venerdì 30 dicembre 2016

Lagunitas Brewing Company: IPA, A Little Sumpin’ Sumpin’ Ale & Lagunitas Sucks

"Vendere significa vendere il cuore dei tuoi migliori amici e quella parte della vita che i tuoi collaboratori hanno passato a lavorare per te": questo un tweet di Tony Magee datato 2013 con il quale criticava una delle tante acquisizioni di birrifici "craft" da parte di grandi multinazionali, dichiarando che lui mai lo avrebbe fatto.  
Come commentare allora l'annuncio di settembre 2015 con il quale Lagunitas Brewing Company annunciava di aver stretto una partnership 50/50 con il colosso mondiale Heineken? E' Magee stesso, fondatore nel 1993 del birrificio a Petaluma (California), a spiegarne le motivazioni direttamente sul forum di BeerAdvocate, anticipando tutte le critiche. E mentre dall'altra parte dell'oceano Heineken non parlava di partnership ma di aver  acquistato il 50% di Lagunitas, Magee chiariva di avere ormai 55 anni e la necessità di guardare al futuro assicurandolo a se stesso, ai suoi dipendenti e ai suoi partner aziendali: "abbiamo ricevuto e rifiutato proposte da AB InBev e SABMiller, siamo stati noi a bussare alla porta di Heineken che inizialmente non aveva nessun interesse nei birrifici craft".  La partnership con Heineken gli consente infatti di accedere ad una catena distributiva mondiale e di guardare al di là dei confini nazionali: "questa non è la fine di Lagunitas, è forse solo la fine del suo percorso iniziale. Ora abbiamo davanti un'opportunità storica per esportare la passione che caratterizza la Craft Beer americana in tutto il mondo; anzi questo forse potrebbe diventare il giorno della vittoria della Craft Beer americana".  
I dettagli economici della partnership operativa da fine 2015  non sono stati resi noti ma si dice che il birrificio di Petaluma, che nel biennio 2012-2014 è cresciuto del 58% con una produzione di un milione di ettolitri, sia stato valutato all'incirca un miliardo (!) di dollari. Oltre alla sede di Petaluma e a quella di Chicago sarà a breve operativa anche quella di Azusa, a quaranta chilometri da Los Angeles, città dove finalmente la craft beer sta prendendo piede e, soprattutto, luogo strategicamente conveniente per  l'esportazione verso i mercati del Sud America, Messico in primis. Una capacità iniziale di 400.000 barili/anno che, assieme a quelli prodotti a Petaluma e Chicago, porteranno Lagunitas alla pari di Sierra Nevada.
Per il momento la partnership con Heineken sta iniziando a dare i suoi frutti in Europa, con le Lagunitas che, attraverso i partner distributivi del colosso olandese, sono arrivate sugli scaffali di qualche supermercato; se qualcuno me lo avesse predetto quattro anni fa, gli avrei sicuramente riso in faccia.

Le birre.
Tre le etichette che sono arrivate dalla California; non manca ovviamente la flagship IPA (6.2%), la IPA più venduta in tutta la California. Nel febbraio 2015 il 12 pack di Lagunitas IPA divenne addirittura il "pack" più venduto in tutta la Bay Area (San Francisco), capace di superare i grandi marchi industriali. Disponibile quasi ovunque, la IPA di Lagunitas è in molti locali l'unica alternativa alle multinazionali, capace di "salvarvi" la vita quando non trovate niente di decente da bere.
La bottiglia in questione è "nata" lo scorso settembre 2016 e si presenta quasi limpida e di color oro antico, con qualche venatura ramata; la schiuma leggermente biancastra è compatta e cremosa ed ha un'ottima persistenza. Il naso non è di certo un elogio alla freschezza ed alla intensità ma è tutto sommato ancora accettabile: pompelmo e pino la fanno da padrone, accompagnati da profumi floreali e di biscotto; il fruttato più che di fresco ricorda però la marmellata. Il percorso continua in linea retta al palato senza grosse divagazioni; la base maltata, seppur non invadente, richiama biscotto e caramello e introduce il dolce della marmellata d'agrumi al quale risponde subito l'amaro, resinoso e vegetale, al quale spetta poi il compito di chiudere la bevuta. La secchezza potrebbe essere migliore, il finale amaro è lungo ed intenso ma ha perso un po' di vigore e non punge quanto potrebbe. Non c'è da fare salti di gioia ma se ci si accontenta si ha nel bicchiere una delle tante IPA americane che arrivano dopo tre mesi di viaggio e il fiato un po' corto ma ad un prezzo vantaggioso.  Se cercate la fragranza e la freschezza dei luppoli guardate altrove, se invece vi accontentate di una discreta IPA, bilanciata e facile da bere ma lontana parente di quella che era in origine, non sarebbe affatto male trovare sempre questa Lagunitas sugli scaffali della grande distribuzione. Il prezzo è un po' più elevato delle IPA crafty (Poretti, Ceres, Tennents) ma è più contenuto di molte altre IPA "artigianali" (italiane e non) che occupano gli stessi scaffali dei supermercati con alterne fortune (per chi le compra).

La seconda Lagunitas arrivata in Italia è la A Little Sumpin’ Sumpin’ Ale (7.5%): realizzata per la prima volta nel 2009 come birra stagionale estiva è poi entrata di diritto in produzione regolare. Il mash prevede il 50% di frumento ed un generoso utilizzo di luppoli in dry-hopping: India Pale Ale o  American Wheat Ale? A voi la preferenza. Il bicchiere diventa dorato, leggermente velato e anche in questo caso la schiuma che si forma è impeccabile: cremosa, fine e compatta, ottima persistenza. Buona parte del (dichiarato) abbondante dry-hopping si è evidentemente perso nel viaggio attraverso l'oceano: l'aroma è pulito ma poco intenso e, anche in questo caso, poco fresco/fragrante. Ci si muove in territorio tropicale; mango e melone, con pompelmo e frutti di bosco ad agire in sottofondo. Molto più secca della sorella IPA, riaccompagna subito il bevitore in territorio  tropicale con il dolce del mango, del melone e della papaia. Anche questa birra è stata imbottigliata lo scorso settembre e la freschezza della frutta ne risente, virando di nuovo verso la marmellata ed il candito. I malti, leggermente caramellati, supportano la generosa luppolatura che sfocia in un finale amaro, lungo e intenso, nel quale la resina punge ancora un po'. Alcool ben nascosto, corpo medio ed una carbonazione contenuta le consentono di scorrere piuttosto pericolosamente: il rapporto qualità prezzo (2.65 € per 35 cl.) è buono, ma anche qui dovete accontentarvi e non essere alla ricerca della freschezza, che purtroppo è la caratteristica principale delle birre molto luppolate.

Terminiamo questa rassegna con Sucks, una sorta di Double IPA prodotta con malto d'orzo, frumento, segale, avena ed un parterre di luppoli composto da Chinook, Simcoe, Apollo, Summit, HBC342 e Nugget.  L'avevo già incontrata un paio di anni fa in California nel formato criminale (per un ABV dell'8%) da 35 once, ovvero quasi un litro che viene venduto a cinque dollari. Quella bevuta non era purtroppo andata nel migliore dei modi e cerco di rimediare ora con una bottiglia nata - quasi come quella di allora - circa tre mesi fa. Il nome abbastanza curioso di questa birra significa “Lagunitas fa schifo” ed il perché ve lo avevo raccontato in quella occasione. 
Il suo colore è tipicamente West Coast, tra il dorato e l'arancio, appena velato; la schiuma biancastra è anche in questo caso perfettamente fine, cremosa, compatta e mostra una lunghissima persistenza. Nell'aroma convivono i profumi degli aghi di pino con quelli del pompelmo e della frutta tropicale (mango, melone, ananas): l'aroma non è esplosivo ma molto pulito, con un livello di freschezza tutto sommato ancora accettabile, se ci si accontenta. La sensazione palatale è ottima: birra morbida, corpo medio, bollicine contenute e ottima scorrevolezza. Il gusto ricalca l'aroma riproponendo la frutta tropicale che viene supportata dall'impalcatura per nulla invadente dei malti (biscotto, miele, caramello). Il fruttato ha perso un po' del suo splendore (canditi e marmellata) ma è ancora predominante e caratterizza una bevuta facile e gradevole. Il pompelmo chiude il percorso della frutta e introduce il finale amaro e resinoso, purtroppo non molto pungente, con il quale si conclude questa Double IPA. Alcool ben nascosto che riscalda con garbo solo a fine corsa, buona attenuazione, pulizia ed equilibrio: delle tre Lagunitas la Sucks è quella che è meglio sopravvissuta al viaggio oceanico. Una bevuta ancora godibile e dal buon rapporto qualità prezzo, soprattutto se dovete acquistarne più di una bottiglia per una cena tra amici o per una grigliata.

Se volete provarle, fate in fretta: sono tutte e tre state imbottigliate lo scorso settembre e il tempo non è amico di questo tipo di birra. Tra qualche mese il loro decadimento sarà ancora più evidente: ed è forse questo il maggior problema che riguarda le birre "artigianali" (anche se Lagunitas non può più essere definita tale) nella grande distribuzione. Acquisti di grossi quantitativi che poi rimangono in giro per moltissimi mesi, sino ad esaurimento scorte, quando invece sarebbe assolutamente indispensabile far arrivare regolarmente sugli scaffali lotti produttivi sempre freschi. Per ora dalla California sono arrivate queste tre birre, della tipologia meno adatta a viaggiare: speriamo che prima o poi arrivino anche altre birre meno luppolate e quindi meno suscettibili al trascorrere del tempo. Con il buon livello di prezzi di Lagunitas (negli Stati Uniti era tra i produttori craft più a buon mercato) sarebbero davvero un'ottima risorsa sugli scaffali del supermercato.

Nel dettaglio:
IPA: 35.5 cl., alc. 6.2%, IBU 51.5, scad. 07/09/2017, prezzo indicativo 2.49 Euro (supermercato)
A Little Sumpin’ Sumpin’ Ale: 35.5. cl., alc. 7.5%, scad. 07/09/2017, prezzo indicativo 2.65 Euro (supermercato)
Sucks: 35.5 cl., alc. 8%, IBU 63, lotto 1438 0424, scad. 09/09/2017, prezzo indicativo 2.65 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 28 dicembre 2016

DALLA CANTINA: De Dolle Stille Nacht Special Reserva 2005

Chiudiamo il cerchio delle bevute di Natale 2016 ritornando in un certo senso da dove eravamo partiti: birrificio De Dolle, Stille Nacht. Oggi non parliamo però della Stille "normale" ma della sua versione barricata, chiamata (Special) Reserva. 
Un'edizione purtroppo piuttosto discontinua e limitata, prodotta se non erro solamente tre volte: nel 2000, nel 2005 e nel 2010. Ci sarebbe anche l'edizione 2008, mai commercializzata ufficialmente, imbottigliata a mano utilizzando le normali etichette della Stille Nacht con un timbro sopra che reca la parola Reserva e destinata solo ad amici e famigliari. Qualche bottiglia è tuttavia "scappata" dalla cantina di Kris Herteleer ed ha preso la strada degli Stati Uniti o di qualche fortunato locale europeo. E c'è anche il millesimo 2013, apparso soltanto al Kerstbier Festival di Essen del 2014: anche questa edizione non è mai stata messa in vendita. L'unica possibilità che avete di assaggiare queste edizioni - e qualche altra direttamente dalle botti - è di recarvi in visita al birrificio e sperare nella benevolenza di Kris. 
La Stille Nacht Reserva nacque nel 2000 da un tragico errore. Come vi avevo già raccontato in questa occasione, a novembre del 1999 la Palm, che aveva da poco acquisito la Rodenbach, inviò una lettera a tutti i propri clienti (oltre a De Dolle, c’era anche il monastero di St. Sixtus/Westvleteren) comunicando la decisione d’interrompere dal primo dicembre la vendita del lievito proprietario. I tentativi di utilizzare dei lieviti differenti non soddisfarono molto Kris Herteleer, il quale decise di “riciclare” il ceppo di Rodenbach affidandosi ad un biologo. La "replica" tuttavia non andò come previsto: il "nuovo" ceppo risultò molto pulito ma privo di quelle caratteristiche batteriche (acetiche e lattiche) tipiche proprio del Rodenbach. La rifermentazione inoltre sembrava non finire mai e numerose bottiglie di una cotta, nonostante le temperature di dicembre, iniziarono ad esplodere. Per non perdere l'intera produzione Kris decise di travasare il contenuto delle bottiglie ancora intatte in botti (recuperate grazie all'aiuto di Cantillon) che avevano ospitato vino Bordeaux (Château Léoville-las-Case)  e di tornare ad imbottigliarle dopo dodici mesi (o diciotto, a seconda delle fonti). E' la nascita della Stille Nacht Reserva (2000), una birra che da un inizio disastroso diventerà uno dei capolavori della produzione De Dolle.
La "leggenda" poi dice che la Stille Nacht "normale" sia rinata grazie al ritrovamento di alcuni vecchi fusti in Finlandia non completamente vuoti che permisero al microbiologo di fiducia di Kris di recuperare del lievito Rodenbach originale da coltivare. Ovviamente non bisogna mai fidarsi di quello che dichiara un birraio belga, così come non si devono nutrire grosse speranze sulla futura Stille Nacht Reserva 2015, che potrebbe uscire a Natale 2017 dopo aver riposato per quasi due anni in botti di vino. Il condizionale è d'obbligo, perché Kris non si pone limiti e lascia la birra in botte fin quando non ritiene che sia pronta per essere venduta; e non ha nessuna intenzione di ampliare né la propria produzione "standard" né il suo programma delle "Reserva". 

La birra.
Purtroppo non sono riuscito a recuperare molte informazioni sulla Stille Nacht Reserva 2005; non so se sia stata utilizzata la stessa tipologia di botti dell'edizione 2000 e non so quanto tempo sia durato l'invecchiamento. All'aspetto è di colore arancio carico, con qualche sconfinamento nell'ambrato; la quantità di schiuma biancastra che si forma è ovviamente minima e alquanto rapida a scomparire dal bicchiere. Da una birra di dieci anni ti aspetteresti cedimenti e inevitabili difetti dovuti al trascorrere del tempo. Invece sin dall'aroma questa Stille Reserva mostra tutto il suo vigore; l'ossidazione è quella "buona", quella che porta in dote i profumi del vino liquoroso e del passito. Una punta di cartone bagnato c'è, ma bisogna proprio andarla a cercare; per il resto l'aroma regala uva passa, legno, zucchero caramellato, fichi e frutta disidratata come albicocca ed ananas. Al palato è ricchissima, calda, sensuale: quasi ci si dimentica di avere nel bicchiere una birra e la mente si sposta subito in territorio vinoso. Pensate a vini liquorosi ma anche fortificati, il Madeira non è troppo lontano: la bevuta è coerente con l'aroma e ripropone il dolce dell'uva passa, dei canditi (sempre albicocca ed ananas) e dello zucchero caramellato, il legno. L'alcool è evidente ma morbido: è straordinario come una "signora birra" di dieci anni riesca ad essere ancora così potente e riesca a mantenere un'acidità capace quasi di donarle freschezza, oltre a stemperare il dolce. Anche in bocca le ossidazioni "negative" (cartone bagnato, sangue) sono davvero lievi, con la birra che mostra di poter reggere ad un ulteriore invecchiamento. Chiude lunghissima, con un dolce e caldo abbraccio liquoroso di frutta sotto spirito che sembra non finire mai e che ti accompagna per il resto della serata.
Bottiglia straordinaria, emozioni che si susseguono sorso dopo sorso. Stille Nacht, questa volta la notte è silenziosa perché le parole sono superflue.
Formato: 33 cl., alc. 13%, lotto 04/2006. 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 27 dicembre 2016

Extraomnes Kerst Reserva 2016

Proseguiamo con le bevute di Natale 2016, ne mancano ancora due all'appello; il "gran finale" inizia con il ritorno della Kerst Reserva 2016, versione barricata della birra natalizia del birrificio di Marnate (Varese) che ha da qualche settimana inaugurato il suo locale Bier & Cibo a Castellanza dove poter mangiare ad assaggiare anche qualche birra disponibile solo in loco. 
Ho detto "ritorno" perché la Kerst Reserva mancava ufficialmente dal 2013; negli ultimi due anni infatti le botti utilizzate per l'invecchiamento non avevano reso quanto sperato ed il birrificio ha preferito non farla uscire: "lei è un po' il nostro "monfortino" e se non siamo certi che sia una grande annata, la blocchiamo". Questo quanto ha pubblicato sulla propria pagina Facebook il birrificio lo scorso 17 novembre, data in cui è stato dato l'annuncio dell'uscita dell'edizione 2016.
Ricapitoliamo brevemente le precedenti: la Kerst Reserva 2011 (13%) ha riposato per nove mesi in botti che avevano contenuto la Barbera d’Alba di Elio Altare; la 2012 (10%) nove mesi in botti ex Barbera delle Langhe; la 2013 (12%) ha invece passato circa sette mesi in botti di Barolo di Dogliani. Per il millesimo 2016 (10.5%) sono state utilizzate botti di Chianti Classico provenienti dall’azienda Castello di Fonterutoli;  come sempre la ricetta prevede l'utilizzo in bollitura uno zucchero candito fatto con succo concentrato di mela biologica. Dopo l'interessante confronto tra 2011 e 2013 di tre anni fa, è il momento di assaggiare la Kerst Reserva 2016.

La birra.
Nonostante quello che appare dalle fotografie, nel bicchiere arriva di color arancio carico con venature che spaziano dal dorato all'ambrato; quel poco di schiuma biancastra che si forma è un po' scomposta e abbastanza rapida nel dissiparsi. Al naso il carattere vinoso è evidentissimo: l'asprezza dell'uva e dei frutti rossi viene bilanciata dal dolce dello zucchero caramellato, dell'uvetta e della mela caramellata, mentre il legno in sottofondo impreziosisce di tanto in tanto un bouquet olfattivo pulito ed elegante ma dall'intensità solo discreta. Il dialogo tra dolce ed aspro è il tema conduttore di una bevuta emozionante che sembra svelare nuovi particolari dopo ogni sorso: se con i primi il palato avverte sopratutto la presenza del vino e dell'asprezza dei frutti rossi, man mano che la birra si scalda e si apre è il dolce dei canditi e della mela caramellata a farsi notare sempre di più. Ma le sorprese non sono finite: l'alcool, molto ben dosato, evolve in un bel calore fruttato reminiscente di vini liquorosi: uvetta, prugna che si diffondono anche nel lungo retrogusto, caldo e morbido, di frutta sotto spirito. 
Rileggendo gli appunti di bevuta delle precedenti  Kerst Reserva mi sembra che nell'edizione 2016 il carattere vinoso sia molto più in evidenza; c'è indubbiamente qualche spigolo di gioventù da limare, ma le emozioni già non mancano e, quando ne trovi nel bicchiere, è sempre una festa. O un epifania, visto che siamo nel periodo appropriato.
Formato: 33 cl., alc. 10.5%, lotto 299 16, scad. 10/2021, prezzo indicativo 6.50-8.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 24 dicembre 2016

Bevog Who Cares Editions Brown Snowball Coconut Porter

La sesta birra di Natale 2016 ci porta all'estremità sud-orientale dell'Austria da Bevog, birrificio transitato sul blog già quattro volte, l'ultima delle quali pochi giorni fa
Il birrificio guidato dallo sloveno Vasja Golar non produce una classica birra natalizia ma quest'anno ha due proposte valide per tutta la stagione invernale. Entrambe le birre vengono vendute nell'ambito della Who Cares Editions, ovvero una serie di birre occasionali e/o prototipali con le quali si cerca di capire il feedback da parte di chi le beve, al fine di valutarne l'entrata in produzione stabile: il luppolo (session IPA, IPA e Double IPA) è di solito il protagonista di queste ricette ma per i mesi più freddi dell'anno il birrificio ha realizzato due "diverse palle di neve". Una gialla, chiamata Yellow Snowball Hopped Up Tripel, a quanto pare nata per "errore": un ceppo di lievito belga finì all'interno di una ricetta di una Double IPA invernale. Il risultato fu ugualmente soddisfacente e la birra messa in commercio: a voi scegliere se chiamarla Belgian Double IPA o Tripel luppolata. La seconda proposta è una robusta Porter al cocco, evoluzione di una ricetta casalinga di Vasja Golar: "volevo da tempo replicare quella birra che avevo fatto nel mio garage; ma il cocco non è facile da gestire e ho dovuto prima trovare le soluzioni tecniche per riuscire ad utilizzarlo in birrificio".

La birra.
In tutte le Who Cares Editions il protagonista dell'etichetta è un personaggio che ricorda molto il Jack Skeletron (Skellington) di Nightmare Before Christmas: in questo caso lo scheletro è alle prese con un pupazzo di neve e con un irriverente cane che deposita i suoi bisogni  "solidi/marroni" sulla neve. Nell'etichetta della tripel lo stesso cane si limita invece a fare pipì, coerentemente con il colore della birra.
Non è nera ma quasi, e forma nel bicchiere un modesto cappello di schiuma nocciola, cremosa e compatta, dalla discreta persistenza. Il benvenuto al naso lo danno caffè ed orzo tostato, mettendo in secondo piano il cioccolato al latte ed il cocco; un contesto pulito ed elegante che prende le sembianze di una sorta di torta di cioccolato al caffè. Al palato la scorrevolezza viene privilegiata rispetto alla morbidezza: corpo medio, poche bollicine, consistenza leggermente oleosa. La bevuta è così molto agevole nonostante la robusta (8.1%) gradazione alcolica. Un velo di dolce di caramello e di liquirizia in sottofondo costituisce il supporto necessario ad un profilo che vira deciso e intenso sul torrefatto e sul caffè. Il cocco è davvero leggero, la suggestione di sapere che c'è fa la sua parte, mentre il finale viene snellito dall'acidità dei malti scuri; si chiude con un lungo e delicato warming etilico che abbraccia le ricche tostature, il caffè e il cioccolato amaro. Più elegante al naso ma più intensa in bocca, la "palla di neve marrone" di Bevog regala una bevuta facile e soddisfacente, sia che  vi capiti tra le mani in inverno che in qualsiasi altra delle stagioni dell'anno.
Formato: 33 cl., alc. 8.1%, scad. 25/11/2017, prezzo indicativo 4.00/4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 23 dicembre 2016

Project Local Brewery - Winter Ale


Nonostante la birra occupi (patologicamente) una buona percentuale dei miei pensieri quotidiani e cerchi di restare sempre aggiornato su quello che accade nel mondo, ammetto di non riuscire tenere il passo della scena italiana e delle sue quasi mille entità (birrifici, brewpub, beerfirm) che operano sul mercato. 
Devo quindi confessare di non aver mai sentito parlare di PLB - Project Local Brewery sino al momento in cui mi sono ritrovato ad acquistare una bottiglia. Da quanto capisco si tratta di un ramo dell'azienda agricola  Podere La Berta, fondata a Brisighella (Ravenna) agli inizi degli anni settanta da Marcello Giovannini e rilevata nel 2009 dalla famiglia Poggiali. Oltre a vino e grappa, tra i prodotti offerti dal podere dal 2015 vi è anche la birra: cito testualmente "Project Local Brewery nasce in seno al Podere La Berta e al progetto di valorizzazione dell’identità romagnola, dei suoi prodotti e della sua cultura".
Mi aspetterei quindi una birra prodotta in quel di Brisighella ma in realtà la Project Local Brewery si trova a Castelnuovo Berardenga (Siena), in pieno Chiantishire e a 220 chilometri dal Podere La Berta. Per trovare un nesso logico bisogna googolare un po' e scoprire che il birrificio è situato all'interno della Fèlsina S.p.A. Società Agricola, azienda che produce vino ed olio di proprietà dal 1966 della stessa famiglia Poggiali; a guidarlo il birraio Davide Calfa, studi alla VLB di Berlino e una breve esperienza presso il birrificio Karma. 
Sei le etichette prodotte sino ad oggi: American Pale Ale, India Pale Ale, Golden Ale, Irish Red Ale, Porter e una Strong Ale invernale che andiamo ad assaggiare.

La birra.
Nel bicchiere si presenta di colore arancio opaco, con un compatto cappello di schiuma biancastra, "croccante", fine e  cremosa, dall'ottima persistenza. L'aroma affianca profumi floreali a quelli di miele, canditi (albicocca e arancia), marmellata d'agrumi, zucchero candito; in sottofondo un delicata speziatura nella quella intravedo ricordi di coriandolo. Il gusto prosegue il percorso in linea retta senza nessuna divagazione: si parte dal biscottato e dal miele per continuare con il dolce di canditi, pesca e albicocca. La componente zuccherina è notevole e l'alcool, la vivace carbonazione e l'amaro finale (curaçao, terroso) appena accennato non riescono mai a contrastarla completamente: ne risulta un dolcione natalizio, pulito e gradevole nei primi sorsi ma che alla lunga stanca un po' il palato. Sicuramente una maggiore attenuazione e un'acidità più pronunciata l'avrebbero snellita e resa molto più fruibile alla distanza. Il lievito belga non risulta particolarmente espressivo, l'alcool è comunque sotto controllo, riscaldando quanto basta con un calore che aumenta d'intensità solo nel finale, ovviamente dolce, di frutta sotto spirito. 
Formato: 33 cl., alc. 8.5%, IBU 22, lotto WA01/15, scad. 11/2017, prezzo indicativo 4.50/5.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 22 dicembre 2016

De la Senne Winter Mess

Il birrificio di Brussels non poteva che dedicare la propria birra natalizia alla propria città ed al fiume che, prima di essere ricoperto, l’attraversava. La Senna, ovvero Zinne, già protagonista di una delle birre con le quali la Brasserie de La Senne debuttò alla fine del 2010 nei locali di Chaussée de Gand 565, proprio dietro al cimitero di Molenbeek.  
Nel diciannovesimo secolo la capitale belga contava più di 100 birrifici attivi dei quali l’unico sopravvissuto è Cantillon:  Bernard Leboucq (già proprietario di un birrificio a Sint-Pieters) e Yvan De Baets si mettono insieme nel 2005 con il progetto di inaugurare l’anno successivo un nuovo birrificio a Brussels. La burocrazia e qualche disavventura ne hanno ritardato l’apertura di quattro anni, ma nel frattempo De la Senne ha operato come beerfirm producendo presso gli impianti di De Ranke, dove De Baets ha fatto apprendistato, e della Brasserie Thiriez in Francia. 
Torniamo al fiume Zinne, dal quale deriva la parola “zinneke” con la quale si indicavano tutti quei cani meticci che popolavano un tempo le rive del fiume; agli “zinneke” è anche dedicata una statua, a simboleggiare il carattere multiculturale di Brussels. Oggi invece con “zinneke” vengono definiti quei giovani che hanno un genitore di lingua fiamminga ed uno di lingua francese. Da Zinne e da Zinneke naque così la birra Zinnebir, una Belgian Ale dedicata ai giovani di Brussels alla quale dopo qualche anno s’è affiancata nel periodo delle feste la Zinnebir X-Mas; una birra invernale dal tenore alcolico inizialmente contenuto (6.5%)  e vicino a quello della sorella bionda che è progressivamente aumentato ad ogni inverno per arrivare agli 8.5% attuali. Una scelta che mi trova sinceramente d’accordo: in una birra natalizia ci voglio sentire calore, e le Zinnebir X-Mas bevute qualche anno fa mi avevano sempre lasciato piuttosto freddino.

La birra.
Per il Natale 2016 la Brasserie de La Senne cambia il nome della Zinnebir X-Mas in Winter Mess; ma, garantiscono da Brussels, la ricetta è rimasta identica. Il suo colore è un ambrato opaco, con intense venature rossastre ed un cremoso e compatto cappello di schiuma color crema dalla buona persistenza. Al naso troviamo frutta secca, zucchero candito, biscotto, prugna ed una delicatissima speziatura donata dal lievito in un contesto pulito e dalla buona eleganza. La scorrevolezza e la facilità di bevuta che sono un po' il marchio di fabbrica De la Senne si applicano con le dovute proporzioni anche alla loro robusta Strong Ale invernale: con biscotto, caramello, frutta secca e una delicata speziatura il gusto ripercorre i passi dell'aroma. Uvetta e prugna contribuiscono al suo profilo dolce che è tuttavia ben bilanciato da una grande attenuazione che si porta dietro anche un pelino d'astringenza; nel finale si vira in territorio amaro, con frutta secca ed un bel terroso che relegano in un angolo accenni di tostatura. L'alcool, morbido ed educato, riscalda sopratutto il retrogusto dolce districandosi tra la frutta sotto spirito ed il caramello. Pulita, ben fatta, con quella relativa semplicità e fruibilità che caratterizzano quasi tutte le produzioni del birrificio di Brussels. Le emozioni non abbondano in una birra un po' scolastica che tuttavia si lascia bere con buona soddisfazione.
Formato: 3 cl., alc. 8.5%, imbott. 31/08/2016, scad. 31/08/2017, prezzo indicativo 4.00 - 4.50 Eur (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 21 dicembre 2016

La Buttiga Bon Nadal

Proseguiamo con le bevute natalizie 2016 rientrando in Italia e precisamente in quel di Montale, frazione piacentina che ha visto la nascita nel 2008 del Birrificio La Buttiga (la bottega, in dialetto locale) in una vecchia stalla ristrutturata all’interno di una corte cinquecentesca. Lo fondò il birraio Matteo Bocedi assieme alla moglie Isabella Pattarini a coronamento di  una lunga esperienza di homebrewing. 
Nell’estate del 2011 Bocedi ha ceduto la proprietà ad un gruppo di amici-soci nonché affezionati clienti: Stefano Pozzi, Luca Basellini, Nicola Maggi e Isacco Mezzadri.  A loro il compito di dar continuità alla gestione precedente e di intraprendere un graduale percorso di crescita;  per quel che riguarda il primo punto vengono tutt’ora prodotte tre delle quattro birre con le quali il birrificio aveva debuttato otto anni fa: Polka (Blonde Ale),  Borgata (Bitter, e Sophia (Sweet Stout), quest’ultima una dedica alla figlia del fondatore Bocedi, alle quali vanno aggiunte anche SognoDoro (American Pale Ale) e Bon Nadal (Stong Ale). 
Il debutto della “nuova Buttiga” avviene nel novembre del 2011: c’è il restyling delle etichette ma viene mantenuto il logo del toro, a testimonianza del fatto che il birrificio si trova dove un tempo vi era una stalla. Alle birre storiche ne vengono progressivamente affiancate altre come la Psycho IPA (terza classificata nella propria categoria a Birra dell’Anno 2014), la Pils In Love, la Always Standing (Blanche), la Truffa (aromatizzata al tartufo) e il barley wine invecchiato in botti ex-porto La Poderosa. 
La nuova proprietà ha spinto l’acceleratore sul marketing promuovendo le birre con eventi e serate, aumentandone la distribuzione; l’impianto originale da 2,5 ettolitri si è rivelato presto insufficiente ed è stato sostituito con uno da 12, il cui “pensionamento” dovrebbe essere ormai imminente con l’inaugurazione già annunciata della nuova sede produttiva:  il futuro parla anche di birre acide e di ulteriori invecchiamenti in botte.

La birra.
Restiamo in atmosfera natalizia con una bottiglia di Bon Nadal, definita dal birrificio una “Italian Winter Ale che rievoca l'atmosfera delle serate invernali; da sorseggiare davanti al fuoco in compagnia, prima di fare l'amore tutti insieme”. L’etichetta elenca una ricca speziatura che include cannella, zenzero, coriandolo, noce moscata, chiodi di garofano e buccia d’arancia, mentre il suo aspetto è di colore ambrato con riflessi ramati, leggermente velato;  perfetta la schiuma, fine è compatta, molto cremosa, dall’ottima persistenza. Le spezie non si nascondono e caratterizzano l’aroma in toto: la freschezza dello zenzero viene accompagnata da noce moscata, cannella e chiodo di garofano. In un contesto molto pulito, si fa appena in tempo a scorgere qualche ricordo di arancia candita: il resto è spezie. Al palato arriva vivace, spinta da una sostenuta carbonazione e da un corpo medio che le permette di scorrere senza impedimenti nonostante un contenuto alcolico (9%) di tutto rispetto che viene tenuto sotto controllo.  Il gusto parla di biscotto speziato (Speculoos) e pan d'epices al miele mentre le spezie sono meno dominanti rispetto all’aroma ma comunque protagoniste; la bevuta, dolce di miele e di canditi, risulta abbastanza attenuata con l’effetto leggermente rinfrescante di zenzero e noce moscata. E’ un attimo di pausa che precede la conclusione, lunga e dolce, morbidamente calda, di frutta sotto spirito. 
La Bon Nadal porta nel bicchiere un Natale molto speziato, che di fatto mette in ombra l’espressività del lievito: la birra è pulita e ben fatta ma – in una bottiglia di qualche mese -  le spezie sono protagoniste in lungo e in largo. Tenetelo a mente se la volete mettere nella vostra lista della spesa natalizia.
Formato: 33 cl., alc. 9%. IBU 26, lotto 18 61 ?, scad, 10/04/2019, prezzo indicativo 4.50/5.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 20 dicembre 2016

Great Divide Hibernation Ale

La seconda birra del Natale 2016 ci fa attraversare l’oceano Atlantico portandoci in Colorado; Great Divide Brewing Company, birrificio che da qualche anno mancava nel nostro paese (le mie ultime bevute risalgono a fine 2010) e che proprio in queste settimane ha fatto ritorno con cinque-sei referenze imbottigliate da un paio di mesi. 
Great Divide viene fondato nel 1994 da Brian Dunn; dopo alcuni anni passati all’estero avviando aziende agricole in paesi in via di sviluppo Dunn fece ritorno negli Stati Uniti iniziando con l’homebrewing nel tentativo di replicare quelle birre piene di gusto che aveva conosciuto ed apprezzato viaggiando. Dall’hobby passò gli studi diplomandosi birraio e, con il supporto finanziario di famiglia, amici e della città di Denver fondò la Great Divide negli edifici in disuso di un vecchio caseificio. Dai primi mesi di vita, in cui Dunn era da solo e si occupava di ogni cosa (produzione, imbottigliamento e consegne ai clienti) Great Divide ha fatto un graduale percorso di crescita diventando uno dei protagonisti non solo della craft beer del Colorado ma anche di tutti gli Stati Uniti. Nel 2001 Dunn acquistò il vecchio caseificio in cui già operava riuscendo a pianificare un decennale piano di graduale espansione che lo ha portato sino al 2011, quanto è divenuto necessario spostarsi altrove se si voleva continuare ad aumentare i volumi. 
Nel 2013 vennero acquistati due ettari di terreno nel River North Art District  (RiNo) di Denver e nel 2014 furono annunciati i nuovi piani di espansione che contemplano un edificio di 6000 metri quadri nel quale trovano posto una nuova linea per le lattine, taproom, il Barrel Bar e soprattutto lo spazio ove poter collocare 1500 botti destinate agli invecchiamenti. Questa prima fase si concluse a luglio 2015 con l’inaugurazione del bar e la commercializzazione delle prime lattine;  la seconda fase d’espansione, attualmente in corso, prevede nuovi impianti produttivi e nuovi fermentatori per raggiungere un potenziale annuo di circa 94.000 ettolitri che, secondo Dunn, dovrebbe essere sufficiente per il prossimo ventennio.

La birra.
Hibernation Ale non è strettamente una birra natalizia ma allieta i mesi più freddi dell’anno a partire dal 1995. Da quanto leggo viene prodotta in estate per poi maturare fino a metà ottobre, quando viene commercializzata; l’etichetta e la lattina dichiarano che si tratta di una “English Style Old Ale”, anche se l’interpretazione di Great Divide non è certamente classica. La ricettea dovrebbe includere malti Northwest 2-Row, Brown, Dark Caramel e Chocolate, luppoli Centennial e Cascade, anche in dry-hopping. La ritrovo con piacere nel bicchiere dopo sette anni
Si presenta di color mogano con intense venature rossastre; la schiuma biege è fine, cremosa e compatta ed ha un’ottima persistenza. L’aroma si rivela piuttosto interessante, con una ricca componente maltata nella quale il fragrante profumo del biscotto "appena sfornato” quasi suggerisce la pasta frolla; c’è un indiscutibile carattere inglese, quel “nutty” che chiama in causa la frutta secca, nocciola in primis. Lasciandola scaldare si manifestano accenni di Graham crackers, orzo tostato, caffè  e c’è persino spazio per una delicata speziatura. La gradazione alcolica sfiora il 9% ma lei scorre morbida e senza grossa difficoltà grazie al corpo medio, alla carbonazione contenuta e ad una consistenza leggermente oleosa. Passano in rassegna caramello brunito, biscotto e miele, il dolce dell’uvetta e della prugna disidratata, qualche suggestione di caffè che emerge quando la birra si scalda e che anticipa di qualche attimo il finale amaro, piuttosto intenso, nel quale oltre al tostato e al terroso c’è l’inconfondibile marchio di fabbrica resinoso dei luppoli americani. Il palato è ben pulito e quasi rinfrescato, l’alcool si mantiene sotto controllo per tutta la bevuta accelerando solamente nel retrogusto con un bel calore di frutta sotto spirito che ben contrasta l’amaro: a temperatura ambiente chiudete gli occhi e forse avvertirete anche una suggestione di cioccolato e di chinotto. 
Molto pulita e “fragrante”,  la Hibernation Ale si beve davvero con grossa soddisfazione: il birrificio la dichiara anche adatta all’invecchiamento, mettetela quindi da parte se la desiderate più morbida e maltata: attualmente (a due mesi dalla messa in lattina) l’amaro è ancora molto evidente.
Formato: 35.5 cl., alc. 8.7%, imbotto 07/10/2016, prezzo indicativo 4.00/5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 19 dicembre 2016

De Dolle Stille Nacht 2016

Apriamo le danze della stagione natalizia 2016 con la birra il cui arrivo autorizza ogni birrofilo ad esclamare: “adesso è Natale!". Parliamo della Stille Nacht del birrificio belga De Dolle guidato dal dio (o dal pazzo, a seconda dei punti di vista) Kris Herteleer che, per chi ancora non la conoscesse, cerco di ospitare sul blog quasi tutti gli anni per rispettare la tradizione. L’anno scorso l’ho mancata, ma qui trovate l’edizione 2009 (bevuta nel 2013), quella 2013 e quella 2014; un tentativo di ricostruire la sua storia l’avevo fatto in una di quelle occasioni
Ai novizi devo anche ricordare che questa è una delle (poche) birre che vale la pena mettere in cantina e aprire nel corso degli anni a venire; ma se decidete di percorrere questa affascinante strada, sappiate che ci sono pochissime certezze: è una birra imprevedibile, che rispecchia il suo creatore. Impossibile non citare Kuaska: "ogni millesimo di questa birra ha un qualcosa di magico ed un percorso diverso, e nonostante tutti gli sforzi dettati dall'esperienza, difficilmente classificabile. Può capitare un'annata che, giovanissima, appaia francamente deludente, facendoci dubitare sul lavoro di De Dolle e che, dopo pochi mesi o qualche anno, si schiude come una bellissima farfalla dalla sua crisalide. E viceversa, Stille Nacht battezzate dagli esperti come capolavori assoluti che durante la maturazione perdano verve senza confermare le promesse di lunghissima vita e di gemma assoluta”. 
Il consiglio è sempre quello di acquistarne sempre più di una bottiglia; consumate il rito di berne una fresca, per celebrare l'arrivo del Natale e prendete qualche appunto. Mettete le altre in cantina e di tanto in tanto stappatene una confrontando quello che avete nel bicchiere con i vostri appunti di mesi o anni prima. Sarà un'esperienza molto divertente e ricompensante.

La birra.
Anche quest’anno il millesimo è impresso sul tappo e non in etichetta, cambiamento se non erro introdotto nel 2010. Bottiglia di uno dei vari lotti 2016 che desta qualche preoccupazione all’apertura. Quasi nessun rumore al momento dello stappo, schiuma biancastra che fatica a formarsi: ne appaiono circa due dita, un po’ grossolana  e dalla scarsa persistenza.  Anche l’aroma non è quello che ti fa apparire il sorriso sulle labbra (confrontatelo con una delle annate precedenti citate sopra): intensità piuttosto bassa nella quale si scorgono il dolce dei canditi e dello zucchero, l’aspro della mela e dell’uva acerba, c’è addirittura una lieve punta acetica, leggerissima ma innegabile. Ma la Stille è una birra che ama stupirti, e dopo qualche minuto di presenza nel bicchiere ecco emergere una sorprendente  freschezza di pesca, forse ananas, che ti riporta alla mente una Dulle Teve in formissima. Le poche bollicine le tolgono un po' di vitalità e le asperità della sua giovinezza sono evidenti anche al palato; biscotto appena speziato, miele, canditi e poi ecco l'asprezza della mela acerba o "immatura", se preferite. La piccola meraviglia dell'aroma ritorna anche in bocca: ti trovi di fronte ad una birra molto alcolica (12%) che presenta un'inattesa freschezza data da una lieve acidità e da un frutto fragrante che suggerisce quasi il tropicale, ananas in primis. Un punta terrosa d'amaro in fondo, quasi sul confine del fenolico-medicinale e poi finalmente un'esplosione di calda frutta sotto spirito e canditi nel retrogusto. Asperità e dolcezze, carezze e scaramucce, imprecisioni e piccole epifanie: la giovane Stille Nacht 2016 trova la sue contraddittorie ragioni d'essere anche nelle imperfezioni di una bottiglia attualmente non molto in forma. Al solito, non resta che metterla in cantina e affidarla al tempo: solo lui saprà dirci, nel corso degli anni, se da questa crisalide uscirà lentamente una splendida farfalla
Formato: 33 cl., alc. 12%, lotto 2016, scadenza non riportata, prezzo indicativo 5.00/6.50 Euro (beershop Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 17 dicembre 2016

Brewski Buena Para El Papa! Si, No?

Ritorna sul blog il birrificio svedese Brewski che avevamo incontrato per la prima volta ad inizio anno con due "Fruit IPA". Lo fondano nell'ottobre 2014 ad Helsingborg, nei locali di un ex-macello, Marcus Hjalmarsson, Johan Britzén, Alfred Olsson e Robin Skoglund; dei quattro è Marcus il birraio, anche lui folgorato dalla craft beer revolution statunitense durante di una vacanza all'inizio degli anni 2000 nel corso della quale era andato a trovare il fratello che viveva sulla costa ad Ovest. 
Ritornato in Svezia, dove possedeva un'impresa di pulizia vetri, Marcus inizia ad appassionarsi di birre ed a frequentare i festival europei assieme agli amici; l'incontro con alcuni birrai al Borefts Festival 2013 organizzato da De Molen in Olanda lo convince che è il momento di tentare l'avventura. A casa, su di un impianto da 30 litri, i quattro futuri Brewski iniziano a mettere a punto le proprie ricette; nel ottobre 2013 Marcus liquida la propria attività e porta un impiantino presso la Höganäs Bryggeri dove inizia anche una sorta di praticantato, lavorando in parallelo alle proprie ricette. 
E' in quel periodo che nasce la beerfirm High Nose Brew le cui prime produzioni debuttano prima al compleanno del bar Mikkeller & Friends (marzo 2014) e poi compaiono sia alla Copenhagen Beer Celebration che al Öl & Whiskymässa di Göteborg. I riscontri positivi ottenuti dal pubblico li convincono a fare il grande passo con un investimento da cinque milioni di corone (530.000 Euro circa) che permette la nascita del birrificio Brewski, nome credo ispirato dall'omonimo slang canadese che significa "birra". 
In due anni d'attività Brewski ha già alla spalle numerose collaborazioni e 112 birre elencate sul database di Ratebeer; la loro specialità sono le birre alla frutta, sopratutto IPA e APA, nate dal desiderio di Marcus di replicare le birre californiane che tanto amava ma che non riusciva a riprodurre a causa della modesta qualità dei luppoli a sua disposizione. Mango, papaia, ananas, pesce, lampone, fragola, cocco e chi più ne ha più un metta.
Oggi vado volutamente controcorrente evitando la frutta, della quale ammetto di non essere un fervido appassionato, dirottandomi su un altro stile molto caro agli scandinavi: imperial stout.

La birra.
Buena Para El Papa! Si, No? è uno dei tanti bizzarri nomi scelti da Brewski per le proprie birre; la sostanza parla di una massiccia (11%) imperial stout prodotta con caffè e vaniglia che, se non erro, ha debuttato alla Copenhagen Beer Celebration dello scorso maggio 2016. Completamente nera, forma un goloso cappello di schiuma color cappuccino, cremosa e compatta, dalla lunga persistenza. Il naso è piuttosto intenso, ricco di chicchi di caffè, vaniglia, oro tostato; in secondo piano note di liquirizia e cuoio a comporre un bouquet pulito anche se dall'eleganza migliorabile. Ad impressionare è invece la sensazione palatale: birra viscosa, massiccia, quasi masticabile, dal corpo pieno e poco carbonata. Obbligatorio sorseggiarla in tutta tranquillità per meglio apprezzare le note di caramello e vaniglia, cioccolato al latte: la partenza è dolce e relega in secondo piano caffè e tostature. Bisogna attendere la fine della corsa per vederle emergere, con il loro amaro che viene rinforzato da quello del luppolo; il palato si trova abbastanza pulito ed è pronto per assaporare il lungo  retrogusto nel quale l'alcool abbraccia l'amaro del caffè ed il dolce della vaniglia. 
Imperial Stout potente, una sorta di dessert liquido che potreste anche bere o mangiare con il cucchiaino: il livello è alto ma non esente da imperfezioni, sopratutto nella pulizia e nella finezza. Bene il gusto nella sua totalità ma i singoli elementi/sapori, benché percepibili, non sono completamente definiti e una piccola parte del potenziale di questa bomba da 11 gradi rimane inespresso.
Formato: 33 cl., alc. 11%, lotto 1-1, scad. 03/07/2019, prezzo indicativo 4.50/5.50 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 16 dicembre 2016

Bevog Rudeen Black IPA

Rieccoci a parlare di Bevog, birrificio in territorio austriaco (Bad Radkersburg) ma guidato dallo sloveno Vasja Golar che ha bypassato la lenta burocrazia del suo paese spostandosi a produrre a tre chilometri da casa  (Gornja Radgona) in Austria.  Dal 2013 Bevog ha visto una crescita costante che lo ha portato nel 2016 a produrre circa 7000 ettolitri con il suo impianto da 15 Hl. Occupato nell’impresa di famiglia nel campo dell’optoelettronica, Vasja venne illuminato “sulla via della birra” durante un viaggio di lavoro in Belgio: al ritorno, i primi esperimenti con l’homebrewing si trasformarono prima in un hobby quasi ossessivo e poi in un corso di formazione al VLB. 
I nomi delle birre (Baja, Deetz, Kramah, Ond, Tak..) secondo quanto dichiara Golar non significano assolutamente nulla ma corrispondono a quelli che avevo dato alle proprie birre nel corso degli esperimenti casalinghi.  Le etichette propongono invece delle strane creature a metà strada tra il mitologico, il fantastico ed il fumetto e sono realizzate dall’artista croato Filip Burburan, ispirato da alcuni scritti del nonno di  Golar, un poeta/scrittore abbastanza conosciuto a Gornja Radgona.
Doppio le ottime IPA realizzate nell'ambito della Who Cares Editions (Lumberjack IPA e Freezbee Beer Session IPA) vediamo il birrificio austro-sloveno alla prova con un'altra birra molto luppolata. 

La birra.
Inutile domandarsi che cosa significhi Rudeen e chi sia la mostruosa creatura-albero raffigurata in etichetta; meglio concentrarsi sulla sostanza, ovvero una robusta Black IPA (7.4%) che non è poi esattamente “black”. Il suo colore è un mogano scuro con riflessi rossastri; forma un buon cappello di schiuma beige, cremosa e compatta, molto persistente.
L'aroma è pulito ma non particolarmente intenso; il pompelmo viaggia al fianco di note terrose e torrefatte, guadagnandosi il minimo sindacale. Fortunatamente l'asticella si alza subito al palato: birra morbida, dal corpo medio e delicatamente carbonata che apre la danza con un solida base maltata nella quale convivono il dolce del caramello e le tostature; il fruttato è quello del pompelmo, in piccole dosi, con la bevuta rapida a prendere l'intensa strada dell'amaro terroso, leggermente torrefatto e soprattutto resinoso. L'orzo tostato e persino qualche suggestione di cioccolato impreziosiscono una birra nella quale l'alcool (7.4%) riscalda il giusto facendosi più presente nel retrogusto andandosi perfettamente a sposare con le pungenti note amare della resina.  Una Black IPA con pochi fronzoli e tanta sostanza, pulita, solida, ben fatta; un po' carente il naso, pronto riscatto in bocca dove mi sembra riuscito l'intento dichiarato del birraio, ovvero di abbracciare contemporaneamente tre (o due) categorie stilistiche: IPA, porter, stout.
Formato: 33 cl., alc. 7.4%, IBU 67, scad. 31/08/2017, prezzo indicativo 4.00/4.50 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 15 dicembre 2016

Railroad Brewing Co.: Gajarda IPA & Zlatan Double IPA

Tra le tante beerfirm italiane non sono molte quelle che sono poi passate a produrre su impianti propri; tra i virtuosi c’è anche Railroad Brewing Co., che avevamo incontrato in veste di beerfirm nel 2013 con la IPA Janka. Lo fondano tre amici appassionati di homebrewing (Benedetto Cannatelli, Stefano Zanetto e Tommaso Colombo) che a partire dal 2010 iniziano a lavorare alle ricette su di un impianto pilota da 70 litri in un edificio situato nei pressi di binari ferroviari, location che ha ispirato anche il nome della beerfirm nata ufficialmente tre anni dopo. 
I consensi ottenuti dal punto di vista commerciale e l’ingresso in società di altre persone hanno reso possibile l’acquisto di un capannone a Seregno (MB) all’interno di una più vasta area industriale dove un tempo si producevano tessuti. Accanto ai nuovi impianti (5 hl), se non erro attualmente affidati al birraio Tiziano Finotti,  è stata anche realizzata una sala mescita (o Taproom, se preferite) dove poter anche acquistare bottiglie per asporto. 
Il passaggio di status da beerfirm a birrificio ha anche portato un rinnovamento nella grafica delle etichette, mentre il sito web è ancora in costruzione; l’ispirazione birraria è dichiaratamente statunitense, con il luppolo a farla da padrone.

Le birre.
Due le bottiglie che mi sono di recente capitate tra le mani; partiamo dalla Gajarda, che in etichetta si definisce American Pale Ale ma che credo non s’offenderà se io dopo averla assaggiata la sposto nella categoria delle IPA (6.1% ABV e 68 IBU); il nome “romano” deriva dal fatto che è stata realizzata in realizzata in collaborazione con il Pub Draft di Roma. Simcoe, Saaz e Citra i luppoli utilizzati in una birra che si presenta dorata e velata, e forma una bella testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L’aroma non è esplosivo ma si dimostra molto pulito, ancora fresco e non privo di una certa eleganza; dominano gli agrumi del Citra (pompelmo, arancia, mandarino e cedro in secondo piano) arricchiti da qualche sfumatura di ananas. La bevuta prosegue in un’interpretazione di stile che rientra nelle mie corde: malti leggeri (crackers, miele), un bel carattere agrumato che parla soprattutto di pompelmo per poi virare deciso in territorio amaro, resinoso e terroso senza rinunciare a qualche gentilezza zesty. Una IPA davvero piacevole, molto ben attenuata che nasconde bene l’alcool; bevuta bilanciata tra frutta e amaro, con quest’ultimo che diventa protagonista solo nel retrogusto. Bene la pulizia sebbene ci siano margini di miglioramento, un po’ carente l’intensità dell’aroma, se proprio si vuole pignoli. 

Il livello si alza con la Double IPA Zlatan, ispirata naturalmente al famoso calciatore Ibrahimovic (birra arrogante come lui, dicono) e presentata nel settembre 2015 alla Belle Alliance di Milano. Chinook, Mosaic e Nelson Sauvin se non erro sono i luppoli utilizzati sia in aroma che in amaro. 
Dito medio in etichetta e colore minacciosamente ambrato carico, opaco: qualche riflesso color rame e un cremoso cappello biancastro di schiuma cremosa che ha un’ottima persistenza. “La potenza è niente senza controllo” è la frase che meglio s’addice a questa muscolosa interpretazione (8.3%) di Double IPA: l’alcool si fa sentire sin dal naso, oscurandone in buona parte la freschezza ed i profumi di frutta tropicale, lampone e pompelmo che s’intuiscono in sottofondo. Uno scenario simile si ripropone anche in bocca, dove la birra è effettivamente “arrogante” (Stone Brewing docet) ma anche lenta da sorseggiare; biscotto, lieve caramello, marmellata d’agrumi e canditi costruiscono una bevuta dolce che viene alleggerita da qualche iniezione di frutta (tropicale) fresca. L’amaro (resina) c’è ma fa quasi fatica ad emergere, risultando alla fine appena sufficiente per bilanciare la bevuta; l’alcool non si nasconde e contribuisce ad asciugare un po’ il dolce per poi riscaldare il palato in un retrogusto ricco di frutta sotto spirito. Non ci sono difetti, la birra è pulita ma è molto lontana dai miei gusti: il risultato non è affatto negativo, ma la birra guadagnerebbe infinitamente più punti se la componente etilica fosse tenuta sotto controllo e la conclamata aggressività fosse ottenuta con l'amaro e non con l'alcool, come insegnano alcune birre arroganti  (questa e questa, ad esempio, ma anche questa) realizzate proprio da chi su questo aggettivo ha costruito il proprio successo. 
Nel dettaglio:
Gajarda. 33 cl., alc. 6.1%, IBU 68, lotto 157,scad. 30/08/2017, prezzo indicativo 4.00/4.50 Euro.
Zlatan, 33 cl., alc. 8.3%, lotto 147, scad. 30/09/2017, prezzo indicativo 4.00/5.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 14 dicembre 2016

Perennial Artisan Ales Saison de Lis

Diamo il benvenuto sul blog anche al birrificio americano Perennial Artisan Ales, aperto a St Louis (Missouri) da Phil ed Emily Wymore nell’autunno del 2011.Senza nessuna esperienza di homebrewing, Phil ha iniziato la propria carriera come assistente birraio alla Grindstone Brewing Co. di Columbia (Missouri), la città in cui aveva terminato i propri studi di antropologia: “a quel tempo lavoravo come cuoco in un sushi bar e uno dei clienti mi offrì di andare a lavorare nella cucina del suo brewpub. L’idea di continuare in cucina non mi eccitava diràe rimasi folgorato alla vista dell’impianto del brewpub. Non conoscevo la birra, sapevo solo che mi piacevano le Pale Ales ma parlai con il birraio e riuscii a convincerlo ad assumermi come assistente.” 
La chiusura del brewpub Grindstone lo lascia senza lavoro e lo spinge ad inviare curriculum a quasi tutti i birrifici presenti nel Midwest; nel 2006 risponde all’appello la Goose Island di Chicago, nell’anno in cui Anheuser-Busch iniziava la scalata completata nel 2011 rilevando il 40% della proprietà che era detenuta dalla Widmer Brothers Brewing. Nei tre anni trascorsi a Chicago, oltre a frequentare il Siebel Institute, Phil arriva ad occupare il ruolo di “cellar manager” per poi trasferirsi a lavorare come “head brewer” alla Half Acre. Wymore, che ha già in testa di mettersi in proprio, impara a vivere la realtà quotidiana di un birrificio di piccole dimensioni aperto da poco (2007) assimilando quante più informazioni possibili. Il suo è un passaggio temporaneo che dura poco più di un anno, perché nel 2010, a 33 anni, ritorna nel Missouri per lavorare al suo progetto Perennial Artisan Ales (qui le prime foto) che trova casa all’interno di uno edificio in mattoni dove un tempo veniva imbottigliata la Coca Cola, nel sobborgo South Carondelet di St Louis. 
Milletrecento metri quadri di superficie, impianto da 8 barili con l’intento dichiarato di diventare “un birrificio per geeks. Vogliamo fare birre per le quali la gente si entusiasmi. Non vogliamo essere il dodicesimo birrificio di St Louis che produce una Pale Ale”. I fatti gli danno parzialmente ragione: nonostante l’intento di realizzare birre “per geeks”, è la belgian ale Southside Blonde a balzare in cima alle vendite, una session-beer fatta su richiesta di sua moglie che voleva invece una birra semplice che potesse avvicinare anche nuove persone alla craft beer. 
Perennial debutta con Hommel Bier (dry-hopped Belgian Pale Ale), Strawberry Rhubarb Tart (una Witbier con fragole, coriandolo e rabarbaro),  Saison de Lis e il potente Wheat Wine (10%) chiamato Heart of Gold.  
Impossibile terminare senza parlare di “Side Project”, interessantissima beer-firm ora indipendente ma nata come “costola” di Perennial.  Corrisponde al nome di Cory King, birraio sin dai primi giorni di Perennial che fondò questa “100% barrel-aged” beerfirm producendo le proprie ricette sugli impianti di Perennial e mettendole poi ad invecchiare in botti. Wymore e King hanno collaborato senza segreti a questo progetto, aiutandosi a vicenda nel migliorare la tecnica degli invecchiamenti in botte; a partire dallo scorso gennaio 2016 King ha lasciato definitivamente Perennial anche se continua a produrre sui suoi impianti, in attesa di rendere operativo il proprio birrificio.

La birra.
Saison de Lis, ovvero la Saison del giglio; non è tuttavia questo il fiore utilizzato in una ricetta che prevede in realtà fiori di camomilla. Nel bicchiere è solare, di colore arancio opaco con riflessi dorati; forma una generosa e cremosa testa di schiuma bianca, compatta e dalla buona persistenza. Al naso camomilla ma anche altri fiori bianchi, arancia, pepe e un bel carattere rustico che richiama la paglia, il frumento: semplicità, pulizia ed eleganza, elementi fondamentali per coniugare la bella espressività del lievito con i profumi floreali. Il mouthfeel è perfetto: Saison leggera, vivacemente carbonata, secca e scorrevolissima. Pane, crackers e miele millefiori anticipano un delicato fruttato che richiama l'arancia e qualche lieve nota di banana. I fiori ritorna anche in bocca, il lievito dona una delicata speziatura ed una percepibile nota rustica: si chiude con una grande attenuazione ed un finale delicatamente amaro nel quale convivono in equilibrio note terrose e scorza d'agrumi. Perfettamente bilanciata, una lieve acidità la tende rinfrescante e dissetante; l'intensità è direttamente proporzionale alla facilità di bevuta. Una Saison davvero ben fatta, nella quale eleganza e carattere rustico coesistono a livelli alti.
Formato: 75 cl., alc. 5%, IBU 20, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo in Europa 10.00/15.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 13 dicembre 2016

Dry & Bitter: Dank & Juicy & Still Lifestyle

Non è stato facilissimo mettere assieme tutti i tasselli del puzzle, ma spero di avercela fatta. Partiamo dagli “stronzi”, ve li ricordate? Stronzo Brewing Company, microbirrificio danese fondato nel 2011 che, sebbene mai importato in Italia, ebbe nel nostro paese una certa risonanza non solo per il nome scelto ma per aver anche annunciato nel 2012 la Birra Berlusconi, un progetto credo mai concretamente realizzato. La Stronzo non ebbe vita lunga, l’export non andava molto forte e la città di Copenhagen mai autorizzò l’apertura di un brewpub nel distretto Vesterbro che avrebbe dovuto assorbire buona parte della produzione: un’idea che precedette di qualche anno quella di Mikkeller, più abile a farsi concedere il benestare per aprire proprio a Vesterbro il suo brewpub Warpigs assieme agli americani di Three Floyds. 
A luglio 2014 Stronzo dichiara fallimento; i suoi impianti ed il mutuo per l’acquisto degli stabili di un ex caseificio a Gørløse  (40 km a nord ovest di Copenhagen) vengono rilevati qualche settimana dopo da Simon Toft Hansen e Tobias Rieck. Hansen è proprietario dell’Ølsnedkeren  (il carpentiere della birra) un brewpub nel quartiere Nørrebro di Copenhagen aperto nell’agosto 2012; Rieck è invece titolare della beerfirm Brøggeren che dalla fine del 2013 produce sugli impianti di Ølsnedkeren. 
L’ex birrificio Stronzo viene rinominato Ølkollektivet e contemporaneamente Ølsnedkeren cessa di produrre birra diventando tecnicamente una beerfirm che produce le proprie birre sugli impianti della Ølkollektivet. Da notare come nel 2013 Ølsnedkeren e Stronzo erano stati tra i più prolifici produttori danesi con oltre 50 nuove birre a testa, più di una ogni settimana! 
Il “regno” di Simon Toft Hansen e Tobias Rieck dura  però solamente sei mesi, perché a gennaio 2015 il birrificio Ølkollektivet viene acquistato da Søren Wagner e Jay Pollard, proprietari dal 2011 del beer bar di Copenhagen Fermentoren (Halmtorvet 29C, non lontano dalla stazione dei treni), 24 spine dedicate al craft e una succursale aperta di recente ad Aarhus. Alla Ølkollektivet si continua a lavorare per conto terzi ma s’inizia anche a produrre “le birre della casa” del Fermentoren, che diventa quindi anche una beerfirm; Ratebeer ne elenca circa una decina. Ma Søren Wagner è anche già proprietario di un’altra beerfirm chiamata Croocked Moon Brewing, una cinquantina di birre prodotte soprattutto presso gli impianti della Nørrebro Bryghus dove lavorava come birraio. In parallelo Wagner e il socio Pollard lanciano anche una seconda beerfirm chiamata con lo stesso nome della società da loro fondata (Dry & Bitter ApS) per la gestione dei Fermentoren. 
La Dry & Bitter Brewing Company debutta nella primavera del 2015: cinquanta birre realizzate in poco più di un anno di vita, al solito ritmo frenetico per stare dietro alla costante ricerca di novità dei beer-raters. Ducentomila i litri prodotti nel primo anno di vita, con la Session IPA Christian Bale Ale e la Double IPA Hobo Chic a tirare le fila. 
Nel frattempo alla Ølkollektivet (di proprietà Dry & Bitter, ricordo) si continua a produrre un po’ per tutte le beerfirm danesi emergenti, con alcune di loro che vi hanno anche piazzato i propri fermentatori: Bad Seed Brewing, Ghost Brewing, Black Rooster, Gamma Brewing Company, Vassingerød, Ølsnedkeren e ne avrò probabilmente dimenticata qualcuna. 
Da qualche mese le Dry & Bitter sono arrivate anche in Italia, con le loro etichette che oscillano tra il fumetto ed il retrò senza disdegnare incursioni nell’arte: il luppolo la fa ovviamente da padrone, con imperial stout e le prime “sour” a completare la gamma.

Le birre.
Dank e Juicy sono due termini anglosassoni oggi molto di moda tra i beergeeks; quelli del Fermentoren, che evidentemente conoscono bene clienti dei propri locali, le utilizzano per la loro interpretazione di West Coast IPA. Per i meno esperti, dank è un termine la cui traduzione letterale  (umido, freddo) non dice molto applicata alla birra; pensate piuttosto alla marijuana (stessa famiglia del luppolo) e al fatto che a volte alcune varietà di luppolo americano possano effettivamente dare alla birra un profumo che ricorda la Cannabis. Juicy si riferisce al carattere fruttato e “succoso” anch’esso impartito da alcuni luppoli: un normale descrittore che è diventato tremendamente di moda da quando il mondo dei geeks ha scoperto le cosiddette Juicy (o Cloudy) IPA che vengono prodotte da alcuni birrifici del New England.  Per semplificare, oggi direte che una IPA della West Coast è “fruttata” ma non “succosa”:  perché il termine “juicy” è ormai riservato a quelle IPA torbide, con poco amaro, tremendamente simili anche nel gusto ad un succo di frutta. Si scherza, eh. Ma non troppo.
Dank & Juicy, un punto d'incontro ideale tre West ed East Coast statunitense. Citra, Equino e Mosaic sono i luppoli utilizzati per questa IPA che si presenta di un torbido color oro/arancio con una discreta testa di schiuma bianca e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma è ovviamente una macedonia di frutta fresca, valorizzata dalle poche settimane di vita di questa bottiglia: pompelmo, cedro, limone e forse qualsiasi altra declinazione d'agrumi alla quale possiate pensare, La frutta tropicale annunciata in etichetta rimane in secondo piani mentre per quanto mi sforzi di cercarlo, di dank c'è forse giusto un accenno. In bocca è morbida e scorre bene, forse le manca qualche bollicine (davvero poche, qui) per essere un po' più vivace. Difficile percepire i malti (crackers) in un gusto dove la frutta esplode sin dall'imbocco: mango ed ananas sono i due elementi principali di una "generica" sensazione tropicale che avvolge il palato, affiancata da pompelmo ed altri agrumi. La bevuta risulta facile e molto secca, mentre il finale in quanto West Coast IPA convince meno del dovuto, con l'amaro della resina che viene quasi oscurata da note zesty e leggermente terrose. IPA effettivamente "succosa" ma sicuramente non juicy nell'accezione del New England; il livello è piuttosto alto ma pulizia ed eleganza sono ben lontane dall'eccellenza. Un po' rozza in alcuni passaggi, più sfacciatamente fruttata che educata, è comunque una bella bevuta che soddisfa e "ti fa sentire al passo coi tempi".

Continuiamo  con una porter “robusta” (7.3%) chiamata Still Lifestyle prodotta con infusione di caffè a freddo (Cold Brew Coffee); la bella etichetta esprime alla perfezione lo "stile di vita alla natura morta" con una lasciva signora intenta a fumare su di una poltrona a forma di calice di birra. Un inquietante teschio in sottofondo ci ricorda forse che i vizi (fumo, alcool) non sono salutari. Quasi nera,  forma un mediocre cappello di cremosa schiuma nocciola un po' grossolana e dalla discreta persistenza. Il caffè domina il naso in lungo e in largo, sia nella forma dei chicchi che in quella liquida dell'espresso. Intenso ed elegante, relega in sottofondo le sfumature di cenere, tabacco, cuoio. Anche in questa birra ci sono poche bollicine, il corpo è medio mentre la consistenza sembra prediligere la scorrevolezza alla cremosità. Caramello e liquirizia caratterizzano il dolce a supporto del monopolio del caffè con qualche breve intervallo di cioccolato amaro e tostature, sopratutto nel finale; l'alcool è quasi non pervenuto, l'amaro è ben bilanciato da una gradevole acidità. Nel bicchiere c'è semplicemente una birra al caffè, monotematica, senza fronzoli, bilanciata ed essenziale ma ben assemblata ed elegante.
Nel dettaglio:
Dank & Juicy, 33 cl., alc. 6.2%, imbott. 17/11/2016, scad. 15/09/2017, prezzo indicativo 5.00 € (beershop) 
Still Lifestyle, 33 cl., alc. 7.3%, lotto non indicato, scad. 01/07/2017, prezzo indicativo 5.00 €(beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.