mercoledì 26 giugno 2019

DALLA CANTINA: HORALs Oude Geuze Mega Blend 2013

Il nome completo è Hoge Raad voor Ambachtelijke Lambikbieren, ma è più facile ricordarlo con l’acronimo H.O.R.A.L. Nel 1997  Armand Debelder di 3 Fonteinen riuscì a convincere altri produttori di lambic a formare un “Alto Consiglio del Lambic Artigianale”: Frank Boon, De Cam (a quel tempo in mano a Willem Van Herreweghen), De Troch, Lindemans e Timmermans. Lo scopo dell’associazione era quello di salvaguardare una tradizione che era  in lento e costante declino, promuovendone il consumo e proteggendone l’autenticità. 
Uno dei primi successi dell’associazione fu il conferimento del marchio TSG (Specialità Tradizionale Garantita) da parte della Comunità Europea: il riconoscimento avvenne nello stesso anno della fondazione dell’associazione anche se le pratiche erano state iniziate da Boon due anni prima. “Contrariamente ad altri riconoscimenti europei (DOP e IGP), il marchio STG garantisce solo la ricetta tipica o il metodo di produzione tradizionale (inteso nel senso che deve esistere da almeno 30 anni) di un determinato prodotto, ma senza un vincolo di appartenenza territoriale: ciò significa che il prodotto STG può essere preparato in un qualsiasi paese dell'Unione europea, a patto che la produzione rispetti il relativo disciplinare e sia certificata da un organismo di controllo accreditato”. 
Nell’ottobre dello stesso anno H.O.R.A.L. organizzò anche il primo Toer de Geuze, evento con cadenza biennale nel corso del quale i produttori e assemblatori dell’associazione aprono le porte delle loro cantine ai visitatori;  per l’occasione viene anche realizzato il Mega Blend,  Oude Geuze assemblata con il contributo di tutti i membri.  Negli anni seguenti anche Oud Beersel, Girardin, Hanssens, Mort Subite e Tilquin  si sono uniti all’associazione; dal 2015 la presidenza è passata da Armand Debelder e Frank Boon; nel 2018 3 Fonteinen e Girardin hanno abbandonato H.O.R.A.L. 
Tutto bene, quindi ? Non proprio. Sette dei nove membri dell’associazione vendono infatti regolarmente una o più birre (per cinque di loro si arriva al 50% della gamma) che non rientrano nel disciplinare STG, sia per il metodo di produzione che per gli ingredienti usati: mi riferisco a fermentazioni spontanee che non sono tali, all’utilizzo di edulcoranti o sciroppi di frutta,  pastorizzazione e filtrazione, fermentazioni in acciaio e chips di legno al posto delle botti. 
Sotto lo stesso ombrello, quello che dovrebbe preservare il metodo tradizionale, vi sono quindi anche produttori che utilizzano “scorciatoie” per ridurre i costi e massimizzare i profitti: le stesse scorciatoie che stavano portando, anni fa, alla scomparsa del vero lambic. E’ principalmente questo il motivo per il quale il produttore di lambic più famoso, Cantillon, non ha mai voluto prendere parte all’associazione: Jean Van Roy riconosce l’utilità dell’associazione H.O.R.A.L. ma non intende sedersi allo stesso tavolo con coloro che producono una percentuale a volte irrisoria (1%) di vero lambic tradizionale.

La birra.
Prodotta in occasione del nono Toer de Geuze, l’Oude Geuze Mega Blend 2013 venne assemblato con lambic giovani e vecchi di tre anni provenienti da 3 Fonteinen, Boon, De Cam, De Troch, Hanssens, Lindemans, Oud Beersel, Tilquin e Timmermans. L’imbottigliamento è avvenuto nell’ottobre del 2012 presso la Brouwerij Boon.
Dopo quasi sette anni il Mega Blend ha un ottimo aspetto: la schiuma è cremosa e compatta ed ha una buona persistenza, il colore è un luminoso oro carico, leggermente velato. Le classiche note  funky del lambic "stagionato" (cantina, legno, polvere, pelle di salame o vecchie carte da gioco, sudore) sono affiancate da una sorprendente freschezza fruttata: limone, ananas, uva, arancia candita, spunti vinosi. Un bouquet pulito, complesso, emozionante. Ancora perfettamente carbonata, la bevuta è molto morbida e non mi riferisco solamente alla sensazione tattile: c'è un bel carattere vinoso, che emerge soprattutto quando la temperatura si alza, c'è l'asprezza del pompelmo e del limone, dell'uva acerba. L'acidità lattica è piuttosto contenuta e quella butirrica (vomito, in parole povere) è fortunatamente appena percepibile. Il finale è secco con un lieve amaro caratterizzato da note legnose, zesty e terrose. Fresca, ancora giovane, dal grande potere rinfrescante e dissetante: l'alcool (7%) emerge solo se si lascia scaldare la bottiglia.
Splendido naso, complesso ed emozionante al quale fa seguito una bevuta di profondità e complessità inferiore ma ugualmente molto soddisfacente. In questo caso la scelta di tenerla qualche anno in cantina ha pagato: e l'impressione è che potesse ulteriormente migliorare.
Formato 75 cl., alc. 7%, bottiglia n. 26913, lotto 2303, scad.  29/10/2032, prezzo indicativo 13,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 25 giugno 2019

Cigar City White Oak Jai Alai India Pale Ale

Edizioni limitate e speciali di Hunahpu e Marshal Zhukov, Outskirts e  Decoherence: sono queste, tutte imperial stout, le birre di Cigar City, più apprezzate e ricercate dai beer geeks. Soprattutto le prime due hanno contribuito in maniera determinante a generare quell’hype che ancora circonda, anche se in tono molto minore, il birrificio della Florida fondato nel 2009 da Joey Redner e venduto nel 2016 ad Oskar Blues, birrificio del Colorado che assieme al fondo azionario privato Fireman Capital ha fondato la società CANarchy. 
Non sono tuttavia queste le birre che fanno andare a pieni giri il motore di un’azienda che dovrebbe aver chiuso il 2018 avvicinandosi a quota 160.000 ettolitri: a portare il contante in cassa ci pensa soprattutto la “cara e vecchia” IPA Jai Alai  i cui volumi assorbono quasi il 60% dell’intera produzione Cigar City.  A seconda delle fonti, il “Six Pack” di Jai Alai è il primo o il secondo Six Pack di birra artigianale venduto in tutti gli Stati Uniti. “E ancora non riusciamo a soddisfare tutta la domanda", diceva nel 2017 il birraio Wayne Wambles. "Per questo stiamo pensando a delle sinergie con gli amici di Oskar Blues e con Brew Hub“, birrificio della Florida che opera soprattutto come conto terzista. 
Jai Alai  (“festa allegra” in lingua basca) prende il suo nome da una variante del gioco palla basca che era un tempo praticata anche a Tampa, la città di Cigar City.  Anche Jai Alai, prodotta dal 2008, ha le sue inevitabili varianti: svariati dry-hopping monoluppolo, aggiunte di caffè, frutta e legno. Ricordo a proposito una sfortunata bottiglia di Humidor Series Jai Alai Cedar Aged:  era il 2011 e trovare Cigar City in Italia era quasi un evento! Il legno di cedro, lo stesso utilizzato per costruire gli umidificatori di sigari, veniva aggiunto dopo la fermentazione. Oggi la Humidor Series Jai Alai Cedar Aged è ancora venduta in lattina nei mesi estivi.

La birra.
Chi ama l’accoppiata legno-luppolo non rimane a secco neppure nei mesi invernali: da gennaio a marzo è infatti disponibile la  White Oak Jai Alai, per la cui produzione vengono impiegati spirali di quercia bianca. 
Ambrata e velata, forma una bella testa di schiuma biancastra, cremosa, compatta e dall’ottima ritenzione. Caramello, resina e agrumi definiscono un aroma classico e tipico della old school della East Coast statunitense. La quercia porta in dota note legnose e di cocco; bisogna faticare un po’ per trovarle nelle retrovie, ma ci sono. La bevuta prosegue nella stessa direzione, puntuale e rigorosa: è una IPA tutta giocata su caramello, biscotto, resina e agrumi. Non ho mai bevuto questa birra fresca, ma i quattro mesi passati dalla messa in lattina hanno probabilmente trasformato la frutta “fresca” in marmellata: l’alcool si sente quanto basta e nel finale un po’ di legno accompagna l’amaro resinoso e terroso. 
La versione White Oak della Jai Alai è un classico impreziosito da qualche ricamo derivante dall’uso del legno: quando la East Coast americana non faceva pensare solo al New England, erano queste le birre che tutti cercavano e che facevano scuola. Poi le attenzioni si sono spostate sulla costa ad Ovest, in  California, ed ora si è ritornati ad Est, anche se molto più a nord rispetto alla Florida. Ma è una geografia che interessa soprattutto alla nicchia degli appassionati incalliti: il fatto che la Jai Alai sia ancora una della IPA più vendute in America la dice lunga su cosa beve la maggior parte della gente.
Formato 35,5 cl., alc. 7.5%, IBU 70, lotto 12/02/2019, prezzo indicativo 4.00-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 24 giugno 2019

Double-Barrelled Parka

Nel 2015 Mike e Luci Clayton-Jones, due homebrewers e beer geeks inglesi, stanno per sposarsi:  qualche mese prima dell’evento la location da loro scelta subisce un incendio e i due promessi sposi sono costretti a trovare una soluzione alternativa. Con la sfortuna arriva però anche un’opportunità: il nuovo locale permette a loro di comporre liberamente la lista delle bevande. Per scegliere le dodici birre che saranno servite alla festa vanno a visitare diversi birrifici inglesi, Kernel e Siren per primi. E, da bravi homebrewers, decidono anche di produrre la birra del proprio matrimonio, chiamandola Double Barrelled: le bottiglie etichettate sono il regalo agli invitati che apprezzano soprattutto il contenuto.  
Terminati i festeggiamenti è il momento di decidere: continuare con le rispettive occupazioni (lui consulente nel campo della logistica, lei marketing nel settore alimenti e bevande) o trasformare questa loro passione per il beer-hunting in una professione? I neosposi non ci pensano troppo: si licenziano, fanno le valigie e partono per un giro formativo intorno al mondo. Stati Uniti, Australia, Europa, Giappone e Sud America per visitare birrifici e bar dedicati al craft, prendendo nota di utili consigli.  Al ritorno è pronto il business plan di un birrificio che vogliono chiamare come la birra del matrimonio:  Double-Barrelled Brewery. 
Mike inizia a produrre in garage con il proprio kit da 100 litri e i primi fusti arrivano in qualche pub; in parallelo i coniugi Clayton-Jones prendono in affitto un magazzino a Reading (UK), cinquecento metri quadrati dove verrà installato il nuovo impianto da 24 ettolitri prodotto dagli inglesi della Malrex. I permessi e le autorizzazioni ritardano un po’ l’inaugurazione del birrificio che avviene solo nel novembre del 2018. Le prime tre birre disponibili sono Parka Pale Ale, Red Jungle Fowl  (Gose con lamponi e barbabietola), Seven Dollar Saturday Sweet Stout. Qualche settimana dopo viene anche aperta la Tap Room, dodici spine che ospitano anche birrifici “amici”, una piccola selezione di vini e cocktails: al momento è aperta solamente venerdì e sabato pomeriggio. A qualche food truck il compito di offrirvi qualcosa da mettere sotto i denti. Ad aiutare Mike in sala cottura è stato recentemente reclutato il birraio Dan Wye: nel suo curriculum un apprendistato presso Wild Beer e Prescott Ales, due anni nella distilleria Brennen & Brown e diciotto mesi come birraio alla Mad Squirrel Brewery.

La birra.
Double-Barrelled voleva inizialmente concentrarsi su birre scure, acide e (ovviamente) invecchiate in botte ma le richieste provenienti dal mercato hanno (momentaneamente?) modificato i piani: luppolo, lattine, poche etichette prodotte stabilmente e una rotazione costante di novità. Una delle poche birre che troverete quasi sempre disponibili è la Pale Ale chiamata Parka, prodotta con Cascade, Centennial e un generoso dry hopping di Citra (12 grammi al litro). Trattasi dell’evoluzione di una delle prime birre prodotte da Mike Clayton-Jones nel suo garage, la India Pale Lager chiamata  Cagoule: “era più forte (6.7%) e piaceva moltissimo ai nostri clienti, ma alcuni dei nostri amici birrai ci consigliarono di farne una versione dal contenuto alcolico più basso, quindi più facile da bere, e ad alta fermentazione, più rapida da produrre”. 
Etichetta minimalista con il logo disegnato dallo studio Kingdom & Sparrow ben evidenza:  nel bicchiere la Pale Ale Parka si presenta di color arancio pallido e velato; la schiuma è scomposta, grossolana e poco persistente.  L’aroma è pulito e ancora abbastanza fresco, solare: arancio, mandarino, lemon grass, qualche nota tropicale. Al palato una leggera base maltata (crackers) sostiene un percorso pressoché analogo che si svolge idealmente in un agrumeto, eccezion fatta per qualche intermezzo dolce di frutta a pasta gialla. Nonostante siano utilizzati luppoli statunitensi, il risultato finale è per me piacevolmente reminiscente di certe Golden Ale inglesi moderne , tra le quali cito sempre con grande piacere la Summer Lightning di Hop Back (che non riesco mai a trovare in condizioni decenti, ma questo è un altro discorso). Questa Parka sembra esserne un’ulteriore evoluzione, ovvero dal profilo più fruttato ma ben lontano da quegli estremi “juicy” contemporanei. Buona secchezza, bell’equilibrio, finale amaro “ma non troppo” nel quale dominano le note zesty e terrose. Birra profumata, sbarazzina, leggera e sessionabile, intelligente, capace di evaporare come acqua. Promossa a pieni voti. 
Formato 44 cl., alc. 4.5%, lotto G012, scad. 18/08/2019

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 18 giugno 2019

LoverBeer Tre Ban 2016

L’estate è alle porte e le birre acide sono un alleato prezioso per difendersi dal caldo. Tra i birrifici in Italia che meglio si cimentano nello stile vi è senza dubbio Loverbeer, già ospitato sul blog in più di una occasione. A fondarlo Valter Loverier, ex tecnico progettista di un’azienda di telecomunicazioni con hobby per i rally e l’homebrewing. Per nostra fortuna è stato quest’ultimo a trasformarsi in professione. Sin dai giorni dell’homebrewing l’interesse di Valter sono i lieviti selvaggi e le fermentazioni spontanee: il suo primo esperimento è la BeerBrugna, ispirata dalle Kriek belghe e prodotta con un inoculo di lieviti (tra cui brettanomyces), batteri lattici  e l’aggiunta in macerazione di susine damaschine. La birra piace a Lorenzo “Kuaska” Dabove che nel 2005, in occasione del Brassin Public di Cantillon la porta con sé facendola assaggiare a Jean Van Roy, che gradisce. L’amicizia con Kuaska lo porta anche a contatto con Tomme Athur di Lost Abbey e Vinnie Ciliurzo di Russian River, finché  gli incoraggiamenti e gli apprezzamenti ricevuti lo convincono nel 2008 a lasciare il vecchio lavoro per aprire del proprio birrificio a Marentino, con fermentatori in legno di rovere e una bella batteria di barriques.  
Lo scorso anno Loverbeer ha quindi festeggiato il suo decimo compleanno e, per l’occasione, si è “regalato” due novità entrambe caratterizzate dal Cognac, distillato di vino bianco francese. La prima fu la Beerbera Riserva Bergnac, versione speciale della Beerbera (birra a fermentazione spontanea in legno che utilizza i lieviti naturalmente presenti sulle bucce degli acini di uva Barbera pigiata e diraspata) lasciata poi a maturare per sei mesi in botti di rovere e per altri dodici mesi in botti ex-Cognac. La seconda è invece chiamata Tre Ban.

La birra.
Tre Ban, anzi quattro… come i moschettieri: brettanomiceti, lactobacillus, pediococchi e saccaromiceti, sono questi lieviti selvaggi i protagonisti di una birra a fermentazione spontanea che viene poi lasciata maturare per 24 mesi in botti provenienti dalla regione del Cognac. Il millesimo riportato in etichetta (2016) si riferisce appunto al momento del travaso in queste botti. 
Il suo vestito è un bel color ambrato impreziosito da riflessi dorati e rossastri; in superficie si forma una piccola patina di schiuma che si dissolve molto rapidamente. Al naso emergono profumi di cantina e polvere, legno, cuoio, frutti aspri e acerbi (mela verde, uva), limone: c’è una bella componente vinosa e una nota acetica (mela) che fortunatamente non risulta fastidiosa. Purtroppo al palato ci sono poche bollicine e la bevuta viene privata di una buona dose di vitalità: la lieve dolcezza della frutta rossa sciroppata (soprattutto ciliegia) è l’unica divagazione di un gusto caratterizzato dall’aspro della frutta acerba e da delicati contrappunti acetici e lattici. Il passaggio in botte emerge soprattutto nel finale, quando legno e distillato contribuiscono ad un finale molto secco, dissetante, rinfrescante. Rustica e funky ma non priva di una certa eleganza, Tre Ban è una birra interessante e molto piacevole che tuttavia non riesce a raggiungere quei vertici espressivi (ed emotivi) toccati da altre birre a marchio Loverbeer. E quando il prezzo da pagare è di fascia alta, è giusto pretendere di più.
Formato 37,5 cl., alc. 6%, lotto PTBA01-0318, scad. 12/2025, prezzo indicativo 9,50-10,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 17 giugno 2019

Neon Raptor Star Play

Neon Raptor Brewing Co. è uno dei nomi caldi di  Nottingham, città del Regno Unito che sino ad ora sembra aver avuto un ruolo abbastanza marginale nella craft beer revolution inglese. La tradizione è ancora (fortunatamente, aggiungerei) dominante rispetto all’innovazione.  
Adam Henderson ha iniziato il suo percorso come tanti altri birrai, facendo la birra in casa con pentole e fornelli: dopo aver preso confidenza decise d’iscrivere una birra al concorso per homebrewers organizzato da BrewDog a Nottingham.  Era il 2015 e la sua porter si piazzò al primo posto. Il successo sprona Henderson che a metà del 2016 anno debutta commercialmente come beerfirm appoggiandosi agli impianti dalla Black Hole Brewery di Burton-on-Trent; le ricette vengono prima elaborate su un kit da 300 litri posizionato all’interno del  pub Stumble Inn di Long Eaton.  Il debutto avviene con Endangered, rielaborazone della ricetta vincente al concorso per homebrewer: una robust porter prodotta con vaniglia, bourbon del kentucky e (credo) chips di rovere americano. La beerfirm doveva inizialmente chiamarsi Neon Tiger ma il timore di ricevere qualche lettera da Heineken, proprietaria del marchio di birra più venduto in Asia, consigliò di virare sulla seconda scelta: Neon Raptor. 
“Sono un grande appassionato di glam rock degli anni ’80” ammette Henderson. “Il logo fu realizzato da me assieme ad altre idee che feci vedere ai miei amici: la versione con i tubi al neon fu subito quella preferita da tutti”.  A marzo del 2018 Neon Raptor mette in funzione il proprio impianto posizionato all’interno dello Sneinton Market di Nottingham, dove trovate anche la tap room aperta attualmente da giovedì a domenica: sono già in atto progetti d’espansione mentre la maggior parte delle birre viene comunque ancora prodotta su grande scala su impianti terzi. 
E’ solo allora che Henderson lascia la sua precedente occupazione per lavorare a tempo pieno alla Neon Raptor; attualmente partecipano alla società anche Tom Ainsley e Josh Mellor, proprietari del locale Suds & Soda, isola felice dedicata al craft nella vicina città di Derby. Nonostante il proprio look retrò Neon Raptor cavalca le tendenze dettate dalle mode:  tante NEIPA e Double NEIPA, qualche Gose alla frutta e qualche avventura nei dintorni del territorio “pastry”. Una sessantina di birre prodotte in tre anni d’attività bastano a tenere viva l’attenzione di beergeeks che vogliono sempre qualcosa di nuovo da bere? Direi di sì, perché oggi secondo gli utenti di Untappd è attualmente il terzo miglior birrificio inglese, dietro a Mills Brewing e Verdant. 

La birra.
Una Pale Ale poco amara, opalescente e con un bell’aroma: malti chiari, mash ad alta temperatura, acqua tenera, luppoli americani (Mosaic) e neo zelandesi (Wai-iti). Questa la descrizione della Star Play, birra che ha debuttato alla fine di febbraio. 
Nel bicchiere è di colore arancio pallido, la schiuma è scomposta e poco persistente. La bevo che ha già quasi quattro mesi di vita alle spalle ma l’aroma è ancora abbastanza intenso, fresco e piuttosto pulito: c’è solo qualche accenno dank a disturbare un cocktail di frutta nel quale spiccano cedro, pompelmo e live, ma in sottofondo c’è anche un po’ di tropicale. E’ una session beer (4%) che scorre benissimo e continua il proprio percorso in linea retta: la bevuta è snella e ancora fresca, anche se indubbiamente ha perduto un po’ di smalto. I malti (pane, crackers) sono delicati e il dolce della frutta tropicale costituisce il necessario supporto ad una bevuta che è prevalentemente zesty, quindi ricca di pompelmo, limone, lime, mandarino. Il livello di secchezza è buono, anche se ci si potrebbe spingere oltre, l’amaro è delicato e lascia sempre il palato abbastanza pulito. Session beer molto ben fatta che vuole essere moderna senza strafare e senza perdersi in inutili eccessi (di luppolo): la bevibilità – componente fondamentale – ne trae giovamento e la lattina finisce in un batter d’occhio. C’è un’intensità (fruttata) davvero notevole per una birra dal contenuto alcolico modesto.  Birra quasi perfetta per l’estate, sarebbe un delitto proporla a febbraio e poi abbandonarla nella sua stagione prediletta a scapito di qualche altra novità: l’ultima “session” nata in casa Neon Raptor è arrivata alla fine di aprile e si chiama Sci-fi Staircase (4.4%).
Formato 44 cl., alc. 4%, lotto NRBC0056, scad. 31/07/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 13 giugno 2019

The Alchemist: Beelzebub & Luscious Imperial Stout


Molti birrifici artigianali americani sono divenuti famosi grazie alle loro imperial stout, meglio se invecchiate in botte o “pastry”. Non è il caso di The Alchemist, birrificio del Vermont che abbiamo già incontrato più di una volta; qui trovate la loro storia. Heady Topper e Focal Banger sono le due birre luppolate che lo hanno portato nell’olimpo dei beergeeks: ma The Alchemist produce anche due imperial stout, per il cui acquisto i beergeeks non hanno mai fatto pazzie.  Nessun inseguimento ai furgoni delle consegne, nessun appostamento fuori dai negozi: del resto le classifiche del beer rating alla voce “imperial stout” erano e sono tutt'ora dominate da altre birre. 
Partiamo da Beelzebub, American Imperial Stout (8%) prodotta solitamente ogni anno a novembre giusto in tempo per riscaldare l’atmosfera dal Thanksgiving Day. John Kimmich, fondatore e birraio, è spesso considerato l’inventore delle NEIPA ma lui è il primo a non essere d’accordo: “quelle che chiamano New England IPA sono molto diverse dalle nostre birre, oggi i birrai cercano di ridurre al massimo l’amaro mentre io voglio che l’amaro si percepisca per avere equilibrio”.  Kimmich ama l’amaro e l’etichetta della Beelzebub, infarcita di coni di luppolo, è indicativa di quello che c’è nella lattina.
Il suo vestito è quasi nero, la schiuma è generosa e molto persistente, anche se un po’ scomposta. Al naso i profumi di caffè, torrefatto e cioccolato fondente sono affiancati da quelli provenienti dalla generosa luppolatura; resina e pompelmo.  In secondo piano ci sono note di tabacco e cenere, frutta secca a guscio (nocciola). Un’Imperial Black IPA? No, ha un carattere torrefatto troppo evidente. E’ solamente un’Imperial Stout molto, molto luppolata. E il gusto lo conferma: la bevuta è dominata dall’amaro. Si parte da quello di caffè, torrefatto e cioccolato fondente per lasciare poi che sia la resina dei luppoli a spingere ancora più in basso il pedale dell’acceleratore. Un ricordo di caramello e di agrumi portano qualche spiraglio di luce in una birra nera come la pece, aggressiva, che colpisce duro. Stupisce per contrasto la sensazione palatale: morbida e cremosa, sarebbe quasi impalpabile se non fosse per una carbonazione un po’ più elevata di quello che lo stile vorrebbe. L’alcool scalda ma non brucia e non è affatto difficile sorseggiare Beelzebub, imperial stout pulita, definita, molto ben fatta e dedicata a chi ama i classici e non è alla ricerca di inutili pizzi e merletti.  Non ha uno spettro particolarmente ampio ma c’è tutto quel (poco) che serve per bersi un’ottima (American) Imperial Stout nella quale i luppoli guidano le danze.

Domenica 28 agosto 2011:  la tempesta tropicale Irene colpisce Waterbury e le acque del fiume Winooski tracimano allagando anche il brewpub The Alchemist. Tutto quello che si trova nel seminterrato (impianto, fermentatori, uffici, materie prime) è perduto e inutilizzabile. Dal disastro Kimmich riesce a salvare solamente i fusti di un paio di birre già pronte: una di queste era Luscious, una British Style Imperial Stout (9.2%) 
Il suo colore è leggermente più chiaro rispetto alla Beelzebub ma è sempre prossimo al nero; la schiuma è di dimensioni abbastanza modeste e abbastanza compatta. Rispetto alla sua sorella americana l’aroma risulta più complesso: caffè, tostature e cioccolato sono accompagnate da profumi di fruit cake, uvetta e prugna disidratata, creme brûlé, frutta secca a guscio. Il suo nome (Luscious, “succolenta”) è in questo caso azzeccato.  Al palato è morbida, leggermente oleosa, con delicate bollicine, rispettosa della tradizione inglese. Il gusto fotocopia l’aroma mettendo in campo pulizia, eleganza e grande equilibrio: si parte con dolcezza per poi virare sull’amaro di caffè e tostature, nel quale emerge anche una nota luppolata terrosa. Il tutto finisce in un lungo abbraccio finale tra cioccolato e frutta sotto spirito. Riscalda, rincuora, emoziona. 
Alchemist mette in mostra due belle interpretazioni dello stile: quella inglese, classica e di classe, e quella americana: sfacciata ed esagerata, ideale rappresentazione dello stile di vita americano: “'Go Big or Go Home”.   Un gran bel combo.
Nel dettaglio:
Beelzebub, formato 47,3 cl., alc. 8%, lotto e scadenza non riportati
Alchemist Luscious, format 47,3 cl., alc. 9,2%, lotto e scadenza non riportati

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 10 giugno 2019

Verdant Brewing: Mary Lou APA, Neal Gets Things Done IPA & Unique Damage DIPA


Ritorna sul blog uno dei birrifici più alla moda nella scena craft del Regno Unito. Verdant Brewing, Falmouth, Cornovaglia: ve ne avevo parlato qui. Nell’autunno del 2014 James Heffron e Adam Roberts dopo quattro anni di homebrewing mettono in funzione un piccolo impianto da 200 litri all’interno di un container marittimo producendo quasi esclusivamente torbide APA ed IPA ispirate al New England. Il passaparola tra i beergeeks funziona e dopo 12 mesi d’attività Heffron e Roberts si trasferiscono in locali un po’ più ampi, aggiungono nuovi fermentatori e abbandonano le loro rispettive occupazioni per dedicarsi tempo pieno alla birra. Altri dodici mesi ed è tempo di un nuovo trasloco: quello nella zona industriale di Tregoniggie a Falmouth, dove Verdant si trova tutt’ora. L’entrata in società di Richard White  consente l’acquisto di un nuovo impianto da 1,6 ettolitri: al resto ci pensa il mondo del beer-rating: alla fine del 2016 Verdant guida le classifiche di Ratebeer e Untappd, scalzando Cloudwater. I fermentatori tolgono però spazio alla taproom e Verdant lancia un primo crowfunding (26.000 sterline) per raccogliere i fondi necessari alla ristrutturazione e apertura dello Seafood Bar & Tap Room, nel centro di Falmouth. E questo è nulla paragonato alla seconda campagna di crowfunding lanciata alla fine del 2018: mezzo milione di sterline per la realizzazione di un nuovo sito produttivo (sala cottura da 35 hl, potenziale da 15.000 hl/anno) e relativa tap room. Obiettivo raggiunto e ampiamente superato: oltre duemila investitori hanno permesso di racimolare  1,35 milioni di sterline.

Le birre.
Passiamo rapidamente in rassegna altre tre lattine del birrificio della Cornovaglia: per quel che ne so le loro birre non sono ancora ufficialmente importate in Italia. Qualcuno di voi è magari riuscito ad assaggiarle all’ultima edizione del Woodscrak, festival organizzato dal birrificio padovano CRAK che annoverava Verdant tra i partecipanti. 
Mary Lou è un’American Pale Ale (5.2%) che ha debuttato nell’agosto del 2017:  la dedica è a LuAnne Henderson, una delle protagoniste del romanzo Sulla Strada scritto nel 1951 da Jack Kerouac e divenuto poi il manifesto della Beat Generation. La ricetta prevede malti Extra Pale Ale, Golden Promise, Caragold, Premium Cara,  destrosio, avena e frumento in fiocchi, ma i protagonisti sono ovviamente i luppoli: Mandarina Bavaria, Citra, Mosaic, Nelson Sauvin. Il lievito? London Ale III.  Protocollo succo di frutta rispettato dal punto di vista estetico: la schiuma è un po’ scomposta ma ha una buona persistenza.  L’intensità non manca ed anche pulizia e finezza, per quel che lo stile consente, sono degne di nota: mango, pesca, melone, papaia, passion fruit: una macedonia molto matura e quindi dolce. Il gusto è un po’ meno definito ma ripropone la stessa intensità dell’aroma: mango e albicocca mi sembrano essere  i due frutti che maggiormente si fanno notare. Il mouthfeel è morbido e non ingombrante, la chiusura è secca, l’alcool non è pervenuto. L’amaro è ridotto ad un velocissimo passaggio resinoso, corto e delicato: si fa quasi fatica ad notarlo. Una Juicy Pale Ale molto ben fatta che risulta alla fine vittima della sua stessa virtù: quell’essere così morbida e accomodante le toglie sprint e vitalità, soprattutto in bocca. Il livello è molto alto ma manca quel guizzo in più: sarebbe una (quasi) session beer dall’intensità impressionante se il mouthfeel “alla New England” non rallentasse il suo scorrimento.

Neal Gets Things Done è una IPA (6.1%) nella quale sono protagonisti Simcoe, Citra, Mosaic e Nelson Sauvin. Non sono riuscito a capire chi sia Il Neal protagonista di una birra che lo scorso anno provocò qualche problema a Verdant che si vide costretto a ritirare dal commercio  fusti inutilizzabili e lattine esplosive.   Nessun problema per le lattine messe invece in vendita lo scorso aprile. Visivamente ricorda anch’essa un succo di frutta nel quale al naso la frutta tropicale (ananas, papaia e passion fruit) viene accompagnata dalle classiche note del Nelson Sauvin (uva, lychee) e in sottofondo spunta anche il cedro. Morbida e delicata, quasi impalpabile al palato, regala una bevuta “liscia” e priva di quegli spigoli che spesso affliggono le NEIPA. Il gusto “succoso” è di ottima intensità ma risulta meno preciso e definito rispetto all’aroma: ananas e mango guidano danze che vengono poi concluse dagli agrumi in un finale molto secco nel quale l’amaro è quasi impercettibile. L’alcool si adegua facendo di tutto per non farsi notare. Aroma fresco e solare, gusto un po’ più confuso ma nel complesso “Neal” fa le cose nel modo giusto e gli amanti del juicy restano assolutamente soddisfatti.

Nonostante sia la più fresca delle tre (nata il 15/04/2019) la Double NEIPA Unique Damage (8%) mi ha convinto un po’ meno. Prodotta con malti Extra Pale Ale, Golden Promise, avena, frumento in fiocchi, frumento e destrosio, luppoli  Idaho 7, Galaxy, Cascade e Columbus. E’ stata “pensata” per il festival Hop City di Leeds che si è tenuto lo scorso aprile. è quella dall’aroma meno intenso: mango, ananas, pompelmo e arancia, tracce di bubble gum. Gli elementi giusti ci sono ma rispetto alle due birre precedenti c’è meno pulizia e definizione. Anche dal punto di vista estetico il suo “essere torbida” risulta molto meno luminoso e invitante e il gusto ripropone l’aroma nel suo mix non troppo definito, anche se piacevole, tra tropicale ed agrumi. L’alcool non disturba ma fa comunque sentire la sua presenza: il percorso si chiude in maniera abbastanza secca con un breve passaggio amaro resinoso-vegetale. Chi conosce ed ha apprezzato la  Pulp! non potrà fare a meno di notare la differenza: Verdant sa fare di meglio. Giusta “punizione”  per quella fetta di mercato che vuole bere sempre qualcosa di nuovo anziché affidarsi alle certezze.
Nel dettaglio:
Mary Lou, 44 cl., alc. 5.2%, imbott. 03/04/2019, scad. 03/07/2019
Neal Gets Things Done, 44 cl., alc. 6.1%, imbott. 01/04/2019, scad. 01/07/2019
Unique Damage, 44 cl., alc. 8%, imbott. 15/04/2019, scad. 15/07/2019

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 5 giugno 2019

North Brewing Co DDH Transmission IPA

Del birrificio di Leeds North Brewing Co. vi avevo già parlato qualche tempo fa. Si tratta di un progetto collegato al North Bar, primo locale a servire birra artigianale a Leeds facendosi poi conoscere in tutta l’Inghilterra: è al North che si sono spillati i primi fusti  arrivati in Inghilterra di Sierra Nevada e Brooklyn Brewery. I fondatori John Gyngell e Christian Townsley erano a quel tempo due studenti universitari stanchi di non trovare nulla di buono da bere nella loro città. Nel 1997 riuscirono a racimolare le risorse economiche necessarie per aprire un piccolo bar nella periferia a nord di Leeds: nel decennio successivo inaugurarono altre sette filiali. Il successo non fu però immediato: ci mettevamo a sedere davanti alla finestra del bar per far credere a chi passava di lì che era pieno di gente”! Belgio e Germania furono le nazioni maggiormente rappresentate prima dell’arrivo della birra artigianale americana e, poco dopo di quella inglese, soprattutto BrewDog e Magic Rock.  
L’apertura di nuovi locali ha fatto slittare di un decennio l’idea di aprire anche un birrificio: “eravamo coinvolti a pieno nel business della craft beer ma non avevamo le conoscenze necessarie per produrla”.  Seb Brink era un insegnante di musica nelle scuole di Leeds, un cliente affezionato del bar North ed anche titolare di una beerfirm chiamata Golden Owl:  fu lui il birraio scelto a guidare l’impianto da 17 ettolitri entrato in funzione nel 2015. Ad aiutarlo arrivò Darius Darwel, proveniente dalla Bristol Beer Factory. 
“Volevamo iniziare con una Brown Ale – ricorda Townsley – per rispettare la tradizione del nord-est inglese e perché è uno stile che adoro. Ma abbiamo sempre fatto fatica a venderle nei nostri bar:  essendo costantemente a contatto con i clienti sapevamo benissimo quello che la gente voleva bere”.   North Brewing debutta quindi con la Transmission IPA, una West Coast che strizza un po’ l’occhio alla costa orientale: “nel 2015 avevo solo sentito parlare di New England sui blog degli homebrewers. In quel periodo la maggior parte delle IPA fatte in Inghilterra erano troppo amare, era in corso la battaglia delle IBU senza prestare molta attenzione al profilo aromatico. Così decidemmo di fare una IPA che fosse un po’ influenzata da quello che leggevo sui blog americani”. 
“Birre succose con quintali di luppolo" è l'obiettivo dichiarato di North Brewing che cavalca quelle che sono le ultime tendenze del mercato. O, per dirla con un aggettivo inquietante, birre “Instagrammabili”.  Le novità annunciate in aprile non lasciano dubbi in proposito: Triple Fruited, una torbida Gose con lamponi e guava prodotta in collaborazione con Browar Stu Mostow; Sour IPA con mirtilli e pesche in collaborazione con gli inglesi di Boxcar;  North X Jakobsland, una Double NEIPA con gli spagnoli di Jakobsland che utilizza lattosio e avena.

La birra.
Ad inizio aprile vengono annunciate anche due nuove versioni di Transmission, la IPA della casa.  Mentre la “Tall Boys” è la stessa birra ma nel più ampio e modaiolo formato da 44 centilitri, la DDH Transmission introduce l’altrettanto modaiolo processo del Double Dry Hopping. La birra debutta in contemporanea alla taproom di North e all’Hop City Festival di Leeds. Vediamola.
Visivamente ricorda un torbido succo d'arancia, la schiuma fa quel che può: scomposta, un po' grossolana, poco persistente. L'aroma però è davvero notevole: oltre alla componente juicy ci sono pulizia ed eleganza. Mango, ananas, mandarino, cedro, melone bianco, passion fruit compongono uno spettro ampio e abbastanza intenso. Al palato paga un po' il prezzo della modernità: è morbida ma un po' chewy ed ingombrante, scorrendo con ritmo compassato. Le ottime premesse trovano seguito al palato con un gusto altrettanto succoso ma non privo di eleganza. Il dolce del tropicale sfuma progressivamente nell'amaro del pompelmo che viene poi rafforzata da note pungenti note resinose. Il finale è molto secco, l'alcool (6.9%) è quasi inesistente e il risultato è per me assolutamente convincente. Pochi spigoli, pulizia, intensità ed equilibrio: il carattere fruttato è dominante ma non sconfina in inutili eccessi che spesso provocano più dolori che gioie. Un bell'incontro tra le due coste americane, realizzato con intelligenza e buona mano: zero hype, tanta sostanza e un bel passo in avanti rispetto alla Transmission che avevo assaggiato un paio di anni fa.
Formato 44 cl., alc. 6.9%, imbott. 11/04/2019, scad. 11/10/2019, prezzo indicative 7.00-8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 4 giugno 2019

Abbaye des Rocs Triple Impériale

Il Belgio virtuale (della birra) sta cambiando?  A guardare il sito internet della Brasserie des Rocs si potrebbe affermare di sì.  Sino a qualche tempo fa il suo era il tipico sito di un birrificio belga: amatoriale, poco bello, con pochissime informazioni spesso solamente in francese e/o fiammingo. Non lo visitavo da un po’ ed oggi mi trovo di fronte ad un sito completamente rinnovato che fa anche riferimento al beer-rating: Untappd e Ratebeer, riportando alcune recensioni particolarmente positive.  Al rinnovamento del sito ha fatto seguito anche quello (per me sciagurato) delle etichette. Prendiamo la Brune dell’Abbaye des Rocs: molti anni fa era una gioia trovarla sugli scaffali dei supermercati con un ottimo rapporto qualità prezzo.  La sua storica etichetta “a trifora” è stata ora sostituita da una grafica asettica che mette in evidenza l’anno di fondazione del birrificio, il 1979. Per me è un pezzo di storia che se ne va. 
In quell’anno nasceva la Brasserie Eloir-Bertiau, la “sfida” che Jean Pierre Eloir, ex-impiegato al catasto, aveva lanciato al suocero, un birraio ormai in pensione che passava il suo tempo a lamentarsi di quanto quel lavoro fosse stato difficile e faticoso.  Jean Pierre iniziò con l’homebrewing per dimostrargli che era possibile  produrre una buona birra anche nella propria cantina con pochi mezzi, pochi sforzi e con poca esperienza.  Il gioco si trasformò poi in un hobby, con una ottantina di litri di birra che venivano prodotti ogni due settimane in garage; la necessità di smaltire la produzione convinse Jean Pierre a richiedere i permessi e le autorizzazioni necessarie per operare commercialmente e vendere l’unica birra da lui prodotta, chiamata Abbaye des Rocs, che realizzava con un ceppo di lievito recuperato da alcune bottiglie di Rochefort e Westmalle. E’ questo l’unico legame – se lo si vuole cercare – con la cosiddetta “birra d’abbazia” belga.  Il nome Abbaye des Rocs si riferisce solamente ad un vecchio rudere di  campagna che si trova a qualche centinaia di metri dalla casa dei coniugi, un tempo possedimento dell’Abbazia di Crespin. L’ Abbaye des Rocs rimase l’unica birra prodotta sino al 1985 quando, in occasione delle festività, venne realizzata l’Abbaye des Rocs Spéciale Noel seguita l’anno successivo da La Montagnarde
Fu solo nel 1987 che il birrificio divenne una società a responsabilità limitata e venne costruito un nuovo locale adiacente alla casa di famiglia per ospitare i nuovi impianti di seconda mano  (l'ammostatore era stato utilizzato anche nell’abbazia di Chimay)  che consentirono di aumentare la produzione da 80 a 1500 litri. Nel 1991 il birrificio cambiò nome in Brasserie des Rocs  e nel 1996 , quando la produzione annuale aveva raggiunto gli 800 ettolitri, il testimone passò da Jean Pierre nelle mani della figlia Nathalie Eloir che andò in sala cottura lasciando il padre ad occuparsi degli aspetti commerciali. Arrivarono una dopo l'altra Abbaye des Rocs Blonde, Abbaye des Rocs Grand Cru e Abbaye des Rocs Triple Imperiale; la produzione è destinata per la maggior parte all'esportazione, con Stati Uniti, Francia e Italia come mercati principali. 
L'Abbaye des Rocs Brune (9%) è la birra “madre” che ha generato diverse figlie: non solo la natalizia ma anche La Montagnarde (9%),  la Abbaye des Rocs Grand Cru (9.5% - un tempo solo in formato magnum, oggi anche da 33 centilitri) e la Triple Impériale (10%). Sarebbe interessante provarle tutte e quattro assieme per coglierne le differenze.

La birra.
Imperiale di nome e anche di fatto, o regale se preferite: nel bicchiere è di uno splendido ambrato carico impreziosito da intense venature rosso rubino. La schiuma è “belga”: generosa, compatta, a trama fine e dalla lunga ritenzione. Una delicata speziatura apre le porte di un aroma “sciropposo” dominato da esteri fruttati, in verità un po’ “sparati” : prugna, frutti di bosco, uvetta, suggestioni di ciliegia e fragola, zucchero candito, caramello. La scuola belga è evidentissima anche al palato: alcool nascosto in maniera diabolica, vivaci bollicine, corporatura forse un po’ esile per il grado alcolico. Il risultato è noto: ci si ritrova con il bicchiere vuoto prima del previsto. La bevuta risulta meno intensa rispetto all’aroma ma è molto più armonica e bilanciata: biscotto, caramello, zucchero candito, prugna, uvetta e ciliegia disegnano un profilo dolce che viene magicamente bilanciato da un finale secco nel quale si scorge una punta amaricante di frutta secca a guscio. Breve pausa cui fa seguito un finale delicatamente etilico di frutta sotto spirito.  Gli estimatori della Brasserie des Rocs si sentiranno a loro agio in un territorio familiare: Belgian Strong Dark Ale classica e ben fatta che tuttavia non eguaglia in complessità la scuola delle West-Flanders (St. Bernardus, Kapiteel, De Struise e Westvleteren).  Una una “comfort zone” per chi ama il Belgio dalla quale è difficile allontanarsi.
Formato 33 cl., alc. 10%, lotto 1735 02794, scad. 18/02/2020, prezzo indicativo 3.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 3 giugno 2019

Cigar City Caffè Americano Double Stout

Ricordo la sweet stout Café Con Leche (6%)  del birrificio della Florida Cigar City come una delle più belle bevute del 2018: la trovate qui. Ricordo che nel 2016 Cigar City è stata acquistata dal birrificio del Colorado Oskar Blues, aiutato dal fondo azionario privato Fireman Capital; la società è stata da poco rinominata CANarchy il cui “ombrello” abbraccia oggi, oltre a Oskar Blues e Cigar City, anche i birrifici Perrin, Squatters e Wasatch. 
Caffè in grani, fave di cacao, lattosio; questi gli ingredienti a comporre una birra davvero notevole nata nel 2009 e proposta sino al 2017 solamente in fusto.  Il birraio di Cigae City Wayne Wambles ha alle sue spalle un passato come cuoco: “sin dai tempi dell’homebrewing ho sempre cercato di mettere in pratica idee che potessero unire birra e cucina; in Florida c’è un gran miscuglio di culture. I cubani fanno una crostata alla guava, noi abbiamo deciso di utilizzarla in una saison. Il caffè cubano è molto concentrato: quando arrivarono in Florida i cubani erano poveri, usavano le drupe di caffè più piccole, di seconda scelta, tostandole molto. I chicchi più piccoli hanno una maggior concentrazione di caffeina e quindi con pochi soldi riuscivano ad ottenere un espresso dal sapore pieno.  Al di là dell’aspetto culinario c’è anche quello storico”.  
Dalla Cafè con Leche alla più potente Caffè Americano il passo è breve: ABV raddoppiato per una Double Stout prodotta con aggiunta di vaniglia e caffè arrostito dalla torrefazione Buddy Brew di Tampa.

La birra.
Caffè Americano Double Stout ha debuttato nel 2013 come produzione stagionale disponibile alla spina nel mese di marzo con una percentuale d’alcool variabile di anno in anno. Nel 2015 è stata commercializzata per la prima volta in bottiglia.  Anche l’edizione 2019 è arrivata puntuale assieme alla primavera con un ABV del 12%.  Ne esistono anche versioni barricate riservate ai membri di El Catador Club, una membership che per 250 dollari all’anno vi garantisce sette diverse Barrel-Aged Beers da ritirare presso le taproom di Cigar City in Florida o di Oskar Blues in Colorado.  Oltre alle birre avete uno sconto del 20% sulle consumazioni alla taproom, accesso ad eventi esclusivi e qualche gadget.
Nel bicchiere è nera e forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Caffè, cioccolato, orzo tostato, vaniglia e frutta sotto spirito disegnano un bouquet gradevole ma un po’ dimesso che non si distingue per finezza ed eleganza, prerogativa secondo me fondamentale quando entra in campo l’ingrediente caffè. Al palato è morbida e oleosa, con un corpo quasi pieno ma non ingombrante a livello tattile: sorseggiarla non è affatto difficile. La bevuta inizia con il dolce di melassa, fruit cake, uvetta e prugna, vaniglia e liquirizia per poi virare progressivamente verso l’amaro del caffè e del torrefatto; l’alcool riscalda con vigore senza mai arrivare a bruciare. La Caffè Americano di Cigar City riscatta al palato le incertezze dell’aroma regalando una bevuta intensa e soddisfacente, bilanciata: pulizia e precisione potrebbero essere migliori soprattutto per quel che riguarda l’elemento caffè. Non riesce a raggiungere le vette espressive della Cafè con Leche: bene ma non benissimo, come si dice in questi casi.
Formato 65 cl., alc. 12%, IBU 80, imbott. 02/2019, prezzo indicativo 16.00 euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.