martedì 31 gennaio 2017

CraftCountry Brewery: Smasher & Miyamato

Anche in Tirolo, regione sud-orientale delll'Austria, la craft beer revolution ha iniziato a muovere i primi passi, sebbene in maniera molto più compassata e lenta rispetto non solo al resto del paese ma anche alla vicina Germania. La "capitale" Innsbrück ha ora un interessante bar dedicato alla birra "artigianale" e ad Hall in Tirol, a dieci chilometri di distanza, è operativo dal 2014 il microbirrificio CraftCountry.
Lo fondano Jürgen Ladstätter e Simon Wabnig, il primo dei due folgorato nel 2012 durante un lungo soggiorno negli Stati Uniti dai profumi e dai sapori dei luppoli americani. Rientrato in Tirolo, dove  non c'era nessuna possibilità di accedere a quel tipo di birre, Ladstätter decide di iniziare a farsele in casa assieme ad alcuni amici. La passione si trasforma in un business plan che parte nel 2014 con i lavoro di costruzione della CraftCountry Brewery, inaugurata nel 2015 e già ampliata nell'anno appena concluso: oggi il birrificio produce su di un impianto da 20HL con 120HL di capacità nei fermentatori, e dispone di una linea d'imbottigliamento automatica. Sono al momento cinque le birre prodotte regolarmente: una hoppy lager, una pils, una amber ale, un'american pale ale ed una stout.

Le birre.
Smasher è una Amber Ale che dichiara un generoso dry-hopping di vari luppoli (americani?) non specificati. Nel bicchiere è giustamente ambrata e forma un generoso cappello di schiuma ocra, cremosa e compatta, molto persistente. Difficile risalire all'età della bottiglia in mio possesso: la scadenza è aprile 2017 ma non sono sicuro che il birrificio dia una shelf life di un anno. Fragranze e freschezza non sono le caratteristiche principali dell'aroma ma il risultato non è tuttavia disastroso: c'è una piccola macedonia di frutta, con elementi tropicali (mango, papaia, maracuja), melone e agrumi, soprattutto pompelmo. La frutta molto dolce, quasi zuccherata, ritorna anche in bocca ed è ben amalgamata con il caramello e il biscotto; si chiude con un amaro di discreta intensità ma di breve durata, tra resina e pompelmo. Nel retrogusto affiora un po' di cereale, mentre la sensazione palatale, leggera e con qualche sconfinamento di troppo nell'acquoso, è tutt'altro che memorabile. Scorre bene ma con poca personalità questa Amber Ale: al di là di un aroma fruttato dolce e un po' ruffiano non c'è davvero nulla che la possa far ricordare, se chi beve ha già un po' di esperienza con i luppoli americani. Meglio pensare a lei come ad una delle poche alternative alle blande basse fermentazioni industriali che hanno il monopolio nei locali di questa regione dell'Austria: il gusto sicuramente ci guadagna, ma non ci sono da fare i salti di gioia.

Passiamo alla Miyamato, una Pale Ale prodotta con luppoli giapponesi non specificati e, se leggo correttamente l'etichetta in tedesco, acqua trattata con calcio di corallo fossile Sango. Anche lei è ambrata, leggermente più chiara della sorella Smasher e forma un altrettanto impeccabile cappello di schiuma biancastra, cremosa e molto compatta. Mango e papaya, caramello e bubble gum sono i protagonisti di un aroma dolce che tende a suggerire la frutta candita e la marmellata; del cocco dichiarato tra le note gustative in etichetta, nessuna traccia. Il gusto mostra buona corrispondenza con l'aroma con biscotto e caramello a sostenere il dolce del bubble gum e della frutta tropicale. Ma mentre la Smasher chiudeva con un timido crescendo amaro, questa Miyamato  va nella direzione opposta, di fatto spegnendosi e scivolando nell'acquoso, eccezione fatta per una velocissima nota amara (resina, terra). L'intensità complessiva è abbastanza modesta e anche qui c'è molta poca personalità, con il risultato di una birra bevibile che  - devo ripetermi - lascia molto poco a chi ha un palato già lontano dalle birre industriali.
Due birre "artigianali/craft" piuttosto timide, o in versione 1.0, che ricordano un po' la scena italiana di sette-otto anni fa: lavori in corso e tanta strada da fare, almeno per CraftCountry. All'estremo opposto occidentale dell'Austria c'è invece chi riesce a produrre birre di ottima fattura e personalità.
Nel dettaglio:
Smasher, formato 33 cl., alc. 5%, IBU 42, scad. 07/04/2017, prezzo indicativo 1.99 Euro (supermercato, Austria).
Miyamato, formato 33 cl., alc. 5.5%, IBU 47, scad. 07/04/2017, prezzo indicativo 1.99 Euro (supermercato, Austria).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 30 gennaio 2017

The Bruery Share This: Coffee

A maggio 2016 il birrificio californiano The Bruery annuncia la nascita della "Share This", ovvero una serie di imperial stout che saranno realizzate utilizzando ogni volta alcuni ingredienti diversi selezionati da Patrick Rue. 
Il fondatore del birrificio spiega che "quando abbiamo iniziato a pensare agli ingredienti che volevamo utilizzare, ci siamo resi conto che di solito provenivano dalle regioni più povere del mondo. Realizziamo le nostre birre (nel formato da 75 cl., nda) affinché siano condivise tra più persone e, andando un po' oltre in questo caso, siano condivise anche con quelli che beneficiano del nostro aiuto". The Bruery ha infatti deciso di donare in beneficienza un dollaro per ogni birra prodotta. 
La serie viene inaugurata a giugno 2016 con una massiccia imperial stout chiamata Share This Coffee per la quale viene utilizzato caffè della varietà  Bourbon & Catimor proveniente dalla fattoria della famiglia Cagat che si trova sull'isola di Mindanao, nelle Filippine; il caffè è stato poi tostato dalla torrefazione Mostra Coffee di San Diego.  
Il ricavato di un dollaro a bottiglia è stato donato alla Free Wheelchair Mission (FWM), un'organizzazione no profit  nelle Filippine che fornisce sedie a rotelle a persone che vivono nei paesi in via di sviluppo. "Grazie alla partnership con The Bruery - racconta un rappresentante della FWM - saremo in grado di restituire la mobilità a 550 persone nelle Filippine che potranno così tornare ad avere una vita sociale. Con la sedia a rotelle restituiremo a chi la riceve anche dignità, indipendenza e speranza".

La birra.
Non è nera ma poco ci manca e genera una bella testa di schiuma color cappuccino cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L'aroma è ovviamente dedicato al caffè, sia in chicchi che espresso, ma non solo: ci sono indizi di cacao, liquirizia e qualche nota terrosa, etilica, di pelle/cuoio. Bene la pulizia, discreta l'intensità che tuttavia si prende subito la rivincita al palato: è un'imperial stout imponente ma non ostica, che scorre senza intoppi. Poche bollicine, consistenza oleosa, corpo tra il medio ed il pieno ed un bel carico di caffè ed intense tostature che sono bilanciate dal dolce di caramello, liquirizia e un discreto residuo zuccherino.  Si chiude con caffè e tostature, una lieve nota terrosa e anche una leggerissima astringenza, il tutto imbevuto nell'alcool per un retrogusto caldo, potente e morbido al tempo stesso; il formato da 75 cl. è ovviamente da condivisione ma è una birra che si può comunque sorseggiare senza grossi sforzi. 
Imperil stout pulita, intensa, bilanciata e ben fatta, di livello molto buono ma non eccelso; quando si beve Bruery si parla purtroppo quasi sempre di cifre considerevoli: lecito quindi pretendere un'adeguata ricompensa/soddisfazione, ma in questo caso a mio parere il viaggio  - seppure gradevole - non vale  del tutto il prezzo del biglietto. 
Formato: 75 cl., alc. 11.9%, IBU 35, lotto 315, imbott. 03/05/2016, prezzo indicativo in Europa 18/20,00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 29 gennaio 2017

Pyraser Kellerbier

Pyras, paese nel quale vivono circa duecento anime e che si trova una quarantina di chilometri a sud di Norimberga, nella Baviera: qui dal 1870 la famiglia Bernreuther conduce la Pyraser Brauerei.
Ma la tradizione si può addirittura far risalire al 1649, anno in cui l'immigrato austriaco Hanns Bernreuther arriva in Franconia ed acquista una fattoria che, come era solito a quel tempo, produce anche birra. Dei suoi dieci figli almeno otto si dedicano alla birra, sia gestendo fattorie che ristoranti. A Pyras si stabilisce per primo Johann Adam Bernreuther: è il 1749 quando ventenne acquista la fattoria Zum Angerwirt, dedicandosi soprattutto al legname. Il birrificio arriva solamente nel secolo successivo, quando le attività della fattoria sono messe in crisi dalla limantria, una  farfalla parassita capace di defogliare qualsiasi albero; dovendosi reinventare una professione, Adam Bernreuther sceglie la produzione di birra. 
Friedrich Bernreuther ha il compito di far rinascere il birrificio dalle sventure della seconda guerra mondiale, ma è sopratutto il figlio Georg, subentrato nel 1969 alla prematura morte del padre, a compiere importanti lavori di ammodernamento e di espansione. Dal 2010 il birrificio Pyraser è guidato da Marlies Bernreuthe, figlia di Georg, a quel tempo la più giovane donna bavarese proprietaria di un birrificio: aveva trentun anni. E' lei ad introdurre le prime novità all'interno di una gamma di birre sino ad allora rispettose della tradizione e dell'editto di purezza: nasce la Pyraser Herzblut, marchio col quale vengono prodotte alcune Bierspezialitäten. Arrivano una Imperial Pale Ale, una Doppelbock invecchiata in botti di whisky (Oaked Whiskey Ultra) e la Belgian Strong Ale chiamata Achims Grand Cru. Ad affiancare Marlies c'è il giovane birraio Achim Sauerhammer che ha raccolto il testimone dal padre Helmut, birraio per Pyraser dal 2001.

La birra.
Restiamo sul classico con una bottiglia di Pyraser Kellerbier: viene prodotta con malti Monaco e Pilsner, luppoli Perle, Hersbrucker, Select. Il suo colore è ambrato, con riflessi ramati e un cremoso cappello di schiuma biancastra, fine e compatta, dalla buona persistenza. Al naso profumi di miele millefiori e camomilla, cereali ma anche qualche puzzetta (skunk) dovuta ad un'eccessiva esposizione alla luce. Che la tradizione tedesca imponga la facilità di bevuta è un dato di fatto ovvio, ma in questa bottiglia di Kellerbier di Pyraser la caratteristica viene portata all'estremo. La birra scivola subito nell'acquoso con poche bollicine ed un corpo abbastanza esile: l'intensità del gusto non l'aiuta a risollevarsi, con pane, miele e cereali che cercano di non annegare nell'acqua. In bocca anche un leggero diacetile, ma a rovinare quel poco che c'è arriva una poco gradevole nota di cartone; chiude con un passaggio amaro velocissimo che riesce ugualmente a dare qualche impressione di gomma bruciata. 
Una bevuta piuttosto deludente, con tutte le giustificazioni del caso di una bottiglia che mi sembra essere stata un po' maltrattata: ma al di là di qualche difetto, quello che colpisce maggiormente è l'intensità davvero bassa. 
Formato: 50 cl., alc. 4.8%, IBU 18, scad. 07/06/2017

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 28 gennaio 2017

De la Senne / Bruton: Racines

Collaborazione italiana numero tre per il birrificio di Brussels De la Senne, sempre molto attivo nel realizzare birre assieme ad altri colleghi provenienti da tutto il mondo. Dopo la Taras Runa con Montegioco e la Schieve Funambolo con Toccalmatto, tocca al birrificio toscano Brúton: a febbraio 2016 Jacopo "Apo" Lenci e Andrea Riccio s'incontrano a tavola con Yvan De Baets e Bernard Leboucq per discutere i dettagli della ricetta. Il luogo scelto è il ristorante italiano Racines di Brussels, al quale la birra viene poi dedicata. 
Si tratta di una saison prodotta con farro della Garfagnana e, per la rifermentazione in bottiglia, brettanomiceti; la cotta si svolge in aprile e la birra viene imbottigliata verso la fine di maggio. In etichetta il logo del ristorante Racines e dei due birrifici: il toro di Bruton e l'uomo De la Senne simile a quello che compare sull'etichetta della Stouterik.

La birra.
Nel bicchiere si presenta di colore oro pallido, leggermente velato e sormontato da un esuberante cappello di bianca schiuma pannosa, un po' scomposta ma dall'ottima persistenza. I brettanomiceti dichiarati in etichetta non si nascondono e vanno subito a caratterizzare l'aroma con le loro note lattiche: yogurt, affiancato da profumi floreali e di limone. Il sottofondo è funky, con sudore e pelle di salame.
Vivacemente carbonata, in bocca è molto agile e leggera, con una scorrevolezza davvero elevata. Lieve è anche la base maltata: un tocco di crackers e poi la bevuta ritorna sui binari tracciati dall'aroma. Anche qui dominano i brettanomiceti in una birra acida, caratterizzata dal lattico e dalle note funky: oltre al "brett" non c'è però molto altro, e i lieviti selvaggi si ritrovano un po' da soli. Bisogna attendere che la birra si scaldi parecchio per vedere un po' più di equilibrio con l'emergere di una componente fruttata (agrumi, ananas) che finalmente arricchisce una bevuta facile ma - sino a questo momento - anche un po' troppo semplice. 
Molto secca, è ovviamente dissetante e rinfrescante grazie alla sua acidità: la sua sessionabilità non è in discussione e il rapporto qualità-prezzo è tutto sommato accettabile considerando che oggi, quando si parla di brettanomiceti, ci si sposta subito in fascia alta. 
Formato: 33 cl., alc. 4.2%, lotto 19/05/2016, scad. 19/05/2017, prezzo indicativo 4.00/4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 27 gennaio 2017

Kees Caramel Fudge Stout

Ritorna sul blog anche il birrificio olandese Kees che avevamo incontrato non molto fa. Il fondatore, Kees Bubberman, è un personaggio già noto ai birrofili europei e non: per sette anni  (2007-2014) è stato il birraio presso il birrificio Emelisse prima di presentare le dimissioni nell’autunno 2014.  Acquistato il vecchio impianto da 25 hl dagli inglesi di Magic Rock e aggiunto sei fermentatori, a febbraio 2015 ha prodotto il primo lotto di East India Porter alla nuova Brouwerij Kees!, che si trova ad una ventina di chilometri di distanza da Emelisse ed ha un potenziale annuo di circa 1800 hl.  
Il database di Ratebeer elenca 52 birre prodotte in quasi due anni di attività, praticamente una nuova ogni quindici giorni. La gamma delle otto birre prodotte tutto l’anno (Double Rye IPA, Export Porter 1750, Peated Imperial Stout, East India Porter, Pale Ale Citra, Barley Wine, Just Another IPA, Session IPA, Mosaic Hop Explosion) è stata affiancata dai primi invecchiamenti in botte (Barrel Project) e da una serie di one-shot o produzioni stagionali. 
Nell’ultimo periodo anche Kees ha imboccato la strada delle aromatizzazioni: oltre ad una “innocua” Grapefruit IPA e ad una Pale Ale Citra Papaya & Chilli Infused, ha di recente realizzato alcune birre “strane” (disney o “pupazze”, a seconda di come volete chiamarle) che si spingono nella direzione di dessert in forma liquida: una porter al cocco (Mutiny On The Bounty) una Vanilla Crème Brûlée Stout, la natalizia  Xmas Chocolate Muffin e la potente Caramel Fudge Stout: proviamola.

La birra.
Caramello e cioccolato sono i due ingredienti aggiunti ad una birra che utilizza luppoli Summit e Cascade, giusto per la cronaca. Ci sono sostanzialmente due approcci alla realizzazione di questo tipo di birre: una caratterizzazione molto delicata che apporta dei semplici dettagli arricchenti la birra, la quale rimane comunque l’indiscussa protagonista. L’altro si muove all’estremo opposto:  scompare la birra, gli ingredienti aggiunti trionfano in maniera sfacciata per stupire il bevitore che, in assenza di punti di riferimento noti, si trova spaesato nei confronti di quelli che ha nel bicchiere:  amore o odio, questione di gusti personali. Sfortunatamente, per le mie preferenze, questa Caramel Fudge Stout si colloca nella seconda categoria.
Debutta alla fine del 2015 e si presenta nel bicchiere di colore ebano scuro, con venature rossastre; la generosa testa di schiuma che si forma è cremosa e compatta ed ha un'ottima persistenza. L'aroma mette subito in evidenza la volontà di una birra che ha deciso di sacrificarsi per diventare una sorta di dessert: cioccolato al latte, gianduia e soprattutto tantissimo caramello. Dolce e zuccherino, il  risultato non brilla certo di eleganza e risulta un po' artificioso. Non ci sono ovviamente grossi cambiamenti al palato, dove questa Caramel Fudge Stout continua il suo percorso nell'abbondanza di caramello/fudge e cioccolato al latte ben riscaldati da un contenuto alcolico importanti (11.5%) che cresce man mano che la bevuta avanza e riesce in qualche modo a contrastare il dolce. L'etichetta dice "stout" ma non vi aspettate di trovare molte tostature o caffè nel bicchiere: l'amaro, che arriva a fine corsa, è sopratutto luppolato e la resina non è esattamente l'accompagnamento ideale ad un dessert.  L'incontro-scontro è evidente e lascia piuttosto perplessi, nonostante nel retrogusto arrivi un po' di cioccolato a riportare la birra (?) sui binari del dessert.
Mi trovo sinceramente in difficoltà ad esprimere un'opinione su questa Caramel Fudge Stout: il gusto personale quasi m'impedisce di descriverla oggettivamente. Se avete intenzione di bere una birra, sicuramente questa bottiglia non fa per voi; dopo un paio di sorsi, come è capitato a me, avrete probabilmente voglia di bere qualcos'altro. Se invece siete per le birre-non-birre alla Omnipollo, annotatevela sul taccuino. Non è probabilmente al livello della beerfirm svedese, ma ne può rappresentate una valida alternativa low cost.
Formato: 33 cl., alc. 11.5%, IBU 45, lotto 16.64, scad. 11/2019, pezzo indicativo 5.50/6.50 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia  e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 26 gennaio 2017

DALLA CANTINA: Birrificio del Ducato L'ultima Luna 2009

Nuovo appuntamento con “dalla cantina”, dedicato al vintage. Per l’occasione restiamo nel nostro paese stappando una bottiglia de L’Ultima Luna del Birrificio del Ducato: si tratta di un Barley Wine che viene invecchiato in botti che hanno ospitato Amarone della Valpolicella.  Era il 2009 e il birrificio guidato da Giovanni Campari annunciava la nascita della “Linea Il Tempo”, dedicata ovviamente agli affinamenti in botte; si partiva con una ventina di barriques e l’intenzione di aumentarne il numero nella cantina di Roncole Verdi in concomitanza con la messa in funzione del nuovo impianto di Fiorenzuola. 
Come spiega il birraio Campari, “l’ultima luna è la birra che ho ideato per celebrare la nascita del mio primo figlio, matteo. Ricordo che durante i mesi dell’attesa ho pensato a lungo alla birra che gli avrei dedicato, volevo che fosse profonda, complessa, evocativa e che si potesse destinare ad un lungo invecchiamento. Decisi di utilizzare botti usate di Amarone (uno dei miei primi amori in campo enologico), ma riempite solo per 2/3 del loro volume, in modo tale da favorire l’ossidazione della birra con l’aria (un omaggio al mio passato in Andalusia, ai vini ossidati di una terra in cui ho lasciato un pezzo di cuore). La birra (se così la si può ancora chiamare) avrebbe dovuto originariamente invecchiare 9 mesi, ma con l’esperienza ho capito che l’invecchiamento minimo per questa birra è di 36 mesi. In etichetta ci sono delle citazioni di Dalì e Saint-Exupéry, l’immagine del bambino che solleva surrealisticamente il mare è un chiaro riferimento a Matteo”.

La birra.
Dalla cantina una delle bottiglie del primo lotto de L’Ultima Luna, anno 2009; l’etichetta indica  un invecchiamento di almeno nove mesi in botte. Se non erro per le edizioni successive il periodo di maturazione è stato prolungato a 24 mesi variando a seconda del millesimo.
Il suo colore è un torbido tonaca di frate, con riflessi ambrati; l’assenza di schiuma non è una sorpresa, solo qualche bolla grossolana si forma ai lati del bicchiere. L’aroma è dolce e caldo, avvolgente: zucchero caramellato, toffee, frutti di bosco (more, mirtilli), prugne disidratate, fichi; in sottofondo legno e cuoio, accenni di vaniglia.  Le ossidazioni conducono nel territorio di vini liquorosi, porto e madeira, apportando anche nota sanguigna.  Al palato arriva piatta, con una viscosità oleosa a renderla morbida e – tocca ripetermi – avvolgente. Anche qui gli aspetti “meno nobili” dell’ossidazione (sangue, cartone) non pregiudicano una bevuta complessa e appagante: vinosa e liquorosa, calda e suadente, si sviluppa su di un percorso fatto di uvetta, prugna, frutti di bosco, caramello. Di tanto in tanto si scorgono pelle e cuoio, legno, una nota leggermente salina.  Il dolce è magistralmente asciugato dall’alcool in un finale ricco di tannini, con una leggerissima ma percettibile astringenza. Anche lei assolutamente perdonabile, perché a questo punto la birra è già scomparsa: il retrogusto è un lungo e dolce abbraccio di vino liquoroso, che riscalda cuore ed animo. 
La scadenza indicata in etichetta è 2050: ad otto anni dall’imbottigliamento L’Ultima Luna è ancora una gran bella bevuta nella quale le prime rughe iniziano però ad affiorare; nonostante il tempo sia un buon amico di queste birre, se ne avete una in cantina vi inviterei ad aprirla senza rischiare di andare oltre. Non ho osato “lasciare le bottiglia aperta per berla dopo circa tre mesi per innalzare il livello del godimento”, come piace fare al suo creatore Giovanni Campari. Magari ci proverò alla prossima occasione.
Formato: 33 cl., alc. 13%, lotto 175 09, scad. 12/2050

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia  e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 25 gennaio 2017

Pinta Vermont IPA

La Polonia è in fermento e i birrifici/beerfirm locali, sostenuti da una domanda interna che si colloca ai primi posti in Europa, continuano a sfornare birre su birre e ad aprire taproom o pub di proprietà.  Uno dei pionieri e dei protagonisti di questo movimento è Browar Pinta, beerfirm con sede legale a Żywiec, nel sud est della Polonia e fondata da Ziemowit  Fałat,  Grzegorzem Zwierzyną e Marka Semlę, che già avevo ospitato in questa occasione
Aperta nel 2010, ha inaugurato nel giugno 2014 il bar Viva la Pinta in centro a Cracovia; Il fondatore (e birraio) Ziemek è anche socio del sito Browamator che vende materiale per homebrewing e,  da quanto leggo, autore di libri ed articoli su come fare la birra in casa.  
Nel 2015 Pinta ha inaugurato una serie di birre chiamata “Miesiąca”:  ogni mese il birrificio fa uscire una novità esclusivamente in fusto, a produzione limitata (100 fusti, di solito uno in ogni locale). In caso di riscontro positivo da parte del pubblico valuta se produrla in maggiore quantità e se farla entrare in produzione stabile. Le birre sono annunciate solo pochi giorni prima del vernissage nei pub selezionati. Il mese di agosto 2016 ha visto il debutto della Vermont IPA: c’era in effetti da meravigliarsi del fatto che nessun microbirrificio polacco, in una scena dove il luppolo è venerato, avesse ancora pensato ad emulare le ricercatissime Juicy/Cloudy IPA del New England. Pinta dichiara tuttavia che non si tratta di un tentativo di emulare quelle birra ma piuttosto di trovare un punto d’incontro tra il  carattere “succoso” della East Coast  e quello “amaro” della West Coast, al quale evidentemente i beergeeks polacchi  non intendono rinunciare.

La birra.
La ricetta viene realizzata dal birraio Ziemowit Fałat assieme a Paul Maslowski; per la produzione ci si appoggia agli impianti del birrificio Na Jurze di Zawiercie. Vengono utilizzati malti Premium Pilsner e Pale Ale, luppoli Citra Centennial, Mosaic e  Columbus, lievito S-04. 
Non filtrata, nel bicchiere è effettivamente opaca ma non torbida quanto una Juicy/Cloudy IPA del New England: il suo colore si trova tra l’arancio ed il dorato, con una testa di schiuma appena biancastra compatta e cremosa, dall’ottima persistenza.
Aroma fresco ed intenso, ma con pulizia ed eleganza ampiamente migliorabili: ananas, arancia dolce, pompelmo zuccherato, mango sono gli elementi che compongono la macedonia di frutta.  Il mouthfeel non ha la cremosità che una New England IPA richiederebbe ma è ugualmente morbido e gradevole: la scorrevolezza è buona ma non ottima, l’alcool si fa sentire secondo quanto dichiarato (6.1%) in etichetta. Il gusto è effettivamente “succoso” e carico di frutta: un tocco caramellato e biscottato supporta il tropicale (mango, ananas?) ed il pompelmo, anche se il livello di pulizia non è tale da farti cogliere la pienezza di quei frutti.  Il finale amaro e resinoso, benché di modesta intensità, riesce ugualmente a grattare un po’ il palato;  la chiusura non è molto secca, con una lieve patina dolciastra che rimane sempre ad avvolgere il palato.  
Nel complesso è una IPA di buona intensità e molto fruttata, godibile e ancora piuttosto fresca, anche se un po’ grezza: rimangono i problemi che “affliggono”  quasi tutte le IPA polacche che mi è capitato d’assaggiare, ovvero pulizia ed eleganza ampiamente migliorabili. Il rapporto qualità prezzo (siamo tra gli 8/9 euro al litro qui in Italia ) è comunque buono e la si perdona senza grossi rimpianti, a patto di non pretendee una "copia" di una IPA del New England.
Formato: 50 cl., alc. 6.1%, IBU 54, scad. 15/06/2017, prezzo indicativo 4.00/4.50 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia  e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 24 gennaio 2017

Hoppin' Frog / Cigar City DareDevils Got Game

2016 ricco di collaborazioni per il birrificio dell’Ohio Hoppin' Frog,  fondato nel 2006 dal birraio  Fred Karm ad Akron; il birrificio esporta in Europa dal 2008 e ha voluto nuovamente collaborare, ripetendo l’esperienza del 2012, con alcuni birrifici del nostro continente. 
L’Hoppin Frog 2016 European Collaboration Tour chiama a raccolta i danesi della Dry & Bitter per una Baltic Porter, la beerfirm To Øl (SS Stout),  gli inglesi di Siren (la piccante 5 Alarm) e i norvegesi di Lervig con la massiccia Sippin' Into Darkness Imperial Stout che (nota personale) mi devo decidere a stappare al più presto. 
L’unica collaborazione realizzata nella madre patria, se non erro, avviene invece con Cigar City, birrificio che si trova a Tampa (Florida), fondato da Joey Redner e guidato dal birraio Wayne Wambles.  L’incontro si prospetta davvero interessanti, in quanto entrambi producono delle ottime imperial stout. Dalla Florida arrivano le (quasi) introvabili Marshal Zhukov e Hunahpu (quest’ultima prodotta solo una volta l’anno), mentre dall’Ohio ci sono le più facilmente reperibili B.O.R.I.S. e D.O.R.I.S., affiancate dalla nuova nata T.O.R.I.S. 
DareDevils Got Game, ovvero “i temerari sanno il fatto loro”: questo il nome scelto da Kelemen e Wambles: “l’abbiamo chiamata così perché entrambi ci sentiamo dei temerari nell’industria della birra; spesso realizziamo prodotti innovativi come questo, dagli standard qualitativi così elevati che diventeranno esempi da seguire”. 

La birra.
DareDevils Got Game è una massiccia Imperial Stout prodotta con avena, caffè e liquirizia italiana; debutta negli Stati Uniti a giugno 2016. Al solito le  Hoppin’ Frog non recano nessuna indicazione sulla data d’imbottigliamento: ipotizzando che anche questa risalga alla scorsa estate, si tratta di una bottiglia con sei mesi di vita: non proprio il massimo per una birra al caffè, ingrediente che tende ad affievolirsi abbastanza rapidamente. 
Il bicchiere si colora di nero e viene sormontato da una testa di schiuma nocciola, cremosa anche se un po’ scomposta, dalla buona persistenza. Al naso domina il caffè, in chicchi e macinato: buona l’intensità, ottima l’eleganza; l’accompagnano, molto in secondo piano, profumi di orzo tostato e liquirizia. Il minaccioso ed oleoso liquido versato nel bicchiere si rivela al palato meno proibitivo del previsto: corpo medio pieno, poche bollicine ed una consistenza che sembra privilegiare la scorrevolezza rispetto alla morbidezza. La bevibilità, considerata l’importante gradazione alcolica (10.4%) è piuttosto buona. La partenza è dolce di caramello, melassa e liquirizia che progressivamente vanno scemando lasciando emergere il caffè e le eleganti tostature: la bevuta è pulita e molto ben bilanciata, con l’alcool a diffondere un delicato calore che non disturba mai. Il livello d’amaro, rinforzato dalla resinosa luppolatura, aumenta nel finale con un bel crescendo di caffè e torrefatto che, sempre ben accompagnato dall’alcool, caratterizza anche il lungo retrogusto, impreziosito da accenni terrosi e di cioccolato fondente. 
Una Imperial Stout molto ben fatta e pulita, con pochi elementi in gioco disposti in maniera eccellente e bilanciata in ogni suo aspetto: non si trovano tutti i giorni birre così intense e potenti che si riescono a bere con davvero poco sforzo.
Formato: 65 cl., alc.  10.4%, IBU 60, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo in Europa 18/20 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 23 gennaio 2017

BrewDog Elvis Juice

Nasce come prototipo a metà 2015 la prima IPA al pompelmo di BrewDog chiamata Elvis Juice. Al solito, i bevitori sono invitati ad esprimere la propria preferenza scegliendo, tra le varie bottiglie sperimentali che ogni anno il birrificio scozzese realizza, quali dovrebbero entrare in produzione stabile. Questa prima versione prevede malti Extra Pale, Monaco ed una luppolatura di Amarillo, Simcoe, Centennial e Magnum; oltre al pompelmo, viene anche aggiunta l’arancia rossa. 
La birra risulta uno dei prototipi vincitori e a marzo 2016 i primi fusti arrivano nei vari BrewDog bar; il debutto non poteva che essere alla “BrewDog”, ovvero eccentrico: si parla di Grapefruit Pay.  Dal 4 marzo chiunque si presenti al bancone con un pompelmo  in mano riceverà gratuitamente una mezza pinta di Elvis Juice, con il limite di una a testa.; i pompelmi raccolti saranno poi utilizzato per produrre un nuovo lotto di birra.  La ricetta definitiva viene leggermente modificata: malti Extra Pale e Cara, luppoli: Magnum, Amarillo, Simcoe, Citra e Mosaic. 
E’ tutto? Ovviamente no, quando c’è di mezzo BrewDog anche una semplice IPA al pompelmo diventa un caso di ben più vaste proporzioni. Alle Elvis Presley Enterprises (EPE), azienda nata per occuparsi della gestione del patrimonio della The Elvis Presley Trust, fondazione creata nel 1979 alla morte del cantante,  non piace molto l’idea che il birrificio possa sfruttare il nome Elvis per una birra. Lo scorso ottobre 2016 è partita un'azione legale dagli Stati Uniti che credo sia ancora in corso. 
La risposta dei fondatori di BrewDog James Watt e Martin Dickie è ancora una volta singolare: entrambi firmano un atto unilaterale per cambiare il proprio nome in Elvis. Il nuovo Elvis Watt dichiara: “abbiamo fatto notare agli avvocati della fondazione Presley che il nome Elvis non è una loro esclusiva. Per sottolineare l’amore che proviamo verso la nostra IPA al pompelmo, abbiamo cambiato i nostri nomi; da oggi la Elvis Juice è dedicata a noi, i birrai un tempo chiamati James e Martin. Potremmo persino iniziare un’azione legale contro il sig. Presley per aver utilizzato i nostri nomi sui suoi dischi senza il nostro permesso”. Ed Elvis Dickie aggiunge: “suggeriamo alle Elvis Presley Enterprises di indirizzare la loro attenzione verso un’altra potenziale fonte di reddito: un birrificio che produce una birra chiamandola “The King of beer” (Budweiser, nda.)”. 
Ed in quel secondo weekend di ottobre 2016, a qualsiasi persona chiamata Elvis che si presenti munita di carta d’identità in un BrewDog bar del Regno Unito venne offerta una mezza pinta di Elvis Juice.

La birra.
Il suo colore, leggermente velato, si trova tra l'arancio ed il ramato, con riflessi dorati: la schiuma biancastra è cremosa e compatta ed ha un'ottima persistenza. L'aroma mette ovviamente in evidenza il pompelmo, ma non c'è una dittatura: emergono profumi floreali e di frutta tropicale, sopratutto mango. In sottofondo un po' di caramello ed anche qualche meno gradevole nota saponosa; intensità e freschezza non brillano, ma nel complesso è un bouquet gradevole. Il gusto mostra buona corrispondenza con l'aroma: caramello e biscotto costituiscono la base maltata, molto discreta, sulla quale si sviluppa un percorso che parte da un lieve fruttato tropicale e vira poi deciso sul pompelmo. Pensate ad un frutto spremuto e zuccherato senza parsimonia. Il pompelmo prosegue la sua corsa facendo un po' a spallate  con l'amaro finale, un po' resinoso e vegetale, non molto elegante: i due elementi sembrano quasi respingersi anziché amalgamarsi. Sparito l'amaro, ritorna il pompelmo.
C'è poi sempre quella patina leggermente dolciastra (no, non il diacetile) che avvolge il palato a fine bevuta, un tema ricorrente in quasi tutte le BrewDog che mi capita occasionalmente d'assaggiare: ne risulta una birra più accomodante ma poco secca e che perde una buona parte del suo potere dissetante e rinfrescante. Il risultato complessivo è discreto, anche se ben lontano dall'eccellenza: tanti per darvi un termine di paragone, la High Wire Grapefruit di Magic Rock viaggia su ben altri livelli qualitativi. 
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 40, lotto 160767, scad. 29/10/2017, pagata 2.79 Euro (supermercato, Austria).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 22 gennaio 2017

Vleteren Bruin 12° Oak Barrel Aged

Risale all'ultimo ventennio del diciannovesimo secolo la fondazione del birrificio St. Antonius a Woesten, frazione di Vleteren, Fiandre Occidentali. Quasi completamente distrutto nel corso della prima guerra mondiale, come ma la maggior parte degli edifici di quella zona del Belgio, venne ricostruito nel 1919 e nel 1925 acquistato da Jozef Decaestecker. Il nome viene quindi modificato in Brouwerij Decaestecker e, dopo qualche anno, abbreviato semplicemente in Deca. 
Nel 1980 il birrificio fu acquistato da Georges Christiaens che lo ha guidato sino al 2013 anno in cui morì, all'età di ottantatre anni, in uno spaventoso incidente stradale sulla A19 nel quale, a causa della nebbia, furono coinvolti oltre 130 veicoli. Il testimone è quindi passato nelle mani del figlio Nicolas. 
La produzione di birra alla Deca era andata progressivamente diminuendo nel corso del tempo: sino alla metà degli anni '90 l'azienda operava principalmente come un magazzino distributore di bevande, producendo soprattutto bibite analcoliche. L'inversione di rotta si ha quando Christiaens decide di iniziare a produrre per conto terzi: dopo alcuni olandesi, sono Nino Bacelle e Guido Devos, ovvero il birrificio De Ranke, a stabilire la propria casa presso la Deca. Una decina di anni dopo furono altri due ex-homebrewers, Urbain Coutteau e Philippe Driessens, ovvero De Struise Brouwers, a rendere "famosi" gli impianti della Deca. 
Per quel che riguarda la produzione propria, il sito internet elenca solamente sei etichette ma sono molte di più secondo il database di Ratebeer; quelle più interessanti fanno parte del marchio Vleteren che omaggia il comune di provenienza. 

La birra.
Questa zona delle Fiandre Occidentali belghe è la terra delle grandi Strong Dark Ales: a cinque chilometri di distanza da Woesten, dove si trova la Deca, c'è il nuovo birrificio degli Struise; a sette l'abbazia di St. Sixtus/Westvleteren; a diciassette chilometri c'è Watou e la Brouwerij St Bernard e, qualche chilometro prima, la Brouwerij Vaneecke. Non è facile competere con le migliori rappresentanti al mondo di questa categoria stilistica, ma il birrificio Deca ci prova con la sua Vleteren 12 Bruin: quattro varietà di malto, due di luppolo ed un invecchiamento in botte che lascia qualche dubbio. Ratebeer parla di grandi foeders, mentre il birrificio dichiara in un incerto inglese "aged in oak barrels with Port": si tratta quindi di botti ex-porto, o una piccola quantità di porto viene immesso nelle botti assieme alla birra?
L'aspetto non è di certo il suo punto di forza: tonaca di frate, torbido, con intensi riflessi rossastri; più che una schiuma si forma una serie di bolle biancastre che aderiscono ai bordi del bicchiere. L'aroma è caldo ed avvolgente, anche se non brilla d'eleganza: c'è tanta frutta sotto spirito (uvetta, datteri, prugna, frutti di bosco) alla quale s'affiancano i profumi di zucchero candito, legno e vino liquoroso, porto. Poche bollicine al palato, corpo medio, una scorrevolezza che si può definire buona se si considera l'importante gradazione alcolica (12%). Il gusto prosegue in linea retta il percorso iniziato dall'aroma: caramello, accenni di biscotto e una spiccata dolcezza fatta di zucchero candito e tantissima frutta sotto spirito. Oltre a quella già presente nell'aroma, spunta anche la pera. L'alcool riscalda con vigore ma senza eccessi tutta la bevuta, aiutando ad asciugare una buona parte del dolce; il lavoro viene completato dal leggerissimo amaro dei tannini, che accompagnano a fine corsa le note legnose. Lunghissimo il retrogusto, molto dolce, morbido e caldo d'alcool.  
Una birra pulita e ben fatta che si sorseggia con piacere e con calma in un freddo dopocena invernale: un po' monodimensionale e non molto raffinata, regala soddisfazioni che non sono all'altezza di quelle date dalle Strong Dark Ales dei birrifici citati sopra. Ma se ci si accontenta, si riesce ugualmente a godere.
Formato: 33 cl., alc. 12%, lotto A, scad. 21/05/2018, prezzo 2.50 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 21 gennaio 2017

Sori Coffee Gorilla & Vaat Jailhouse Brew

Continua a crescere la scena della craft beer dell'Estonia, nazione che si è fatta conoscere in Italia grazie alle birre del birrificio Põhjala. Il database di Ratebeer include oggi oltre 60 tra microbirrifici e beerfirm, tutti aperti negli ultimi tre anni. Vediamo di conoscerne due.
Sori Brewing si trova nella periferia di Tallinn e viene fondata dai finlandesi Pyry Hurula, Heikki Uotila e Samu Heino, quest'ultimo non più in società oggi. I tre s'incontrano ad un club di appassionati di birra ed iniziano ad abbozzare l'idea di aprire un birrificio; Hurula, un lavoro nella finanza e un'attività in proprio di marketing, si occuperà della parte commerciale. Uotila (ex-marketing on-line) e Heino (microbiologo) sono i due che hanno già esperienza con l'homebrewing dai tempi dell'università e che si prenderanno cura della produzione. Invece di aprire nella nativa Finlandia, con la sua burocrazia e il suo monopolio di stato che regola la vendita degli alcolici, i tre si spostano nella vicina e più amichevole Estonia. Il nome scelto (Sori) è quello del quartiere di Tampere dove si sono conosciuti.  Mentre Heino abbandona rapidamente il progetto, Hurula e Uotila danno il via ad un crowfunding di successo che li vede nel 2014 racimolare 450.000 Euro. Le vendite rispondono positivamente e nel 2015 una seconda campagna di crowfunding porta altri 470.000 Euro necessari per una prima espansione; ad affiancare Hurula e Uotila oggi c'è un comitato consultivo formato da cinque dei maggiori investitori che hanno esperienza nella ristorazione, nella finanza e nella distribuzione alimentare. 
Una cinquantina le birre prodotte in tre anni di attività, incluso un Sahti realizzato assieme al Birrificio del Ducato.

La birra.
Coffee Gorilla è una Baltic Porter prodotta con sei diverse tipologie di malto e caffè; praticamente nera, forma una bella testa di schiuma beige cremosa e compatta, fine, dalla lunga persistenza. Pane nero, biscotto, delicate tostature, caramello ed esteri fruttati (prugna, accenni di ciliegia sciroppata) compongono un bouquet aromatica pulito e dalla discreta intensità. Purtroppo mi è capitata una bottiglia molto vicina alla data di scadenza e quindi la presenza di caffè è davvero limitata. Al palato scorre bene con poche bollicine ed un corpo medio: il gusto mostra una buona corrispondenza con l'aroma, riproponendo gli stessi elementi. Nel finale il caffè si fa sentire maggiormente, con la bevuta che si chiude in un retrogusto amaro abbastanza intenso nel quale convivono caffè, tostature e note terrose. Una Baltic Porter (7%) abbastanza pulita che riscalda delicatamente mostrando un buon livello di pulizia; le manca un po' di fragranza, peccato non averla incontrata qualche mese prima. Il livello è comunque buono e la bevuta senz'altro soddisfacente.
Formato: 33 cl., alc. 7%, IBU 45, lotto 33, scad. 19/01/2017, prezzo indicativo 3.00/4.00 Euro (beershop).


Passiamo ora a Vaat  ("botte", in estone) beerfirm nata nel 2013 a Tallinn sulla quale sono riuscito a trovare pochissime informazioni; da quanto ho capito viene fondata da quattro amici/appassionati estoni e svizzeri (Johan, Markus, Lauri ed Oliver) ed è operativa dal 2015. Le ricette vengono elaborate su di un impianto pilota da 100 litri che si trova a Tallinn, per essere poi realizzate su grande scala altrove. Al momento il birrificio si appoggia all'immancabile De Proef in Belgio e, per un paio di birre destinate al mercato locale, al microbirrificio Must Lips di Tallinn. Tre sono le etichette in produzione regolare: una imperial stout chiamata Jailhouse Brew, una hoppy Vienna chiamata Lager Than Life e la witbier Witty Nelson.

La birra.
Jailhouse Brew, una imperial stout la cui ricetta prevede cinque diverse tipologie di malto, segale, avena e luppoli inglesi. Questa bottiglia dovrebbe far parte del primo lotto prodotto nei primi mesi del 2015, mentre da quanto leggo è già disponibile una nuova versione con una ricetta leggermente modificata.
Nel bicchiere si presenta di colore nero, impenetrabile alle luce e sormontata da una generosa testa di schiuma beige, cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. Nonostante sia prodotta dall'infallibile (o quasi) De Proef, l'aroma non sembra promettere molto di buono: quasi assente, non ci sono assolutamente tostature o altri elementi caratteristici dello stile. Si sente invece la componente etilica, accompagnata da poco gradevoli sentori di mela verde. Al palato c'è qualcosa in più ma purtroppo la scarsa pulizia non permette d'apprezzare il caramello e le delicate tostature; ritorna la mela verde, il percorso si chiude con un lieve torrefatto immerso nell'alcooi. Imperial Stout davvero deludente e con una carbonazione elevata che non aiuta a percepire i sapori: ne risulta una sorta di "agglomerato scuro", leggermente tostato che non riesce a soddisfare chi se la trova nel bicchiere.
Formato: 33 cl., alc. 9.1%, lotto B, scad. 12/2018, prezzo indicativo 4.005/5.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 20 gennaio 2017

Birra Muttnik: Belka, Zib & Strelka

Birra e cani, un binomio abbastanza diffuso: moltissimi i birrifici che utilizzano la parola “dog” nel loro nome o che ospitano un cane nel proprio logo. Alla lista si aggiunge in maniera meno diretta anche Muttnik, beerfirm di recente apertura (settembre 2016) con sede legale a Cernusco sul Naviglio. Muttnik, dalle parole inglesi  mutt (bastardo) e sputnik, era il nome col quale vennero chiamati dalla stampa americana una serie di cani inviati nello spazio nel corso degli anni cinquanta e sessanta dall’Unione Sovietica. 
La beerfirm fa capo a Lorenzo Beghelli, che assieme ad altri amici/soci coltiva una passione per la birra che inizia nel 2002 quando, ai tempi del liceo, iniziò ad armeggiare con pentole e serpentine; terminati gli studi universitari (biologia), nel corso dei quali si è occupato di lieviti e di altri aspetti marginalmente correlabili alla produzione di birra, l’idea di trasformare l’hobby in una professione si è fatta sempre più concreta ed è sfociata in un periodo di apprendistato al Birrificio Italiano. Purtroppo la raccolta dei finanziamenti necessari a compiere il grande passo non è andata come previsto e gli amici hanno continuato a fare la birra in casa spostandosi in un seminterrato a Pioltello con un impianto a vapore autocostruito, 8 frigoriferi e un mini laboratorio (microscopio e materiale base per terreni di coltura) procedendo al ritmo di due-tre cotte per settimana. Il business plan venne così ridotto e dal birrificio si decise di partire come beerfirm col desiderio di riuscire ad avere prima o poi impianti di proprietà. Molti “birrifici-cani” (pensate a quello scozzese) hanno costruito il loro successo con campagne di marketing aggressivo e realizzando birre sempre più estreme e inusuali: Muttnik vuole invece mantenersi all’estremo opposto, cercando di perseguire equilibrio e semplicità delle ricette; tutte le birre sono dedicate ai cani del programma spaziale sovietico.  

Le birre.
Partiamo dalla saison Belka, in russo “scoiattolo”, nome del cane che assieme alla compagna Strelka trascorse una giornata nello spazio il 19 agosto 1960 a bordo del Korabl-Sputnik-2 in compagnia di un coniglio, 42 topi, due ratti, mosche, piante e funghi. Furono le prime creature terrestri ad andare in orbita e a rientrare vive. Trasformandola in birra, Belka diventa una saison luppolata con Magnun, Saaz e Styrian Golding, quest’ultimo utilizzato anche in dry-hopping assieme al Polaris. 
Il suo colore velato si confonde tra il dorato e l’arancio, con un bel cappello di schiuma fine, compatta e cremosa, dall’ottima persistenza. Il naso è pulito e affianca ad una leggerissima speziatura (ricordi di coriandolo e chiodi di garofano) profumi floreali, di scorza d’arancia e banana; c’è anche quella piacevole nota rustica che in ogni saison non dovrebbe mai mancare. Leggera e vivacemente carbonata, in bocca scorre bene pungolando il palato con il suo carattere un po’ ruspante e ruvido, grazie all’utilizzo di una piccola percentuale di segale. La crosta di pane ed un accenno di biscotto vengono affiancati da una delicata speziatura e da un breve passaggio fruttato (arancia e un tocco di banana) che seguono con rigore l’aroma. La lieve acidità data dal frumento la rende molto dissetante e rinfrescante, mentre la chiusura è molto secca, con un amaro di moderata intensità che si muove in territorio erbaceo e terroso. Un’interpretazione sincera e abbastanza fedele di una saison belga tutta basata sul lievito che mette in mostra una buona espressività: certo, c’è qualche punta fenolica in eccesso che andrebbe limata e anche l’amaro finale gratta un pochino il palato, ma si tratta di dettagli che non pregiudicano una saison di buon livello. La bottiglia in questione è stata prodotta sugli impianti del birrificio Opera di Pavia.

Passiamo alla Pale Ale chiamata Zib, nata in sostituzione della Bolik, quella che sarebbe dovuta essere la prima pale ale di Muttnik. A causa di alcuni problemi con il fornitore di luppolo non è stato possibile produrre la Bolik e così, utilizzando Mosaic, Simcoe ed Amarillo è stata realizzata la Zib. Allo stesso modo, Bolik fu un cane che scomparve pochi giorni prima della data del suo volo, previsto per il settembre 1951: venne sostituito con un altro cane chiamato ZIB, acronimo di  Zamena Ischeznuvshemu Boliku ovvero "sostituto dello scomparso Bolik". 
Nel bicchiere si presenta di colore ramato, con riflessi oro antico ed un cappello di schiuma biancastra, cremosa e compatta. Il naso non ha lo stesso livello di pulizia della Belka: gli agrumi (cedro, limone), il biscotto e il caramello sono un po' sporcati da qualche eccesso lievitoso che rende il bouquet olfattivo meno interessante del dovuto. Il gusto segue l'aroma riproponendone in parte le imprecisioni: un lieve biscottato e caramello anticipano un intermezzo fruttato dolce, non ben definito e subito incalzato da un amaro terroso e zesty. Nel complesso c'è un'ottima intensità in una birra ai confini della soglia di sessionabilità, ma la pulizia e l'eleganza, sopratutto dell'amaro finale, sono ampiamente migliorabili. Bottiglia prodotta sugli impianti del birrificio The Wall di Venegono Inferiore (VA).

Chiudo con la Muttnik che mi ha maggiormente colpito, ovvero la saison Strelka: di fatto sorella della Belka, dalla quale differisce per una diversa e più generosa luppolatura a base di  Magnum, Styrian Golding e Citra, quest’ultimo anche in dry-hopping. Dorata, leggermente velata, anche lei sormontata da un generoso e compatto cappello di cremosa schiuma bianca che mostra un'ottima persistenza. Rispetto alla sorella Belka l'aroma sale d'intensità mantenendo lo stesso buon livello di pulizia: gli agrumi (limone, arancia, mandarino) sono affiancati da una delicata speziatura (pepe, coriandolo) e da un bel carattere rustico che richiama la paglia. Crackers e cereali, un accenno di miele sostengono una generosa luppolatura che sposta subito la bevuta in territorio fruttato: tanti agrumi (pompelmo, lime/limone) con qualche nota dolce di pesca a fare da contraltare. Bevuta agile, vivacemente carbonata, che scorre senza intoppi terminando con una buona secchezza e un finale amaro, terroso e agrumato, intenso quanto basta. Una bella saison che trova un punto d'incontro molto ben riuscito tra qualche concessione ruffiana/modaiola e un carattere rustico sincero: pulita, ben fatta, facilissima da bere, dall'elevato potere dissetante e rinfrescante. Per essere un debutto, il livello è davvero ottimo: l'estate è lontana, ma potete già iniziare a pensare a lei per le vostre necessità nei mesi più caldi dell'anno.  Bottiglia realizzata presso il birrificio Opera di Pavia. 

Nel dettaglio:
Belka: 33 cl., alc. 4.6%, IBU 30, lotto 108/16, scad. 03/01/2018, prezzo indicativo 3.50/4.00 Euro.
Zib: 33 cl., alc. 4.7%, IBU 25, lotto 11016, scad. 28/10/2017, prezzo indicativo 3.50/4.00 Euro.
Strelka, 33 cl., alc. 4.6%, IU 36, lotto 118/1, scad. 20/01/2018, prezzo indicativo 3.50/4.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 18 gennaio 2017

Beavertown Spresso 2016 Edition

Ne ha fatta di strada dal suo debutto di febbraio 2012 con un piccolo impianto (4 barili) all’interno del pub Duke's Brew and Que di Londra. Parliamo di Beavertown, creatura di Logan Plant, musicista figlio d’arte (Robert Plant, Led Zeppelin), che è rimasto folgorato dalla craft beer americana durante un soggiorno a Brooklyn e ha deciso di portarne un pezzo a Londra.  Dopo dodici mesi era  già ora di traslocare dalla poco funzionale cucina del pub ad un magazzino nella Unit 4 Stour Road, con un impianto (di seconda mano) da dieci barili, ben superiore ai quattro del precedente. Passano altri dodici mesi e Beavertown si è spostato otto chilometri più a nord, poco lontano dallo stadio che ospita le partite del Tottenham Hotspur, nel Lockwood Industrial Park; a Plant evidentemente i mezzi economici non mancano e gli investimenti non fanno paura. Gli spazi del nuovo stabilimento consentono d'iniziare un programma d'invecchiamenti in botte e di inaugurare la taproom: Nick Dwye si occupa del completo restyling delle grafiche che inaugurano la nuova produzione delle lattine, formato sul quale Beavertown ha deciso di focalizzarsi. A conquistare gli hipster ci hanno poi pensato le belle etichette, le barbe, i teschi ed  il merchandising ben confezionato dal marketing. 
Qualche giorno fa il birrificio ha anche annunciato il primo Beavertown Extravaganza, un festival previsto per settembre 2017 al Printworks di Londra al quale hanno già aderito una sessantina di birrifici da tutto il mondo. 55 sterline il prezzo del biglietto d’accesso che vi permetterà di bere tutto quello che riuscirete in sette ore di tempo nonché di frequentare convegni e seminari, portandovi anche a casa un bicchiere ricordo. Visto i nomi dei birrifici coinvolti, più che si “stravaganza” si tratterà probabilmente di delirio: a voi scegliere se partecipare e iniziare mettervi in fila davanti alle spine.

La birra.
Spresso è il nome dato da Beavertown ad una imperial stout al caffè. La birra nasce nel 2014 assieme agli americani di Prairie e la torrefazione di Londra Caravan Coffee Roasters e viene affiancata l’anno successivo da una versione barrel-aged. Ad inizio 2016 arriva una nuova edizione realizzata solamente da Beavertown e Caravan Coffee Roasters, in lattina e fusti. La ricetta prevede malti Best Pale, Golden Promise, Brown, Low Colour Chocolate, Crystal, Carafa II, avena e melassa; il Magnum è l’unico luppolo utilizzato.  Per ogni cotta di birra vengono impiegati 80 kg di caffè; la prima metà di caffè macinato viene messa in infusione nel mosto alla temperatura di 92 gradi, la seconda, a chicchi interi, viene utilizzata un mese dopo quando la birra sta fermentando a 10 gradi centifradi.
Nel bicchiere appare di color ebano scurissimo, quasi nero; la schiuma color cappuccino è cremosa e compatta ed ha un'ottima persistenza. In una birra che si chiama Spresso non si può chiedere altro che caffè e in questo senso non ci sono affatto delusioni: il punto centrale è l'espressività e l'eleganza di questo elemento e qui il livello è davvero alto. Caffè in chicchi, caffè macinato, caffè espresso; nei piccoli spazi vuoti s'intrufolano accenni di cacao in polvere, torta brownie, qualche estero fruttato che richiama i frutti di bosco. E' un'imperial stout che al palato predilige la scorrevolezza: poche bollicine, corpo medio, consistenza morbida, setosa. Un velo di caramello e di orzo tostato costituiscono la base sulla quale s'appoggia un gusto che, di nuovo, dispensa caffè in abbondanza. Coerentemente con l'aroma, anche qui pulizia ed eleganza sono inappuntabili e il caffè viene accompagnato dal cioccolato amaro e da morbide tostature: l'alcool è molto ben nascosto, regala giusto un caldo abbraccio a fine corsa col quale avvolge l'amaro del caffè. Raramente mi è capitato d'incontrare birre che utilizzano il caffè in modo così raffinato: una birra monotematica che tuttavia non stanca mai e riesce a sorprendere ad ogni sorso, rinnovandosi. Se amate le imperial stout al caffè, questa è una birra da non perdere: davvero ben riuscita, qui si viaggia in prima classe.
Formato 33 cl., alc. 9.5%, IBU 30, lotto 1029, scad. 03/11/2021, prezzo indicativo 5.00/6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 gennaio 2017

Karl Strauss Wreck Alley Imperial Stout (2014)

Karl Strauss Brewing Company, ovvero uno dei pionieri di un movimento che in una ventina d’anni ha reso San Diego una delle capitali mondiali della craft beer. L’avevo già incontrato in California nel 2012: lo fondarono Chris Cramer e Matt Rattner, che dopo il college rimasero affascinati dalla visita di un brewpub durante un viaggio in Australia. 
Di ritorno a San Diego, Cramer si ricordò di avere un cugino che lavorava come birraio: era Karl Strauss, classe 1912 e diplomato a Weihenstephan ma costretto ad emigrare negli Stati Uniti nel 1939, anno in cui iniziò a lavorare sulla linea d’imbottigliamento alla  Pabst Brewing Company di Milwaukee, Wisconsin. Nel 1960 Strauss venne nominato vice presidente degli stabilimenti produttivi, ruolo che manterrà sino al pensionamento avvenuto nel 1983; tre anni dopo si spostò al caldo di San Diego per aiutare il cugino Chris ad aprire un brewpub al quale acconsente di dare il proprio nome. Dal 1989 al 2006, anno della sua morte, vi resterà a lavorare nel ruolo di birraio. 
L’apertura della Karl Strauss Brewing Company è un evento storico per San Diego: al proibizionismo, terminato nel 1933, non era sopravvissuto nessun birrificio da cinquant'anni non veniva prodotta birra. Dal 2 febbraio 1986, giorno dell'inaugurazione ad oggi, Karl Strauss ha vissuto una lenta ma constante crescita che ha visto l’inaugurazione di una nuova e più ampia sede nel 1996 e la successiva nascita di numerose succursali in tutta la California. Supervisionati dai birrai  Paul Segura e Matt Johnson, oltre alle location della conta di San Diego (Downtown, La Jolla, Sorrento Mesa, Carlsbad e 45 Ranch) sono operativi i brewpub di Temecula, Anaheim, Costa Mesa e le due filiali di Los Angeles: Downtown e Universal CityWalk, quest'ultima un’interessante opzione se andate a visitare gli Universal Studios.

La birra.
Nel 2012 Karl Strauss inaugura una serie di “Big Beers” dall’elevato contenuto alcolico e disponibili inizialmente solo nel formato “bomber” da 65 centilitri; tra queste appare anche una muscolosa imperial stout chiamata Wreck Alley. Il nome fa riferimento a quel tratto di mare, a poche miglia da Mission Beach (San Diego) nel quale sono state fatte affondare sei imbarcazioni in modo da creare una sorta di scogliera artificiale ed un suggestivo luogo per le immersioni subacquee all’interno di enormi scafi;  i relitti sono anche divenuti la casa di diverse specie marine come pesci, anemoni, molluschi e crostacei. 
La ricetta prevede malti  e 2 Row, Chocolate, Caramel 80, Black e fiocchi d’orzo, mentre i luppoli utilizzati sono Bravo e Willamette;  in aggiunta vengono utilizzati granella di face di cacao e chicchi di caffè etiope provenienti dalla Bird Rock Coffee Roasters di La Jolla. Difficile risalire alla data di nascita di questa bottiglia, ma una stampigliatura al laser sul fondo oltre ad una serie di numeri e lettere riporta anche la cifra 2014. 
Si presenta nera o quasi, mentre la cremosa schiuma che si forma non è particolarmente generosa e collassa nel bicchiere abbastanza rapidamente. Purtroppo l’aroma non il biglietto da visita che vorresti ricevere da una muscolosa imperial stout  (9.5% ABV): intensità davvero a livelli minimi, lieve orzo tostato, carne, qualche estero fruttato. Le cose vanno un po' meglio in bocca, ma non si fanno salti di gioia: un delicato tostato di pane e orzo, caramello bruciato, qualche accenno di cioccolato e liquirizia. La bevuta continua in linea retta, quasi piatta, senza sussulti o accelerazioni, arrivando quasi a spegnersi leggermente in un finale debole nel quale al posto del caffè e di intense tostature convivono un po' di orzo tostato e un lieve alcool warming. Il corpo è medio e per il mio gusto troppo leggero per una birra di questa gradazione alcolica che scorre benissimo senza concedere carezze o morbidezza. Imperial Stout bilanciata che non eccelle per intensità, pulizia o eleganza: indubbiamente i due anni di vita non aiutano a percepire i due ingredienti aggiunti (cacao e caffè), rapidi a svanire. Ma anche con le attenuanti del caso quel che resta è, benché bevibile, piuttosto deludente. 
Formato: 65 cl., alc. 9.5%, IBU 45, lotto 321 G 0853 2014, prezzo indicativo 13.00/15.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 gennaio 2017

Eastside Brewing: Soul Kiss & Sweet Earth

Torniamo ad accogliere sul blog Eastside Brewing, birrificio laziale (Latina)  fondato nel 2013 da Luciano Landolfi, Tommaso Marchionne, Alessio Maurizi, Cristiano Lucarini e Fabio Muzio. La loro storia ve l’avevo raccontata dettagliatamente in quell’occasione; il birraio è Luciano il quale riesce ancora a coniugare gli impegni in birrificio con il suo lavoro quotidiano altrove: nel concreto questo “stakanovismo” si traduce nel recarsi in birrificio alla sera e ogni weekend. 
Dopo  Sunny Side e Sera Nera passiamo oggi in rassegna altre due birre disponibili tutto l’anno: si tratta dell’American Pale Ale Soul Kiss, la birra con la quale Eastside debuttò nel 2013 e l’(American) Brown Ale Sweet Earth. Entrambe disponibili oltre che in fusto anche nel formato 33 e 75 centilitri accompagnate dalle belle etichette realizzate da  Roberto Terrinoni, ognuna delle quali racconta una breve storia per immagini collegata alla birra, al territorio o alle passioni dei soci del birrificio.  Prima di stappare, un ringraziamento al birrificio che mi ha inviato queste birre da assaggiare.

Le birre.
Partiamo quindi dalla Soul Kiss, classica American Pale Ale che vede come protagonista il Cascade, ovvero il luppolo che ha caratterizzato l’inizio della Craft Beer Revolution americana; qui viene affiancato dal più moderno Citra, luppolo sviluppato nel 2007  e diventato in pochi anni molto popolare. L’etichetta rappresenta il bacio o, se preferite, l'unione tra il cielo e la terra che colorano il volto dei due amanti.  
Il suo colore è ramato, con riflessi dorati ed una lieve velatura: bianca, cremosa e compatta, la schiuma ha un’ottima persistenza. L’aroma è un omaggio al Cascade e ai suoi inconfondibili profumi del pompelmo e floreali: qui vengono affiancati in secondo piano da quelli di frutta tropicale (mango, ananas) e di aghi di pino/resina, in un contesto pulito ed elegante, dalla buona intensità.  Il percorso continua  al palato senza deviazioni: la base maltata, biscotto e lieve caramello, non è invadente e consente ai luppoli di esprimersi senza impedimenti. Il pompelmo è sempre sugli scudi, poi qualche intermezzo di frutta tropicale prima di un bel finale amaro nel quale domina la resina, con un’intensità che punge senza eccedere in estremismi.  La bottiglia in questione, nata lo scorso novembre, mostra ancora un ottimo livello di freschezza che consente d’apprezzare la pulizia e l’eleganza di un’American Pale Ale facile da bere e sempre bilanciata, anche nel retrogusto, dove l’amaro della resina viene ingentilito da accenni dolci che richiamano caramello e frutta tropicale. Un’interpretazione classica dello stile lontana da ruffianerie contemporanee e spremute di frutta: gradevole e morbida al palato, carbonazione medio-bassa, una birra che non stanca e che ti può accompagnare per tutta la serata pinta dopo pinta.

Passiamo all’American Brown Ale chiamata Sweet Earth, la cui etichetta parla di un frammento di storia del territorio, quello che riguarda la bonifica delle paludi dell'Agro Pontino; si dice infatti che i contadini, dopo aver ricevuto gli appezzamenti di terra, avessero l’abitudine di “assaggiarla” per valutarne la qualità. Ecco la “dolce terra”, protagonista di una birra che ha il suo stesso colore e che vede anche l’utilizzo di una piccola percentuale di malto torbato, altro elemento collegato alla terra. L’unico luppolo utilizzato in questa ricetta è il Summit. 
Il suo colore "terroso" è impreziosito da riflessi ambrati e rossastri e sormontato da una cremosa e compatta testa di schiuma. Al naso un bouquet molto interessante nel quale trovano spazio profumi di pane nero e biscotto, le delicate tostature del pane e, in secondo piano, gli esteri fruttati (mirtillo); man mano che la birra s’avvicina alla temperatura ambiente emergono accenni di caffè e un lievissimo affumicato. La sensazione palatale è ottima, in un compromesso molto ben riuscito tra scorrevolezza e morbidezza: poche le bollicine. Caramello, biscotto e pane leggermente tostato caratterizzano una bevuta facile che tuttavia nasconde una bella complessità fatta di suggestioni di caffè e cioccolato, un filo di fumo. Chiude con una buona secchezza e un amaro elegante, di un'intensità adeguata a non saturare mai il palato, nel quale s'incontrano note resinose, terrose ed una leggera tostatura.  Brown Ale davvero ben fatta e molto pulita, probabilmente la produzione Eastside che maggiormente mi ha colpito tra quelle bevute sino ad ora; una grande facilità di bevuta s'abbina ad una notevole intensità in una birra davvero molto riuscita. Lo stile non è molto frequentato dai birrai italiani ed è un vero peccato, soprattutto quando nascono interpretazioni molto convincenti come quella di Eastside.
Nel dettaglio:
Soul Kiss, formato 75 cl., alc. 5.5%, lotto 5016, scad. 11/2017, prezzo indicativo 10,00 Euro
Sweet Earth, formato 75 cl., alc. 6%, loyal 4016, scad. 10/2017, prezzo indicativo 10,00 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.