mercoledì 29 aprile 2020

Destihl Privyet Russian Imperial Stout


Nel Natale del 1995 Matt Potts riceve in regalo dalla moglie Lyn un kit per homebrewing: è l’inizio di un hobby che andrà ad occupare tutto il suo tempo libero dalla propria attività di avvocato nel settore immobiliare. Amici e conoscenti apprezzano le sue produzioni casalinghe che vengono consumate in grandi quantità in feste nella sua casa nella campagna dell’Illinois. La passione e la confidenza nelle proprie capacità di fare la birra aumentano al punto che nel 1997 Potts acquista all’asta con alcuni soci un edificio in disuso e v’installa un impianto di  seconda mano proveniente da un birrificio fallito di Portland, Oregon: senza aver mai lavorato in un birrificio e senza aver mai seguito nessun corso professionale, nel dicembre 2001 apre le porte del brewpub Elmwood Brewing nell’omonima sperduta cittadina dell’Illinois. 
Spostiamoci ora a Normal, sempre Illinois, 200 chilometri a sud-est di Chicago: 50.000 abitanti, quasi la metà quali studenti che risiedono nel campus dell’Illinois State University.  Qui nel 2005 si sta progettando la realizzazione di una grossa area commerciale chiamata Shoppes at College Hills ed a Potts viene offerta l’opportunità di replicare il brewpub in un contesto dal potenziale maggiore:   lo seguono nell’avventura i soci Troy Nelson (ristorazione), Laurie Nelson e Jason Bratcher (amministrazione e finanza). Prima di trasferirsi definitivamente con la famiglia a Normal per l’inaugurazione del 23 novembre 2007 Potts trova anche il tempo di seguire un corso per la produzione della birra al Siebel Institute di Chicago dove s’innamora delle birre acide belghe. 
Il momento non è dei più favorevoli, la crisi finanziaria del 2007-2009 picchia duro ma Desthil Restaurant & Brew Works, questo il nome scelto, riesce a sopravvivere e ad aprire nel 2011 un secondo brewpub a Champaign, un centinaio di chilometri a sud-est. Il 2011 è anche l’anno in cui lo sconosciuto brewpub Desthil decide di partecipare per la prima volta al Great American Beer Festival: Potts porta con se dieci birre, sei delle quali sono acide fermentate e maturate in legno. A quel tempo non vi erano molti produttori che si cimentavano nello stile, lo stand di questo sconosciuto birrificio al festival viene preso d’assalto e per Desthil arriva la notorietà nella scena craft americana.  C’è un piccolo problema: produce solo fusti, non confeziona nulla e chi vuole assaggiare le birre deve per forza recarsi in Illinois. 
A marzo 2013 in un magazzino a Bloomington (Illinois) Desthil inaugura il primo impianto dedicato al confezionamento: per i primi mesi d’attività la produzione è esclusivamente destinata ad alimentare quelle botti che dopo un anno o più d’attesa restituiranno quelle birre acide che il pubblico vuole bere. La capacità produttiva di Desthil sale da 1.200 a 30.000 ettolitri barili all’anno: Potts prevede di saturarla in una decina d’anni ma nel giugno 2016 iniziano già i lavori per la costruzione di un nuovo stabilimento a Normal. Un investimento da 15 milioni di dollari per un edificio da 4500 metri quadri che ospita un impianto da 70 ettolitri destinato alle birre “standard”, una sour kettle da 280 ettolitri ed un impiantino pilota da 11 ettolitri; in cantina ci sono oltre 600 tra botti e foudres di legno.  Il nuovo sito produttivo, che sostituisce quello di Bloomington, potrà arrivare sino a 180.000 ettolitri all’anno: ciò ha consentito a Desthil di espandere la propria distribuzione in 30 stati americani ed occasionalmente anche al continente europeo. Chi volesse provare le birre in loco può recarsi al brewpub originale di Normal o alla Beer Hall adiacente al birrificio, tutti dotati di ristorante con cucina americana-contemporanea; il brewpub di Champaign dovrebbe essere invece chiuso proprio in questi giorni e riaprire in una nuova location.

La birra.
Privyet (“ciao”, in russo) è il nome scelto per la base utilizzata per la realizzazione della Dosvidanya, un'imperial  stout invecchiata in botti di bourbon che portò a Destihl la medaglia di bronzo al Great American Beer Festival del 2015.  Dosvidanya fu prodotta per la prima volta nel 2008 al brewpub di Normal:  era nata in occasione di una festa d’addio ad un dipendente del birrificio che aveva deciso di cambiare lavoro. 
La base Privyet è realizzata con malti 2-row, chocolate, black, caramel 120, munich, victory, extra special, orzo tostato, frumento,  lolle di riso (rice hulls) ed è disponibile nel periodo che va da ottobre a dicembre. Non è nera ma poco ci manca: la schiuma è cremosa, abbastanza compatta ma piuttosto rapida a collassare nel bicchiere.  L’aroma è quello giusto ma poco intenso e piuttosto “chiuso”, forse anche per colpa dei due anni passati dalla messa in lattina: tostature, fondi di caffè, accenni di melassa e liquirizia, fruit cake. Ma da qui in poi è tutto un crescendo, a partire da un mouthfeel sorprendentemente denso per una birra prodotta nel Midwest americano: corpo pieno, consistenza quasi masticabile, poche bollicine. E la bevuta è per “uomini duri”, di quelle che picchiano subito con tostature, torrefatto e un amaro ulteriormente potenziato da una generosa luppolatura resinosa. C’è anche posto per tabacco, cenere ed una necessaria controparte dolce che richiama melassa, fudge e frutta sotto spirito. L’alcool fa una bella progressione che sfocia in un finale piuttosto caldo che riscalda e rincuora. Bevuta densa, potente, intensa: non è un manifesto di finezza ma incarna perfettamente il prototipo di American Imperial Stout. Ottima.
Formato 35,5 cl., alc. 11.4%, IBU 80, lotto 04/12/2018, prezzo indicativo 5,00--6,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 28 aprile 2020

LoverBeer Nebiulin-a 2016


Del birrificio LoverBeer aperto a Marentino (To) nel 2009 da Valter Loverier vi ho parlato in più di un occasione e vi rimando a questo link se volete passare in rassegna tutte le birre che sono transitate sulle pagine del blog in questi anni. Passiamo subito alla sostanza, ovvero a quella Nebiulin-a che Loverier definisce una Sour Aged Fruit Ale: “volevo creare una birra che fosse un tributo alla birra del Belgio che amo di più: la geuze. Dopo aver collezionato tre annate di una base che amo definire Biére du Lambic ho pensato di “sposarla” con la frutta delle colline intorno a La Morra che servono per creare il prestigioso nettare del Piemonte”. 
Quello che trovate in ogni bottiglia è dunque un blend di tre annate diverse di una birra che fermenta in legno mediante inoculo di batteri lattici e lieviti selvaggi, tra cui brettanomiceti, al quale viene poi aggiunta uva Nebbiolo proveniente dall’Azienda Agricola Monfalletto di La Morra (Cuneo), di proprietà dal 1340 della famiglia Cordero di Montezemolo. L’azienda possiede attualmente 51 ettari di superficie vitata nel cuore delle Langhe che utilizza per produrre Barolo, Barbera, Nebbiolo, Dolcetto, Arneis e Chardonnay. 
Da quanto ho capito la prima edizione della Nebiulin-a è datata 2013 ma fu quasi  tutta destinata all’esportazione; a giugno del 2014 sono arrivate le prime bottiglie e i fusti anche sul territorio italiano. Il Belgio e le Langhe s'incontrano idealmente su di un'etichetta che ritrae la Grand Place d Bruxelles e il piccolo borgo collinare di La Morra sullo sfondo.



La birra.
Andiamo ad assaggiare una bottiglia di Nebiulin-a 2016: il millesimo si riferisce all'annata in cui è stata aggiunta l'uva al blend assemblato con birra prodotta negli anni 2013, 2014 e 2015. 
Si veste di un bel color ramato impreziosito da riflessi rosè e dorati; le poche bolle che si formano in superficie svaniscono alquanto rapidamente. All'aroma convivono con successo le note funky (legno, cantina, pelle di salame) con quelle fruttate di marasca, lampone, limone, qualche accenno di fragola e di ananas. Al palato ci sono pochissime bollicine: un elemento che purtroppo penalizza notevolmente la bevuta rendendola poco viva e meno fresca di quanto potrebbe essere. Con meno profondità, intensità e definizione si tenta di replicare il riuscito equilibrio aromatico: note lattiche, aspre (limone, marasca), lampone e un finale nel quale appaiono caldi accenni vinosi e di legno, ma la chiusura potrebbe essere ancora più secca.  Nel complesso è una buona bevuta che dà il meglio di sé nel profilo aromatico: una birra il cui elaborato processo produttivo si protrae per tre anni ed ha quindi un prezzo di vendita piuttosto elevato, sopra i quaranta euro al litro. Quando il biglietto è di primissima fascia si hanno elevate aspettative che in questo caso non vengono completamente soddisfatte. Tocca ripetere il classico "bene ma non benissimo".
Formato 37,5 cl., alc. 7.2%, lotto PNEB05-0217, scad. 12/2025, prezzo indicativo 15,00-17,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 22 aprile 2020

Adroit Theory Dia De Los Muertos Port Barrel (Ghost 706)


Adroit significa “abile e veloce nel modo di pensare e di agire”: questo è il nome scelto da Mark Osborne e dalla moglie Christina per il loro birrificio localizzato a Purcellville, Loudoun County, Virginia. Mark s’innamora della birra ai tempi del college mentre sta studiando all’estero, in Irlanda, dove scorrono fiumi di Guinness. Rientrato negli Stati Uniti non riesce più a bere quelle “fizzy yellow beer” che dominano il mercato: fortunatamente in Virginia e sulla East Coast non mancano le alternative “craft”.  Mark e Nina diventano poi titolari di un’impresa di tinteggiature, la Manor Works Painting, ma nei weekend visitano regolarmente birrifici ed iniziano a pensare di averne uno tutto loro.  Alla fine del 2011 viene fondato Adroit Theory che, con un nano impianto da appena 60 litri, era in quel momento il più piccolo produttore di tutta la Virginia: per quasi tre anni si va avanti a piccoli lotti sperimentali che vengono distribuiti soprattutto tra amici e conoscenti.
Il birrificio vero e proprio, con relativa taproom, apre le porte nel 2014 in un magazzino di 200 metri quadri: una sorta di speakeasy, nessun insegna, niente riscaldamento in inverno o aria condizionata in estate. Fusti, growlers e bottiglie (a mano) vengono vendute solo attraverso la taproom. 
In sala cottura c’è il birraio Greg Skotzko: a lui il compito di seguire le indicazioni di Mark e di elaborare delle ricette coerenti con le sue idee che vanno oltre la semplice birra. In Virginia ci sono tanti birrifici che fanno ottime birre, ma nessuno si stava spingendo oltre i limiti, nessuno pensava a birre sperimentali o aggressive. Sin dal primo giorno abbiamo deciso di non fare le stesse cose che tutti gli altri birrifici stavano facendo, e mi riferisco anche alle etichette o ai nomi delle birre”.   
Per farsi notare in un mercato craft sempre più affollato Osborne decide di sfruttare il suo amore per la musica e di creare un legame con la birra attraverso nomi e grafiche accattivanti. Il riferimento principale sono i Nine Inch Nails: le tre birre con le quali Adroit debutta sono un tributo al gruppo di Trent Reznor. B/A/Y/S (Black As Your Soul) è un’imperial stout che prende il nome da una frase del testo di Head Like A Hole;  l’imperial IPA  G/I/A/A (God Is An American) è invece un estratto dal testo del brano di Bowie “I’m Afraid of Americans”, poi remixato da Reznor. T/P/D (The Perfect Drug) è una saison chiamata esattamente come il singolo dei NIN pubblicato nel 1997. Ma non finisce qui: la strategia commerciale adottata da Adroit è quella di produrre in continuazione nuove birre per invitare la gente a tornare alla taproom ogni settimana a provare qualcosa di diverso. Ogni lotto, diverso dal precedente, viene catalogato con un codice simile a quello utilizzato dalle etichette musicali per la pubblicazione di dischi e CD: il codice alfanumerico scelto?  GHOST001, 002, etc.,  un altro riferimento diretto ai Nine Inch Nails
L’utilizzo dell’iconografia esoterica o che rimanda alla musica metal non è certo una novità per quel che riguarda la birra: tra i vari tentativi quello di Adroit è comunque ben riuscito e d'effetto. Dice Osborne: “io realizzo qualche bozza e poi lavoro con otto-nove grafici diversi, a  seconda del progetto. E’ fondamentale trovare la persona giusta alla quale affidare il concetto da sviluppare. Le nostre grafiche sono oscure e misteriose, mi piace che la gente le guardi e provi a decifrarle ma non mi focalizzerei troppo su quest’aspetto. Dopotutto si tratta di birra e prima di tutto dev’essere buona. Ma voglio anche che sia bella e artistica, come quando da ragazzo andavo nel negozio di dischi: si compra anche con gli occhi. Personalmente ho acquistato tantissimi dischi perché avevano una copertina e un libretto stupendo, e questo è quello che cerco di fare con le birre”. 
Il birrificio si dichiara specializzato in Hazy IPA, Sour alla frutta, Pastry Stouts e invecchiamenti in botte: praticamente tutto quello che i beergeeks amano bere oggi, ma non avere un nucleo fisso di birre e sperimentare di continuo comporta inevitabilmente qualche scivolone. I bevitori sembrano comunque apprezzare e Adroit inizia ad appoggiarsi ad impianti terzi, soprattutto quello della Old Bust Head in Viriginia, per aumentare la quantità e portare le proprie etichette anche al di fuori della propria area grazie alla Monarch Distribution gestita dalla moglie di Mark. Nei primi tre anni di attività Adroit produce 600 diverse birre,  o meglio sarebbe dire variazioni di alcune. Nel 2017 la coppia vende la propria impresa di tinteggiatura per concentrarsi a tempo pieno sul birrificio che nel frattempo si è dotato di un impianto più capiente da 10 barili; Bryan Younger sostituisce Skotzko in sala cottura. Anche la taproom viene abbellita e resa più confortevole: ci sono circa sedici spine ed una selezione di bottiglie e lattine. Non c’è cucina ma si possono addentare degli snack confezionati: occasionalmente è presente qualche food truck, in alternativa potete portarvi il cibo da casa o farvelo consegnare.

La birra.
Quando fu messa in commercio per la prima volta la Dia De Los Muertos diventò subito la birra di Adroit che andò esaurita più rapidamente e che fu più apprezzata dai beer-raters: alla Adroit, molto attiva sui social networks, ci tengono a farcelo sapere. La imperial  stout “base” (13%) ha poi originato una vasta serie di varianti barricate e non, spesso prodotte in poche centinaia di esemplari. Non è facile identificarle anche perché le varie versioni hanno tutte lo stesso nome e la stessa etichetta che si differenzia solamente per il colore della scritta. Quella che mi appresto a stappare oggi dovrebbe essere il lotto “Ghost 706” (informazione non riportata sulla bottiglia) imbottigliato a gennaio 2019: imperial stout  (13.7%) invecchiata in botti che avevano precedentemente contenuto del Porto.  Ne sono state prodotte solamente 300 bottiglie. 
Si presenta di colore prossimo al nero, la schiuma è cremosa, compatta ed ha una buona persistenza. Orzo tostato, fudge, caramello, accenni di caffè e di legno, un tocco di vaniglia: il bouquet è piuttosto intenso e abbastanza elegante, pur con margini di miglioramento. In bocca è leggermente oleosa e c’è inizialmente qualche bollicina in eccesso a non renderla esattamente morbida da sorseggiare: per fortuna migliora col passare del tempo. La bevuta è ricca di caramello, uvetta e prugna disidratata, frutta sotto spirito e fudge: non c’è quasi traccia d’amaro e l’alcool risulta fondamentale nell’attenuare una birra che rischierebbe di risultare troppo dolce. Il finale è l’unico momento nel quale mi parte d’avvertire tracce del liquido precedentemente ospitato nelle botti ma devo essere onesto: non avrei mai pensato al Porto se non l’avessi saputo. Il percorso termina con qualche strascico di cioccolato, di cenere e d’affumicato: una birra potente, dal contenuto alcolico importante (13.7%)  ma non una montagna da scalare: piuttosto una collina. Pulita e ben fatta, si sorseggia con calma senza troppe soste: livello piuttosto buono ma, per quel che riguarda profondità e finezza siamo ancora lontani dall’olimpo.
Formato 65 cl., alc. 13.7%, IBU 60, imbott. 25/01/2019, nr. 65/300, prezzo indicativo 15,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 20 aprile 2020

DALLA CANTINA: Evil Twin Freudian Slip 2014


Ve lo avevo già anticipato nell’autunno del 2018: Evil Twin non è più solamente una beerfirm ma anche un birrificio, da quando si sono aperte le porte dello stabilimento (15 barili) di Ridgewood, Queens, New York. L’impianto è stato acceso a gennaio del 2019 ma per gli appassionati la vera inaugurazione è quella che è avvenuta con molto  ritardo il 2 ottobre dello stesso anno: una taproom “informale e moderna”, luminosa e circondata dal vetro,  con 76 posti a sedere tra bancone e panchine da pic-nic, un patio esterno con  altre 185 sedute e food truck a rotazione. Qui potete vedere le immagini. 
L’impianto non soddisferà ovviamente tutto il fabbisogno di Evil Twin e la maggior parte delle birre che vengono distribuite in tutto il mondo continueranno ad essere prodotte altrove. Tuttavia il gemello cattivo Jarnit-Bjergso ritiene che “avere una taproom stia diventando sempre più importante in questo mercato competitivo; anni fa potevi aprire una qualsiasi taproom e la gente ci sarebbe venuta solo perché si trattava di un birrificio. Ora è diverso, devi renderla anche attraente per convincere la gente a venirci”.  Il costo dell’operazione è stato di circa quattro milioni di dollari, proveniente in parte dai guadagni ottenuti da Evil Twin e in parte da prestiti bancari. Jarnit e la moglie Maria hanno voluto seguire in prima persona ogni fase dei lavori: “sono ossessionato da Twin Peaks e quindi nella taproom riconoscerete alcuni elementi della serie, come ad esempio il bagno, il cocktail bar e cartello del Great Northern Hotel nella sala degli invecchiamenti in botte”.    
L’ex sala da ballo (o serra?), posseduta in precedenza da un altro immigrato danese, è stata completamente ristrutturata dagli architetti del Kushner Studios: oltre a sgabelli e panche ci sono spazi per la musica dal vivo, una sala per proiezioni cinematografiche ed altri eventi nel sotterraneo, un coffee shop operativo dalle 7 del mattino e anche uno “speakeasy bar”  dedicato ai cocktail: “non voglio che ci siano solo beer nerds seduti ad annusare le birredice Jarnit - ma che vengano anche famiglie e gente del posto che magari non ha mai sentito parlare di Evil Twin. Voglio che sia un luogo d’incontro. Ridgewood è una zona ancora in via di sviluppo e la cosa mi piace, è una sfida che accetto volentieri”.  
I beergeeks troveranno comunque pane per i loro denti: tra le venti spine non mancano pastry stout, milkshake IPA, sour alla frutta e – secondo il trend attuale -  lager e pilsner. I nomi delle birre del gemello cattivo sono sempre stati molto fantasiosi ma per la taproom di Evil Twin NYC Jarnit si è spinto ai limiti dell’assurdo:  “sono frasi che forse un newyorkese non direbbe mai, ma noi siamo in questa città e siamo fieri di esserci. Non prendiamoci però troppo sul serio e divertiamoci un po’”. Qualche esempio? Does This Subway Have Wifi? (Pale Ale),  Let’s Get Dinner In Times Square (DIPA), Your Apartment Is So Small. You Would Probably Find Something Larger For Less Money Outside of The City (NEIPA), Why Don’t We Just Take the Subway to JFK (NEIPA), It’s So Quiet and Peaceful Walking Across the Brooklyn Bridge (Pale Ale), THESE DRINKS ARE SO EXPENSIVE. DO I HAVE TO TIP?  (IPA), Scusa, Ma Parlo Solo Un Po' Di Macaroon Coconut (Pastry Stout), MY NEIGHBORHOOD HAS BEEN SO MUCH COOLER EVER SINCE THEY PUT IN ALL THE NEW CONDOS (Triple Milkshake IPA). Il maiuscolo non è un mio errore di trascrizione.

La birra.

Facciamo un salto indietro al 2014 quando Evil Twin era ancora solo una beerfirm: Freudian Slip, “il lapsus freudiano” è un American Barley Wine prodotto presso il birrificio Two Roads del Connecticut. Premetto che per me un Barley Wine è una birra da dopocena, da fine serata e quindi non sono un amante delle interpretazioni americane dello stile, molto luppolate ed aggressive: preferisco di gran lunga quelle inglesi. Il tempo dovrebbe comunque attenuare la componente amara di un American Barley Wine: ho quindi provato a dimenticare in cantina per un po’, per la precisione sei anni, questo Freudian Slip (10.3%). Vediamo che cosa è successo. 
Il suo vestito è di color ambrato, piuttosto opaco ma arricchito da intense venature rossastre; la schiuma è cremosa ed abbastanza compatta ma non ha molta ritenzione. Al naso note vegetali ed alcoliche si mescolano a quelle di caramello e melassa, uvetta e datteri, marmellata d’arancia ed arancia candita. Al palato nessun segno di cedimento: il mouthfeel è oleoso, la birra è ben carbonata e la bevuta è ancora potente. L’amaro resinoso/vegetale morde da subito e cresce ulteriormente d'intensità in un finale pepato e pungente; caramello, biscotto, uvetta ed altra frutta sotto spirito sono la componente dolce che si contrappone all'amaro senza velleità di protagonismo. L'alcool c'è e si sente, ma affrontarlo non è un problema; quello che piuttosto impressiona è la carica amara-luppolata che questo Barley Wine ha mantenuto dopo sei anni di cantina. Non oso immaginare come fosse fresco. 
Poche coccole da divano: birra dura e spigolosa che ha tuttavia un bell'incedere, anche se un po' monocorde. 

Formato: 35,5 cl., ala. 10.3, imbott. 12/05/2014, pagata 5,10 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 15 aprile 2020

Zmajska Pivovara: RIS & RIS Barrel Aged


Ammetto la mia completa ignoranza sulla birra artigianale croata ma anche in questo paese il motore è stato acceso e qualche evento è stato già organizzato anche in Italia. Ad oggi ci sono una quarantina di produttori tra birrifici e brewpub, un terzo dei quali concentrati ovviamente nella capitale Zagabria. Uno dei birrifici artigianali più popolari in città, nonché uno dei pionieri della scena craft croata, è Zmajska Pivovara, ovvero il "birrificio del dragone". Viene fondato nel 2013 da Andrej Čapka  homebrewer con esperienza decennale e figura di riferimento per molti produttori casalinghi croati: ha creato il forum Pivarstvo.info ed organizzato numerosi concorsi per homebrewers. Il nome scelto sembra sia stata la reazione di un amico di Čapka all'assaggio di una sua birra fatta in casa: "questa è un drago!".
Ad aiutarlo in questa rischiosa avventura ci sono i soci  Bojana Papa e  il socio  Hrvoje Čirjak; un  investimento complessivo di quasi 500.000 euro, metà dei quali finanziati dalla Banca Croata per la Ricostruzione e lo Sviluppo (HBOR), ha consentito di partire con un  impianto inizialmente sovradimensionato (2 ettolitri) ma orientato già al futuro. Zmajska ha debuttato con una Pale Ale ed una Porter in quello che allora era un formato piuttosto insolito per il mercato croato: bottiglie da 33 centilitri per birre da gustare e non da tracannare. Una rivoluzione nella rivoluzione. Il birrificio dispone oggi anche di un taproom (Kreše Golika 3a, Zagabria) con otto spine ed un'ampia selezione di bottiglia. 
A portare un po' di notorietà ci hanno poi pensato i siti di beer-rating. Nel 2015 l'allora influente Ratebeer nominava Zmajska come miglior nuovo birrificio croato del 2014 e la Porter non solo  miglior birra croata ma anche quattordicesima miglior porter al mondo. Per molti anni Čapka e soci hanno mantenuto lo scettro nazionale, cedendolo solo di recente: attualmente Untappd e Ratebeer mettono al primo posto Nova Runda che sta spopolando con la IPA C4, ma per entrambi i siti la miglior birra croata è ancora prodotta da Zmajska. Andiamola ad assaggiare.

Le birre.
Zmajska per molti anni non ha volutamente scelto nessun nome per le proprie birre: lo stile era sufficiente. Solo di recente il lento proliferarsi delle etichette ("solo" una trentina in sei anni di attività!) ha reso necessario scegliere qualche nome per differenziarle tra di loro. Ma le birre che sto per stappare appartengono ancora alla vecchia scuola e quindi basta la sigla RIS: Russian Imperial Stout, versione base ed invecchiata in botti di whiskey. 
Nel bicchiere si presenta quasi nera con un bella testa di schiuma cremosa e compatta. Al naso dominano tostato e torrefatto, cenere e tabacco, qualche accenno goloso di cioccolato fondente ma anche un lieve accenno di salsa di soia e di carne. Il mouthfeel non è affatto male: corpo medio-pieno, poche bollicine, leggermente densa ed oleosa, abbastanza morbida. La bevuta non brilla di fine e di pulito ma è comunque gradevole e bilanciata: caramello, liquirizia, frutta sotto spirito iniziano un percorso che vira progressivamente verso l'amaro delle tostature, dei fondi di caffè e della polvere di cacao. In secondo piano tabacco, cenere e una lieve salamoia in dosi ancora tollerabili. Alcool ben nascosto, finale non troppo lungo: una Imperial Stout (10.1%) facile da bere e piacevole, anche se non priva di qualche difetto.  

Partendo dalle premesse di una birra base con qualche piccolo problemino non avevo grosse aspettative sulla sua versione Barrel Aged (sei mesi in botti ex-whiskey, stessa gradazione alcolica) e temevo il naufragio: mi ha invece sorpreso in positivo. Mi sembra leggermente più scura della sorella mentre la schiuma è degna di nota. L'aroma è molto pulito ed il whiskey fa capolino tra caffè, cioccolato fondente, tabacco, frutta sotto spirito; a voler essere pignoli non c'è molta profondità ma il bouquet è molto piacevole. Al palato è un po' più leggera rispetto alla versione base: la facilità di bevuta ci guadagna ma avrei apprezzato un pochino di "ciccia" in più. Nel bicchiere c'è comunque un'Imperial Stout ben fatta e gustosa che parte dolce  (caramello, mou, frutta sotto spirito) per terminare amara come la sorella: fondi di caffè, tostature, polvere di cacao. Il whiskey proveniente dal passaggio in botte è ben dosato e si sposa benissimo col caffè in un finale caldo ed intenso, piuttosto lungo. Davvero una bella bevuta, pulita e bilanciata, piuttosto ben fatta.
Nel dettaglio: 
Zmajska  RIS, 33 cl. alc. 10.1%, IBU 85, lotto 113, scad.12/2021
Zmajska RIS Barrel Aged, 33 cl. alc. 10.1%, IBU 85, lotto 113, scad.12/2021

PS: ringrazio l'amico Alessandro che si trovava a Zagabria e mi ha portato le bottiglie: non conoscevo birre e birrificio, gli avevo chiesto solo di portarmi qualcosa di "scuro" in quanto avrebbero retto meglio il viaggio ed il caldo dell'estate 2019. Zmajska si è rivelata una piacevole scoperta.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 8 aprile 2020

Belgio, correva l'anno 2010: Chimay Bleue, Rochefort Trappistes 10, Liefmans Goudenband, Fantôme Saison 2010


Eccoci alla seconda parte dedicata al vintage belga; per chi si fosse perso la prima ecco il link. Oggi assaggiamo altre quattro birre che hanno passato dieci anni in cantina (per i più pignoli) al buio ad una temperatura variabile tra una media di 5-10 gradi in inverno e di 20 in estate, con qualche picco di 25 negli anni più torridi. Ricordo anche che il 90% della birra va bevuta fresca e che sono poche le birre che migliorano con il tempo. Gli effetti dell’ossidazione possono essere piacevoli o spiacevoli e spesso convivono: per quel che mi riguarda a parte rari casi considero l’invecchiamento così lungo una curiosità, non di certo una necessità. Un paio di anni invece su alcuni stili sono invece desiderabili e aiutano a smussare gli angoli e le irrequietezze della gioventù. Ma andiamo oltre e iniziamo a stappare.

Chimay Bleue (9%)
Da questa birra non mi aspettavo molto: nessun pregiudizio, in passato mi era già capitato di bere qualche bottiglia vecchia (anche se non così) ed il risultato era stato poco entusiasmante. E’ tuttavia una birra alla cui sono affezionato: quando la birra artigianale ancora non esisteva la Chimay Blu si teneva in serbo per qualche occasione speciale. Il suo colore è ambrato carico e piuttosto torbido; la schiuma è compatta ma poco persistente. Il naso è piuttosto ossidato e stanco: ciliegione, cartone bagnato, melassa, uvetta, datteri. La sensazione palatale non è invece male: il corpo non è particolarmente scarico e le bollicine sono ancora presenti. Anche il gusto si risolleva un po’: caramello e biscotto rispondono ancora presente, ci sono note liquorose e di vino marsalato, quasi una piacevole apparizione finale d’amaretto. L’alcool è ben dosato, il cartone ed il peso degli anni si fanno sentire ma la bottiglia non è un completo cadavere.  Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: 6/10.

Rochefort Trappistes 10 (11,3%)
La sua sorella minore 8 non aveva fatto male e quindi mi aspetto ancora di più dalla “mitica” 10: la sua tonaca di frate è molto torbida, la schiuma cremosa ha una discreta persistenza. L’aroma rincuora: Porto, uvetta, prugna disidratata, frutti di bosco, mela. Non è molto intenso ma riesce già a riscaldare l’animo.  In bocca è ancora solida: carbonazione media, nessun cedimento strutturale e la bevuta è potente, reminiscente di Porto e vino liquoroso accompagnati da biscotto, caramello e frutta sotto spirito. Non è quel capolavoro che mi era capitato d’assaggiare al quinto anno, non c’è quella bellissima suggestione di cioccolato finale ma è ancora una birra che emoziona. Il cartone bagnato appena si sente. Un’alternativa economica ad una bottiglia di Porto? Una Roch 10 di dieci anni. Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: 8/10.


Liefmans Goudenband (8%)
Lo ammetto: è la prima volta che bevo la Goudenband e non ho quindi nessun parametro di riferimento con una bottiglia giovane. Una mancanza imperdonabile la mia: quando si parla di Oud Bruin il nome Liefmans è un pezzo di storia fondamentale della tradizione belga. La famiglia fondatrice lo cedette nel 1974 e da quell’anno il birrificio cambiò più volte proprietario l’ultimo dei quali, la Riva di Dentergem, finì in bancarotta nel 2008. Il marchio Liefmans fu rilevato dalla Duvel-Moortgat. Non ho fonti esatte da citare ma per quel che ne so la Goudenband è pastorizzata e non ha quindi molto senso invecchiare una birra che è già “morta” alla nascita. Ma tant’è. Non fosse per la schiuma grossolana ed evanescente si direbbe infatti ancora perfetta: rosso rubino, acceso e luminoso, limpido. L’aroma parla di aceto di mela, tappo di sughero, ribes rosso: chiuso, “polveroso”, poco intenso e poco entusiasmante. Le poche bollicine e l’alcool fantasma la rendono pericolosamente facile da bere: non risulta tuttavia molto rinfrescante a causa della sua dolcezza.  Caramello, tanta ciliegia, prugna e frutti di bosco: per fortuna l’aceto di mela e l’asprezza del ribes seccano un po’ il finale e portano un po’ di equilibrio. Non trovo segni d’ossidazione al palato, probabile conferma di una pastorizzazione che ha quasi reso la birra immune al passaggio del tempo. Nel complesso la bevuta è gradevole ma fredda e plastica: nessuna emozione, nessun palpito. Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: ND.

Fantôme Saison 2010 (8%)
La Saison dell’eclettico Dany Prignon non è per definizione una birra da invecchiare: vero, le Saison storicamente erano bières de provision ma si parlava di qualche mese, non certo di anni. Oltre a questo c’è da dire che la costanza produttiva non è mai stata (ultimamente è migliorato, lo ammetto) la caratteristica principale di Fantôme: il rischio è quello di mettere in cantina qualcosa d’imbevibile già in partenza. Mi sono comunque voluto togliere lo sfizio d’invecchiare una Saison dalla gradazione alcolica robusta ed il risultato è stato sorprendente. Nel bicchiere è luminosamente dorata, la schiuma è ancora pannosa e generosa anche se molto rapida nel dissiparsi. Al naso c’è ancora quella speziatura indefinita  (pepe? coriandolo?) del lievito di casa Fantôme accompagnato da pera, arancia, accenni di frutta a pasta gialla e di uva, il tutto in un contesto rustico e ruspante. Le bollicine sono ancora vivaci e il fantasmino bianco scorre in bocca che è un piacere. Miele, frutta a pasta gialle, mela verde, agrumi, uva bianca: si direbbe una Saison nata ieri non fosse per quel carattere vinoso (moscato d’annata?) che fa capolino a più riprese. Chiude secca e un po’ amara (terroso, lattico), lasciando con molti interrogativi chi ha il bicchiere in mano: possibile che dopo dieci anni questa Saison sia ancora così piena di vita?  Un piccolo miracolo, una splendida vecchietta e no. Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: 9/10.

Considerazioni finali su queste altre quattro bottiglie: inutile invecchiare Goudenband e Chimay Bleue, per motivazioni diverse, una certezza la Rochefort 10 anche se l’avevo trovata migliore dopo “solo” cinque anni. Gli altri cinque potevo tranquillamente risparmiarglieli. Fantôme è la sorpresa che non t’aspetti: ho provato a metterne via una bottiglia quasi per gioco e il risultato è andato ben oltre le aspettative. La risposta alla domanda meglio fresca o dopo dieci anni è comunque facile: meglio fresca, una Fantôme in stato di grazia che odora di fragole alla panna è un’esperienza che non ha prezzo.

Nel dettaglio (i prezzi si riferiscono al momento dell'acquisto):
Chimay Bleue, 33 cl., alc. 9%, scad. 12/2015, pagata 2,50 € (supermercato)   34
Rochefort Trappistes 10, 33 cl., alc. 11,3%, scad. 26/05/2015, pagata 2,99 € (supermercato) 41
Liefmans Goudenband, 37.5 cl., alc. 8%, scad. 06/2020, pagata 3,19 € (drink store)  38
Fantôme Saison 2010, 75 cl., alc. 8%, scad. 12/2013, pagata 5,70 € (drink store) 42

lunedì 6 aprile 2020

Belgio, correva l'anno 2010: Rochefort Trappistes 8, St. Bernardus Abt 12, Struise Pannepot 2010, Cantillon Gueuze


Premessa: il 90% della birra va bevuta fresca ma se proprio volete provare a metterne qualcuna in cantina la tradizione belga è quella che forse meglio si presta agli esperimenti. Dark Strong Ales e Gueuze/Lambic possono regalare belle soddisfazioni anche dopo molti anni: alcune migliorano, altre diventano semplicemente diverse e non necessariamente più buone. Personalmente preferisco queste due categorie di birre con qualche anno sulle spalle ma sono gusti personali. Gli invecchiamenti più estremi meritano invece un discorso a parte: non c’è nessuna birra che meriti dieci anni d’attesa per poter essere bevuta al culmine del potenziale. Io la vedo come un gioco, un esperimento, un soddisfare la propria curiosità. 
Avevo in mente da un po’ di tempo stappare qualche birra belga dopo dieci anni dalla messa in bottiglia. L’emergenza Coronavirus ha reso un po’ più difficile accedere alla birra fresca e ho quindi sfruttato l’occasione per alleggerire un po’ la cantina. Ecco la prima parte del racconto delle bevute; visto che le birre “fresche” sono già comparse sul blog in altre occasioni mi limiterò alle note di degustazione rimandandovi al link originale per le informazioni più generali sulla birra stessa. Tutte le birre sono state conservate al buio ad una temperatura variabile tra una media di 5-10 gradi in inverno e di 20 in estate, con qualche picco di 25 negli anni più torridi.

Rochefort Trappistes 8 2010 (9.2%)
L’aspetto è molto bello per la sua età: tonaca di frate, riflessi rubino, schiuma ancora generosa, spumeggiante e compatta. Al naso sono svanite le spezie tipiche del lievito di casa Rochefort e dominano gli esteri fruttati, in verità un po’ sparati e molto sciropposi: mela, ciliegia, persino fragola e frutti di bosco. Al palato è ancora ben carbonata e non ci sono grossi cedimenti di corpo. La bevuta è molto più bilanciata rispetto all’aroma: biscotto, caramello, uvetta, datteri e ciliegia, bei richiami di Porto e, nel finale, di frutta secca a guscio. Qualche nota cartonata non rovina una birra che è invecchiata con dignità, soprattutto in bocca, e che si beve con piacere: l’alcool è ben nascosto e si fa sentire solo nel finale. Qui l'avevo bevuta dopo "solo" tre anni e m'aveva fatto un'ottima impressione.
Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: 7/10.


St. Bernardus Abt 12 2010 (10%)
La più trappista tra le non trappiste (LINK) sembra essersi schiarita col tempo: ambrata, torbida, schiuma ancora sorprendentemente generosa e compatta. Tra le varie componenti il naso è quello che è invecchiato peggio: mela, pera, frutta secca, sciroppone di ciliegia, qualche nota di polvere/sughero gentilmente donatale dal tappo. Le bollicine sono ancora ben presenti ma il corpo mostra qualche segno di cedimento: caramello, uvetta, frutta secca e ciliegia disegnano una bevuta molto più equilibrata rispetto al l’aroma. L’ossidazione le ha portato dei piacevoli spunti di vino liquoroso ma anche un’astringenza finale cartonata poco gradevole: per fortuna si riprende in fretta con un piacevole retrogusto di prugna e uvetta sotto spirito. L’età non sembra averle donato molta saggezza/complessità: i tratti positivi e negativi si equivalgono anche se il naso è quello che ha “sofferto” di più. A quattro anni mi sembrava molto meglio.
Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: 6/10. 

Struise Pannepot (10%)
L’etichetta indica il millesimo 2010 ma credo sia stata commercializzata l’anno successivo. Avrà quindi nove o dieci anni? Poco importa, i millesimi in casa Struise vanno sempre presi con le molle. Visivamente è quella che ha sofferto maggiormente: poca schiuma che scompare quasi subito, color ebano scuro. Ma che bel naso! Porto, marsala, melassa, frutti di bosco, prugna disidratata, marmellata di more, accenni di cioccolato. In bocca non ci sono grossi cedimenti: è ancora morbida, ben carbonata, dal corpo medio. Il gusto ricalca l’aroma con buona precisione: è una birra ricca di note marsalate e di vino fortificato, calda ed avvolgente. Annoto una lieve astringenza finale (bustina di tè/cartone) ma è un dettaglio che non rovina una bella festa. Sono forse gli Struise che oggi purtroppo non ci sono più e che procedono tra alti e bassi: difficile chiedere ad una Pannepot d’invecchiare e di emozionare meglio. Qui il confronto con un vintage di sei anni,
Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: 8/10. 

Cantillon Gueuze 2010 (5%)
Quella che prevedevo essere la miglior bottiglia di questo lotto non ha deluso le aspettative. La Gueuze 100% Lambic Bio "base" di Cantillon si veste come una giovincella: oro antico, leggermente velato e schiuma generosa e compatta, dalla buona persistenza. Legno, polvere, cantina, pelle di salame, uvaspina, mela verde, limone, accenni di ananas e frutta a pasta gialla, qualche sbuffo acetico. Serve altro? Sfido chiunque ad indovinarne l’età in un assaggio alla cieca: bollicine ancora vivaci, corpo medio, nessun cedimento. La bevuta ricalca fedelmente l’aroma: la parte sour è sostenuta da un bel sottofondo dolce di ananas e frutta a pasta gialla, la componente acetica è fortunatamente molto contenuta. Chiude secca, funky e legnosa, con un delicato e morbido warming etilico: emozionante, profonda, complessa ma semplice da bere.
Coefficiente di resistenza all’invecchiamento: 9/10. 

Riassumendo: benissimo Cantillon, piacevole sorpresa Struise, niente di ché Rochefort e St. Bernardus. Tutte tranne forse Cantillon hanno già superato il loro picco e avrei potuto/dovuto berle qualche anno prima. Ma non è una grossa scoperta dire che gueuze e lambic giocano un campionato a parte: se sia valsa la pena aspettarla dieci anni, piuttosto che cinque, è una domanda alla quale non ho risposta.

Nel dettaglio (i prezzi si riferiscono al momento dell’acquisto)
Rochefort Trappistes 8, 33 cl., alc. 9,2%, scad. 22/07/2015, pagata 2.89 € (supermercato)
St. Bernardus Abt 12, 75 cl., alc. 10,5%, scad. 06/2015, pagata 5,60 € (drink store)
Struise Pannepot 2010, 33 cl., alc. 10%, lotto A, scad. 02/2016, pagata 3,20 € (beershop)
Cantillon Gueuze, alc. 5%, 75 cl., lotto  17/03/2010, scad. 12/2030, pagata 7,90 € (drink store)