sabato 29 dicembre 2018

To Øl Jule Mælk

Per la seconda e ultima birra del Natale 2018 andiamo in Danimarca da To Øl, beerfirm e ora parzialmente birrificio (grazie al brewpub Brus di Copenhagen) fondata dai due allievi di Mikkeller,  Tobias Emil Jensen e Tore Gynther; al timone è rimasto oggi solamente quest'ultimo, aiutato dagli investimenti portati da altri soci che nel 2017 hanno rilevato la quota di Jensen.  
To Øl, come molti altri birrifici danesi, mantiene viva la tradizione delle birre natalizie con un'offerta piuttosto ampia. Per il 2018 sono state realizzate 1 Ton of Christmas (8,1% Berliner Weisse con ciliegie, prugne e ribes rosse),  3Xmas (4,7% Triple Dry Hopped IPA), Blizzard (In A Beer Mug - 6,0% Winter Wheat IPA),  Frost Bite (6,0% Pale Ale
con scorza d'arancia e aghi di pino)  Fuck Art – Winter Is Coming (8,0% Tripel con cardamomo, coriandolo e scorza d'arancia), My Honningkage Is Bigger Than Yours (12,3% Barley Wine speziato con zenzero, cannella, cardamomo e noce moscata),  Santa Gose F&#%! It All (4,0% Gose con frutto della passione, guaiava e mango), Santa’s Secret: Mochaccino Messiah Double Shot (8,0% Brown Ale con  caffè, cannella e cardamomo), Santastique 2018 (4,7% Belgian Wit Ale con brettanomiceti), Shameless Santa 2018 (10,5% Belgian Ale con cannella, anice stellato, cardamomo e liquirizia),  Snowball (8,0 % Saison).
E se tutto questo non vi basta potete sempre riscaldare le fredde serata di dicembre con l'ammiraglia della casa, la potente (15%) imperial stout chiamata Jule Mælk, "il latte di Natale". Oltre alla versione "standard"  ne esistono ovviamente diverse varianti barricate: Cognac, Islay Whisky, Rum e Tequila quelle commercializzate sino ad ora, ma ne avrò sicuramente dimenticata qualcuna.

La birra.
Niente spezie (fortunatamente, aggiungo io) nella ricetta di questa massiccia Imperial Stout che oltre al lattosio vede un ricco parterre di malti (Chocolate, Dark Crystal, Melanoidin, Pale, Roasted Barley, Smoked e Special B), zucchero Cassonade, luppoli Sorachi Ace, Tettnanger e Tomohawk. "In Danimarca amiamo le birre di Natale e passiamo la maggior parte del mese di dicembre a bere birre di Natale in accompagnamento all'anatra grassa, all'arrosto di maiale, al cavolo rosso e all'aringa marinata in aceto".
Nel bicchiere è minacciosamente nera con un'imponente testa di schiuma cremosa, compatta e dall'ottima persistenza: viene quasi voglia di mangiarla con un cucchiaino. Purtroppo l'aroma, poco intenso e confuso, è inversamente proporzionale alla bellezza estetica: emerge il dolce della melassa e dello zucchero caramellato, in sottofondo una curiosa nota aspra richiama la marasca. Le montagne russe ci riportano in alto quando la birra tocca il palato: corpo pieno, poche bollicine, mouthfeel oleoso, viscoso ma incredibilmente morbido, come una carezza che non ti aspetteresti da una birra da 15 gradi. Il gusto non è un inno alla pulizia ed alla precisione ma è un piccolo passo in avanti rispetto alla pochezza aromatica. Caramello, melassa, liquirizia dolce, prugna e uvetta sotto spirito e di nuovo un ricordo aspro di marasca; in secondo piano spunta il dolce del lattosio e del cioccolato. Non c'è nessun accenno di tostato e di torrefatto, la bevuta è dolce ma non stucchevole grazie all'intervento dell'alcool che riesce quasi ad asciugare il palato dai residui zuccherini. La componente etilica è evidente in ogni istante della bevuta, ma non è questo il problema principale del "latte di Natale" di To Øl: quello che colpisce maggiormente è la sua scarsa definizione e la mancanza di profondità. Un agglomerato dolce, confuso e difficile da decifrare, che non fa venire molta voglia di festeggiare: gradevole in piccolissime dosi e per pochissimi minuti.
Formato 37.5 cl., alc. 15%, scad. 30/08/2027, prezzo indicativo 10,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 26 dicembre 2018

DALLA CANTINA: Dupont Avec les Bons Voeux 2012

Poche birre di Natale, quest'anno: ho deciso di stapparne (e parlarne) giusto un paio. La prima di queste due è un classico nonché un graditissimo ritorno: della Avec les Bons Voeux della Brasserie Dupont ve ne avevo già parlato nel 2013.  Non è notoriamente una birra da invecchiamento ma ho provato a sfidare la sorte dimenticando qualche bottiglia in cantina affidandola al tempo.
Questa Belgian Strong Ale nacque nel 1970 quando Marc Rosier, figlio del fondatore Louis Dupont, decise di produrre una birra speciale da regalare ai migliori clienti in occasione delle festività natalizie; un semplice augurio che è poi diventato il nome: "con gli auguri della Brasserie Dupont". Per soddisfare la domanda dei clienti stessi, desiderosi di berla ben più di una volta l'anno, nel 1996 la Dupont decise di iniziare a commercializzarla con regolarità. 
Dal 2002 alla guida del birrificio c'è Olivier Dedeycker, nipote di quella Sylvia Rosier che nel 1945 ricevette dallo zio Louis Dupont il timone della Brasserie. Anche la Bons Voeux dopo essere stata imbottigliata viene messa a maturare per sei-otto settimane coricata di lato. Un dettaglio che alla Dupont hanno studiato a lungo: "sembra una piccolezza - dice Dedecker - ma se non lo facciamo otteniamo una birra completamente diversa. L'impatto sul gusto è davvero notevole".

La birra.
I sei anni passati in cantina hanno visto evaporare una piccolissima parte dei 75 centilitri dal tappo di sughero. Poco male, perché il suo aspetto è ancora quello di una giovincella. 
Schiuma generosa, cremosa e compatta, ottima persistenza, livrea che luminosamente oscilla tra il dorato e l'arancio. Al naso spiccano la frutta candita e la marmellata d'arancia, non ci sono spezie ma c'è un'inattesa freschezza floreale. Emergono piacevoli accenni di pasticceria, una leggera ossidazione le ha donato raffinati ricordi di vino moscato: l'immagine di un panettone al moscato si compone quasi per magia. Le bollicine sono meno esuberanti che un tempo e la Bons Voeux è vivacemente morbida, se mi passate il controsenso: scende con la classica pericolosità (9.5% l'alcool) della scuola belga. Biscotto e miele, canditi e pasticceria formano un gusto dolce e intenso, meno vinoso dell'aroma ma ugualmente soddisfacente. Una perfetta attenuazione e una leggera acidità bilanciano il dolce, il percorso si chiude con un amaro leggermente terroso, un delicato tepore etilico ed un ritorno, festoso più che mai, di frutta candita. E' davvero troppo facile perdersi in questo bicchiere di Dupont e trovarsi al tappeto: semplicità, pulizia e precisione nell'esecuzione si portano dietro anche qualche emozione. Bottiglia che dà l'impressione di poter restare ancora qualche anno in cantina, rapporto qualità prezzo quasi senza eguali. Con gli auguri della Brasserie Dupont, ovviamente. 
Formato 75 cl., alc. 9.5%, lotto 12105C, scad. 05/2017, prezzo indicativo 6.50-10.00 euro (beershop).

sabato 22 dicembre 2018

Alchemist Focal Banger

Terzo incontro con il birrificio del Vermont The Alchemist, dopo la famosa Heady Topper e la sorella The Crusher è il momento di stappare una lattina di Focal Banger, birra prodotta per la prima volta nel 2007 e disponibile solamente alla spina fino a gennaio 2013 quando fu la seconda lattina commercializzata da The Alchemist.   “Era il seguito ideale della Heady Topperdice  John Kimmiche fu una cosa strana perché la maggior parte della gente ci conosceva solo per quella e non sapeva che al brewpub facevamo tantissime altre birre da anni”. 
Visto che la storia di The Alchemist ve l’ho già raccontata, ne approfitto qualche riflessione sul ruolo che il birrificio di Kimmich ha avuto all’interno della craft beer americana (oltre ad inserire il Vermont sulle mappe dei beer geeks). Lo spunto è preso da una conversazione tra Zach Mack (Certified Cicerone e proprietario di Alphabet City Beer Co., popolare bar e beershop nell’East Village a New York) e Justin Kennedy, autore del libro “The Scratch & Sniff Guide to Beer”  nonché di numerosi podcast su Beer Sessions e Steal this Beer
Justin:  “The Alchemist e Heady Topper hano rivoluzionato il modo in cui parliamo, acquistiamo e beviamo la birra negli Stati Uniti. Pensate a due dozzine di appassionati che passano il sabato pomeriggio ad aspettare di spendere 100 dollari per un cartone di birra, la metà del quale verrà scambiata o rivenduta. Agli inizi era una birra distribuita solo localmente ed era impossibile acquistarne in grandi quantità: c’erano addirittura degli addii al celibato che si svolgevano seguendo il furgone delle consegne di The Alchemist .  E non erano tutti beergeeks. I giorni locali scrivevano che “la miglior birra al mondo era in Vermont”, il mio commercialista un giorno disse “hai mai provato la Heady Topper?”. Non era un appassionato di birra ma la notizia gli era arrivata lo stesso.  Quando poi sul New York Times appare un articolo sulla gente in fila per 10 ore per acquistare le lattine di Other Half, vuol dire che siamo arrivati ad un nuovo livello di fanatismo. Il caso The Alchmist è singolare perché sebbene producano molte altre birre, la Heady Topper continua ad essere quella più richiesta. La maggior parte degli altri birrifici che avevano una “flaship” beer in lattina hanno invece dovuto cambiare strategia. Ad esempio non credo che Other Half produca nemmeno più quella che agli inizi era la loro IPA più richiesta. La maggior parte dell’hype oggi riguarda edizioni rare, one-shot, collaborazioni. 
Zach: “Io direi che con la Heady Topper è iniziato un modello di business, non uno stile di birra. Fu subito chiaro: vendere IPA appena messe in lattina direttamente ai clienti, senza distributori o rivenditori, voleva dire un enorme margine di guadagno in più per i birrifici”.

La birra.
“La Focal Banger è molto più focalizzata sul luppolo della Heady Topper  - dice Jen Kimmichche invece ha un profilo luppolato più complesso ma anche una base maltata più importante. La Focal Banger si basa su luppoli Citra, Mosaic e solamente malti chiari”. 
Il suo colore è opalescente ma luminoso ed oscilla tra il dorato e l’arancio; la schiuma è cremosa e abbastanza compatta, la ritenzione è ottima. Questa lattina ha circa un mese e mezzo di vita e l’aroma è ancora fresco e pungente: fiori bianchi, mango e arancia dominano un palcoscenico sul quale s’affacciano anche mandarino e pompelmo, ananas e papaia.  Pulito, elegante, molto ben equilibrato tra le varie componenti.  La sensazione palatale è ottima, corpo medio ma grande morbidezza che avvolge completamente il palato delicatamente. La bevuta si apre con un intenso carattere tropicale, anche se siamo sempre molto lontani dai succhi di frutta del New England.  Al mango e all’ananas s’aggiungono papaia e un po’ d’arancia zuccherata, ma a metà del percorso entra prepotentemente in scena l’amaro, resinoso e delicatamente zesty.  L’alcool (7%) non pervenuto e il finale secco rendono la Focal Banger molto facile da bere: molto pulita e precisa, ordinata. Una sorta di West Coast IPA con un buono spunto tropicale prima di una lunga ed intensa scia amara dalla lunga persistenza. Profumata e intensa, facile da bere, molto godibile: livello molto, molto alto.  E per il mio gusto personale la preferisco alla più celebrata Heady.
Formato 47,3 cl., alc. 7%, IBU 70, lotto 11/2018, prezzo indicativo 10,00 euro (beershop).

giovedì 20 dicembre 2018

HOMEBREWED! Pine Verdi: America Works & Gaylord Porter


Ultimo appuntamento dell’anno con le birre fatte in casa e quindi con la rubrica HOMEBREWFED! Dalle colline fiorentine di Impruneta ecco Tommaso Righi, Nicola Mansuino e il loro birrificio casalingo Pine Verdi. Il perché del nome è presto spiegato: pini e pigne abbondano nella zona e le “pine” (come vengono chiamate in gergo) ricordano visivamente i coni di luppolo. 
Tommaso e Nicola acquistarono per curiosità nel 2008 un kit per fare la birra in casa e da allora non si sono più fermati al ritmo di 8-10 cotte l’anno; dai kit sono pian piano passati all'All Grain ed oggi producono (lascio a Tommaso la parola)  “circa 45/50lt di birra finita con un impianto a 3 pentole con mash automatizzato tramite Arduino e un'applicazione scritta in Java che effettua il monitoraggio delle temperature e l'accensione/spegnimento in automatico del fornello a gas (metano). La miscelazione viene effettuata elettricamente da un motorino da tergicristalli sul coperchio della pentola di mash e il fly sparge è eseguito tramite una piccola pompa da cantina. Riguardo al raffreddamento, abbiamo sostituito la serpentina di rame con uno scambiatore in controflusso in tubo autocostruito e gestiamo la fermentazione in un freezer a pozzetto controllato con da termostato esterno che si occupa di far partire il congelatore per far scendere la temperatura o una resistenza da terrario da 30W per aumentarla. Le temperature vengono registrate tramite un sistema di logging autocreato sempre con Arduino e poi riportate su un foglio Excel che con delle macro crea il grafico di fermentazione. Abbiamo anche autocostruito un agitatore magnetico che ci consente di effettuare degli starter di capacità superiori al litro, diciamo fino a 4/5 litri. Concludiamo imbottigliando con una riempitrice automatica Enolmatic".

Le birre.
Partiamo dall’Amercian Wheat Ale chiamata America Works (4.2%): malti pilsner e wheat, luppoli Centennial per amaro e Citra (Cryo) per aroma utilizzato negli ultimi 15 minuti, lievito  SafAle US-05. Nel bicchiere è di color giallo paglierino, opalescente; la generosa schiuma è cremosa e compatta e mostra ottima ritenzione.  Il naso è fresco e pulito: profumi floreali si mescolano a quelli di mandarino, bergamotto, lime e limone con un risultato gradevole e già di suo rinfrescante. Al palato è leggera ma non troppo: dal punto di vista tattile sembrerebbe una birra con qualche punto alcolico in più di quelli reali. La bevibilità non è comunque in discussione: è una session beer che scorre a grande velocità e che regala soddisfazioni. Crackers, pane e cereali, accenni dolci di pesca e frutta tropicale supportano a dovere un amaro zesty ed erbaceo di buona intensità ed eleganza; chiude molto secca, retrogusto di cereali e palato pulito e subito desideroso di un nuovo sorso. Le si perdona facilmente anche qualche leggero calo di tensione (leggi “acquoso”) perché complessivamente c’è una buona intensità a fronte di una gradazione alcolica modesta. Per me è una birra molto ben riuscita: c’è ancora spazio per migliorare la pulizia e anche l’espressività aromatica potrebbe essere un po’ più variegata (effetto Cryo?) ma siamo davvero ai dettagli. E’ una birra rinfrescante e dissetante che idealmente berrei ogni sera d’estate. Complimenti.  Questa la valutazione su scala BJCP: aroma 8/12, aspetto 3/3, gusto 16/20, mouthfeel 4/5, impressioni generali 8/10, totale 39/50.

Le cose non sono andate altrettanto bene per quel che riguarda la Gaylord Porter (5.8%), la cui ricetta prevede malti Maris Otter, Brown Malt, Pale Chocolate, avena in fiocchi, luppoli Perle ed East Kent Golding,  lievito: SafAle S-04. L’aspetto, mi tocca dirlo, è piuttosto bruttino: marrone chiaro, torbido, con riflessi quasi dorati:  la schiuma è generosa, abbastanza compatta ed ha un’ottima persistenza.  Pane nero, biscotto, accenni di tostature e di caffè compongono un aroma che ha buona intensità e un discreto livello di pulizia e finezza. I problemi arrivano al palato: la bevuta è slegata, poco pulita, fastidiosamente astringente, dall’intensità troppo dimessa e con qualche eccesso acquoso di troppo. Gli elementi giusti ci sarebbero; caramello, pane nero, delicate tostature e caffè, persino qualche suggestione di cioccolato che emerge quando la temperatura si avvicina a quella dell’ambiente. Emergono anche esteri (prugna e uvetta  -- per me benvenuti se ricordassero il “fruit cake”) che però non riescono ad amalgamarsi agli altri elementi. L’alcool è ben nascosto, non c’è quasi amaro, la bevuta chiude astringente e solo nel retrogusto arriva qualche suggestione terrosa e di caffè. Se mi fossi trovato davanti questa birra senza nessuna informazione avrei detto senza esitazioni “è una brown ale”, a partire dal colore. Il risultato è tutto sommato bevibile ma ci sono molte, tante cose da sistemare per poter parlare di una porter di nome e di fatto.  Questa comunque la valutazione su scala BJCP: aroma 7/12, aspetto 2/3, gusto 9/20, mouthfeel 3/5, impressioni generali 6/10, totale 27/50. 
Ringrazio Tommaso e Nicola per avermi fatto assaggiare le loro produzioni e spero che i miei appunti di bevuta possano essere utili per migliorare le ricette.

Nel dettaglio:
America Works, 50 cl., alc. 4.23%, prodotta  03/11/2018, imbottigliata 18/11/2018
Gaylord Porter, 50 cl., 5.84% ABV, prodotta  28/10/2018, imbottigliata 03/11/2018

mercoledì 19 dicembre 2018

Mikkeller NYC Magic Skyway

I numeri dell’impero Mikkeller sono pressappoco questi: sei locations negli Stati Uniti, venti in Danimarca, nove negli altri paesi Europei e cinque in Asia (Tailandia, Taiwan, Corea del Sud e Tokyo). La lista comprende soprattutto bar e ristoranti ma vi sono anche i due birrifici americani e quello di Copenaghen (Baghaven) dedicato alla produzione di birre con lieviti selvaggi. Ma restiamo in territorio statunitense: Mikkel Borg Bjergsø rilevò nell’aprile 2016 a San Diego il vecchio birrificio di Alesmith e in partnership con loro diede vita a Mikkeller San Diego. 
A luglio 2017 fu annunciata la nascita di Mikkeller New York Cityall’interno della vasta e prestigiosa cornice dello stadio di baseball Citi Field, casa dei New York Metz, nel Queens. Qualche mese prima Mikkeller aveva anticipato l’operazione realizzando a San Diego due birre (Henry Hops e  Say Hey Sally) destinate esclusivamente ai bar dello stadio. Mikkeller NYC opera con un impianto da 24 ettolitri nei 1000 metri quadrati di spazio che ospitano anche ristorante e taproom con 60 spine, beershop e merchandising. Il ruolo di head brewer è stato affidato a Richard Saunders, quattro anni di esperienza presso la Shmaltz Brewing Company, mentre al comando delle operazioni è stato chiamato Jim Raras, proveniente da Hill Farmstead nel ruolo di Vice President. Mikkeller NYC ha debuttato il 30 dicembre 2017 con una birra collaborativa realizzata alla Thin Man Brewery di Buffalo; sino all’entrata in funzione dell’impianto di New York, avvenuta a marzo 2018, allo stadio sono state servite le birre realizzate a San Diego. Da marzo ad oggi Mikkeller NYC ne ha già sfornate una settantina, secondo il database di Untappd. 
Racconta Raras: “per quel che riguarda la costruzione è stata una sfida perché non dovevamo disturbare le partite di baseball, ma i locali erano già stati utilizzati in passato per ospitare eventi privati nello stadio e quindi erano già provvisti delle infrastrutture idriche ed elettriche”. L’altezza dei soffitti (8 metri!) ha consentito di progettare il birrificio “in verticale”,  posizionando  i fermentatori al di sopra dei maturatori.  Lo stadio ospita circa 81 partite all’anno: la seconda sfida è convincere la gente a recarsi nei pressi dello stadio per bere una birra anche in tutte le altre serate, soprattutto nei freddi inverni newyorkesi. Di sicuro non avranno problemi parcheggio.  “Siamo all’interno del Citi Field ma siamo inquilini. Beneficiamo solo dell’infrastruttura” – afferma Raras sottolineando che i New York Mets non hanno niente a che vedere con il birrificio. Sarà vero? Avevamo già sfiorato l’argomento qualche tempo fa parlando di Evil Twin, marchio di proprietà di Jeppe Jarnit-Bjergso, gemello di Mikkeller, anche lui in procinto di aprire il suo primo birrificio nel Queens ed in pessimi rapporti con il fratello. Jeppe si era tolto su Twitter (in un post ora privato) qualche sassolino dalla scarpa: “Mikkel e Mikkeller hanno lo 0% di  Mikkeller NYC; sono fatti pubblici, ho le prove. Mikkeller NYC non è un piccolo birrificio indipendente ma parte di un facoltoso gruppo che, tra le altre cose, possiede anche i New York Mets. Lui ha concesso ad altri la licenza di usare il suo marchio e ogni giorno mente su questo.” La risposta di Mikkel? Semplice: “tutto quello che Jeppe dice è inventato, lui non può provare nulla di quello che racconta su di me e Mikkeller”. 
Qualcuno però ha voluto indagare un po’ più a fondo sulla questione: per chi volesse approfondire, ecco l’articolo completo sul blog Good Beer Hunting. La società a responsabilità limitata SEMB CF ha ottenuto il 18 luglio 2017  dalla New York State Liquor Authority i permessi per aprire Mikkeller Brewing NYC nello stadio dei Metz; questa società è controllata da Saul Katz (9%), presidente dei New York Metz, e da un’altra società (Sterling MB Holdings LLC) nella quale partecipano 14 persone: la maggioranza è posseduta da Bruce (47,2%) e Jeff (9%) Wilpon, figli di Fred Wilpon, socio in affari di Katz nonché azionista di maggioranza dei Metz. Anche Jim Raras possiede una quota (2.5%) della Sterling MB Holdings. Tutte queste persone controllano la SEMB CF che è proprietaria di Mikkeller Brewing NYC: Mikkel Borg Bjergsø non viene mai citato e di fatto il suo ruolo all’interno dell’azienda è sconosciuto. 
Contattato direttamente da Good Beer Hunting, Mikkel ha minacciato azioni legali ed affermato di non poter parlare della composizione societaria in quanto vincolato da accordi di confidenzialità: “ogni progetto prevede delle decisioni strategiche e dei segreti. Abbiamo impiegato anni a costruire il marchio Mikkeller e non possiamo correre rischi. Ma questo è quello che accade in quasi tutte le partnership nel mondo”. Ha tuttavia confermato che nessun luogo o prodotto Mikkeller potrebbe mai esistere senza la sua approvazione: “tutti i locali Mikkeller funzionano allo stesso modo. Io controllo al 100% qualsiasi decisione presa dai  soci  (sic!) che usano il mio marchio e io posso chiudere quei locali che non rispettano i nostri standard”. Pur non volendo scendere nei dettagli Mikkel avrebbe descritto Mikkeller NYC in modo simile ad un contratto di franchising o di licenza in uso di un marchio, del quale lui detiene il 100%. Mikkeller si identifica proprietario in quanto colui che ha fornito l’idea, il design ed il marchio per Mikkeller NYC; avrebbe inoltre anche voce in capitolo sul personale assunto, dichiarando che tutte le posizioni manageriali sono approvate dal quartier generale a Copenhagen. 
E, per chi si fosse perso qualche pezzo per strada, vale la pena ricordare che nel 2016 Mikkeller aveva venduto il 10%-15% della propria società danese alla Orkila Capital di New York per una somma imprecisata.

La birra.
Juicy, Hazy, NEIPA: chiamatele come volete ma sono queste le birre del momento, soprattutto negli Stati Uniti. Mikkeller NYC non sta ovviamente a guardare e procede al ritmo serrato di una novità dietro l’altra per soddisfare un mercato sempre più desideroso di qualcosa di “nuovo” piuttosto che di “buono”.  E così alla fine dello scorso Ottobre viene realizzata una nuova NEIPA chiamata  Magic Skyway (6%) e prodotta con abbondante utilizzo di Simcoe e Mosaic. 
Di color arancio pallido opalescente, forma nel bicchiere un cremoso cappello di schiuma abbastanza compatto e dalla buona persistenza. L’aroma è piuttosto fresco e alquanto sorprendente per pulizia ed eleganza: ananas, pompelmo, arancia, qualche accenno di papaia, mango e dank. Ottime premesse che vengono mantenute al palato; questa IPA di Mikkeller NYC si mantiene a debita distanza da cafonate e sfacciati succhi di frutti: il mouthfeel è morbido ma non compromette affatto la scorrevolezza. C’è un carattere fruttato in bella evidenza, piuttosto elegante e molto ben definito: una macedonia nella quale sono perfettamente distribuiti pompelmo, arancia, ananas e mango. Non c’è praticamente traccia d’amaro, il tanto temuto “effetto pellet” è completamente assente: il finale è secco, l’alcool non è pervenuto.  IPA riuscitissima, molto ben fatta, ancora fresca e fragrante, precisa e definita: una dimostrazione che questo sottostile può essere affrontato con intelligenza e con risultati davvero notevoli, se non si vuole strafare. Al di là della poca chiarezza nei confronti dei consumatori su cosa ci sia veramente di Mikkeller in Mikkeller NYC, quello che si trova in questo bicchiere è torbido alla vista ma di qualità cristallina.
Formato 47,3 cl., alc. 6%, lotto 23/10/2018, prezzo indicativo 10,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 18 dicembre 2018

The Bruery Share This: O.C.

A maggio 2016 il birrificio californiano The Bruery annunciava la nascita della serie "Share This", ovvero due imperial stout all’anno realizzate utilizzando ogni volta alcuni ingredienti diversi selezionati da Patrick Rue.  Il fondatore del birrificio spiega che "quando abbiamo iniziato a pensare agli ingredienti che volevamo utilizzare, ci siamo resi conto che di solito provenivano dalle regioni più povere del mondo. Realizziamo le nostre birre (nel formato da 75 cl., nda) affinché siano condivise tra più persone e, andando un po' oltre, anche con quelli che beneficiano del nostro aiuto". The Bruery ha infatti deciso di donare in beneficienza un dollaro per ogni birra prodotta.  La serie viene inaugurata a giugno 2016 con una massiccia imperial stout chiamata Share This Coffee per la quale viene utilizzato caffè proveniente dalle Filippine; il ricavato (50.000 dollari) è stato donato alla Free Wheelchair Mission, un'organizzazione no profit  nelle Filippine che fornisce sedie a rotelle a persone che vivono nei paesi in via di sviluppo.  La serie è poi proseguita con la Share This: Mole (imperial stout con peperoncini, cannella, vaniglia e fave di cacao)  per aiutare la filiale messicana della Free Wheelchair Mission. Nel 2017 sono arrivate Share This: O.C. , Share This: Mint Chip (menta e cacao)  e  la Barrel-Aged Share This; per quanto ne so nel 2018 la serie non è continuata.

La birra.
“E’ difficile non avere un’affinità per le arance se sei cresciuto nella Contea di Orange dice Patrick Rue - Arance e cioccolato sono un abbinamento naturale, due elementi che si esaltano a vicenda e noi siamo entusiasti di portarli nella serie Share This, supportando al tempo stesso la Food Forward, un’organizzazione locale che fornisce frutta e verdura fresca a tutti coloro che non se la possono permettere” recuperandola da giardini di privati e pubblici, da mercati contadini e da grossisti.   Rick Nahmias, fondatore della Food Forward, si dichiara “eccitato dall’essere stati scelti per questa edizione di Share This. I nostri valori etici e le nostre pratiche sono allineate a quelle di The Bruery nel tentativo di ridurre lo spreco di cibo e di portare prodotti freschi a più di un milione di bisognosi che vivono nella California del sud". 
Share This O.C.  debutta  il 14 marzo 2017 alla due tasting room di The Bruery a Placentia e Anaheim: la ricetta include scorza d’arancia, baccelli di vaniglia, fave di Cacao prodotte dalla TCHO di Berkley, California. 
Nel bicchiere è nera e forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta dall’ottima persistenza. Il naso ci porta subito nel territorio (odiato  o amato) delle Pastry Stout: vaniglia, cioccolato al latte, gianduia, un po’ di orzo tostato: non è esattamente una cafonata ma neppure un manifesto di eleganza. Nonostante l’importante gradazione alcolica (11%) è un’imperial stout che non presenta particolari difficoltà per chi vuole sorseggiarla con calma: il mouthfeel è morbido pur in assenza di particolari viscosità o cremosità, il corpo si colloca tra il medio ed il pieno.
Sebbene non raggiunga pericolosi estremi, la bevuta è in pratica un dessert composto da caramella mou, liquirizia, gianduia, cioccolato al latte e tanta vaniglia. La sua dolcezza è tuttavia ben bilanciata da una leggera acidità e dal delicato amaro delle tostature; l’alcool si fa sentire soprattutto nel finale con un caldo retrogusto di frutta sotto spirito che conclude un percorso intenso ma avaro di emozioni. Per quanto mi sforzi non avverto la presenza della scorza d’arancia, ingrediente che ha forse maggiormente subito i diciotto mesi passati dalla messa in bottiglia. Abbastanza pulita, “pastry” senza cadere nel ridicolo,  la Share This O.C. di Bruery scalda lo stomaco ma non il cuore.  Non ha forse avuto grande successo e se ne trovano anche in Europa bottiglie in vendita a prezzi “umani”, per chi volesse provarla.
Formato 75 cl., alc. 11%, lotto 408, imbott.  08/03/2017, prezzo indicativo 11-22 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 17 dicembre 2018

Schneider Weisse Tap X Marie's Rendezvous 2016

Tap X è il nome col quale il birrificio bavarese Weissbierbrauerei G. Schneider & Sohn  identifica una birra speciale che viene prodotta una volta all’anno. Il debutto della serie è avvenuto nel 2012 con la Tap X Mein Nelson Savin, una weizenbock caratterizzata dall’omonimo luppolo neozelandese e da un ceppo di lievito belga per la rifermentazione in bottiglia,  seguita l'anno successivo dalla Tap X Meine Sommer Weisse, prodotta con "nuovi" luppoli tedeschi e nel 2013 dalla Tap X Mein Aventinus Barrique. In seguito sono poi arrivate la Tap X Meine Porter Weisse (2014) e la Tap X Mathilda Soleil (2015)  la Tap X Marie’s Rendezvous (2016) . Nel 2017 a grande richiesta del pubblico è ritornata la Tap X Mein Nelson Sauvin e quest’anno ha debuttato l’interessante Tap X Aventinus Barrique invecchiata in botti di bourbon. La sfida lanciata dal birraio di Schneider, Hans-Peter Drexler, è che anche rispettando l’editto di purezza tedesco è possibile sperimentare, innovare e stupire chi si trova la birra nel bicchiere.
Facciamo un passo indietro al 2016 quando proprio il Reinheitsgebot, promosso dal conte di Baviera Guglielmo IV il 23 Aprile 1516, compì 500 anni: “l’editto di purezza nacque per preservare i cereali diversi dall’orzo (frumento, segale, miglio, ecc.) affinché fossero impiegati nell’alimentazione e nella panificazione invece che nella produzione brassicola. La leggenda vuole che decisione fu figlia delle numerose carestie che stava vivendo la Baviera all’epoca, ma molto più verosimilmente derivò dal desiderio di prevenire la competizione sul prezzo dei cereali tra birrai e panificatori”.  Verso la fine del 1500 fu poi stabilito che solamente i duchi di Baviera potevano “violare” l’editto e produrre birre di frumento: Massimiliano I Giuseppe Leopoldo Ferdinando Wittelsbach, già proprietario della Hofbräuhaus (HB), fece costruire nel 1607 un secondo birrificio in centro a Monaco dedicato alla produzione di birra di frumento, la Weisses Bauhaus. Nel diciannovesimo secolo la richiesta per le birre di frumento aveva raggiunto il suo punto più basso e l’attività non era più molto redditizia: la famiglia  Wittelsbach cedette in affitto la Weisses Brauhaus al birraio Georg Schneider I che l’acquistò definitivamente assieme al figlio nel 1872 fondando la Weissbierbrauerei G. Schneider & Sohn.

La birra.
Anna-Maria era la moglie di Georg Schneider I e a lei il birrificio con sede a Kelheim (che ricordo produce esclusivamente birre di frumento) ha voluto dedicare la propria birra dei festeggiamenti per il cinquecentesimo compleanno del  Reinheitsgebot. Non sono state rivelate molte informazioni sulla Tap X Marie's Rendezvous: sappiamo solo che si tratta di una potente Weizenbock (%) che ha debuttato a febbraio in occasione del Braukunst Live!  di Monaco di Baviera. 
Nel bicchiere si presenta di color ambrato chiaro, in superficie più che schiuma abbiamo una serie di bolle grossolane che svaniscono molto rapidamente. L’aroma è pulito ma appare un po’ chiuso: si riescono comunque ad individuare profumi di uvetta, datteri e prugna, banana, accenni di vino marsalato, forse mela al forno. Le incertezze vengono spazzate via da un gusto che parte subito con il piede giusto e trasporta il bevitore in un affascinante vortice di sapori composto da caramello e uvetta, banana, prugna, fico e datteri disidratati, accenni di canditi e vino liquoroso. L’alcool parte in sordina per poi emergere in uno splendido finale caldo, morbido e avvolgente, lunghissimo, nel quale il dolce della frutta sotto spirito viene bilanciato da una sorprendente secchezza. 
Pensate ad una Aventinus più snella, più secca e bilanciata ma altrettanto invitante e potente: Marie's Rendezvous dopo un inizio un po’ incerto non delude e regala soddisfazioni ed emozioni. Poche bollicine, morbida al palato, da gustarsi in tutta tranquillità dopo cena, soprattutto se fuori fa freddo.
Formato: 37.5 cl., alc. 10%, IBU 27, scad. 15/01/2018, prezzo indicativo 6.00-7.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 14 dicembre 2018

Alchemist The Crusher

A pochi giorni di distanza torniamo in Vermont per parlare del birrificio The Alchemist:  “drink fresh – drink from the can” è il loro motto stampato su ogni lattina e quindi non è il caso di perdere tempo. Heady Topper è la birra che ha reso famoso il birrificio fondato da  John e Jen Kimmich e che ha fatto spuntare il Vermont – sino ad allora pressoché ignorato -  sulle mappe dei beer geeks americani.  Ed è anche la birra che ha salvato The Alchemist da una fine prematura, dopo l’alluvione del 2011 che provocò la chiusura del brewpub, mai più riaperto; fortunatamente John aveva seguito i consigli insistenti della moglie e aveva acquistato una linea per la messa in lattina posizionandola in un altro edificio preso in affitto che fu risparmiato dalla violenza delle acque. Ed è solo grazie alla vendita delle lattine che The Alchemist è riuscito a risollevarsi dal baratro e a sopravvivere; per un paio di anni l’intera produzione è stata focalizzata a soddisfare soprattutto l’hype per Heady Topper  (e Focal Banger) a scapito di tutte altre birre che venivano prodotte al brewpub. 
E’ stato solo in un secondo tempo che Kimmich ha deciso di tirare fuori dal cassetto le ricette delle vecchie birre. Così diceva in un’intervista del 2013, due anni dopo l’alluvione: “ho recuperato le mie dodici ricette preferite con l’idea di farne una diversa ogni mese. Lo so… otto o nove di loro sono variazioni di IPA… ma è quello che maggiormente mi appassiona. Ma non voglio che ci sia ulteriore pressione di su di noi; quando saremo pronti, le faremo”. Tra queste birre c’è anche The Crusher, sorella “maggiore” della Heady Topper e un tempo disponibile solo in alcuni periodi dall’anno al vecchio brewpub: una Double IPA che ha avuto negli anni un ABV variabile tra il 9.7 e il 9%, per poi entrare in produzione tutto l’anno con la messa in funzione del nuovo impianto a Stowe, assestandosi attualmente all’8%.

La birra.
Benché opalescente, ha un bel colore luminoso che oscilla tra l’arancio ed il dorato: la schiuma biancastra è cremosa, compatta ed ha ottima ritenzione. L’aroma è ancora fresco, molto pulito ed elegante: è stato trovato un equilibrio molto ben riuscito tra tutti gli elementi in gioco. Ananas, arancio e mandarino, qualche nota tropicale e floreale, qualche lieve accenno dank.  Il mouthfeel è molto diverso da quello della Heady Topper: non ci sono particolari cremosità o morbidezze. Come il nome suggerisce, The Crusher è una Double IPA potente che colpisce duro:  pane, qualche nota biscottata, agrumi e frutta tropicale sono l’anticamera di un lungo finale amaro, pungente e pepato, resinoso, potenziato dalla componente etilica. La bevibilità è comunque buona grazie anche ad un’ottima attenuazione. Molto più orientata sul resinoso rispetto al dank della Heady Topper, questa Double IPA di The Alchemist è una gran bella bevuta, lontano anni luce da quei succhi-di-frutta, torbidi frullati che hanno reso celebre il New England e che oggi il mercato richiede: amaro intenso ma bilanciato da una bella controparte tropicale, pulizia e precisione, niente miracoli ma c’è tutto quello che basta per essere soddisfatti.
Formato 47,3 cl., alc. 8%, IBU 110 (?), lotto 11/2018, prezzo indicativo 10 -11 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 13 dicembre 2018

Birra del Carrobiolo Porcini Imperial Stout

Chi segue la birra artigianale italiana da un po’ di tempo ricorderà come sei-sette anni fa proliferavano le birre con gli ingredienti più inusuali: in una sorta di gara al “famolo strano” alcuni birrifici aggiungevano carciofi, basilico, cicoria, spaghetti, radicchi e tartufi, giusto per citare i primi che mi vengono in mente. Nelle occasioni “fortunate” ai festival  vi chiedevano se volevate assaggiare una birra alla liquirizia, ai petali di rosa, all’amaretto. Negli ultimi anni la tendenza ad utilizzare ortaggi e altri ingredienti ameni è fortunatamente diminuita e i birrai italiani si sono allineati ai loro colleghi stranieri orientandosi soprattutto sui classici: spezie, frutta, cacao,  cioccolato, vaniglia e caffè. 
Del Piccolo Opificio Brassicolo del Carrobiolo – Fermentum di Monza attivo dal 2008 e guidato dal birrario Pietro Fontana ne abbiamo già parlato in più di un’occasione, dal debutto nei locali all’interno del convento in Piazza Carrobiolo all’apertura (2014) del nuovo brewpub nella vicina piazza Indipendenza. Il Carrobiolo si è sempre contraddistinto per le sue produzioni pulite e abbastanza rigorose, senza abusare di quelle fantasiose licenze poetiche che ho descritto precedentemente. Nel 2016 Pietro Fontana è andato in controtendenza presentando al festival di EurHop tre novità abbastanza curiose:  la ITA (Italian Tomato Ale), la AmanIPA Phalloides e la PIS (Porcini Imperial Stout).  Pomodori e funghi. Ecco le parole del birraio nell’intervista concessa in quel periodo a Cronache di Birra:  “ho voluto fare tre birre strane ma equilibrate ed eleganti. Volevo cimentarmi in qualcosa di diverso, non esattamente in stile Carrobiolo, distante quindi dalla pils e dalla keller. Ho avuto un’intuizione, come una scintilla che è scoccata. Il gusto in cucina ti porta ad associare i sapori e a capire quali possono stare insieme e quali no. Ho pensato, quindi, di unire questi gusti in tre birre innovative”.

La birra.
Ho personalmente amato l’imperial Stout Coffee Brett (11%) del Carrobiolo e a tutt’oggi la trovo ancora una tra le migliori interpretazioni italiane dello stile; oltre a questa il birrificio produce anche un’imperial stout “normale” (9.7%) sulla quale credo sia basata la sorella “Porcini”  che riceve un “dry-hopping” di boletus edulis secchi. 
Si presenta vestita quasi di nero, la schiuma è cremosa ma abbastanza modesta ed ha una persistenza solo discreta. L’aroma è praticamente assente: s’avverte una leggerissima presenza di torrefatto, terroso, etilico. Fortunatamente le cose vanno molto meglio al palato: la Porcini del Carrobiolo è un’interpretazione “aggressiva” dello stile che fa pochi sconti. Il torrefatto morde da subito e il suo amaro è potenziato da una generosa luppolatura che sfocia in un finale resinoso, quasi balsamico, nel quale spuntano tracce terrose e – quasi rinfrescanti - di anice stellato.  La controparte dolce è ridotta ai minimi termini: qualche traccia caramellata, prugna sotto spirito, liquirizia. 
Pochi gli elementi in gioco in una birra potente che non raggiunge grandi profondità e batte sempre sugli stessi tasti: sarà apprezzata soprattutto dagli amanti delle imperial stout “pure e dure”, molto spinte sul torrefatto. Per quel che mi riguarda preferisco interpretazioni in cui l’amaro, anche se intenso, presenta un ventaglio più ampio di sfaccettature (caffè, cacao…). Il naso quasi assente penalizza un po’ l’esperienza di chi se la versa nel bicchiere: un peccato, perchè credo che l'utilizzo dell'ingrediente fungo fosse stato pensato proprio per questo aspetto.
Formato 33 cl., alc. 9.7%, IBU 60, lotto i17109P, scad. 01/12/2021, prezzo indicativo 7.00-8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 11 dicembre 2018

Nothhaft Rawetzer Zoigl

Marktredwitz (15.000 abitanti), un tempo nota come Radewitze e Redwitz è una municipalità dell’Alta Franconia che si trova ad un centinaio di chilometri ad est di Bamberga e a soli 15 dal confine con la Repubblica Ceca. Nel suo massimo splendore “brassicolo” ospitava una decina di birrifici ma solamente uno è ancora attivo: la Privatbrauerei Nothhaft. 
Le prime notizie sulla produzione di birra in quest’edificio di Ottostraße risalgono al 1540, quando venne costruita una Kommunbrauhaus, ovvero un birrificio “comunale” dove le famiglie in possesso di licenza potevano andare a produrre le proprie birre.  Nel 1882 il birrificio fu acquistato dal macellaio e birraio Otto Nothhaft la cui famiglia, dopo quattro generazioni di discendenti, ne detiene ancora la proprietà. A lui sono succeduti Wilhelm (1883-1958) ed  August (1913-1998); dal 1994 vi è al comando il pro-pronipote Otto, aiutato dalla figlia Carolin,  dal marito Andreas e dal birraio Frank Seyferth. La produzione annua è di circa 15.000 ettolitri. Dal 1927 Nothhaft produce anche limonate e altre bibite. Nel 1990 le vecchie vasche di fermentazione aperte sono state sostituite da serbatoi in acciaio; la famiglia possiede anche i ristoranti  Forsthaus e Am Strand, la spiaggia (Strand) è ovviamente quella sul fiume Kössein.  Nel 2014 il birrificio ha lanciato il  marchio Zwitscher, una Helles in bottiglia da 33 centilitri con tappo svitabile: secondo Ratebeer si tratta di una semplice rietichettatura della Nothhaft Ur-Hell.

La birra.
Ho accennato poco fa ai Kommunbrauhaus. A chi volesse approfondire consiglio questo bel resoconto di Angelo sul blog Berebirra: "in alcuni villaggi dell'Alto Palatinato  esistono birrifici comunali in cui famiglie in possesso di licenza brassano la propria birra secondo un calendario. E sempre secondo un calendario possono spillarla presso il loro locale di mescita.” Queste birre vengono chiamate Zoigl e, come riporta Andrea Camaschella su Fermento Birra “girando per questi villaggi capita di trovare fuori da qualche casa lo Zoigl, una stella a sei punte  che simboleggia l’alchemia del birraio attraverso quattro elementi: aria, cioè la fermentazione, fuoco, che serviva per la bollitura e ancora acqua e terra a richiamare orzo e luppolo. Questo significa che la birra è disponibile per l’acquisto, da asporto o anche per essere consumata sul posto, in casa, dove è possibile trovare alcune famiglie che hanno allestito dei veri e propri pub per i clienti, o vicini di casa che dir si voglia”.  Le Zoigl non sono quindi uno stile brassicolo ma solamente una modalità produttiva: benché ogni famiglia la produca secondo la propria ricetta, si tratta solitamente di lager le cui caratteristiche le avvicinano alle Kellerbier. 
Rawetzer Zoigl, ovvero la Zoigl di Marktredwitz: il nome scelto dal birrificio Nothhaft mi pare inappropriato e fuorviante in quanto questa Kellerbier non è prodotta attualmente in nessun birrificio comunale. Il fatto che svariati secoli l’edificio che oggi ospita Nothhaft lo fosse non mi pare una motivazione sufficiente. 
Detto questo la birra si presenta di color ambrato piuttosto scarico, leggermente velata e con una testa di schiuma biancastra cremosa e compatta. Al naso emergono profumi di miele d’arancio, mollica di pane, cereali, qualche accenno biscottato e floreale, lieve diacetile. Il percorso continua senza nessuna deviazione anche al palato: è una Kellerbier ovviamente facile da bere che anche al palato mette in evidenza un bel parterre di malti. Al gusto il miele è meno evidente e sono le note di panificazione e biscottate a guidare una bevuta dolce bilanciata da un delicato amaro erbaceo, abbastanza elegante, nel quale ci sono quasi accenni di frutta secca a guscio. Diacetile presente in quantità moderata e quindi perdonabile; bevuta facile e anche piacevolmente quasi rustica, benchè non sia stata prodotta in un vero  Kommunbrauhaus.  E’ un po’ strano a dirsi, ma un po’ di cuore comunque c’è.
Formato 50 cl., alc 5%, scad. 12/04/2019, prezzo indicativo 3.50-4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 10 dicembre 2018

Alchemist Heady Topper

John Kimmich scopre la birra artigianale all’inizio degli anni ’90 quando frequenta il college a Pittsburgh, Pennsylvania, e sta lavorando ad una ricerca sull’industria della birra. Al termine degli studi utilizza tutti i suoi risparmi per acquistare una macchina usata e andare in Vermont dall’amico  e “mentore” Greg Noonan (prematuramente scomparso nel 2009), proprietario e birraio del Vermont Pub and Brewery di Burlington nonché autore di molti libri e figura di riferimento per il movimento craft del New England. 
Greg gli insegna a fare il birraio e in cambio John lavora nei weekend come cameriere, senza stipendio: dopo un anno d’addestramento viene promosso e mandato in sala cottura. Ma al Vermont Pub John incontra anche Jennifer, a quel tempo cameriera: “ci sposammo e iniziammo a viaggiare in Wyoming, Idaho, Boston. Feci il birraio, il portiere negli hotel (belle mance!) e in quei sei anni pianificammo e mettemmo da parte ogni dollaro guadagnato per poter aprire il nostro brewpub in Vermont. Inaugurammo The Alchemist Pub and Brewery il 29 Novembre 2003, era un venerdì sera e il sabato mattina successivo Jen scoprì di essere incinta! Furono le ventiquattr’ore più intense della nostra vita. Il nome ci fu ispirato dal Vermont Pub, nel cui logo c’era anche raffigurato un piccolo alchimista.” 
Quello che oggi è uno dei nomi più ricercati dai beergeeks americani inizia la sua avvenuta come un semplice brewpub del paese di Waterbury, 5000 abitanti; 60 posti a sedere, un biliardo e il piccolo impianto da 10 ettolitri nel seminterrato dal quale escono soprattutto birre d’ispirazione anglosassone: Pappy’s Porter, Piston Bitter e  Bolton Brown. Ma a due mesi dall’apertura  John vuole anche iniziare a giocare con i luppoli: alle spine del pub viene servita per la prima volta una Double IPA chiamata Heady Topper, una birra destinata a cambiare la vita ai coniugi Kimmich.  A quei tempi le IPA non erano molto diffuse nella zona: “la gente era sconvolta – ricorda John – non avevano mai bevuto nulla del genere e impazzivano”. 
La Heady Topper veniva prodotta occasionalmente 3-4 volte l’anno, era possibile berla solo al brewpub ma il passaparola tra gli appassionati americani era ormai iniziato: nel giro di pochi anni, senza nessuna pubblicità o marketing, The Alchemist era diventato una mecca per i beergeeks. Alcuni di loro si portavano i bicchieri in bagno, riempivano delle bottiglie di vetro, le tappavano e le portavano via di nascosto per scambiarle o rivenderle con altre birre.  Fu Jen Kimmich a dare la svolta: “per me era inconcepibile ricorda John Io stavo nel seminterrato a fare birra tutto il giorno e Jen mi diceva che dovevamo aprire una seconda location per mettere la birra in lattina. Pensavo che fosse impazzita, eravamo già troppo impegnati. Ne discutemmo per oltre un anno ma alla fine mi convinse che era la cosa giusta da fare”. 

Domenica 28 agosto 2011:  è ormai tutto pronto per il debutto della lattine di Heady Topper quando la tempesta tropicale Irene colpisce Waterbury e le acque del fiume Winooski tracimano allagando anche il brewpub The Alchemist. Tutto quello che si trova nel seminterrato (impianto, fermentatori, uffici, materie prime) è perduto e inutilizzabile. Per i Kimmich che avevano appena investito in una seconda sede  (fortunatamente in collina e quindi risparmiata dalle acque) è il momento di decidere se mollare tutto per ricominciare altrove o andare avanti. Due giorni dopo vengono confezionate le prime lattine: quello che John pensava fosse una mozza azzardata era ora la loro unica fonte di reddito: “la gente arrivò da ogni luogo per comprare le lattine di Heady e supportarci; furono giorni molto emotivi. In pochissimo tempo riuscimmo a ripartire con la produzione e ad assumere alcuni dei vecchi dipendenti del pub”. Le assicurazioni però non intendono coprire la ricostruzione di un birrificio in un seminterrato e così la  “cannery” in collina viene dotata di una piccola tasting room e di un punto vendita che vengono subito presi d’assalto: la produzione passa dai 470  ettolitri/anno del brewpub a 1760 ettolitri  e dopo un anno sale a 10500  ma non è ancora sufficiente a soddisfare tutte le richieste per una Double IPA che è ai primi posti delle classifiche dei siti di beer rating.  Il parcheggio antistante lo stabilimento non riesce a contenere il flusso delle macchine dei beergeeks che si riversa sulle strade circostanti creando ingorghi: i vicini e la municipalità si lamentano e, dopo solo due anni, i Kimmich sono costretti a prendere la decisione di chiudere la “cannery” al pubblico. In realtà pare che il birrificio fosse anche privo dei permessi necessari per la vendita al dettaglio.  
Lo stato dal Vermont consente ai birrifici di auto distribuirsi le birre e la caccia dei beergeeks alla Heady continua nel raggio di 25 miglia attorno a Waterbury, dove The Alchemist distribuisce regolarmente.  Alcuni seguono i camion che partono dal birrificio per arrivare prima di tutti nei luoghi (soprattutto alimentari e stazioni di servizio) dove poi saranno messe in vendita le lattine:  i fans creano il sito Heady Spotter (non più aggiornato da marzo 2017 con l’inizio delle vendite on-line da parte di Alchemist)  per far conoscere in anticipo il giro delle consegne dei furgoni e organizzare gli appostamenti fuori dai negozi.  Non è però questo a  preoccupare maggiormente John: “fu una battaglia educare i nostri rivenditori alla catena del freddo. Per loro era qualcosa di inusuale, tenevano in frigo solo qualche birra ma la maggior parte era sugli scaffali”. 
A luglio 2016 The Alchemist inaugura un secondo e più grande birrificio a Stowe, una ventina di chilometri di distanza: 1500 metri quadrati, ampio parcheggio, giardino con vista sulle montagne circostanti. E’ su questo impianto da 30 barili (47 hl) che oggi sono prodotte quasi tutte le birre per un totale di circa 15000 ettolitri all’anno. Tutte tranne la Heady Topper: a Stowe la vendono ma John assicura che lei è ancora prodotta solo a Waterbury, assieme ad altre birre prototipali o sperimentali.  Le due location danno oggi lavoro ad una cinquantina di persone. Il brewpub originale di Waterbury non è mai rinato: i Kimmich avevano iniziato a ristrutturarlo ma hanno poi deciso di venderlo e al suo posto vi è oggi il Prohibition Pig Brewpub.

La birra.
“Una birra che sapesse di erba (marijuana) buona: questo era più o meno il mio obiettivo quando ho ideato la Heady Topper”,  “a beautiful tribute to dank American hops “. Così la definisce John, ma non è stata questa la caratteristica che l’ha resa così famosa: in una nazione abituata alle birre (artigianali) limpide e cristalline, quello che ha attirato l’attenzione dei beergeeks è stato soprattutto “l’haze”, il suo colore torbido. “E’ da sempre che educo la gente sulle birre torbide, non filtrate: provatele, assaggiatele e poi vediamo se ancora le criticherete. Andate a rileggere le prime recensioni della Heady su BeerAdvocate; tutti dicevano che era fantastica ma brutta e torbida, tutte quelle particelle in sospensione! Chi se ne frega, io volevo essere diverso dagli altri.  Sin da quando le facevo negli anni 90 con Greg Noonan la gente ci prendeva per il culo perché le nostre IPA erano solo velate; la cosa è abbastanza divertente se si pensa a tutte quelle birre fangose che vengono vendute oggi.  A quel tempo c’erano solo le Hefeweizen d’ispirazione tedesca: noi volevamo che la gente si liberasse di quel concetto di birra limpida e cristallina, capace di resistere per 12 mesi sugli scaffali al caldo, alla quale era abituata.  Non ho mai voluto fare una IPA intenzionalmente opalescente; è solo un risultato del processo usato per ottenere i profumi e i sapori che avevo in mente”. 
La Heady Topper viene spesso considerata la capostipite delle New England IPA, ma John non è  d’accordo: “E’ solo una IPA, non si merita una categoria tutta sua come quella delle Vermont IPA! Quelle che chiamano New England IPA sono molto diverse dalle nostre birre, oggi i birrai cercano di ridurre al massimo l’amaro mentre io voglio che l’amaro si percepisca per avere equilibrio.  Oggi il fattore “hazy” è sfuggito di mano. La gente vende dei milkshake con due dita di lievito sul fondo della lattina.  La nostra opalescenza non è data dal lievito, ma dai cereali e da altre tecniche. Oggi la gente usa le tecniche più bizzarre per rendere la birra torbida, ma noi non usiamo trucchi: sono solo quattro ingredienti. Non ho intenzione di rivelare i dettagli, è fondamentale il momento in cui so utilizzano i luppoli. Il momento, non la quantità. Vedo birrifici usarne quantità doppia rispetto a noi: questo rende la loro birra due volte più buona? No. Stanno sprecando una grande quantità di luppolo?  Assolutamente sì". 
Nessuna formula segreta, quindi. Nonostante la ricetta della Heady Topper non sia mai stata rivelata, sappiamo che utilizza malti di origine inglese e luppoli americani, soprattutto Simcoe proveniente dallo  Yakima Chief Ranch di Washington. Il lievito è un regalo fatto a John da Greg Noonan, che lo aveva reperito in Inghilterra negli anni ’80. La preoccupazioni di Kimmich sono altre: come ridurre al minimo la presenza di ossigeno, fonte di ossidazione? Come ottenere il massimo dai luppoli?  E che dire dello slogan “drink from the can” che ha reso The Alchemist famoso?  “All’inizio pensavano che non volessimo far vedere alla gente che non era una birra limpida. Ma ha a che vedere con gli aromi e il contatto con l’ossigeno. Se la verso nel bicchiere per qualche minuto avrà un aroma esplosivo ma dopo mezz’ora sarà una merda. La carbonazione, gli olii essenziali dei luppoli saranno svaniti; a me piace godermi la birra con calma. Se la lascio nella lattina, sarà ancora esplosiva”.

Dopo tutte queste parole, è il momento di bere…  versandola nel bicchiere!  Dan Blakeslee, vecchio amico di John, è l’autore di tutte le grafiche di The Alchemist. La Heady Topper è piuttosto velata ma non è neppure lontanamente paragonabile alla maggior parte delle torbide New England IPA. Il suo colore che oscilla tra l’arancio e il dorato è luminoso, la schiuma è abbastanza compatta ed ha un’ottima persistenza. E’ bella, insomma. Da quanto ne so questa lattina ha all’incirca un mese di vita e l’aroma è pungente e pulito, anche se la freschezza non sembra essere ottimale. C’è un bell’equilibrio tra dank, pompelmo e arancia, frutta tropicale, soprattutto ananas. L’intensità non è però esattamente esplosiva.  La sensazione palatale è invece davvero sorprendente: è una Double IPA (8%) leggera e setosa, quasi impalpabile, una carezza per il palato.  Il gusto è ben bilanciato tra tutte le sue componenti: pane, qualche lievissimo accenno biscottato, frutta tropicale (ananas e mango), accenni di agrumi e un bel finale amaro, dank e resinoso, piuttosto intenso e potente. E’ solo qui che l’alcool fa sentire la sua presenza: una grande secchezza contribuisce poi in maniera determinante ad assicurare una grande facilità di bevuta. 
Livello indubbiamente alto per questa lattina di Heady Topper che tuttavia mi sembra mostrare già qualche cedimento di freschezza dopo solo un mese di vita. John Kimmich vorrebbe che fosse tenuta sempre al freddo e giura di saper distinguere quelle lattine che hanno passato del tempo fuori dal frigo. Indubbiamente sono birre delicate che non dovrebbero viaggiare: per chi non è ancora riuscito ad andare alla fonte, le lattine che arrivano ogni tanto anche in Europa sono comunque un accettabile compromesso per soddisfare la curiosità. Per quel che riguarda l’hype, è bene ricordare che è fomentato da dinamiche fuori controllo generate da vari fattori. In questo caso  mi trovo d’accordo con il birraio Kimmich che vuol mantenere un basso profilo: è un’ottima IPA, pulita e bilanciata, ma come lei ce ne sono tante altre: con la riserva di poterla riprovare un giorno direttamente alla fonte. 
Formato  47,3 cl., alc. 8%,  inlatt. 05/11/2018 (?), prezzo indicativo 10,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 7 dicembre 2018

De Molen Hel & Verdoemenis (Hell & Damnation)

I lettori regolari del blog ricorderanno forse che il birrificio olandese De Molen era finito sulla mia personale black list: troppe le delusioni e le birre non a posto prodotte nel triennio 2012-2015. Colpa del cambio d’impianto avvenuto nel 2011? Può darsi, ma visto che le alternative sul mercato non mancano, la pazienza ha un limite. 
Nel frattempo Menno Olivier and John Brus, fondatori e proprietari del  ”mulino”, hanno dovuto stringere un patto col “diavolo” per portare avanti i loro affari; aumentare i volumi senza una struttura commerciale e distributiva idonea a collocarli non è cosa buona, soprattutto se non si  riesce a vivere di solo export. A maggio 2015 apparvero le prime indiscrezioni sulla cessione di una quota del birrificio al gruppo olandese Bavaria. Olivier e John  furono costretti a smentire pubblicamente affermando di aver invece raggiunto un accordo con i monaci trappisti dell’abbazia di De Koningshoeven, alias La Trappe. I due birrifici avrebbero usato lo stesso canale distributivo e la stessa rete commerciale per vendere i rispettivi prodotti sul territorio olandese; l’equivoco era nato soltanto perché La Trappe utilizzava fisicamente i camion della Bavaria. “Non siamo stati comprati; siamo ancora noi i proprietari e continueremo a gestire in prima persona l’export. In più saremo fnalmente anche presenti in tutto il nostro paese. Questo era il nostro obiettivo”. 
Le cose non sarebbero però andate esattamente così, secondo quanto poi svelato nell’aprile 2016 dal blog olandese Mylifewithbeer, una delle poche fonti in inglese che ha parlato della vicenda: “all’inizio del 2015 Bavaria aveva già acquistato il 35% di De Molen tramite una società da lei controllata nella quale partecipava anche il birrificio di De Koningshoeven. Le azioni sono state rilevate da tanti azionisti minoritari di De Molen; questa transazione non ha comportato nessun investimento diretto di denaro da parte di Bavaria a De Molen; Bavaria ha solamente ottenuto in cambio il diritto di distribuzione in esclusiva per tutto il BeNeLux. Per aumentare la propria capacità produttiva ed acquistare nuovi fermentatori, De Molen si è autofinanziato vendendo l’edificio “Formido” acquistato nel 2011 per poi affittarlo con un contratto di leasing”.

La birra.
A due anni dall’ultima De Molen bevuta ritento la sorte: saranno migliorate le birre? E’ tornato il De Molen di una volta, diventato famoso per le sue imperial stout e i suoi barley wine capaci tra l’altro d’invecchiare anche piuttosto bene? 
Nel & Verdoemenis (10%), ovvero “Inferno e Dannazione”: arrivata dopo i fasti della Rasputin e della la Tsarina Esra, è oggi diventata la imperial stout più venduta di De Molen. Ne esistono ovviamente sterminate varianti prodotte con aggiunta di ingredienti (caffè, nocciole, Oreo…) o invecchiate in diverse botti. La più nota – forse per il numero) è probabilmente la Hel & Verdoemenis 666,  prodotta con chips di legno imbevute in Cognac di 40 anni. La ricetta della Hel & Verdoemenis prevede malti Pale, Brown, Chocolate, Caramel e Roasted, luppoli Premian e Saaz. 
Il suo vestito è quasi nero, la schiuma cremosa non ha bolle molto fine ma mostra una buona persistenza. Il naso è ricco e complesso: caffè, orzo tostato, cioccolato, biscotto e liquirizia, qualche accenno di fruit cake e cenere/tabacco. Pulizia e finezza non sono i suoi punti di forza ma il risultato è comunque piuttosto gradevole. Non ci sono particolari densità o cremosità al palato e il corpo è medio: la scorrevolezza ci guadagna ma un po’ di “ciccia” in più non le avrebbe fatto male secondo me.  La bevuta parte dolce di caramello, prugna sotto spirito e  liquirizia per poi iniziare una bella e intensa progressione nell’amaro del caffè, delle tostature e del cacao. L’alcool è molto ben gestito e riscalda senza far male: il retrogusto è lungo ma quasi delicato e stempera l’amaro con un bel mix di frutta sotto spirito, caffè zuccherato, cioccolato. 
Il De Molen di una volta è tornato?  Non proprio ma questa Hel & Verdoemenis del 2017 è una bella bevuta: non è un mostro di eleganza e precisione ma è molto bilanciata e soddisfa pienamente chi se la trova nel bicchiere. Peccato solo per quel dito (abbondante) di fondazza nel bicchiere. Dopo anni di buio De Molen, finalmente vedo un po’ di luce.
Formato 33 cl., IBU 102 (?), alc. 10%, imbott. 20/06/2017, scad. 20/06/20142, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 6 dicembre 2018

HOMEBREWED! Tommaso Mainardi - Drink Sleep Weepeat

Con frequenza ormai quasi quadrimestrale rieccoci a parlare di produzioni casalinghe nell’ambito della rubrica HOMEBREWED! Diamo oggi il benvenuto a Tommaso Mainardi, homebrewer operativo a Castelvetro sulle colline modenesi e attivo dal 2014. Il suo percorso inizia come quello di tanti con un kit da estratti per poi passare, dopo qualche anno all’e+g; da inizio 2017 il passaggio definitivo al metodo All Grain.  Nel caso di Tommaso la passione per la birra artigianale si è sviluppata in parallelo (e non prima) al proprio hobby: la sua produzione è di circa 8-10 birre all’anno mediante una pentola inox da 50 litri,  un frigorifero "da campeggio" da 46 litri per l'ammostamento  (single step) e  abbattimento dei  tempi con la tecnica del no-sparge. Per la fermentazione utilizza un frigo  controllato da termostato esterno. Nel suo giardino – come credo in quello di ogni homebrewer – c’è anche qualche piantina di luppolo. Tommaso mi ha inviato per l’assaggio una bottiglia di Wee Heavy / Strong Scotch Ale prodotta con la variante “malto torbato”; è la prima volta che si cimenta con questo stile. La ricetta, oltre al Peated, include malti Pale, Crystal, Biscuit e Roasted, lieveito Safale S-33 e luppolo Polaris in amaro. Nome ed etichetta creati ideati appositamente per l’apparizione sul blog: Drink, Sleep and Weepeat (7.2%).

La birra.
Dalla foto non si direbbe, ma nel bicchiere si presenta  di un bel color ambrato piuttosto carico ed illuminato da intense venature rossastre; la schiuma è fine, compatta ed ha una buona persistenza. L’aroma è abbastanza intenso e dominato dal torbato, la cui finezza lascia però un po’ a desiderare; note fenoliche ricordano la plastica bruciata e c’è più di un accenno di formaggio (affumicato). Le note maltate (biscotto e caramello) sono sovrastate dagli esteri fruttati che appaiono un po’ fuori controllo, con qualche eccesso di mela verde.
Le cose migliorano al palato, a partire da un mouthfeel morbido e poco carbonato che permette a questa Wee Heavy di scorrere con buona facilità nonostante la gradazione alcolica. Il gusto risulta maggiormente equilibrato dell’aroma, anche se personalmente cercherei di far risaltare maggiormente le note caramellate, biscottate e quel carattere “nutty” tipicamente anglosassone rispetto agli esteri (prugna, uvetta e anche un po’ di mela). Il torbato arriva soprattutto nel finale ma anche qui si porta dietro qualche leggera deriva di plastica bruciata; una breve parantesi amaricante, terrosa e leggermente tostata, anticipa il tiepido retrogusto di frutta sotto spirito. Si potrebbe dire “buona intensità ma non altrettanto controllo” in questa Scotch che necessita di diversi aggiustamenti; come primo tentativo con lo stile il risultato è comunque discreto e la birra si lascia bere senza grossi problemi.  Oltre a pulizia e definizione, migliorabili entrambi, c’è secondo me da lavorare soprattutto su lievito/esteri e sulla qualità del torbato; nella speranza che questi miei appunti siano utili a Tommaso per migliorare la propria birra. Nel frattempo un grazie per avermela fatta assaggiare e la solita  “pagellina” su scheda BJCP: 32/50 (Aroma 5/12, Aspetto 3/3, Gusto 13/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 7/10).
Formato 50 cl., alc. 7.2%, IBU 30, imbott. 07/10/2018.

mercoledì 5 dicembre 2018

Eastside Fumo Lento

Le giornate si fanno sempre più corte e fredde, non c’è niente di meglio che concluderle versandosi nel bicchiere qualcosa che riscaldi e che ci faccia compagnia per quasi tutta la serata. Non è un caso che il consumo delle birre “scure” sia molto più elevato nei mesi più freddi dell’anno, soprattutto nelle loro versioni “robuste” o imperiali: Baltic Porter, ad esempio, il cui nome evoca già il freddo e un possibile rimedio. 
Birre scure dalla sostenuta gradazione alcolica erano prodotte nei paesi baltici da secoli ma fu Michael Jackson (il beerhunter, non il cantante… per i meno esperti in materia) a rivendicare la paternità di quella che, dice, è “una categoria nata dopo una serie di articoli che scrissi nel 1990, dopo un viaggio in Estonia“. Una quindicina di anni prima, nel libro World Guide to Beer del 1977, Jackson si limitava a raccontare che “le Porter prodotte in Polonia hanno corpo medio, sono potenti e forti con una gradazione alcolica di circa il 7.5%”. 
E’ noto che nel diciottesimo secolo l’Inghilterra era una potenza industriale e anche la birra era oggetto di commercio verso l’estero: i paesi scandinavi e baltici apprezzavano “in particolare birre di colore scuro, alcoliche e dolci”.  Una su tutte? Quella che il birrificio Barclay Perkins dedicò all’imperatrice di Russia Caterina la Grande: nacque la prima “Russian Imperial Stout”.  Ovviamente i birrai locali non rimasero con le mani in mano ed iniziarono ad imitare le birre provenienti dall’Inghilterra adattando le ricette per i lieviti a bassa fermentazione che utilizzavano abitualmente.

La birra.
Questo breve excursus storico ha lo scopo d'introdurre la Baltic Porter del birrificio di Latina Eastside, presenza abbastanza regolare sul blog. Fumo Lento ha debuttato a cavallo tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017: la sua bella etichetta raffigura quei velieri che nel diciottesimo secolo salpavano dai porti inglesi verso i mari del Nord. Sotto di lui la “nebbia di mare” o, se preferite, il fumo “lento” di un sigaro al quale potete abbinare questa birra. La ricetta prevede il 50% di malto affumicato, malti Chocolate, Carafa 3 Special, Brown e luppolo Chinook sia in amaro che a fine bollitura. L’ispirazione? Probabilmente la Baltic Porter più amata dagli appassionati: quella del birrificio Alaskan.  
All’aspetto è di color ebano scuro, la schiuma è cremosa e compatta ed ha buona ritenzione.  Il legno affumicato è protagonista di un aroma ricco e pulito nel quale appaiono profumi di pane nero, orzo tostato, fondi di caffè, speck, qualche suggestione di cacao amaro. Al palato è morbida e poco carbonata, la scorrevolezza è ottima. Passano in rassegna dapprima caramello, pane nero, accenni biscottati e frutta sotto spirito, mentre nel finale s’intensificano tostature e caffè. Il fumo è più in secondo piano rispetto all’aroma ma – come in una sinfonia – entra ed esce di scena a più riprese dialogando con gli altri elementi. C’è anche spazio per suggestioni di cioccolato, l’alcool (7.5%) è molto ben dosato, il retrogusto abboccato è caldo, accomodante e invitante. Gran bella Baltic Porter questa di Eastside: pulita, definita, intensa, precisa e molto bilanciata. Scorre con pericolosa facilità ma sarebbe un vero peccato non gustarla con calma, sorso dopo sorso. Ogni cosa al posto giusto in una birra da non mancare se la trovate: per me una delle migliori produzioni del birrificio di Latina, che ringrazio per avermela fatta assaggiare. 
Formato 33 cl., alc. 7.5%, lotto 15 18, scad. 12/2020, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio