Finalmente arriva sul blog anche Three Floyds, birrificio operativo dal 1996 nello stato dell’Indiana ma praticamente inglobato in quella enorme area urbana che circonda Chicago, Illinois. A fondarlo è Nick Floyd con l’aiuto del padre Michael e del fratello Simon in un edificio di mattoni a Hammond, Indiana, dove un tempo c’era un meccanico auto: “pagavamo 500 dollari d’affitto al mese, se avessimo aperto un brewpub da 500 metri quadri in Illinois ne avremmo pagati 5000”.
Nick ai tempi del college odiava la birra e non capiva come i suoi compagni potessero bere Budweiser o Old Style; è un viaggio in Europa a fargli scoprire quella buona e a spingerlo a iniziare con l’homebrewing quando è diciottenne. Al compimento del ventunesimo anno s’iscrive al Siebel Brewing Institute di Chicago e inizia poi a lavorare alla Florida Brewery di Auburndale e alla Weinkeller, un brewpub nei dintorni di Chicago ovviamente specializzato in stili della tradizione tedesca. Nel 1996, “stanco di far arricchire gli altri con il mio lavoro” Nick apre il Three Floyds Brewpub. L’investimento economico è ridotto ai minimi termini per evitare troppi debiti: l’impianto da 6 ettolitri, che egli stesso chiama Frankenstein, viene ricavato da un enorme bollitore alimentato da un fornello tipo “wok”, vecchi fermentatori aperti dimessi da un’industria casearia del Wisconsin e da serbatoi provenienti dalla Canfield Cola.
Il successo è quasi immediato e nel 2000 i Three Floyds acquistano un magazzino più grande nella vicina Munster dove viene installato un nuovo impianto da 40 ettolitri che inizia a produrre circa 11000 ettolitri continua a crescere del 20% anno dopo anno; nel 2005 il vecchio brewpub originale viene trasferito accanto al nuovo magazzino continuando ad essere alimentato da un mini-impianto separato con il quale i Floyds si divertono a sperimentare nuove ricette. “’Non è normale’ è il nostro motto” dice Nick “non c’interessa se al consumatore medio le nostre birre non piacciono. Vogliamo essere strani e diversi; molto microbirrifici prendono il loro nome da una città e mettono animali, montagne o alberi sulle loro etichette. Noi volevamo l’esatto contrario, ecco perché abbiamo queste etichette così strane" (molte delle quali realizzate dal designer e beer writer Randy Mosher).
Difficile parlare di Three Floyds senza chiamare in causa i beer-geeks ed il beer rating: Ratebeer lo proclama miglior birrificio al mondo nel 2007, 2009, 2010, 2011 e 2012. Nei due anni mancanti, 2006 e 2008, si piazza al secondo posto. La spinta arriva soprattutto dall’hype nato intorno all’imperial stout chiamata Dark Lord (imbottigliata a partire dal 2005) che viene messa in vendita solo una volta l’anno, solitamente l’ultimo sabato di aprile, nel corso di un evento per il quale dovete essere molto rapidi nell’acquistare i biglietti on-line, esauriti in pochissimi minuti. Quello dell’ultima edizione (180 $) permetteva a circa 6000 fortunati l’acquisto 4 bottiglie di Dark Lord più una variante a scelta.
In molti si sono domandati il perché del successo o culto di Three Floyds: birrificio di elevata qualità come però ce ne sono tanti altri negli Stati Uniti. O perché a gennaio 2012, quando debuttò l’American Pale Ale Zombie Dust, la gente si precipitò (letteralmente) di corsa al birrificio per acquistare le bottiglie che stavano uscendo dalla linea di confezionamento: in poche ore sparirono tutti i 1000 cartoni prodotti, ossia 24.000 bottiglie. La risposta – ovvia - è che Three Floyds è molto più che un semplice birrificio: è un marchio che include le fantasiose etichette, le barbe e i tatuaggi, l’heavy metal. E’ una grande operazione di marketing da parte di un birrificio in cui non c’è in verità nessuno che si occupa di marketing: è semplicemente lo stile di vita del fondatore Nick Floyd.
Three Floyds distribuisce regolarmente solamente in Indiana, Chicago e in alcune città del Wisconsin (Milwaukee e Madison); occasionalmente anche in alcune città dell’Ohio, dell’Illinois e del Kentucky. In un futuro sempre più prossimo ci dovrebbe finalmente essere la tanto attesa apertura di un secondo brewpub a Chicago (“ovunque ma non nel loop”, dice Nick); 65.000 gli ettolitri prodotti nel 2016 secondo i dati della Brewers Association: da qualche anno i Floyds hanno annunciato un nuovo piano di espansione da 10 milioni di dollari per arrivar ad un potenziale di 100.000 barili/anno (117.000 ettolitri).
A novembre 2016 è poi arrivato il birraio Todd Haug, fuoriuscito da Surly dopo il licenziamento della moglie, ora anche lei assunta dai Floyds. Una figura pressochè perfetta (barba, tatuaggi e heavy metal) per il marchio: “quando diedi le dimissioni da Surly mi arrivarono offerte di lavoro da mezzo mondo – dice Todd – ma io già sapevo quello che volevo fare: andare da Three Floyds”.
Le birre.
Iniziamo dalla Yum Yum, che il birrificio di Munster definisce un’American Session Ale, anche se l’ABV (5.5%) è un po’ oltre la soglia del sessionabile; i luppoli utilizzati non sono dichiarati, l’etichetta è opera dello studio di design Zimmer. Il suo colore oscilla tra il dorato e l’arancio ed è sormontato da un cremoso e compatto cappello di schiuma bianca. Il naso non è particolarmente intenso ma c’è pulizia ed eleganza di profumi floreali, arancia e pompelmo, qualche nota biscottata. Più intenso e convincente è invece il gusto che propone una delicata base maltata (biscotto, miele, caramello) a supporto dei luppoli: il dolce dell’arancia e del pompelmo ricorda più la marmellata che la frutta fresca, il finale è delicatamente amaro con un mix ben riuscito di scorza d’arancia, note terrose ed erbacee. Una (Session) Pale Ale bilanciatissima e facile da bere, ottimo mouthfeel, con una pulizia ed una precisione quasi chirurgica che però le tolgono un po’ di emozione.
Alpha King è la flaghsip beer dei Floyds; la ricetta originale risale al 1996 e, ricorda Nick, ”aveva 100 IBU quando tutti gli altri birrifici qui intorno non andavano oltre i 30”. La birra è stata negli anni un po' ammorbidita, diventando meno amara (68 le IBU dichiarate): dicono che la ricetta originale si sia oggi reincarnata quasi per intero nella Dreadnaught Imperial IPA. L’etichetta è opera dell’artista Phineas X. Jones dello studio Zimmer-design; i luppoli utilizzati non sono noti ma qualcuno parla di Centennial, Warrior e Cascade.
Il suo colore è un arancio carico velato, mentre la schiuma biancastra è cremosa ed ha un'ottima persistenza. Ad un mese dall'imbottigliamento l'aroma non è particolarmente intenso: note floreali e biscottate, marmellata d'agrumi, qualche spunto terroso. Il mouthfeel è invece perfetto: una APA/IPA morbidissima che scorre con grande facilità e soddisfazione per il palato. La tradizione del Midwest che vuole una base maltata non invadente ma comunque ben presente è rispettata: biscotto e miele supportano il dolce dell'arancia candita e della marmellata di agrumi. Niente da obiettare per quel che riguarda pulizia ed eleganza, chiude con un amaro d'intensità moderata dove la scorza d'arancia incontra il terroso. Alcool (6.5%) inavvertibile, grande bevibilità ed un equilibrio perfetto sono i pregi di un'American Pale Ale molto ben fatta. Ad un mese dalla messa in bottiglia non c'è tuttavia quella fragranza che t'aspetteresti, e anche qui la "perfezione" tecnica tende a sopprimere le emozioni.
Chiudiamo in crescendo con la Double IPA Apocalypse Cow, gradazione alcolica imponente (11%) e aggiunta di lattosio per ottenere un mouthfeel vellutato. Realizzata per la prima volta nel 2008, è una delle undici birre stagionali che Three Floyds produce ogni anno: il suo mese è giugno. Non so se il nome sia ispirato all'omonimo episodio dei Simpsons, trasmesso in quello stesso anno: l'etichetta è opera dell'artista Dan Grzeca.
Nel bicchiere si presenta di color arancio e, considerando la gradazione alcolica, la schiuma è piuttosto generosa ed ha un'ottima persistenza. Ananas, mango, mandarino, arancia e pompelmo formano un bouquet aromatico molto pulito ed elegante ma privo di quell'intensità esplosiva che ti aspetteresti da una (triple) IPA. Al palato è effettivamente cremosa ed estremamente morbida, e il suo corpo imponente, quasi pieno, non è comunque ingombrante. Lo stesso si può dire dei malti, biscotto e miele non tolgono assolutamente spazio ad una componente fruttata che richiama quasi in toto l'aroma. L'amaro (zesty, resina) è molto delicato e serve più che altro a bilanciare il dolce: l'alcool è molto ben dosato e dimostra almeno tre gradi in meno di quelli dichiarati. Non è quindi difficile sorseggiare questa "big beer" che sfoggia pulizia ed eleganza a livelli davvero alti. Spesso queste IIIPA rischiano di trasformarsi in dolcioni zuccherini o in bombe di resina e alcool che asfaltano il palato: al di là del nome "apocalittico", quella di Three Floyds è invece un riuscitissimo esempio di bilanciamento. Nel suo genere un piccolo capolavoro, solamente penalizzato da un'aroma un po' sottotono per quel che riguarda l'intensità.
A dispetto dell’immagine aggressiva che il birrificio veicola, tutte queste birre di Three Floyds mi hanno davvero stupito per avere le stesse caratteristiche: grande equilibrio, pulizia e facilità di bevuta.
Yum Yum, formato 35.5 cl., alc. 5.5%, IBU 63, lotto non riportato, 3.29 $
Alpha King, formato 35.5 cl., alc. 6.5%, IBU 68, imbott. 11/07/2017, 2.74 $
Apocalypse Cow, formato 65 cl., alc. 11%, IBU 90, imbott. 15/06/2017, 12.99 $
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