lunedì 30 ottobre 2017

Birrificio Artigianale KM8: Bitter Fruit & Heart of Glass

Continua a crescere la birra artigianale trentina che vanta oggi una quarantina di attori tra birrifici, brewpub e beerfirm, un terzo dei quali aperti tra il 2016 e il 2017. Tra questi figura anche il Birrificio Km8, operativo a Terres (Val di Non) da luglio 2016. 
Titolare è Michele Martini ma a quanto pare ad essere stato prima di tutti “contagiato” dalla passione per la birra è stato il padre Carlo assieme a due amici, tutti dediti all’homebrewing. Ad inizio 2016 l’idea di ristrutturare e mettere a normi gli spazi al piano terra della propria abitazione per mettere in funzione un piccolo impianto (150 litri) dismesso dal Birrificio Rethia: il nome scelto (Birrificio Km8) è ovviamente indicazione geografica del luogo di ubicazione, l’ottavo chilometro della Strada Provinciale 73. Michele viene supportato dal papà Carlo per quel che riguarda la parte commerciale e dai suoi amici  Giovanni e Rino rispettivamente per la produzione e le analisi di laboratorio: i tre oltre ad essere homebrewers sono stati anche musicisti ed i nomi delle birre – evoluzione delle loro ricette casalinghe -  sono ispirati al mondo della musica. 
Le modeste dimensioni dell’impianto permettono grande flessibilità e in un anno di attività Km8 ha già sfornato una dozzina di etichette, quattro delle quali stagionali: assaggiamone un paio.

Le birre.
L’American IPA “della casa” si chiama Bitter Fruit, come l’omonima canzone di Little Steven: Maris Otter, Crystal e Cara Pils sono i malti utilizzati, Amarillo Gold, Citra,  Mosaic, Cascade e Centennial  i luppoli. All’aspetto è ambrata e forma una bella schiuma biancastra, cremosa e compatta: al naso pompelmo, fiori, qualche nota biscottata e soprattutto una generale sensazione di frutta tropicale, ancora fresca. Bene intensità e pulizia, finezza migliorabile così come lo spettro aromatico che, considerando i luppoli utilizzati, potrebbe essere più ampio. Il gusto marcia spedito sullo stesso percorso: la luppolatura è sostenuta da una solida ma non invadente base maltata, con biscotto e caramello a supportare un po' di pompelmo e frutta tropicale. Il finale amaro resinoso è di discreta intensità, mentre l’alcool non mostra intenzione di nascondersi e si manifesta per quanto dichiarato in etichetta (6.5%).  Una IPA che prosegue la tradizione della “vecchia scuola italiana”, quella basata sul contrasto dolce/caramelllo amaro/resina, facendolo con buona intensità e pulizia; margini di miglioramento ce ne sono ma il livello è buono. 

Dagli Stati Uniti passiamo al Belgio, vero banco di prova di ogni birrificio e tradizione brassicola alla quale Km8 dichiara d'ispirarsi. Heart of Glass è una Blond Ale che prende il nome dal grande successo dei Blondie. La ricetta prevede malti Pilsner e Sauer Acidulato, frumento, luppoli Sorachi Ace, Pilgrim, East Kent Golding e Citra, quest’ultimo anche in dry-hopping; scorza di limone e un ceppo di lievito belga. 
Nel bicchiere si presenta di un luminoso color dorato, leggermente velato e sormontato da una cremosa e compatta testa di schiuma dall’ottima persistenza. Profumi floreali s’affiancano a quelli fruttati di cedro, mandarino e limone, banana, una delicata speziatura. In sottofondo c’è anche però una nota fenolica molto meno gradevole che richiama la plastica e che sporca un po’ quello che sarebbe un bouquet fresco e piacevole.  Qualcosa da sistemare anche al palato dove a livello tattile la birra risulta un pochino pesante, soprattutto perché l’ABV (4.8%) imporrebbe invece leggerezza e scorrevolezza: le vivaci bollicine le donano invece vitalità. Il gusto parte dolce (miele, banana, polpa d’arancia) per poi virare progressivamente verso l’amaro della scorza, accompagnato da una delicata speziatura; un po’ debole il finale, dove la birra tende a “spegnersi” prima del previsto anziché concludere il suo percorso con una delicata chiusura luppolata. L’idea di una Belgian Ale moderna e ben luppolata si vede ed è sicuramente interessante, c’è però ancora da lavorare sulla pulizia e sulla personalità per riuscire ad eliminare un po’ di timidezza: il risultato è comunque già gradevole e questa Heart of Glass si beve con discreta soddisfazione.

Sorvolo invece sulla bottiglia di High Hopes, novità dello scorso agosto, che mi è capitata tra le mani: si tratta di un’alta fermentazione realizzata con malto Maris Otter e luppolo Saaz raccolto in Trentino, a Fai della Paganella. Putroppo in questa bottiglia il lievito non ha fatto il suo dovere con il risultato di renderla imbevibile, a meno che non vi piaccia il sapore di un cubetto di lievito o di glutammato.
Luci e ombre per questo giovane birrificio che ha da poco spento la sua prima candelina: abbastanza ben realizzata e priva di difetti la IPA, qualche problemino in più nella Blond Ale d'ispirazione belga. 

Nel dettaglio:
Bitter Fruit, 33 cl., alc. 6.5%, IBU 45, lotto 037, scad. 31/12/2018, prezzo indicativo 3.50-4.00 Euro
Heart of Glass, 33 cl., alc. 4.8%, IBU 22, lotto 042, scad. 31/12/2018, prezzo indicativo 3.50-4.00 Euro
High Hopes, 33 cl., alc. 4.9%, IBU 38, lotto 047, scad. 31/12/2018, prezzo indicativo 3.50-4.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 29 ottobre 2017

Hoppin’ Frog BORIS The Crusher Reserve

B.O.R.I.S. sta per Bodacious Oatmeal Russian Imperial Stout ed è la birra che ha fatto conoscere al mondo Hoppin’ Frog, il birrificio dell'Ohio  guidato da Fred Karm (“la rana”, questo il soprannome che gli veniva dato in famiglia): è anche la birra con la quale sono arrivati i primi riconoscimenti e le prime medaglie (oro nel 2008 e nel 2011) al Great American Beer Festival. 
Il copione scontato che ormai troppo spesso leggiamo quando abbiamo a che far con la birra artigianale è il seguente: hai fatto una grande birra? Sfruttala al massimo, realizzandone svariate varianti e offrile ai "discepoli": il birrificio dell'Ohio sembrava immune a questo meccanismo ma negli ultimi anni, forse anche a causa di un mercato domestico sempre più affollato, abbiamo assistito alla moltiplicazione dei BORIS. Dalla sua prima e unica variante, quella invecchiata in botti di  Heaven Hill Whiskey, si è oggi arrivati quasi a venti: BORIS Bairille Aois  (Whiskey Irlandese),  BORIS Royale (whiskey canadese),  BORIS Van Wink (Kentucky whiskey), Rocky Mountain BORIS (in botti ex-whiskey dal Colorado), Rum Barrel Aged BORIS, BORIS Batch #200 (invecchiata in botti di Kentucky Bourbon per cinque volte più a lungo rispetto alla BORIS Van Wink), Cherry Bitter Barrel Aged BORIS, Vanilla Bitter Barrel Aged BORIS. Tralasciando i passaggi in botte, ci sono l'apprezzabile Cafe BORIS, la BORIS Reserve e la BORIS Grand Reserve, queste ultime due prodotte con un diverso mix di malti importati dall'Europa, contrariamente alla BORIS "normale" che dovrebbe usare solamente malti americani.

La birra. 
BORIS Reserve altro non è che l'evoluzione della Batch #100 che nel 2011 celebrò la centesima cotta di BORIS producendone una versione con soli malti inglesi. Alla fine del 2015 viene annunciato l'arrivo della BORIS Reserve che promette, utilizzando i migliori malti importati da Inghilterra e Belgio, di regalare una bevuta più morbida e meno torrefatta.
Il bicchiere si colora di un nero impenetrabile alla luce sul quale si forma un cappello di schiuma abbastanza compatta e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma non differisce molto da quello della BORIS "normale", anche per quel che riguarda pulizia ed intensità: fruit cake, uvetta e prugna disidratata, lievi tostature, cioccolato e liquirizia. Un dessert goloso nel quale la componente etilica rimane in sottofondo. Delude un pochino, a voler essere pignoli, il mouthfeel, meno oleoso e morbido della BORIS: a livello tattile è una birra ugualmente gradevole, ma si poteva osare di più almeno per giustificare la parola Reserve in etichetta. La bevuta prosegue sullo stesso percorso indicato dall'aroma iniziando con il dolce di uvetta e prugna, fruit cake, frutta sotto spirito e liquirizia, quest'ultima un po' invadente: l'amaro delle tostature, del caffè e del cioccolato fondente non tarda ad arrivare ed è amplificato dalla generosa luppolatura resinosa. La scia finale è calda e morbida, con l'alcool ad abbracciare caffè e cioccolato, in un lunghissimo incontro che vi potrebbe accompagnare anche per tutta la serata. 
Effettivamente più mansueta e meno potente della BORIS normale, questa versione Reserve è da intendersi come "diversa" e non come "migliore", contrariamente a quanto viene dichiarato in etichetta. Il livello è ugualmente elevato ma a mio parere non giustifica il sovrapprezzo (tre dollari circa, nel USA)  che viene applicato: se la trovate a prezzo scontato come nel mio caso potete togliervi lo sfizio di provarla, altrimenti il mio consiglio è di continuare ad insistere sulla BORIS normale, imperial stout di livello mondiale. 
Formato: 65 cl., alc. 9.4%, IVU 60, lotto e scadenza non riportato, prezzo indicativo 15.00-17.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 27 ottobre 2017

Brekeriet Beer: Saison & Solo

Il birrificio svedese Brekeriet, specializzato in birre a fermentazione selvaggia, è già transitato più volte sulle pagine del blog: fu fondato nel 2012 dai fratelli Fredrik, Christian ed André Ek. Due le linee produttive in funzione, una di birre acide che fermentano in acciaio con saccaromiceti e brettanomiceti e una dedicata alle birre fermentate in botti di legno con saccaromiceti, brettanomiceti e batteri. L’obiettivo è di superare entro fine anno la soglia dei 2000 ettolitri. Passiamo subito alla sostanza con la Brekeriet Saison, una delle tre birre disponibili tutto l’anno nel Systembolaget, il monopolio svedese: l’accompagnano le due sorelle Funkstarter e Brilliant

Il suo debutto è avvenuto all’inizio del 2016 ed è proprio una bottiglia di quel lotto che andiamo a stappare: si veste di un colore che si colloca tra l’arancio ed il dorato sul quale si forma un esuberante cappello di schiuma pannoso, dalla ottima persistenza. L’aroma è piuttosto pulito e abbastanza complesso: s’alternano profumi “rustici” che richiamano pelle e cuoio, terriccio, assieme ad altri più eleganti di fiori, bubble gum, miele, zucchero candito, pesca e arancia. La bevuta è agile e vivace ma disturbata da un eccesso di bollicine, troppe anche se si tratta di una Saison: il gusto si mostra meno ricco dell’aroma, depurato quasi completamente della componente fruttata e “gentile”, se si esclude qualche lieve accenno di frutta a pasta gialla. I brettanomiceti guidano le danze con il loro canovaccio di cuoio/pelle/terroso, in sottofondo emerge qualche nota biscottata e caramellata.  L’alcool è molto ben nascosto, ricordi di Orval fanno capolino più di una volta in una Saison piuttosto ruspante e spigolosa, secca, molto dissetante. Una birra molto meno docile e fruttata rispetto alla Brillant e che ricorda molto la Funkstarter, anche nel suo essere molto meno intrigante al palato rispetto al naso: si beve comunque con buona soddisfazione, e mi riferisco soprattutto a chi ama la Orval. 

Non ho trovato grosse informazioni sulla Saison chiamata Solo, che Brekeriet definisce la sorella più piccola (7.5%) della saison “brettata“ Doble (8.5%);  una produzione occasionale che ha visto la luce nell’autunno del 2015 e che credo da allora non si più stata ripetuta.  
Si veste anche lei d’arancio e forma una testa di schiuma biancastra abbastanza compatta dalla discreta persistenza: il naso non brilla di pulito ma presenta un bouquet ugualmente gradevole nel quale trovano posto arancia e mandarino, pesca, pepe e fiori, affiancati da note più rustiche che richiamano la paglia ed il terriccio. La sensazione palatale è soddisfacente e questa Solo riesce ad essere al tempo stesso morbida e vivacemente carbonata: la scorrevolezza è ottima e anche l’alcool è molto ben nascosto. La bevuta mette in evidenza un bel carattere fruttato con pesca, arancia e pompelmo, persino qualche accenno di frutta tropicale: il dolce della frutta, supportato da una lieve base maltata (miele, forse biscotto) è bilanciato dall’acidità lattica e dall’asprezza della scorza d’agrume, protagonisti anche di un finale poco aggraziato nel quale s’incontrano l’amaro dello yogurth, quello del limone e del pompelmo. Il risultato è una Saison un po’ rozza e rustica che tuttavia svolge con buon risultato il suo compito, quello di dissetare e rinfrescare con gusto. 
Trovo sempre qualcosa d’incompiuto nelle birre di Brekeriet: un livello generalmente buono che tuttavia non riesce a fare quel salto in avanti verso il “molto buono”. Il carattere rustico/ruspante delle loro Farmhouse Ales risulta sempre un po’ troppo grezzo/rozzo: d’accordo che un Saison non dovrebbe mai essere troppo patinata, ma la mano del birraio dovrebbe essere talmente abile da riuscire a donarle pulizia e finezza senza che ciò significhi sopprimere il suo "animo contadino".

Nel dettaglio:
Saison, 33 cl., alc. 6,5%, imbott. 01/2016, scad. 18/01/2021, prezzo indicativo 4.50 Euro (beershop)
Solo, 75 cl., alc. 7.5%, imbott.  08/2015, scad. 24/08/2017, prezzo indicativo 12.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 26 ottobre 2017

Une Année Brett & Barrel Saison

Une Année Brewery è uno dei nomi “caldi” tra i beergeeks di Chicago: dietro a questo microbirrificio a gestione famigliare c’è Jerry Nelson, i cui primi passi con l’homebrewing risalgono al 1995. Nelson si trovava a fare il Marine in California e assieme a qualche compagno iniziarono a farsi la birra all’interno delle baracche dove alloggiavano. Lasciato l’esercito ritornò nella nativa Chicago per frequentare l’Università di Architettura e iniziare poi a lavorare come architetto, abbandonando di fatto l’homebrewing; a fargli ritornare la passione fu un amico che nel 2007 gli chiese aiuto su come far funzionare un kit che gli era stato regalato: "appena tornai a casa - ricorda - iniziai a navigare in internet e rimasi sorpreso da tutte le risorse disponibili che invece non c’erano negli anni 90”.  
La crisi economica del 2008 fece poi il resto: Nelson mantenne il suo lavoro d’architetto ma le sue ambizioni di mettersi in proprio subirono un brusco freno. Per trasformare l’homebrewing in un’opportunità professionale frequentò un corso al Siebel Institute: il budget economico a disposizione era però limitato e Nelson decise di costruirsi da solo l’impianto, utilizzando componenti di seconda mano provenienti da un produttore di vino. La cella frigo venne realizzata con alcuni condizionatori usati e con del materiale isolante recuperato dalla demolizione di un edificio adiacente; il bollitore venne da lui incastonato su di una base di mattoni al di sotto della quale Nelson installò un bruciatore. I lavori iniziarono nel 2010 e a settembre 2013 Une Année debuttò con un impianto da 17 ettolitri in un piccolo spazio nel quartiere Fulton Market di Chicago con una Belgian IPA dedicata alla figlia di Jeremy, Maya. L'affiancarono la Saison "Less is More" e la Masquerade Tripel.
Il Belgio è il vero amore di Nelson, cresciuto a Chimay ed a La Fin Du Monde, e la tradizione belga paese è ciò ispira maggiormente le birra che realizza: il nome scelto, "un anno", vuole sottolineare il legame con la regione francofona del Belgio e il fatto la maggior parte delle birre prodotte saranno stagionali.
Alla fine dello scorso anno Une Année ha traslocato da Chicago al villaggio di Niles, una trentina di chilometri a nord, vicino a dove Nelson abita. Troppo cari gli affitti della metropoli per espandersi in un locale dove fosse possibile ospitare una piccola taproom e superare i 2300 ettolitri/anno prodotti: "non mi fa paura il trasloco in periferia, in una zona poco frequentata; abbiamo un seguito di gente che è disposta a viaggiare e volevo offrire loro un posto comodo dove poter bere e comprare le nostre birre, senza problemi di parcheggio. I camion dei fornitori non volevano venire a scaricare la merce nei vicoli di Chicago".  IPA e Imperial Stout sono invece prodotte utilizzando il marchio "Hubbard’s Cave", nome che deriva da un tunnel all'incrocio delle strade 90 e 94, nei pressi del quale Nelson ha da poco traslocato: un segmento che al momento occupa solo un quarto della produzione. 

La birra.
Dal ricco portfolio di Une Année (quasi cento birre in tre anni di attività) ecco la Brett & Barrel Saison, birra commercializzata per la prima volta a luglio 2017. Nessuna informazione disponibile su questa saison il cui nome spiega (quasi) tutto: brettanomiceti e botti di legno.
Nel bicchiere si presenta di colore arancio molto pallido e forma una discreta testa di schiuma cremosa e compatta, dalla modesta persistenza. Il naso è piuttosto intenso benché assolutamente privo di carattere rustico o di quel legno in cui questa saison ha soggiornato; arancia, mandarino, pepe e coriandolo, pera e mela cotta, qualche accenno di paglia e ananas. Le bollicine le donano un'ottima vivacità ma al palato risulta un pochino sfuggente: il gusto ripercorre in buona parte il percorso aromatico ma lo fa con molta meno intensità. Arancia, mandarino, pepe e coriandolo s'appoggiano su una base maltata molto lieve (crackers), una leggera acidità taglia tutta la bevuta ma il suo effetto dissetante e rinfrescante è parzialmente vanificato da una secchezza che potrebbe essere maggiore. Non c'è amaro, non c'è carattere rustico, non c'è presenza della botte di legno in cui la birra ha maturato: è una Saison che si beve con buona facilità ma che risulta fin troppo scolastica, pulita e patinata, priva di emozioni. Deludente.
Formato: 75 cl., alc. 5.5%, lotto e scadenza non riportati, 9.99 $.

mercoledì 25 ottobre 2017

Nomad Freshie Salt 'n' Pepper Gose

La cosiddetta birra artigianale, al di fuori dai nostri confini nazionali, sta sempre più abbracciando il formato lattina e anche l’Australia non sembra sottrarsi a questa tendenza.  Nomad Brewing, birrificio fondato a Sidney da Leonardo Di Vincenzo (Birra del Borgo), Kerrie Abba e Johnny Latta di Experience It Beverages (importatore di bevande) ha iniziato ad usarle nel 2016; di Nomad avevo già parlato in queste occasioni.  Alla guida dell'impianto di Nomad c'è il birraio Brooks Caretta – un birraio nomade - ex di Birra del Borgo e responsabile anche dello start-up delle birrerie Eataly New York e Eataly Roma, progetti che vedono entrambi Di Vincenzo come socio.  Per chi di voi se lo stesse domandando il birrificio Nomad è rimasto estraneo alle vicende commerciali che hanno coinvolto Birra del Borgo nell'aprile del 2015, ovvero la vendita alla multinazionale Ab-Inbev.
Quattro sono le proposte in lattina di Nomad, tutte birre stagionali estive che il formato rende facilmente trasportabili e fruibili all’aperto. A debiuttare è la Reef Pale Ale seguita dalla Freshie Salt 'n' Pepper Gose, dalla Saltpan Desert Gose (con sale rosa e lime) e dalla Rosie's Summer Punch (una berliner weisse con ibisco).

La birra.
La ricetta della Freshie Salt 'n' Pepper Gose prevede una percentuale di acqua marina prelevata alla Freshwater Beach che si trova a tre chilometri di distanza dal birrificio e pepe della Tasmania.  Il suo colore è un dorato pallido, velato, sul quale si forma una cremosa testa di schiuma bianca, compatta e dalla ottima persistenza. 
Nessuna indicazione disponibile per risalire all’età anagrafica di questa lattina ma l’aroma trasmette ancora freschezza: una lieve nota salina accompagna coriandolo e pepe,  scorza di limone, mela, mandarino. La sensazione palatale è davvero ottima: corpo medio-leggero, le bollicine conferiscono a questa gose una bella vivacità che le permette di scorrere ad alta velocità senza nessuna deriva acquosa. Al gusto c’è una notevole intensità, partendo da una base maltata piuttosto leggera (pane) che lascia subito spazio a limone, arancia e mandarino:  una moderata acidità attraversa tutta la bevuta. Il finale (agrumi) è piuttosto corto ma abbastanza secco e piacevolmente movimentato da una delicata nota pepata che si mescola ad un accenno salino: il palato rimane sempre pulito ad ogni sorso.  Una bella sorpresa questa Freshie Salt 'n' Pepper di Nomad: ci sono gli elementi caratteristici di una Gose ma anche piacevoli divagazioni che coincidono con ammiccamenti fruttati, un po’ ruffiani. Birra semplice ma non banale, molto pulita, grande bevibilità, c’è tutto quel che serve per dissetarsi e rinfrescarsi con piacere anche su una spiaggia assolata, possibilmente australiana.
Formato:  33 cl., alc. 4.5%, lotto 234, scad. 01/12/2017, prezzo indicativo 4.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 24 ottobre 2017

Minnesota: Northgate Maggie's Leap, Bent Brewstillery Nicked, Bent Paddle Black Ale, Barley John’s Old 8 Porter

Ammetto la mia ignoranza brassicola su Minnesota, se si esclude il birrificio Surly del quale vi ho parlato in questa occasione. Eppure lo “stato dei 10.000 laghi" annovera circa 160 birrifici attualmente operativi e sette di loro all’ultima edizione del Great American Beer Festival hanno portato a casa una medaglia. Una sorta di mini beer-hunting alla cieca mi ha portato quattro lattine che vediamo in ordine di gradimento.

Partiamo da Northgate Brewing, microbirrificio   operativo dal 2013 a Minneapolis e trasferitosi  dopo solamente un anno in una location più ampia dove la produzione annuale è arrivata a 5200 ettolitri. I fondatori sono gli ex-homebrewer Adam Sjogren e Todd Slininger ai qual si è aggiunto il birraio Tuck Carruthers: i tre non nascondono di amare soprattutto la tradizione brassicola inglese e le loro quattro birre prodotte tutto l’anno in lattina lo confermano:  una English Brown Ale (Wall’s End), una English IPA (Bitter Fool), una Session IPA e una Nitro Milk Stout (Maggie’s Leap) che andiamo ad assaggiare. 
Da quanto leggo si tratta della prima birra al carboazoto del Minnesota che viene messa in lattina: nel bicchiere si presenta di colore ebano scuro ma non regala il classico “effetto nitro” anche se versata aggressivamente. La testa di schiuma che si forma è piccola, grossolana e si dissolve piuttosto rapidamente. Orzo tostato, caffè e una leggera nota di legno affumicato formano un “naso” un po’ sporcato da qualche sconfinamento nella plastica bruciata. Il mouthfeel è morbido ma non ha la cremosità da “nitro”: l’intensità dei sapori è comunque degna di nota visto che si tratta di una stout dall’ABV abbastanza contenuto (4.9%): caramello, orzo tostato, caffelatte e qualche accenno di cioccolato formano una bevuta molto bilanciata che tuttavia presenta qualche imprecisione soprattutto nella chiusura amara finale, un poco sgraziata. Peccato, perché l’intensità del gusto era quella giusta e Maggie’s Leap poteva essere davvero una buona Milk Stout. 
Formato 47,3 cl., alc. 4.9% , IBU 26, lotto e scadenza non riportati, 2.68 $  

Poco lontana da Northgate si trova la Bent Brewstillery: siamo sempre ad una decina di chilometri dal downtown di Minneapolis. Distilleria e nanobirrificio con taproom furono aperti nel 2012 dall’ex-homebrewer Bartley Blume; nel 2013, in attesa di trovare la location giusta per espandersi, la produzione si appoggiò temporaneamente agli impianti dalla Pour Decisions Brewing Company. Nel 2014 Bent e Pour Decisions si fusero in una unica società che mantenne il nome Bent: Blume rimase presidente mentre Kristen England, fondatore di Pour Decisions, divenne Head Brewer. Anche Bent guarda soprattutto alla tradizione inglese con tre lattine prodotte tutto l’anno:  l’Amber Ale chiamata Nordic Blonde, la English IPA Enuff e la Export Stout Nicked, che versiamo nel bicchiere. 
All’aspetto è “quasi” nera e la sua schiuma è cremosa e compatta. L’aroma mostra pulizia e una buona intensità di orzo tostato, caffè e frutti di bosco; convince meno la sensazione palatale, con una consistenza un po’ troppo debole per una Export Stout che ha un discreto ABV (7.7%). Il gusto continua sullo stesso percorso senza nessuna deviazione ma con meno pulizia. Il dolce di caffelatte e caramello è bilanciato dall’amaro delle tostature che parte bene ma va progressivamente scemando fino a scomparire, per un finale in tono dimesso. L’alcool non dà nessun segno di presenza: ne guadagna ovviamente la bevibilità ma manca quel tepore che vorresti trovare quando ordini una Export Stout. Il risultato è anche qui solamente discreto, c’è qualche passaggio a vuoto nell’intensità e pulizia ed eleganza sono tutt’altro che esemplari.
Formato 47,3 cl., alc. 7.7%, lotto e scadenza non riportati, 2.68 $

Da Minneapolis spostiamoci di 200 chilometri a nord a arriviamo a Duluth, ultimo grande avamposto del Minnesota prima  del confine con il Canada, adagiato sulle rive del lago Superior. E' qui che ha trovato casa la Bent Paddle Brewing Co., fondata nel 2013 due coppie di sposi: Bryon e Karen Tonnis, Colin e Laura Mullen. Bryon e Colin, hanno esperienza decennale come birrai rispettivamente alla Rock Bottom di Minneapolis e alla Barley John’s Brew, della quale parleremo a breve. Da un gruppo di investitori raccolgono il milione di dollari necessario per ristrutturare un vecchio stabile nel Lincoln Park di Duluth e vi installano un impianto da 35 ettolitri con taproom adiacente; la “bent paddle” è ovviamente la pala che viene utilizzata per mescolare il mosto, 
La Bent Paddle Black Ale (6%) è prodotta con una "generosa" quantità di avena, oltre a malti 2-Row, Golden Promise, De-husked black, Crystal-155 e Crystal-20, luppoli Willamette e CTZ. Il suo colore tiene fede al nome mentre al naso si nota un'ottima pulizia ed una bella eleganza: pane nero, delicate tostature di orzo e pane, caffè, more e mirtilli. La bevuta non arriva ad una lussureggiante cremosità ma è comunque morbida e piuttosto gradevole: il gusto ripropone l'aroma con buona intensità ed equilibrio tra pane nero, caffè, caramello e frutti di bosco. Un'accelerata amara finale (tostature e caffè) chiudono un percorso lineare ma intenso, abbastanza pulito e piuttosto soddisfacente. 
Formato 35,5 cl., alc. 6% , IBU 34, lotto e scadenza non riportati, 1.99 $

Chiudiamo in bellezza con un birrificio che geograficamente si trova ubicato su due stati. Barley John's, brewpub fondato nel 2000 da John Moore e dalla moglie Laura Subak a New Brighton, venti chilometri a nord di Minneapolis. John vantava esperienza come birraio alla District Brewing di Minneapolis e alla James Page Brewing. Nel 2016, dopo due anni di lavori, il piccolo brewpub viene affiancato da una seconda e più ampia succursale che consente di produrre circa 12000 ettolitri l’anno: le leggi del Minnesota tuttavia permettono ai brewpub di offrire la propria birra solamente all’interno dei propri locali: non possono né vendere fusti ad altri bar né distribuire lattine e bottiglie nei negozi. Per questo John Moore sceglie di spostarsi di sessanta chilometri ad est in Wisconsin a New Richmond per aprire una secondo e più ampio brewpub in grado di mettere le birre in lattina e distribuirle anche in Minnesota. 
La Old 8 è una porter robusta (8%) la cui ricetta prevede malti 2-Row, Black Malt, Roasted Barley, Chocolate e Dark Crystal, luppoli Warrior e Fuggle. Nel bicchiere è nera con una bella testa di schiuma cremosa e compatta: il naso è ricco di tostature, note terrose e fondi di caffè, accenni di tabacco, affumicato e cioccolato; intensità e pulizia sono a ottimi livelli e anche la sensazione palatale si rivela eccellente, morbida, quasi vellutata. Il gusto spinge deciso sul torrefatto il cui amaro è amplificato dalla generosa luppolatura; le poche concessioni dolci (caramello brunito, esteri fruttati)  hanno solamente la funzione di supporto. L’alcool scalda con mano delicata una porter molto intensa  e semplice ma molto ben eseguita,  ricca di tostature e qualche ricamo di tabacco e cioccolato a conclusione di una gran bella bevuta.
Formato 47,3 cl., alc. 8%, IBU 60, lotto e scadenza non riportati, 3.99 $

lunedì 23 ottobre 2017

Mikkeller Monks Elixir 2013 vs. To Øl Fuck Art - This is Advertising 2013

Il maestro (Mikkel Borg Bjergsø) e gli allievi (Tobias Emil Jensen e Tore Gynth):  un rapporto iniziato nel 2005 quando i due ragazzi, allora sedicenni, si ritrovarono Borg Bjergsø come insegnante di matematica e fisica e, previa autorizzazione, utilizzarono tutti insieme la cucina scolastica per fare i loro esperimenti di homebrewing. Borg Bjergsø in quello stesso anno lasciò la vita accademica per dedicarsi alla birra a tempo pieno aprendo la beerfirm Mikkeller: Jensen e Gynth lo seguirono con qualche anno di ritardo, nel 2010, con la beer firm To Øl che debuttò realizzando una birra collaborativa proprio con l’ex professore, la  Overall IIPA.
In questi sette anni le carriere delle due beerfirm hanno avuto un percorso simile, sebbene quella di Mikkeller sia cresciuta di più e più in fretta, guardando soprattutto al di fuori dei confini europei. Nel nostro continente entrambi hanno prodotto la maggioranza delle proprie birre in Belgio da De Proef, entrambi ora hanno un brewpub a Copenhagen (Warpigs per Mikkeller, BRUS per To Øl) e un webshop sul quale vendono merchandising, birre proprie e di birrifici “amici”, entrambi hanno iniziato ad utilizzare il formato lattina. Mikkeller e To Øl hanno poi diversi interessi in comune, tra i quali il Mikkeller & friends  (locale +  Bottle Shop)  a Copenhagen. Lo scorso anno Tobias Emil Jensen ha abbandonato To Øl per dedicarsi ad altri non specificati progetti. 

Le birre.
Che i sopracitati protagonisti amino il Belgio non è un segreto:  Mikkeller da sempre mette la Orval in cima alle sue preferenze e ha realizzato diverse birre ispirandosi a lei. To Øl ha lanciato qualche anno fa la serie “Fuck Art”  nella quale la tradizione belga viene rivisitata in chiave moderna. 
Mettiamo allora a confronto due di queste birre, entrambe prodotte in Belgio da De Proef nel 2013; due “quadrpuel” (o “belgian strong ales”, se preferite) che guardano a due classici trappisti senza tempo: Rochefort 10 e Westvleteren 12.  
Mikkeller propone la sua Monks Elixir (10%), rinominata per il mercato americano (e credo ormai anche per quello europeo) Monk’s Brew, con una differente etichetta. To Øl risponde con meno romanticismo cancellando qualsiasi legame con il mondo monastico: Fuck Art - This is Advertising (11.3%)  è il nome scelto.  Curioso come il contenuto alcolico delle loro due quadrupel – quasi a non volersi far concorrenza -  rifletta quello delle due grandi trappiste Westvleteren (10.2%) e Rochefort (11.3%). 
All’aspetto entrambe si vestono con la classica tonaca di frate, ma la To Øl è molto più torbida; la sua schiuma è perfettamente cremosa con compattezza e finezza superiori a quella di Mikkeller. L’aroma della Monks Elixir è pulito, ricco e complesso, molto intenso: pera, uvetta, datteri e fichi, accenni di ciliegia, amaretto, biscotto al burro, mela al forno e marzapane, una sorta di dessert leggermente speziato e bagnato nell’alcool.  La This is Advertising si muove sullo stesso percorso ma lo fa con minor pulizia e finezza, mettendo la componente etilica in primo piano: anche gli esteri fruttati (uvetta e datteri, pera) rimangono nelle retrovie lasciando spazio a zucchero candito e biscotto, spezie, marzapane.  Per quel che riguarda il mouthfeel è di nuovo la Monks Elixir a farsi preferire: corpo medio, bollicine ancora vivaci dopo quattro anni di cantina, e una buona scorrevolezza la palato; molto più “ingombrante“ risulta invece la quadrupel di To Øl, pastosa, a tratti al confine del masticabile.
Entrambe le birre danno comunque il meglio di sé al naso, offrendo un gusto molto meno espressivo e ricco: se la cava sicuramente meglio la Monks Elixir, dolce di caramello e biscotto, uvetta e  datteri, una delicata speziatura. Il dolce è ben asciugato dal alcool e da un'ottima attenuazione; termina con una lunga scia calda di frutta sotto spirito. This is Advertising gioca la sua partita sul canovaccio biscotto, caramello e pasticceria, zucchero candito, un tocco di spezie: non ci sono quasi esteri fruttati, la componente etilica è molto in evidenza e a tratti quasi brucia, rallentando la bevuta. Nel finale spunta anche una nota americante terrosa, completamente assente nella quadrupel di Mikkeller. 
La "sfida" viene vinta in scioltezza dalla Monks Elixir: il livello non è quello delle grandi trappiste ma si tratta di una quadrupel puilta e ben fatta che tiene sotto controllo la componente etilica mostrando almeno un paio di gradi in meno di quelli dichiarati. Delude l'interpretazione di To Øl, una bomba maltata e zuccherata, abbastanza ben attenuata ma assai poco caratterizzata dal lievito. L'alcool non viene supportato da un'adeguata complessità e la noia aleggia sul bordo del bicchiere. 
Nel dettaglio:
Monks Elixir, formato 33 cl., alc. 10%, scad. 22/11/2018
Fuck Art - This is Advertising, formato 33 cl., alc. 11.3%, scad. 17/04/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 20 ottobre 2017

DALLA CANTINA: Cascade The Vine 2013

Oggi Portland (Oregon) è una  delle città americane con il più elevato numero di produttori di birra ma alla metà degli anni ’80 la situazione era molto diversa: lo stato americano vietava dal periodo proibizionista la vendita di birra diretta ai clienti da parte di chi la produceva,  ed era quindi illegale aprire un brewpub. Nel 1985 la legge fu finalmente eliminata grazie alle richieste di un comitato che annoverava tra i membri anche Art Larrance, oggi settantaquattrenne; l’anno successivo assieme a tre soci Larrance aprì la Portland Brewing Co. guidandola sino al 1994, anno in cui tramite azionariato fu raccolto il capitale necessario per espandersi. Il risultato della vendita delle azioni fece però perdere il controllo societario a Larrance e soci che furono privati di potere decisionale e preferirono andarsene.
Nel 1998 Larrance è di nuovo in pista ed apre il Raccoon Lodge & Brew Pub  e la Cascade Brewing nella zona sud-est di Portland, impianto da 12 ettolitri; ad aiutarlo arriva dalla Portland Brewing una sua vecchia conoscenza, il birraio Ron Gansberg, al quale concede carta bianca. La produzione si basa inizialmente su birre luppolate ma la concorrenza a Portland è grande e farsi strada è difficile; anziché puntare ai grandi numeri, Larrance e Gansberg vogliono aumentare il proprio margine attraverso “prodotti premium”. A Gansberg viene allora l’idea di mettere una English IPA in alcuni barili per simulare il viaggio delle navi dall’Inghilterra all’India; l’esperimento non sembra soddisfare del tutto chi lo assaggia ma dà ai birrai un’idea del potenziale che si potrebbe ottenere dall’utilizzo delle botti. Dalle IPA si passa quindi alla produzione di birre acide con l’utilizzo di lactobacilli e aggiunta di frutta di provenienza locale: lamponi, marasche, albicocche, pesche, fragole e uva.  L’intenzione non è quella di replicare i lambic alla frutta del Belgio ma di creare quelle che Cascade chiama “Northwest Sour Ales” e che lancia nel 2006: birre moderatamente acide grazie ai lactobacilli e abbastanza pulite/raffinate visto che non vengono utilizzati brettanomiceti e pedicocchi. 
Arrivano le prime medaglie al Great American Beer Festival e nel 2010 Cascade inaugura la Cascade Brewing Barrel House a Belmont Street, 650 metri interamente dedicati alla produzione (12 hl) e all’invecchiamento in legno di birre acide, con taproom annessa con un centinaio di posti a sedere. Nel 2014 botti (1500 circa) e foeders traslocano in un nuovo e più ampio magazzino da 2000 metri quadri dove però non è presente nessuna taproom.

La birra.
Quasi tutte le sour di Cascade vengono prodotte assemblando un blend di alcune “birre base”  invecchiate. Con The Vine il birraio Gansberg intende celebrare il matrimonio tra birra e uva, essendo la valle del fiume Willamette particolarmente ricca di vigneti;  Gansberg aveva anche lavorato da alcuni produttori di vino prima d’intraprendere la professione di birraio. 
Ci sono voluti due anni per perfezionare una ricetta che prevede l’invecchiamento in botte di una tripel, una blonde quadrupel e una golden ale; a ciascuna birra viene poi aggiunto succo di uva bianca (pressato in loco dal birrificio) per la fermentazione in vasche d'acciaio che dura tre mesi. Il blend finale passa poi altri sei mesi in botte con i lactobacilli; al momento della messa in bottiglia viene aggiunto lievito tipo American Ale per la rifermentazione.
Il millesimo 2013 è di un bel dorato antico e limpido, con un piccolo cappello di schiuma biancastra che si dissolve molto rapidamente. Al naso non c'è frutta ma legno umido, polvere, note terrose e di "cantina", pelle, cuoio: un bouquet rustico ma piuttosto pulito. E' solamente al palato che s'inizia a trovare corrispondenza con l'etichetta: l'asprezza dell'uva, del limone e della mela sono ben contrastate da un dolcezza in sottofondo che richiama miele e albicocca disidratata. Il mouthfeel è molto gradevole e morbido, nonostante una carbonazione abbastanza sostenuta. L'alcool (9.3%) è molto bel nascosto e un lieve tepore emerge solamente nel finale assieme ad una lievissima nota amaricante, tannini e nocciolo di pesca. 
The Vine (la vite) tiene fede al suo nome, soprattutto in bocca: bevuta piuttosto vinosa, un po' patinata, con il carattere rustico/funky (legno, polvere, paglia) molto in secondo piano. Il livello è sicuramente alto ma il prezzo è piuttosto elevato, sia nella terra d'origine che qui da noi: siamo intorno ai quaranta dollari al litro, a mio parere troppi. Con la metà dei soldi in Europa si riesce ancora ad acquistare una birra come la Vigneronne di Cantillon e salire ulteriormente di livello.
Formato: 75 cl., alc. 9.3%, lotto 2013, prezzo 29,99 $

giovedì 19 ottobre 2017

Half Acre Double Daisy Cutter

Half Acre Beer Company nasce a Chicago nel 2006 come beerfirm. A fondarla è Gabriel Magliaro, arrivato dal New Jersey a Chicago per studiare all’Art Institute fotografia e comunicazione visiva e poi trasferitosi per lavoro in Colorado dove, tra l’altro, soffiava il vetro. E’ qui che conosce il birrificio Avery, s’innamora delle loro birre e inizia con l’homebrewing; ritornato a Chicago, Magliaro frequenta le taproom di Goose Island, Three Floyds e abbozza l’idea di lanciare una propria birra: nel progetto vengono coinvolti i soci  Maurizio Fiori  (oggi hospitality manager – trasferitosi negli USA dalla Sardegna ai tempi del liceo) e soprattutto l'investitore Brian Black (passato poi alle cronache per aver acquistato un appartamento da 4,5 milioni di dollari). 
La nuova nata Half Acre si appoggia alla Sand Creek Brewing per produrre la Half Acre Lager che raffigura in etichetta una delle icone di Chicago, la Water Tower: un peccato, fanno notare alcuni, che la  "birra di Chicago"  sia prodotta in Wisconsin! Gli insegnamenti del birraio della Sand Creek sono però fondamentali per il passo successivo che i soci intendono intraprendere: l’apertura di un vero e proprio birrificio Half Acre, nome che si riferisce a quel mezzo acro di terra dove “trovare un po’ di pace e quiete, sedersi, gustarsi una birra e non pensare niente altro. Sono cresciuto in un piccolo paese del New Jersey sul fiume Delaware dice Gabrielsull’altra sponda, in Pennsylvania  esiste una località ancora più piccola chiamata Devil’s Half Acre, letteralmente un mezzo acro di terreno dove non c’è nulla, solamente un bar. Fu costruito illegalmente per far rilassare e dare qualcosa da bere ai lavoratori che nel 1800 stavano lavorando agli scavi dei canali del fiume Delware. Fu chiamato “il mezzo acro del diavolo” perché gli uomini finivano per ubriacarsi, litigare sino ad ammazzarsi, e qualcuno fu persino sepolto in quel terreno.” 
Nel 2008 Magliaro e soci prendono in affitto 1200 metri quadrati di un vecchio magazzino a Lincoln Avenue nel quartiere North Center di Chicago nel quale viene installato l’impianto (18 hl) dismesso del birrificio Ska, Colorado, e due fermentatori da 70 ettolitri acquistati dai 3 Floyds, Indiana, dai quali ricevono anche preziosi consigli. In sala cottura arriva Matt Gallagher, homebrewer e amico di Magliaro ai tempi del Colorado. Half Acre debutta come birrificio nel 2009, producendo solo fusti e continuando ad appaltare le bottiglie in Wisconsin sino all’arrivo della linea per la messa in lattina. La Pale Ale Daisy Cutter e la Pony Pilsner si diffondono rapidamente nei locali di Chicago: dai 2350 ettolitri del primo anno si arriva nel 2012 a quei 17000 che saturano completamente la capacità produttiva. Nello stesso anno viene anche inaugurata la taproom con cucina e Magliaro inizia a pensare a dove potersi espandere aprendo un secondo birrificio: in prima battuta rivolge lo sguardo ad est, a Philadelphia (vicino a dove era nato), ma alla fine decide di installare il nuovo impianto tedesco da 140 ettolitri a Balmoral Avenue, a un paio di miglia di distanza, che viene inaugurato nel 2015.  5500 metri quadri di spazio, un bel giardino esterno e, dallo scorso settembre, taproom con cucina: il vecchio stabilimento continua oggi a funzionare come brewpub e come sito produttivo per produzioni sperimentali, occasionali e acide. 29.000 gli ettolitri prodotti da Half Acre nel 2015, 41.000 quelli nel 2016 e un piano di crescita mirato ad aggiungere 11.000 ettolitri anno dopo anno.

La birra.
Daisy Cutter è la flagship beer di Half Acre, che trovate in moltissimi locali di Chicago e il cui successo ha convinto i tre soci a trasformare la propria beerfirm in birrificio. La sua versione imperiale, la Double Daisy Cutter debutta nel 2010 in bottiglia formato “bomber” (65 cl.) e viene oggi prodotta con cadenza trimestrale in lattina. Non sono rivelati gli ingredienti usati.
Nel bicchiere arriva di color arancio quasi limpido, con riflessi ramati ed un compatto cappello di schiuma biancastra dalla buona persistenza. L'aroma di una lattina che ha poche settimane di vita non è esattamente un'esplosione di profumi ma è tuttavia pulito. Biscotto, caramello, qualche accenno di mango e pompelmo, bubble gum, resina. Bene la sensazione palatale, con poche bollicine e corpo medio a garantire una bevuta morbida e gradevole: l'alcool (8%) si sente e non mostra nessuna intenzione di nascondersi. E' una Double IPA che non fa sconti e non perde tempo a cucire inutili ricami: malti percepibili ma non invadenti, in piena tradizione Midwest, con biscotto, miele e accenni di caramello a costruire una base dolce sulla quale s'appoggia qualche nota di mango, subito incalzata dall'amaro del pompelmo, anticamera di un finale resinoso, pungente e vigoroso, sospinto dalla componente etilica. Bene la pulizia, alcool un po' troppo protagonista nel definire i muscoli: la spina dorsale biscotto/miele/resina è solida e funziona piuttosto bene anche se dà vita ad un'interpretazione di una Double IPA che non è tra le mie preferite. 
Formato: 47,3 cl., alc. 8%, imbott. 02/08/2017,  4.12 $.

martedì 17 ottobre 2017

CRAK Grisette


Al contrario delle Saison, quello delle Grisette è un (sotto) stile ancora poco conosciuto e poco esplorato dai birrifici contemporanei; conviene allora approfondire un po’ l’argomento. Secondo quanto racconta Phil Markowski nel libro “Farmhouse Ales”  le nascita delle Grisette è conseguenza diretta dei cambiamenti nell’economia della Vallonia avvenuti alla fine del diciannovesimo. L’industria mineraria (carbone e pietre) stava crescendo a scapito dell’agricoltura e i birrifici iniziarono a produrre birre per dissetare tutti coloro che erano arrivati in Vallonia per lavorare nelle miniere. 
Non ci sono molte notizie storiche sulla nascita di queste birre e non c’è neppure certezza sull’origine di questo nome: “grisette” erano chiamate le giovani lavoratrici delle fabbriche che indossavano un abito grigio (gris, in francese). Pare che queste giovani portassero anche quei vassoi pieni di birre che accoglievano e rinfrescavano i minatori alla loro uscita dalle miniere; grigio era ovviamente il colore dei porfiriti (pietre) della Vallonia settentrionale, e di polvere grigia erano ricoperti i minatori al termine delle loro dure giornate di lavoro. Non è dunque difficile ipotizzare in quel periodo molti birrifici (almeno trenta, secondo quanto sostiene Joris Pattyn) producessero birre indirizzate a quei minatori che stavano velocemente sostituendo i braccianti agricoli.  
Secondo alcune fonti storiche le “grisette” erano leggere e rinfrescanti, generosamente (per gli standard dell’epoca) luppolate: non erano di solito utilizzate quelle spezie e quei cereali non maltati tipici delle Saison; per alcuni erano dorate, per altri ambrate. Tutti concordano invece sul loro basso contenuto alcolico (3-5%), inferiore a quello delle Saison, in quanto destinata a gente che doveva poi riprendere a lavorare. Ma lo stesso non poteva dirsi dei braccianti agricoli? Secondo Yvan De Baets esistevano “grisette jeune” (giovani), prodotte finché le temperature lo consentivano e  “grisette de garde”, prodotte da settembre a dicembre e destinate poi al consumo nei mesi più caldi, quando non era possibile birrificare. Vi erano probabilmente anche le  “grisette supériere” dal contenuto alcolico più elevato e probabilmente consumate nei ai giorni di riposo o a quelli di festa: con i “second runnings” delle grisette e venivano probabilmente anche prodotte delle “biere de table” dal contenuto alcolico ancora più basso e destinate a sostituire l’acqua. 
Nel corso del ventesimo secolo la parola Grisette è andata estinguendosi, rischio corso anche da quella Saison, "salvata" dal punto di vista brassicolo solamente dalla produzione Dupont. L’unico birrificio belga ad aver abbracciato il termine “grisette” è stato St. Feuillien, per motivi di marketing:  le sue Grisette Blanche, Grisette Blonde, Grisette Cerise e Grisette Fruits de Bois hanno poco a che vedere con la tradizione storica.


La birra.
A realizzare una delle poche Grisette italiane ci prova il birrificio CRAK, oggi sulla cresta dell’onda soprattutto per le sue New England IPA: la sua interpretazione moderna, oltre ad un generoso double dry hopping di Lemondrop e Hull Melon, prevede l’utilizzo di scorza di limone e d’arancia; i malti utilizzati sono Pilsner e Dextrine.  La gradazione alcolica (5.6%) è un po’ superiore a quella di una Grisette che sarebbe stata offerta ai minatori valloni.
Il suo colore è un arancio piuttosto pallido sul quale si forma un cappello di schiuma un po' scomposto dalla discreta persistenza. Al naso c'è una buona pulizia che permette di apprezzare i profumi di limone, cedro e polpa d'arancia; in sottofondo fenoli, erbe officinali, scorza d'arancia e un leggero carattere rustico. L'alcool è molto ben nascosto, quasi inavvertibile e questa Grisette scorre rapidamente senza nessun intoppo: il corpo è tra il medio ed il leggero, con una buona carbonazione a donarle una discreta vitalità. A supporto della generosa luppolatura c'è una base maltata piuttosto lieve che lascia intravedere crackers e miele; un velo di arancia zuccherata introduce un percorso finale, senza ritorno, ricco di agrumi: limone, cedro, pompelmo. Nell'amaro finale, di modesta intensità e durata, fa anche capolino una nota terrosa. Nel bicchiere c'è una birra molto bilanciata e discretamente secca: una leggera acidità la rende molto rinfrescante e dissetante, con un'intensità di sapori davvero notevole. Quello che un po' le manca è la caratterizzazione del lievito, quella nota rustica che mi aspetterei di trovare in una sorta di Saison: la bevuta è invece patinata, generosamente ed educatamente fruttata anche se un po' slegata in alcuni passaggi. Più luppolo che lievito in una birra è comunque estremamente godibile, da bere senza focalizzarsi su nome e contesto storico.
Formato: 33 cl., alc. 5.6%, imbott. 07/09/2017, scad. 07/01/2018, prezzo indicativo 4.00-4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 ottobre 2017

Prairie Paradise

Le imperial stout sono tra le birre che hanno indiscutibilmente contribuito al successo del birrificio Prairie (Tulsa, Oklahoma):  tra queste Bomb!, Noir  e le loro declinazioni che differiscono per aggiunta di ingredienti o per i diversi passaggi in botte. A giugno 2016 Prairie è stato ceduto dai fondatori Chase e Colin Healey alla Krebs di Zach Prichard, birrificio che da sempre gli aveva prodotto le birre su grande scala; nel 2015 Prairie aveva raggiunto lo status di “birrificio” con l’apertura dell’impianto di Tulsa  destinato però ad alimentare solamente il brewpub, continuando a produrre bottiglie e fusti alla Krebs. E mentre Chase Healey si sta dedicando al suo progetto American Solera, il fratello Colin sta continuando a collaborare con la nuova proprietà. 
Ma il 2016 ha portato altre novità in casa Prairie: l’annuncio dell’apertura di un secondo brewpub a Oklahoma City, con impianto da 4 ettolitri,che dovrebbe essere inaugurato entro la fine del 2017 e investimenti per aumentare la capacità produttiva del birrificio Krebs: nuovi fermentatori, più spazio da dedicare agli invecchiamenti in botte e una linea per la messa in lattina che ha debuttato ad aprile 2017. Novità di giugno 2016 è stat una massiccia imperial stout (13%) chiamata Paradise che tra i propri ingredienti annovera cocco e vaniglia; il suo debutto avviene solamente in fusto;  dopo pochi mesi viene annunciato l’arrivo di Pirate Paradise, ossia la sua versione invecchiata in botti di rum, venduta in bottiglia a partire da settembre. Per le prime bottiglie di Paradise bisogna invece attendere la fine dell’anno quando finalmente il birrificio ottiene l’approvazione della Texas Alcoholic Beverage Commission che - pare - ne aveva invece rifiutato tre precedenti versioni.

La birra.
Non è sempre facile risalire alla data di produzione delle Prairie, in quanto le stampe al laser sul vetro sono spesso illeggibili: quella che s’intravede su questa bottiglia (35416) mi fa pensare che si tratti proprio di una di quelle prodotte alla fine dello scorso anno. 
Il suo aspetto lascia un po’ a desiderare: la schiuma è parecchio scomposta e grossolana e scompare piuttosto in fretta lasciando nel bicchiere un liquido nero privo di “pizzo”. L’aroma non è esattamente paradisiaco: un po’ di carne e salsa di soia accompagnano i profumi di vaniglia e cocco tostato, caramello e caffè: pulizia e eleganza non sono certamente a livello ottimale. Al palato le cose vanno meglio: c’è un piccolo dessert liquido nel quale s’incontrano caramello e melassa, uvetta e prugna sotto spirito, vaniglia e cocco, qualche ricordo di cioccolato. L’alcool (13%) si fa ovviamente sentire ma non è una birra particolarmente difficile da sorseggiare, mentre nel finale amaro che bilancia la bevuta c’è quasi più luppolo che tostature. Delude un po’ la sensazione palatale, solo leggermente oleosa e con corpo medio, a mio parere un po’ troppo debole per dare forma ad un dessert, senza nessuna velleità cremosa. Il retrogusto è un lungo tappeto caldo ed etilico nel quale arrivano a coccolarti tostature, vaniglia, cocco e caramello. 
Imperial Stout di discreto livello ma con ampi margini di miglioramento soprattutto per quel che riguarda pulizia ed eleganza: la caratterizzazione “dessert” si mantiene lontana da eccessi “Omnipolliani” ma il risultato non è del tutto convincente, soprattutto perché quando ci si colloca in fascia di prezzo alta le aspettative di chi beve sono altrettando elevate. E, al contrario di altre Prairie, in questo caso non vengono soddisfatte.
Formato: 35.5 cl., alc. 13%, lotto 35416, prezzo indicativo 11,00 - 14,00  Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 13 ottobre 2017

Mikerphone That One Guitar

Craft Beer Inspired By Music: è questo il motto di uno dei birrificio di Chicago che ha aperto le porte solamente il 15 marzo 2017 ma è già uno dei più chiaccherati. Mikerphone Brewing corrisponde al nome di Mike Pallen, una decina d’anni passati a lavorare nell’industria discografica prima di lasciarla per dedicarsi ad un’altra delle sue passioni, la birra. Bevanda a lui familiare, visto che suo padre lavorava per la Miller Brewing Company di Milwaukee. 
Il suo primo incontro con la birra è all’Università, quando per l’esame di Botanica realizza assieme ad un amico una Brown Ale che ottiene il massimo dei voti: come ricompensa, i genitori gli regalano un kit da homebrewing per inaugurare il loro trasloco a Chicago, avvenuto nel 2004. Mike trasforma in poco tempo il seminterrato in un microbirrificio casalingo, procedendo al ritmo di una cotta al mese e offrendola ai suoi amici e colleghi di lavoro:  la motivazione iniziale era quella di replicare le birre che non riusciva sempre a trovare, come ad esempio Gumballhead dei Three Floyds: “volevo berla e non riuscivo sempre a trovarla, così ne feci un clone e alla gente piacque, me ne chiedevano sempre di più”
Tra quelli che l’assaggiano c’è anche Gerrit Lewis, che sta aprendo Pipeworks; Pallen inizia ad aiutare come volontario molti birrifici di Chicago tra i quali Temperance, 5 Rabbit, Revolution, Begyle e Lake Effect prima di passare a dare una mano a Pipeworks dove conosce il birraio Drew Fox, sul piedi di partenza per andare a fondare 18th Street. Pallen si offre di aiutarlo con i social media nel corso della campagna di crowfunding e lo assiste come aiuto birraio, ricevendo in cambio da Fox preziosi consigli su come mettere in piedi la sua beerfirm chiamata Mikerphone, che intende utilizzare proprio gli impianti di 18th Street. Ma a settembre 2013, quando Pallen è pronto per lanciare Mikerphone, gli viene offerto il ruolo birraio al birrificio BreakRoom; un’occasione per fare esperienza che dura un anno e mezzo, periodo in cui Mike e sua moglie utilizzano tutti i suoi risparmi per commissionare un impianto da 4 ettolitri da installare in Wisconsin, suo stato natale. Gli amici gli consigliano però di non lasciare Chicago e la nuova proposta di Steve Miller, proprietario della SlapShot Brewing Company, arriva al momento giusto: installa il tuo impianto nel mio edificio, a fianco del mio, e fai contemporaneamente il birraio anche per me.  
A marzo 2015 debutta ufficialmente la beerfirm Mikerphone sugli impianti di Miller e Mike non ha neppure il tempo di mettere in funzione i suoi perché SlapShot chiude dopo pochi mesi   costringendolo a produrre altrove (Une Annee Brewery) e a cercare un nuovo spazio nel quale operare finalmente il proprio impianto. La ricerca termina nel grande parco industriale (350 mq) del quartiere di Elk Grove Village, un intricato labirinto di strade che ospita 3600 imprese e 80.000 lavoratori:  un luogo forse non ideale per aprire un birrificio con taproom che però soddisfa l’unico criterio richiesto da Mike, ovvero essere raggiungibile in un quarto d’ora di macchina da casa. 
Il nome Mikerphone inizia a circolare tra i beergeeks di Chicago soprattutto per la sua imperial stout Smells Like Bean Spirit (prodotta con caffè e sciroppo d’acero) ma l’hype inizia ad arrivare solamente grazie alla solita parola magica, “juicy”.  E’ un viaggio in New England, a fine 2015, a far innamorare Mike delle IPA torbide, poco amare e succose: la sua prima New England IPA fatta a Chicago si chiama Special Sauce e “cambiò ogni cosa per noi, cambiò la velocità con la quale riuscivamo a vendere la birra”. Ratebeer incorona Mikerphone come miglior nuovo birrificio dell’Illinois del 2015 e BeerAdvocate come una delle “Best New Breweries” dello stesso anno. A marzo 2017 apre finalmente le sue porte la Mikerphone Brewing al 121 di Garlisch Drive, Elk Grove Village, una taproom con quaranta posti a sedere che celebra l’unione tra birra e musica: alle pareti chitarre, poster, memorabilia musicale e amplificatori a diffondere rock. 
A pochi mesi dall’apertura la capacità produttiva di Mikerphone è già insufficiente nel soddisfare tutte le richieste e Pallen sta già pensando di espandersi nello stesso edificio in cui si trova. La zona industriale non spaventa i beergeeks che affollano la taproom e danno vita a quelle scene ormai tipiche davanti a alcuni birrifici americani: la fila per acquistare le birre. Lo scorso 9 settembre, per l’uscita della versione Barrel Aged dell’imperial stout Vanilla Smells Like Bean Spirit, beergeeks iniziarono a mettersi in fila alle 5.30 del mattino nell’attesa dell’apertura, prevista per le 11; per cercare di accontentare tutti, il birrificio a ridusse all’ultimo momento da tre a due il numero massimo di bottiglie acquistabili a persona, creando molti malumori tra la gente cui fecero seguito delle scuse ufficiali sui social network. 
Sino ad ora le Mikerphone erano disponibili solamente nel poco pratico formato da 75 cl.: in queste settimane hanno finalmente debuttato le bottiglie da 12 once (35.5 cl.)

La birra.
That One Guitar è una Double (New England) IPA prodotta esclusivamente con luppolo Mosaic, utilizzato anche nell'ormai imprescindibile Double Dry Hopping che debutta a fine luglio 2017; il riferimento musicale potrebbe essere Jukebox Hero dei Foreigner: “That one guitar, felt good in his hands, didn’t take long to understand…” 
Nel bicchiere si presente di un opalescente colo arancio sul quale si forma una bella testa di schiuma cremosa e abbastanza compatta, dalla buona persistenza. L'aroma è una danza tropicale nella quale ballano mango e ananas, passion fruit e melone: in sottofondo un po' di "dank" a completare un naso piuttosto intenso, fresco e pulito che riesce anche ad essere quasi elegante. La sensazione palatale non è cremosa e "masticabile" come prevederebbe il manuale di una vera NEIPA ma è ugualmente morbido e gradevolissimo, con la giusta quantità di bollicine. L'alcool (8%) è molto ben gestito e la bevibilità è davvero facile: il gusto ripropone l'opulenza tropicale dell'aroma con uguale intensità e pulizia, un velo caramellato in sottofondo. L'amaro resinoso è molto contenuto, con il (quasi) inevitabile raschiare in gola o "effetto pellet" che dir si voglia molto, molto contenuto. Il risultato è una birra di ottimo livello, juicy ma con criterio, valorizzata dalle poche settimane passate in bottiglia.
Mikerphone, birrificio molto interessante da non perdere se vi trovate a passare per la Windy City: prezzi non economici che riflettono hype e metropoli.
Formato: 75 cl., alc. 8%, lotto non riportato, 14.39 $.

giovedì 12 ottobre 2017

Bevog Ond Smoked Porter

Torniamo a parlare di Bevog, birrificio in territorio austriaco (Bad Radkersburg) ma guidato dallo sloveno Vasja Golar che ha bypassato la lenta burocrazia del suo paese spostandosi a produrre a tre chilometri da casa (Gornja Radgona) in Austria.  Dal 2013 Bevog ha visto una crescita costante che lo ha portato nel 2016 a produrre circa 7000 ettolitri con il suo impianto da 15 hl.  Negli ultimi mesi il birrificio è stato molto impegnato a rinfrescare il proprio internet e a suddividere la propria gamma produttiva tra birre prodotte tutto l’anno, birre occasionali, stagionali e “prototipali” racchiuse sotto la Who Cares Editions e  invecchiamenti in botte, questi ultimi raggruppati nella categoria “Paper Bag”, in quanto le bottiglie sono incartate. Le birre prodotte  tutto l’anno è rappresentata da tante strane creature o mostri dai nomi singolari:  Tak, Ond, Kramah, Baja, Deetz e Rudeen. Inutile chiedersi il significato di questi nomi, che secondo quanto dichiara Golar non significano assolutamente nulla ma corrispondono a quelli che avevo dato alle proprie birre nel corso degli esperimenti casalinghi; le strane creature rappresentate in etichetta, a metà strada tra mitologico, fantastico ed fumetto sono realizzate dall’artista croato Filip Burburan, ispirato da alcuni scritti del nonno di  Golar, un poeta/scrittore abbastanza conosciuto a Gornja Radgona. 
Dopo la natalizia Brown Snowball Coconut Porter e la Baja Oatmeal Stout è il momento di stappare un’altra birra scura di Bevog: una robusta porter affumicata che viene prodotta con un mix di luppoli sloveni e americani.

La birra.
L’aspetto è invitante, il bicchiere si tinge di nero sul quale si forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L’affumicato entra subito in gioco dominando l’aroma con i suoi profumi piuttosto grassi che ricordano quelli della carne, con qualche sconfinamento meno gradevole nella gomma bruciata: in sottofondo un po’ di caffelatte e frutti di bosco. Anche in bocca c’è qualcosa da sistemare, a partire dalla sensazione palatale non particolarmente morbida e un po’ spigolosa, nonostante la carbonazione non sia particolarmente elevata: il corpo è medio, ma in alcuni passaggi la birra sempre un po' slegata. Al gusto l’affumicato è molto meno dominante e la bevuta viene guidata da tostature vigorose ma ruvide, caramello brunito e caffè; l'alcool è ben nascosto, nel finale l'affumicato si fa più presente e accompagna un amaro piuttosto energico composto da tostature, fondi di caffè e note terrose. L'intensità è davvero notevole ma in quanto a pulizia ed eleganza ci sono ampi margini di miglioramento in questa smoked porter di Bevog, soprattuto per quel che riguarda tostature e affumicato: il risultato è solo discreto e non al livello di altre produzioni del birrificio austriaco.

Formato: 33 cl., alc. 6.3%, IBU 43, scad. 10/11/2017, prezzo indicative 3.50-4.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 11 ottobre 2017

Pipeworks Brewing Company: Lizard King & Sure Bet

Beejay Oslon e Gerrit Lewis, entrambi devoti homebrewers e beergeeks, si conoscono nel 2008 mentre lavorano da West Lakeview Liquors, negozio di birre, vini e liquori di Chicago. Un beergeek non dovrebbe mai mancare al Dark Loyd Day di Three Floyds, soprattutto se si trova a pochi chilometri da casa: è in quel giorno dell’aprile del 2008 che Oslon e Lewis, mentre sono in fila ad attendere di mettere le mani sulle bottiglie d’imperial stout, che decidono di voler aprire il proprio birrificio. 
Nel 2009, mentre Lewis termina il suo master in marketing alla Loyola University, Beejay Oslon manda un’email a Urban Coutteau degli Struise e si offre per andare a lavorare gratis in Belgio per qualche mese: “sino ad allora sapevamo riconoscere una buona birra racconteràma non avevamo nessuna idea su come far funzionare un birrificio”. Gli Struise realizzano anche una birra collaborativa con quei "due ragazzi americani” e con il birrificio Alvinne che viene chiamata Pipedream, nome che anticiperà il futuro. Terminata l’esperienza europea. Oslon e Lewis passano diciotto mesi ad elaborare il loro business plan, mentre le loro produzioni casalinghe riscuotono consensi ed entusiasmo ad alcuni festival nei quali vengono offerte alla spina al fianco delle produzioni professionali, come ad esempio lo Stout Fest organizzato da Goose Island; non è tuttavia facile racimolare i fondi necessari per partire. Impossibilitati nell'ottenere finanziamenti dalle banche senza una casa di proprietà da ipotecare e con il mutuo per gli studi ancora sulle spalle, i due amici decidono di ricorrere al crowdfunding con una campagna su Kickstarter nella quale alla fine del 2010 riescono a racimolare 40.000 dollari, 10.000 in più di quelli richiesti. In attesa di divenire operativi, Pipeworks (il nome sembra che derivi da un soprannome di Lewis al college, “l’idraulico”) produce occasionalmente qualche fusto appoggiandosi ad impianti altrui facendo crescere l’attesa per il proprio debutto in una metropoli che a quel tempo non aveva ancora abbracciato la “craft beer revolution” e  - brewpub esclusi - annoverava solo tre microbirrifici: Half Acre, Metropolitan e Revolution. Nel 2011 il Chicago Reader nomina Pipeworks “il miglior birrificio craft che ancora non esiste”. 
Oslon e Lewis, assieme a Scott Coffman che viene ingaggiato come head brewer, tagliano a marzo 2012 il nastro del locale di 250 metri quadri nel quartiere Bucktown: le prime bottiglie della Double IPA Ninja vs. Unicorn vanno esaurite in pochissimi giorni. Beejay Oslon, che ha frequentato una scuola d’arte e che ha tatuato la parola B-E-E-R su quattro dita della mano destra e G-E-E-K su quelle della mano sinistra, si occupa della grafica delle prime etichette e promette che “Pipeworks non farà mai la stessa birra due volte”, un credo poi smentito dal tempo: “siamo stati male interpretati – dirà poi – noi vogliamo rifare le birre che la gente vuole bere, ma siamo anche un gruppo di creativi e abbiamo moltissime idee strane che non riusciamo a controllare. E’ eccitante, uno stimolo a provare sempre qualcosa di nuovo. Quasi tutti quelli che lavorano al birrificio – diciassette persone, oggi -  danno il loro contributo alle ricette”. 
Nel 2013 Ratebeer incorona Pipeworks come “best new brewery al mondo del 2012" e in paio d’anni Pipeworks satura la propria capacità produttiva crescendo dai 500 ettolitri del 2012 ai 1800 del 2014: l’unico modo per continuare a crescere è trasferirsi in un nuovo capannone da 1500 metri quadri a quattro chilometri dal precedente e confinante con quello in cui si trova un altro microbirrificio di Chicago, Off Color. Il piano di espansione viene finanziato con un mutuo ventennale da 1 milione di dollari circa; il nuovo impianto da 35 ettolitri viene inaugurato nel 2015 assieme alle lattine che fanno il loro debutto a luglio. Nel 2016 gli ettolitri prodotti sono stati circa 7000, ma in cantiere c’è già l’acquisto di nuovi fermentatori per arrivare a 17.000 in pochi anni. Il birrificio non è attualmente visitabile e non dispone di taproom: è tuttavia possibile acquistare bottiglie e merchandising nel punto vendita chiamato The Dojo che si trova all’interno dei locali di produzione.

Le birre.
Da un birrificio che ama i beergeeks e che inizialmente dichiarava di “non voler mai fare la stessa birra due volte” è ovvio attendersi uno sterminato elenco di etichette tra le quali non è facile orientarsi. Accanto ad un nucleo di lattine prodotte tutto l’anno (Ninja vs. Unicorn Double IPA, Blood of the Unicorn Red Ale, Lizard Kind Pale Ale, War Bird Session Ale, Lil Citra Session IPA, Glaucus Belgian IPA e Close Encounter Black IPA) vi è una lunghissima serie di produzioni stagionali, occasionali e varianti della stessa ricetta, come ad esempio quindici diverse Abduction Imperial Stout. 
Partiamo dalla “Mosaic Pale Ale” chiamata Lizard King e venduta nella bella lattina la cui grafica dovrebbe essere opera dell’artista Jeff Kuhnie; disponibile inizialmente solo in fusto in alcuni locali di Chicago, questa birra è poi diventata una delle produzioni fisse di Pipeworks. Oltre al Mosaic la sua ricetta dovrebbe anche includere il luppolo Amarillo. Il suo colore è un dorato piuttosto pallido e velato, sormontato da una cremosa e compatta testa di schiuma bianca. Le poche settimane passate dalla messa in lattina permettono di godere di un aroma freschissimo e molto pulito: ci sono soprattutto agrumi, cedro e pompelmo, ma in secondo piano si scorge un ricco bouquet tropicale che rimanda a mango e papaya, maracuja, ananas e melone. Il bouquet si completa con qualche nota “dank” e di uva bianca. Al palato è molto morbida, con il giusto livello di bollicine per apprezzare un gusto che ricalca l’aroma e riesce ad essere “succoso” senza sconfinare negli eccessi del “juicy”. Un accenno biscottato rimane in sottofondo a supporto di agrumi e fragrante frutta tropicale, mentre l’epilogo è un amaro resinoso e vegetale di breve intensità e durata. Alcool molto ben dosato, chiusura abbastanza secca in una Pale Ale molto intensa e ruffiana quanto basta che si beve con impressionante facilità: fragranza e pulizia non mancano, l’eleganza è buona anche se ancora migliorabile. Nel complesso il livello è davvero molto, molto alto: occasionalmente si trova anche dalle nostre parti, inevitabilmente con qualche mese sul groppone.

Sure Bet è invece una Double IPA (9.5%) che se non erro viene prodotta una volta l'anno, solitamente nel mese di agosto. Citra e Mosaic i luppoli utilizzati, ma gli ingredienti fondamentali, in questa birra, sono altri: se la luce del sole è il cibo preferito dagli unicorni, al secondo e terzo posto ci sono rispettivamente miele e mango, secondo quanto ci racconta Pipeworks. Entrambi sono stati utilizzati nella ricetta, l'ultimo in forma di purea.
Il suo colore è un arancio opaco, mentre la schiuma biancastra è cremosa e compatta. Festa tropicale al naso, dove mango e ananas spopolano, lasciando in sottofondo profumi di biscotto zuccherato, miele, arancia. La bevuta prosegue in linea retta un percorso intensamente fruttato, molto pulito ed elegante, con l'ingrediente frutta usato molto intelligentemente e ben integrato nella birra. Il mango è ovviamente protagonista, al suo fianco ci sono altre suggestioni tropicali e agrumate a dare forma ad una Double IPA piuttosto dolce ma mai stucchevole e valorizzata dalla freschezza del recentissimo imbottigliamento. L'amaro resinoso è corto e serve solamente a bilanciare, l'alcool è nascosto benissimo ed è impressionante la facilità con la quale si beve una birra dall'ABV quasi in doppia cifra. Corpo tra il medio e il pieno, grande morbidezza al palato, bollicine quanto basta. Double IPA di ottimo livello, molto pulita e molto godibile anche per chi, come me, non sia un grande amante delle IPA alla frutta. 

Nel dettaglio:
Sure Bet, formato 65 cl., alc. 9.5%, imbott 08/2017, 10.99 $
Lizard King, formato 47.3 cl., alc. 6%, imbott. 09/08/2017, 2.75 $