Pochi chilometri a sud del centro di Chimay, nella provincia belga dell’Hainaut, nella vallata di Scourmont, si trova l’Abbaye de Notre Dame; una decina di monaci cistercensi provenienti da Westvleteren la edificarono 1850. I monaci iniziarono quasi subito (1862) a produrre birra e formaggio; sembra che la prima birra realizzata a Scourmont fosse una bassa fermentazione chiamata Bavaria, ispirata a quelle che venivano prodotte a Dortmund, rimpiazzata dopo alcune cotte da una Brown Ale presumibilmente basata su una ricetta elaborata a Westvleteren. E’ probabilmente a partire dal 1875 che il monastero decide di commercializzare la birra per reperire risorse economiche necessarie al proprio sostentamento. A quel tempo venivano prodotte una birra leggera, che i monaci bevevano quotidianamente servendosi direttamente dalle botti di legno, ed una più forte, maturata in botti catramate all’interno; fu questa – chiamata Biere Forte - ad essere imbottigliata e venduta all’esterno. L’abbazia de Notre-Dame de Scourmont, divenne così il primo monastero trappista a commercializzare birra e, di conseguenza, ad utilizzare la denominazione di “birra trappista”; ma fu anche il primo ad utilizzare le bottiglie da 75 cl. che venivano chiuse con tappo di sughero.
Le due guerre mondiali lasciarono il segno anche a Scourmont con il “solito” sequestro dei bollitori di rame da parte degli invasori tedeschi; fu Jean De Clerck, nel secondo dopoguerra, a rimettere in piedi il birrificio del monastero. De Clerck (1902-1978), emerito professore all’università di Leuven ed espertissimo “brewing scientist” (impossibile definirlo solo “birraio”) è da considerarsi l’artefice della ricostruzione post-bellica belga ed uno dei personaggi più influenti personaggi dell’industria brassicola europea del ventesimo secolo. Nel 1948 pubblicò il suo Cours De Brasserie (A Textbook of Brewing) in due volumi, poi tradotto in inglese nel 1957 ed in tedesco nel 1964; un testo che è stato (e forse lo è ancora?) la bibbia per moltissimi studenti ed aspiranti birrai.
Padre Théodore venne “obbligato” da De Clerck a frequentare 120 ore dei suoi corsi all’università di Lovanio; assieme al Professor Dropsy, un collaboratore di Jean, il monaco selezionò - con pazienza benedettina – e coltivò il ceppo di lievito che viene ancora oggi utilizzato per produrre tutte le Chimay. Furono loro i responsabili della rinascita e del “successo”, se così si può chiamare, che le birre del monastero trappista hanno riscosso in tutto il mondo; fu Padre Théodore, negli anni ’70, ad insistere affinchè i vecchi impianti di produzione venissero sostituiti con altri più nuovi, più capienti e più efficienti, nel 1988. Se percorrete oggi la strada principale che attraversa la cittadina di Chimay, nel mezzo di una rotatoria potete ancora vedere uno dei vecchi bollitori in rame che ora funge da arredo urbano.
Al contrario dei “fratelli” di Westvleteren, i monaci di Scourmont scelsero di crescere per far fronte all’aumento di domanda: oggi l’abbazia è uno dei principali datori di lavoro della (non particolarmente ricca) regione dell’Hainaut. Quasi tutte le attività (produzione, commerciale, amministrativa) vengono oggi svolte da terzi che agiscono sotto la supervisione dei monaci, che non devono essere distratti da quella che resta la loro attività principale: la preghiera. A Baileux (10 km.) vengono prodotti i formaggi ed imbottigliate le birre, che vengono trasportate con autobotti. Dal pensionamento (1991) di Padre Théodore, l’ultimo monaco mastro birraio, anche la produzione di birra all’interno del monastero avviene per opera di birrai laici. A Jean De Clerck, morto nel 1978, venne concesso “l’onore” di essere sepolto nel cimitero adiacente all’abbazia.
Come per tutti i birrifici storici, anche su Chimay si è da tempo aperta una discussione sul cambiamento (= minor qualità) delle birre nel corso degli anni: le “accuse” sono riassunte in questo articolo di Roger Protz del 2005. Sostituzione dei luppolo con l’estratto di luppolo, utilizzo di estratto di malto e – in percentuale significativa – di amido di frumento. Nel corso di alcune conversazioni con Michael Jackson, padre Théodore confermò di utilizzare, a partire dagli anni ’50, estratto di luppolo. La ricetta della Chimay Bianca, da lui elaborata nel 1966, prevede l’utilizzo esclusivo di estratto di luppolo “per meglio controllare e rendere stabile il livello di amaro nelle diverse cotte”. I monaci di Scourmont hanno rotto il silenzio solamente in pochissime occasioni per confermare che le ricette non sono state cambiate e sono ancora quelle elaborate da Padre Théodore; dal 1992 la birra non matura più in vasche aperte ma in più moderni maturatori conici chiusi. Il lievito – dicono i frati – si adatta all’ambiente in cui “vive” e questo è secondo loro l’unico cambiamento avvenuto.
Dopo tante (troppe?) parole, è il momento di bere; identificata solamente dal colore del tappo (blu) nel formato da 33 cl., la birra più “forte” del monstero trappista prende invece il nome di Grande Réserve nel più generoso (e più indicato per l’invecchiamento) formato da 75 centilitri. Venne prodotta per la prima volta nel 1948 come birra natalizia, entrando poi in produzione stabile e continuativa – a furor di popolo - a partire dal 1954.
La Chimay Bleue ha le caratteristiche necessarie per essere una birra da invecchiare in cantina: è scura, ha un contenuto alcolico rilevante (9%), non è una birra che fa del luppolo la sua “ragione d’essere”. E mi permetto di aggiungerne altre due: è facilissima da reperire, ha un costo accessibile. A confronto oggi due bottiglie: una del 2010 ed una del 2014, anno in cui tutta la gamma Chimay è stata sottoposta ad un bel restyling delle etichette secondo me molto azzeccato.
La giovane Bleue 2014 si presenta con la sua tonaca da frate impreziosita da bei riflessi rossastri, quasi rubini: da manuale l’ampia schiuma, ocra, cremosissima e compatta, molto persistente. Leggermente più torbida e meno brillante la 2010, con sfumature più ambrate che rosse e con piccoli fiocchi di lievito in sospensione: la schiuma è un po’ più scura ma meno abbondante e meno persistente. Discretamente intenso e molto pulito, il naso della 2014 offre sentori di pera, uvetta e prugna, zucchero caramellato, un accenno di pasticceria che personalmente mi ha ricordato i torcetti al burro. Buona parte di questi elementi ritornano anche nell’aroma della 2010: uvetta e prugna, caramello, biscotto al burro, con l’aggiunta di fichi e datteri disidratati. E’ presente una leggera ossidazione responsabile sia di interessanti e gradevoli sfumature che ricordano il porto, che di qualche lieve sentore di cartone bagnato.
Ancora più evidenti le differenze al palato: normale che la 2014 sia vivacemente carbonata, un po' spigolosa al palato ma tutto sommato abbastanza morbida e godibile, dal corpo medio. Molto più docile il mouthfeel della 2010, che appare più rotonda, oleosa, lievemente più corposa e molto più morbida.
Per entrambe il gusto è relativamente semplice e segue la strada indicata dall'aroma: caramello, biscotto, prugne ed uvetta per la 2014, con l'alcool forse persino troppo nascosto per una birra con questo contenuto alcolico, dalla quale ti aspetteresti un po' più di calore; ed il warming arriva, proprio a fine bevuta, ad asciugare il palato dal dolce per permettere di gustare il caldo retrogusto abboccato di frutta sotto spirito. Si spinge ancora più sul dolce la 2010, con qualche nota di porto affiancata da quelle del caramello, del biscotto, dell'uvetta e della prugna. L'alcool è un po' più in evidenza, per una birra calda, morbida ed avvolgente che mostra un po' il segno degli anni nel finale, dove l'ossidazione si porta con sé anche qualche live nota allappante.
Due birre non troppo diverse tra di loro, con la mia preferenza che va senz'altro per la 2010, meglio amalgamata, meno "spigolosa", meno carbonata e più armoniosa della 2014, nonostante mostri già qualche "ruga" di vecchiaia. Ancora troppo carbonata la 2014 (una caratteristica che personalmente riscontro - e che non amo - in tutte le trappiste scure giovani), pulita e ben fatta ma non particolarmente memorabile. Decisamente più appagante la bevuta della 2010: difficile dire quanto potrà ancora resistere in cantina, ripeterò l'assaggio di un'altra bottiglia tra qualche anno per verificarlo.
Chimay Bleue 2010: formato 33 cl., alc. 9%, lotto 10-083, scad. 12/2015, pagata 2.50 Euro (supermercato, Italia)
Chimay Bleue 2014: formato3 3 cl., alc. 9%, lotto 14-334, scad. 12/2019, pagata 1.99 Euro (supermercato, Italia)
Nota: la “recensione/descrizione” della birra bevuta è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
L'ossidazione si fa davvero strada facilmente in questa birra.
RispondiEliminaLe mie lapidarie impressioni di qualche anno fa su 2008 vs 2011 vanno nella stessa direzione.
http://berebirra.blogspot.it/2012/02/orizzontale-e-verticale.html
interessante report, grazie.
Eliminada qui non sembrerebbe adatta ad invecchiamenti molto prolungati. ne lascio un paio di bottiglie in cantina, vediamo tra qualche anno se sono ancora bevibili o se sono da lavandinare..
Ciao da ex. importatrice di Birra Chimay x Italia, confermo la perfetta conservazione di bottiglie tappo Blu. annata 1990 aperta 2015 = indimenticabile l'emozione. Viviana
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