell’ottobre 2011 che la CBS “esce” dalle mura di Grand Rapids e viene imbottigliata nell’ambito della “backstage series”:  quantità molto limitate di bottiglie da 75 cl. nelle quali sono messe in vendita birre stagionali/sperimentali precedentemente disponibili solo alle spine del birrificio. Da allora la CBS è rimasta per molti anni un’irraggiungibile chimera per moltissimi appassionati: potevate berla solo intercettando uno dei pochi fusti messi in vendita negli anni successivi o reperendo qualche bottiglia del 2011 tramite scambio o mercato secondario.  La KBS, regolarmente prodotta una volta all’anno, ha invece continuato ad essere in cima alla lista dei desideri dei beergeeks americani che, ogni anno all’inizio di marzo, sfidavano il freddo del Michigan accampandosi in tenda fuori dal birrificio la notte prima della messa in vendita delle bottiglie.  
Nel 2014 Founders ha annunciato la propria partnership con il birrificio industriale spagnolo Mahou San Miguel, vendendo il 30% delle proprie quote societarie e cessando di fatto di essere considerato un birrificio artigianale, secondo le linee guida della Brewers Association americana. L’investimento ha consentito a Founders di procedere con il suo piano di espansione da 40 milioni di dollari volto a raggiungere a breve termine il milione di ettolitri l’anno: 550.000 quelli prodotti nel 2017, 733.000 l’obiettivo fissato per il 2018. Anche il programma degli invecchiamenti in botte, oggi chiamato “Barrel-Aged Series” ha subito un enorme potenziamento con l’acquisto di migliaia di botti usate che oggi riposano all'interno di una cava di gesso in disuso non lontana dal birrificio; la produzione della KBS è stata raddoppiata anno dopo anno e nel 2015 la KBS è arrivata anche in Europa; oggi senza grossi sforzi potete trovare nei beershop europei ancora delle bottiglie del 2016 e 2017.  
Il mercato della craft beer è in costante evoluzione, la moda cambia rapidamente e molti altri attori sono entrati in scena sullo stesso palcoscenico, quelle delle Imperial Stout invecchiate in botti di bourbon. La KBS ha inevitabilmente perduto moto di quell’hype che prima era anche dovuto alla sua scarsa reperibilità:  i grandi numeri non sempre vanno a braccetto con la qualità e – dicono – la KBS oggi non è più il capolavoro di una volta, pur restando comunque un’ottima birra che si trova ancora ai primi posti delle frivole classifiche di beer-rating:  tredicesima miglior imperial stout al mondo, diciassettesima miglior birra al mondo
E la CBS, che nel beer-rating batte di poche posizioni la KBS, perderà anche lei parte del suo fascino? Probabilmente sì, anche per il solo fatto che lo scorso novembre Founders ne ha annunciato il ritorno su grande scala rinunciando al fascino della rarità: bottiglie da 75 cl. disponibili dal primo dicembre in tutti i 46 stati americani dove il birrificio distribuisce e, da gennaio, anche in Europa nel più pratico formato da 35.5 cl. Ma dal 2011 ad oggi sono anche cambiati i palati dei bevitori e, soprattutto, sono arrivati molti altri concorrenti a rimpiazzarla per quel che riguarda l’hype: un processo inevitabile quando un birrificio cresce di dimensioni. Sette anni fa non vi erano al mondo molte imperial stout prodotte con caffè, cioccolato e sciroppo d’acero e la CBS faceva scuola. Oggi è “solo” una  delle tante e, per quel che mi riguarda, è molto meglio così: riesco a bere una birra che sarebbe stata per me inaccessibile.

La birra.
Dopo la lunga ma doverosa introduzione, ricapitoliamo: imperial stout prodotta con caffè Sumatra, fave di cacao e invecchiata all’incirca dodici mesi in botti di bourbon che hanno ospitato sciroppo d’acero della BLiS Gourmet, Michigan. Tra le due aziende c’è un intenso scambio di botti, visto che la BLis utilizza i barili esausti della KBS di Founders per produrre alcune salse e sciroppi: secondo alcune voci i barili di Bourbon Maple Syrup usati per produrre la CBS sarebbero proprio quelli vuoti di KBS che la BLis aveva ricevuto un anno prima da Founders, riempendoli di sciroppo d’acero e, dopo averli “svuotati”, restituendoli al mittente. Chi ha tuttavia assaggiato il Bourbon Maple Syrup di 
BLis assicura di non aver sentito la presenza del caffè e della cioccolata della KBS. 
Nel bicchiere si presenta quasi nera e sormontata da un impressionante cappello di schiuma cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Al naso arrivano subito i tipici profumi di caffè Sumatra usato da Founders, gli stessi che troverete nella Breakfast Stout, KBS  e soprattutto nella Sumatra Mountain, per intenderci; cioccolato fondente e bourbon completano un bouquet caldo e avvolgente, pulito ed elegante, impreziosito da note di legno, cocco tostato e da una lieve presenza zuccherina di sciroppo d’acero. La sensazione palatale è morbida, quasi una carezza delicata se si considera la sua gradazione alcolica (11.7%): l’avena le dona una morbidezza setosa, con una viscosità piuttosto bassa che ne facilita il sorseggiare. Il gusto è molto ben bilanciato tra la ricchezza del caffè e del cioccolato fondente, al cui amaro risponde la dolcezza del bourbon e dello sciroppo d’acero: il consiglio è di lasciarla riscaldare molto e di avere pazienza, se volete che quest’ultimo ingrediente sia maggiormente percepibile. L’alcool riscalda ogni sorso con decisione ma non va mai oltre il dovuto, la bevuta è quasi “mansueta” per ¾  per poi esplodere in un intenso finale di bourbon, caffè/tostature e un amaro al quale contribuiscono anche i luppoli. 
Il risultato? Una imperial stout massiccia e potente ma non difficile da bere, pulita ed elegante: versatela nel bicchiere e sorseggiatela con tutta calma, lasciandola "aprire" e riscaldarsi per bene. Grande birra che regala più di una emozione lasciando completamente soddisfatti: se amate le imperial stout, fate in modo di trovarla e di assaggiarla, è arrivata anche in Europa ed in Italia proprio in queste settimane.
Formato 35.5 cl., alc. 11.7%, imbott. 27/10/2017, prezzo indicativo 10,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 9 febbraio 2018

Tempest All The Leaves Are Brown

Eccoci al secondo appuntamento con “birra e sciroppo d’acero”; dopo la Mikkeller Beer Geek Vanilla Maple Shake di ieri spostiamoci dalla Scandinavia alla Scozia per andare dal birrificio Tempest, incontrato sul blog in più di un’occasione. 
A settembre 2017 Tempest venne invitato a partecipare al Borefts Beer Festival organizzato in Olanda dal birrificio De Molen; ai partecipanti è solitamente richiesto di produrre almeno una birra “a tema” con il festival, che in quell’anno riguarda il Flower Power: “vogliamo più pace, amore e felicità nel mondo, e anche noi con la craft beer possiamo collaborare. Ai birrai lasciamo ampio spazio interpretativo: usate ingredienti (fiori?) che facciano sentire alla gente più amore, pace e felicità. I luppoli possono essere utilizzati ma non contano”. 
Per l’occasione Tempest realizza una Imperial Brown Ale (10.5%) con sciroppo d’acero; oltre a questa birra l’offerta del birrificio scozzese al Borefts si completa con Pale Armadillo Session IPA, Mango Berlinner, Loral IPL, Harvest IPA, Brave New World IPA, The Old Fashioned (aged Imperial Rye) e la Bourbon Barrel-aged Mexicake  imperial stout. 
Dopo il debutto olandese, qualche fusto della All The Leaves Are Brown appare all’Oktoberfest che alla fine di settembre il birrificio Tempest organizza presso la propria sede; 15 sterline il prezzo d’ingresso che comprende bicchiere, una birra e intrattenimento musicale. I mille partecipanti voteranno proprio l’imperial brown ale come la migliore tra le birre presenti all’evento. La settimana successiva All The Leaves Are Brown viene anche imbottigliata e messa in vendita in quantità limitate.

La birra.
Malti Golden Promise, Brown e Chocolate, luppoli “nobili”, sciroppo d’acero: questa la ricetta semplice di una potente brown ale che si colora di ebano scuro e forma una modesta testa di schiuma cremosa e abbastanza compatta. Lo sciroppo d’acero non si nasconde: immaginate di inzupparvi dentro pezzetti di pane e fragranti biscotti, uvetta e prugna. C’è anche qualche profumo di toffee e terroso.  Il bouquet è dolce e caldo, un ideale riparo dalle intemperie dei rigidi autunni scozzesi: il mouthfeel segue queste linee guida e coccola il palato con morbidezza, poche bollicine, un corpo medio che non ostacola lo scorrimento. L’autunno evoca il calore dei colori del fogliame e quello dei primi caminetti che vengono accesi per riscaldarsi: nel bicchiere c’è tutto questo, e anche di più. Una vigorosa componente etilica riscalda ad ogni sorso il dolce di sciroppo d’acero, biscotto e toffee, frutta sotto spirito: a bilanciare c’è qualche nota amaricante terrosa e di pane tostato, persino suggestioni di caffè e cioccolato. Sciroppo d’acero e frutta sotto spirito sono il lunghissimo finale con il quale si congeda una imperial brown ale pulita ed elegante, intensa, bilanciata, non difficile da sorseggiare, emozionante. Sciroppo d'acero in evidenza ma perfettamente amalgamato con tutti gli altri elementi per un risultato eccellente: birra assolutamente riuscita, da comprare senza indugio.
Formato 33 cl., alc. 10.5%, IBU 50, lotto 00461, scad. 02/10/2018, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.