L’abbondanza lungo le coste dell’Inghilterra avevano reso le ostriche nella seconda metà del diciottesimo secolo “il pasto dei poveri”: per un penny se ne potevano acquistare quattro, ovviamente accompagnate da quella che era la bevanda più diffusa (e più economica) nelle public houses. Porter/Stout e ostriche divennero quindi il pasto tipico per migliaia di lavoratori, creando quell’involontario abbinamento gastronomico che ancora oggi conosciamo. La disponibilità di ostriche si ridusse drasticamente nel secolo successivo ed il mollusco riprese ad avere quello “status di pregio” che gli era stato riconosciuto dai romani sin dal primo secolo dopo Cristo: un simbolo di femminilità, nascita e suggestione afrodisiaca.
Non si hanno invece notizie precise riguardo la nascita della prima Oyster Stout: ad inizio del ventesimo secolo è noto che la Colchester Brewing Company produceva una Oyster Feast Stout in occasione della festa annuale che celebrava il raccolto di ostriche nei pressi del fiume Colne. E’ probabile che molte altre Oyster Stout – nessuna delle quali utilizzava realmente ostriche – siano nate per queste occasioni. E’ altresì provato che per un certo periodo l’estratto di guscio di ostrica fu usato nella produzione della birra come agente chiarificante, e quindi con una motivazione tutt’altro che gastronomica. La Oyster Stout di Marston, oggi rinominata Pearl Jet, fu probabilmente la Oyster Stout più diffusa e di maggior successo, ma anche lei non conteneva nessuna ostrica.
Vere ostriche sono invece state utilizzate dal birrificio scozzese Tempest (qui la loro storia) per produrre Double Shuck, una massiccia imperial stout (11%); per 2000 litri di mosto sono state impiegate 200 ostriche provenienti dall’isola di Lindisfarne e aggiunte a fine bollitura assieme a della paprika affumicata, a ricordare quelle ostriche affumicate che potete talvolta assaggiare negli Osyter Bar. Le ostriche erano state in precedenza bollite per 90 minuti; la ricetta fu realizzata per la prima volta nel luglio 2015 e prevede l’utilizzo del luppolo neozelandese Waimea, mentre per la rifermentazione in bottiglia viene utilizzato lievito champagne. Il termine “shuck” in inglese significa “guscio” ma con “to shuck” si indica anche “l’aprire le ostriche con un coltello", ovvero quello che hanno fatto i due birrai di Tempest per ben duecento volte in quel pomeriggio di luglio. L’etichetta è invece opera di Zuzana Kerdova.
Si presenta completamente nera e nel bicchiere forma un piccolo cappello di schiuma beige, cremosa e abbastanza compatta, dalla discreta persistenza. Carne affumicata, orzo tostato, fondi di caffè e liquirizia formano un aroma che si completa con note minerali; l'intensità è notevole, mentre pulizia e eleganza sono soltanto discrete. Il corpo, tra il medio e il pieno, è quello necessario a reggere una birra imponente: ci sono tuttavia un po' troppe bollicine per lo stile a rendere la bevuta meno morbida di quello che potrebbe essere. Al gusto l'affumicato è molto meno in evidenza rispetto all'aroma: è un'imperial stout ben bilanciata tra caramello, liquirizia, caffè e tostature, con queste ultime che aumentano d'intensità nel finale e vengono affiancate dall'amaro della resina. Una quasi impercettibile nota salina fa ogni tanto capolino, ma è sopratutto la componente minerale ad essere avvertita; la paprika, oltre all'affumicato, apporta un delicato calore che emerge sopratutto negli ultimi istanti della bevuta. E' un'imperial stout intensa ma non immune da imprecisioni, soprattutto per quel che riguarda pulizia ed eleganza; l'alcool è presente ma non disturba e la birra si sorseggia senza grosse difficoltà. Di spazio per migliorare ce n'è: bene ma non benissimo, considerando il prezzo del biglietto che si colloca in fascia alta.
Formato: 33 cl., alc. 11%, lotto 000331, scad. 16/11/2017, prezzo indicativo 7.00-8.00 Euro (beershop).
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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