lunedì 23 dicembre 2019

Hoopsbeer Hoops Scotch Ale

Hoopsbeer è una beerfirm abbastanza recente collegata al beershop online Birraebirre.it di Induno Olona, provincia di Varese. I due titolari Marcello Duranti e Massimo Zacchi non hanno però semplicemente voluto farsi produrre una birra per il loro negozio ma sono due homebrewers che hanno partecipato a vari concorsi e hanno adattato le loro ricette su grande scala utilizzando, al momento, gli impianti del birrificio Dulac di Galbiate. 
Come segnala il blog Malto Gradimento il nome scelto ed il colore bianco verde delle etichette sono un tributo alla squadra di calcio dei Celtic di Glasgow dei quali i due amici sono evidentemente tifosi: “hoops”, ovvero “i cerchiati”  è il modo in cui vengono chiamati i giocatori che dal 1903 indossano la maglia bianca a strisce orizzontali verdi. Al momento sono disponibili due birre,  una Scotch Ale chiamata Hoops e una Smoked Ale chiamata Jinky, un omaggio al famoso calciatore Jimmy Johnstone che segnò 129 reti nelle sue 515 presenza con il club di Glasgow. In futuro dovrebbero arrivare anche una Pale Ale ed una Brown Ale al sambuco. 


La birra.
Hoops è una scotch ale/wee heavy dal bel color ambrato impreziosito da intensi riflessi rubini, la schiuma è cremosa, compatta ed ha ottima persistenza. Aroma e gusto si basano sulla convivenza pacifica ed equilibrata di malti ed esteri fruttati, questi ultimi più evidenti all’aroma. Biscotto, caramello, uvetta e prugna, qualche accenno di ciliegia e un finale dall’amaro appena accennato della frutta secca a guscio; man mano che la birra si scalda emergono accenni di torrefatto, suggestioni di cioccolato. A dispetto della sua gradazione alcolica (8.4%)  Hoops si sorseggia senza nessuna difficoltà e l’alcool che emana solamente un delicato torpore in sottofondo: personalmente avrei gradito avvertirlo un po’ di più.  Wee heavy molto bilanciata e centrata, con tutti gli elementi in gioco ben disposti: pulizia e definizione sono ulteriormente migliorabili ma il livello generale è davvero buono. Ringrazio Hoopsbeer per avermela fatta assaggiare.
Formato 33 cl., alc. 8.4%, lotto 856, scad. 07/2021, prezzo indicativo 3.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 19 dicembre 2019

Fremont B-Bomb 2018

Nel 2008 gli Stati Uniti erano nel bel mezzo della grande recessione e non sembrava il momento più appropriato per mettersi in proprio ed aprire un’azienda: è invece proprio quello che ha fatto Matt Lincecum, homebrewer dal 1994 per passione ma avvocato per professione. Nella sua carriera Lincecum aveva già avuto a che fare con produttori di birra, vino e liquori, rappresentandoli, e ogni volta si era sentito dalla parte sbagliata della scrivania. Doveva scegliere se continuare la sua carriera da avvocato, sempre più impegnativa e lontano da casa, o se fare altro: “volevo che i miei figli conoscessero il loro padre e volevo continuare ad avere una moglie; qualcosa doveva cambiare”. 
Con soli 10.000 dollari a disposizione sul conto bancario Lincecum riesce a trovare un paio di investitori disposti a concedergli i fondi necessari per prendere in affitto uno spazio commerciale a Seattle dove installare l’impianto di seconda mano (18 HL) recuperato dalla Red Lodge Ales e due fermentatori provenienti dalla Georgetown Brewing.  Nell’aprile del 2009 debuttava ufficialmente Fremont Brewing con la Universale Pale Ale che verrà seguita poco dopo da una IPA: solo fusti e growlers da asporto. Il nome ufficiale dell’azienda era, ed è ancora, Green Lake Brewing Company, registrato ancora prima di avere i locali a disposizione. “Sarebbe però stato sciocco usare quel nome visto che avevamo aperto nel quartiere di Fremontricorda la moglie Sara Nelson, co-fondatrice -  Al disegnatore del loro Dan Stuckey, nostro vicino di casa a Green Lake, chiedemmo però di utilizzare un airone che è l’uccello ufficiale di Seattle e del lago Green." 
Gli inizi non sono ovviamente facili: “eravamo nel bel mezzo della peggior crisi economica degli ultimi 75 anni, con un tasso di disoccupazione nello stato di Washington del 10%: avevo lasciato il mio lavoro da avvocato, avevo due figli piccoli e non riuscivo ad ottenere una carta di credito perché le banche erano in dissesto. Non avevamo soldi e iniziammo con un obiettivo ben preciso: pagare le fatture che scadevano ogni venerdì. Ogni lunedì ero consapevole del fatto che avrei dovuto vendere almeno sette fusti di birra entro il venerdì successivo”. Fortunatamente le cose sono andate per il meglio e nel 2014, grazie al supporto di altri investitori, Lincecum annunciava un piano d’espansione da otto milioni di dollari: nella sede originale viene installato un nuovo impianto da 35 ettolitri e, ad un miglio di distanza, viene completato nel 2016 il nuovo birrificio con sala cottura da 93 ettolitri e una capacità inziale di 70.000 ettolitri all’anno incrementabile sino a 300.000. “Se potessi vorrei fermarmi qui, ma non sono sicuro di cosa ci riserverà il futuro. Mi piacerebbe continuare a crescere in modo da poter aumentare i salari dei nostri dipendenti e continuare a fare la miglior birra possibile. Non voglio diventare così grande da dover passare il mio tempo a pianificare a tavolino i miei prodotti per poter raggiungere determinati obiettivi di vendita”.  Nel 2017 Fremont aveva prodotto circa 52.000 ettolitri. 
Oggi Fremont è uno dei birrifici più apprezzati del nord-ovest degli Stati Uniti e parte della sua fama è dovuta al programma degli invecchiamenti in botte inaugurato nel 2010: fortunatamente è ancora immune da quelle follie che caratterizzando una frangia della craft beer statunitense. Non ci sono assembramenti di beergeeks in attesa della messa in vendita di una bottiglia e le loro splendide birre barricate si trovano sugli scaffali dei negozi anche dopo diverse settimane dalla messa in vendita. 
La taproom del birrificio si chiama Urban Beer Garden, aperta tutti i giorni dalle 11 del mattino alle 9 di sera: non c’è cucina ma vi vengono offerti gratuitamente pretzels e mele. Per gli acquisti dovete invece fare quattro passi e recarvi al vicino Fremont Mercantile: merchandising, bicchieri, growlers e birre da asporto.

La birra.
Abominable Winter Ale è stato per molti anni il nome della birra stagionale invernale (8%) prodotta da Fremont: nel 2016 il suo nome è stato accorciato in Winter Ale per evitare problemi con il birrificio Hopworks di Portland che produceva già una birra con lo stesso nome. E fu lei la prima birra di Fremont a finire in una botte ex-bourbon: era il 2010 e nasceva la Bourbon Abominable, oggi nota chiamata B-Bomb. Lincecum dichiara che oggi nelle botti di bourbon non ci finisce esattamente la Winter Ale standard ma una ricetta potenziata e leggermente modificata per meglio sopportare il tempo trascorso in botte. L’elenco degli ingredienti include malti 2-Row Pale, Crystal-120, Munich, Roast Barley, Carafa-2 e Chocolate, luppoli Columbus, Willamette, e Golding americano. Attualmente la B-Bomb di Fremont viene assemblata con un blend di varie botti di rovere americano che hanno ospitato bourbon per 8-12 anni e nelle quali la birra è rimasta per nove, dodici e ventiquattro mesi. 
Il vernissage della B-Bomb 2018 è avvenuto il 23 novembre all’Urban Beer Garden, venti dollari a bottiglia con un limite di quattro a persona: alla spina erano poi disponibile alcune varianti. 
Nel bicchiere si presenta quasi nera con una splendida testa di schiuma cremosa e compatta. L’aroma è pulito, ricco, intenso e raffinato, splendido: bourbon, fruit cake, frutta sotto spirito, melassa, cioccolato, accenni di cocco tostato e di cuoio. Al palato è piena, oleosa e morbida, si sorseggia senza nessuna difficoltà ed anche la componente alcolica è molto ben gestita: presente ma non opprimente. La bevuta ripercorre gli stessi passi dell’aroma con identica eleganza e pulizia: c’è molto bourbon accompagnato da tanti piccoli dettagli di fruit cake, liquirizia, cioccolato, frutta sotto spirito, legno a comporre una birra sontuosa e ricca, lunghissima.  Volendo essere pignoli il bourbon tende forse a prevalere un po’ troppo sul resto, ma il risultato è davvero raffinato e si viaggia in prima classe.
Formato 65 cl., alc. 14%, IBU 65, lotto 2018, pagata 25,00 euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 dicembre 2019

Foreign Objects Beer Company: Psychic Texture, Solarys, Allergic to Thoughts of Mother Earth


I beergeeks più attenti si saranno sicuramente già segnati sulle loro mappe la Hudson Valley, area dello stato di New York che accompagna il corso del fiume da Albany verso le luci di Manhattan: Suarez Family, Plan Bee Farm, Equilibrium, Industrial Arts, Dancing Gnome e soprattutto quella Hudson Valley Brewery che sta producendo le Sour IPA più desiderate in tutti gli Stati Uniti. Non è forse un caso che Sean Bowman, Tim Czarnetzki e Steve D’Eva abbiano scelto questa zona come base del loro nuovo progetto chiamato Foreign Objects: la loro sede è a New Paltz ma questo non ha molta importanza visto che non hanno ancora impianti di proprietà e producono appoggiandosi a birrifici in Connecticut e Pennsylvania, soprattutto alla Shmaltz Brewing Company.  I tre ragazzi, tutti nati sulla costa ad Est, si erano conosciuti dalla parte opposta, a Seattle: Czarnetzki e Bowman avevano fondato nel 2011 la Urban Family Brewing e D’Eva era stato assunto come birraio. Steve proveniva dalla ristorazione e aveva  lavorato come Executive Chef al birrificio Tired Hands, interessandosi alla produzione della birra, iniziando con l’homebrewer e dal 2012 aveva iniziato a farsi le ossa in alcuni birrifici prima di arrivare a Seattle.   Nel 2016 Czarnetzki e Bowman vendettero la Urban Family Brewing per tornare a casa, nella Hudson Valley e Steve D’Eva iniziò a lavorare come consulente presso altri birrifici: i tre iniziarono però a gettare le basi del loro nuovo progetto Foreign Objects. Il nome si riferiva appunto al fatto che si erano conosciuti in una città nella quale non erano nati e dove, in qualche modo, si sentivano appunto dei “corpi estranei” . 
Ricorda D’Eva: “l’idea iniziale era di costruire un microbirrificio agricolo su di un terreno di proprietà della mia famiglia ma i preventivi per la costruzione erano insostenibili, ci sarebbe voluta una quantità enorme di denaro. Non volevamo ricoprirci di debiti e così pensammo di fare una beerfirm: trovai dei birrifici ai quali potevamo appoggiarci con fiducia e che ci lasciavano piena autonomia nella realizzazione delle nostre ricette. In questo modo potevamo anche meglio concentrarci sugli aspetti visivi e comunicativi del nostro marchio, che io reputo fondamentali. E’ comunque importante far sapere alla gente che noi tre siamo tutti stati dei birrai che hanno passato anni a pulire il pavimento e i tini”. 
Le etichette sono acquerelli abbozzati da D’Eva e realizzati poi a mano con il metodo della cianotipia dall’artista di Seattle Molly Dolan: la maggior parte delle birre hanno riferimenti astrologici o a canzoni. Foreign Objects decide di produrre inizialmente solo Ungespundet Lagers e New-American Hoppy Ales: “il termine New England IPA è ormai usato per definire birre stucchevoli e sbilanciate che cercano di emulare i succhi di frutta zuccherati. Noi non facciamo le nostre birre così: ci focalizziamo sul carattere fruttato e succoso senza sacrificare le componenti resinose o terrose dei luppoli“. 
I beergeeks hanno gradito e la  birra Mind/Body/Light/Sound è stata per un periodo di tempo tra le migliori 20 NEIPA al mondo secondo il popolo di Untappd. Foreign Objects ha già annunciato di volersi dotare di impianti propri: forse un brewpub a Philadelphia? Ancora non si hanno notizie precise. Le uniche certezze sono due: l’imminente apertura di una tasting room a Monroe, contea di Orange, non lontano da quegli Woodbury Outlets che spesso i turisti raggiungono in pullman da Manhattan. Birra alla spina, merchandising e lattine in vendita: perché è “cool” la fila di gente in attesa fuori dalla porta ma è soprattutto redditizio vendere direttamente al pubblico senza passare per i distributori. Il secondo annuncio riguarda la nascita di un nuovo marchio chiamato Discord Beer Company che si focalizzerà esclusivamente su quelle Sour IPA che hanno reso famosa la Hudson Valley.

Le birre.
Assaggiamo qualcuna di queste New-American Hoppy Ales che di recente sono arrivate anche nel nostro continente.  La NEIPA Psychic Texture (6.7%) vede come protagonisti luppoli Simcoe ed Ekuanot; ha debuttato alla fine dello scorso settembre e si tratta quindi di una lattina che ha quasi due mesi di vita. Nel bicchiere assomiglia ad un succo di frutta alla pera, la schiuma biancastra è un po’ scomposta ma ha una discreta persistenza. Mango, lychee, papaia, melone, mandarino, cedro e pompelmo: questi i profumi che compongono un aroma pulito e ancora abbastanza fresco. La bevuta si muove sulle stesse coordinate: dolce ma non stucchevole, frutta tropicale, agrumi “zuccherati”, un finale amaro vegetale-resinoso di breve intensità e durata che però “gratta” leggermente in gola. Niente di grave: la birra è bilanciata e abbastanza pulita, non ci sono fuochi d’artificio ma è assolutamente gradevole.  La sensazione palatale è moderatamente “chewy” come vorrebbe il protocollo NEIPA ma non risulta ingombrante. 

Solarys è invece una NEIPA (6.8%) che non dichiara i luppoli utilizzati e che è arrivata al “batch numero 3”; la stampigliatura sulla lattina (19-924) mi fa pensare che sia la più fresca delle tre lattine nel mio frigorifero e l’aroma, fresco e molto definito, lo conferma. Davvero ottimo: mango, ananas, arancia, pesca, persino qualche suggestione di fragola. Visivamente si passa dal succo di pera a quello di pesca: dominano le tonalità arancio. La bevuta non replica le piccole meraviglie dell’aroma ma è comunque piacevole. Il fruttato è meno definito e, anche qui, il suo dolce viene bilanciato da un breve passaggio amaricante finale resinoso: non “gratta” il palato ma è un po’ brusco e la birra che sembra concludersi un po’ troppo affrettatamente. Il mouthfeel è lo stesso della Psychic Texture ma è un po’ infastidito da qualche bollicina di troppo. Peccato: dopo un ottimo inizio (aroma) la birra perde qualche colpo. 

Astrologia e musica, dicevamo. In questo caso Allergic to Thoughts of Mother Earth è il titolo di un brano dei Placebo e, a scanso di equivoci, l’etichetta fa qualche riferimento diretto ai versi della canzone. Amarillo e Mosaic sono i prescelti per una NEIPA (6.5%) che ha debuttato a fine settembre e che assomiglia ad un succo di pesca. Mango, papaia, passion fruit, pompelmo, qualche strascico vegetale; questo il bouquet di frutta dolce e piuttosto matura, fresco e intenso senza essere cafone. Al palato c’è un bel carattere juicy che replica l’aroma anche se con minor pulizia: una bella spiaggia tropicale, qualche agrume, titoli di coda amaro-resinosi che scorrono velocissimi: alcool ben gestito (come nelle altre due birre), ottima bevibilità. Direi la migliore delle tre: bilanciata, pulita, priva di spigoli ma – se vogliamo essere sinceri – anche di slanci. 
Tre birre abbastanza simili che si differenziano tra di loro per lievi sfumature: del resto oggi il mercato chiede continuamente qualcosa di nuovo e bisogna soddisfarlo.  Si beve comunque bene e ad un prezzo tutto sommato buono, visto i tempi che corrono. 
Nel dettaglio
Psychic Texture, 47.3 cl., alc 6.7%, lotto #1 19-873, prezzo indicativo 7,00 euro
Solarys, 47.3 cl., alc., 6.8%, lotto # 3 19-873, prezzo indicativo 7,00 euro
Allergic to Thoughts of Mother Earth, 47.3 cl., alc. 6.5%, lotto #1 19-919, prezzo indicativo 7,00 euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 dicembre 2019

DALLA CANTINA: Birra del Carrobiolo O.G. 1085 Una Botte e Via 2015

Se non erro è la birra che ha dato il via alle sperimentazioni con il legno del birrificio Piccolo Opificio Brassicolo del Carrobiolo – Fermentum: quella O.G. 1085 che oggi è stata rinominata semplicemente Tripel ma che sino a qualche anno fa era chiamata con il valore di densità del mosto prima della fermentazione. Correva l’anno 2012 ed il birrificio guidato dal birraio Pietro Fontana si trovava ancora all’interno dei suggestivi ma poco pratici locali del convento in piazza Carrobiolo a Monza. La tripel, la cui ricetta originale prevedeva malto d’orzo, segale, grano saraceno, avena, frumento, luppolo Perle, Saaz e Fuggle era finita a riposare per tre mesi in botti che avevano ospitato Pedro Ximenez di Williams & Humbert. Nacque così la O.G. 1085 Pedro Fontenez 2012: pochissime bottiglie che avevano però impressionato molto positivamente i fortunati che erano riusciti ad assaggiarla. 
Nel 2014 il birrificio si è trasferito nella vicina piazza Indipendenza inaugurando il nuovo brewpub con cucina annessa: il vecchio impianto è rimasto attivo all’interno del convento per un paio di anni prima di essere venduto e i locali sono stati adibiti a cantina consentendo di ampliare il numero degli affinamenti in botte.  La Tripel O.G. 1085 è così finita prima in botti che avevano ospitato Marsala e poi in quelle di altri vini a seconda della disponibilità: Amarone della Valpolicella, Barolo, Morellino di Scansano.  Il nome scelto per questa serie? Una botte e via. Nelle botti di grappa ci sono poi finite una imperial stout ed una pils (La Spada nella Botte). E pochi giorni fa è stato presentato BarriC, progetto a quattro mani al quale partecipano, oltre a Fontana ed a Matteo Bonfanti, birraio del Carrobiolo, anche Gianriccardo Corbo (“naso, competenza e bocca fine”) e Stefano Andretta (grafica e comunicazione. Un ulteriore passo in avanti negli affinamenti in legno: birre acide.

La birra.
La O.G. 1085 Una Botte e Via 2015 nasce dopo un affinamento di tre mesi in botti ex-barolo. La stappo due anni dopo la data di scadenza, ma il suo colore arancio è giovane e luminoso: la schiuma biancastra non è molto generosa ed è un po’ scomposta. Vino, legno, agrumi e albicocca candita, zucchero candito, una delicata speziatura: a quattro anni dalla messa in bottiglia l’aroma è uno splendido mix di freschezza e qualche nota funky brettata. Al palato le bollicine sono ancora vivaci e la bevuta sorprende per la sua giovinezza: il dolce della tripel (biscotto, frutta candita) è perfettamente bilanciato dall’asprezza delle note vinose,  da una lieve acidità e dalla timida presenza amaricante finale che richiama il Curaçao. Un delicato alcol warming accompagna in sottofondo l’intero percorso senza mai alzare la voce.  Birra e botte interagiscono in maniera splendida, senza che quest’ultima voglia prevaricarla: carattere, complessità, pulizia e precisione. C’è tutto quel che serve per volare in alto, anche due anni dopo la data di scadenza.
Formato 37,5 cl., alc. 9.5%, lotto i1504, scad.  12/2017

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 13 dicembre 2019

Oppigårds Double Winter Ale

Il birrificio Oppigårds è operativo dal 2008 a Ingvallsbenning, Dalarna: gli edifici sono quelli di un’antica fattoria di proprietà della famiglia Falkeström da oltre duecento anni. Alla guida c’è Björn Falkeström con la moglie Sylvia e una decina di dipendenti: un’idea nata negli anni ottanta ma realizzatasi solamente nel 2003 quando Björn, nei momenti liberi dal suo lavoro in ferramenta, ha terminato la progettazione e la costruzione dell’impianto. Gli ottomila litri prodotti nell’anno del debutto sono diventati oggi oltre quattro milioni, l’80% dei quali viene venduto attraverso il monopolio di stato svedese, il Systembolaget; ma c’è anche spazio per esportare in Italia, Svizzera, Austria, Ungheria, Francia, Spagna e Slovenia, Stati Uniti.  Merito anche dello straordinario risultato ottenuto al Beer and Whiskey Festival di Stoccolma del 2008, nel corso del quale Oppigårds racimolò ben dodici medaglie: nell’edizione 2014 ne arrivarono invece undici: “da allora abbiamo fatto parecchi investimenti e cambiamenti – racconta Björn -  e oggi le nostre birre sono molto più stabili e consistenti: allora producevamo dei lotti di ottima qualità e altri molto meno riusciti. Quando iniziammo c’erano solo una decina di microbirrifici in Svezia, oggi vene sono oltre duecento. A quel tempo non sapevo neppure che cosa fosse una Strong Porter o una IPA, che oggi è la birra che vendiamo di più”.   Nel 2016 è stato portato a termine un importante piano d'espansione che ha permesso di raggiungere la capacità attuale di 45.000 ettolitri: è stato acquistato un terreno vicino alla fattoria dove è ora in funzione il nuovo impianto che, in futuro, permetterà di arrivare sino a 70.000 ettolitri l’anno. 
La birra invernale di Oppigårds si chiama semplicemente Winter Ale (5.3%) ed è disponibile nei mesi di novembre e dicembre: una Dark Strong Ale prodotta con malti Pilsnelt, light caramel, dark caramel, Crystal 100 e Chocolate, luppoli Centennial, Chinook e  Cascade.

La birra.
La SMAD (Single Malt Academy of Dalecarlia) è uno dei più vecchi e attivi club di amanti del whisky in Svezia; nel 2017 ha compiuto vent’anni e per l’occasione il birrificio Oppigårds realizzò una birra celebrativa. In maggio vennero prodotte 3000 bottiglie di Double Winter Ale, versione raddoppiata della Winter Ale (10%); le bottiglie furono poi messe in vendita in novembre, quando la birra debuttò al Beer and Whiskey Fair di Borlänge. 
Nel bicchiere si presenta di color ambrato piuttosto carico e velato, la schiuma è cremosa e compatta ed ha una buona persistenza. Al naso la componente etilica balza subito in primo piano e accompagna i profumi di frutta candita, caramello, uvetta, prugna, marmellata d’arancia. Aroma caldo e intenso ma migliorabile per quel che riguarda la finezza. La Double Winter Ale di Oppigårds è coerente da inizio alla fine e regala una bevuta potente, piuttosto etilica e dolce, ricca degli stessi elementi: caramello, biscotto, frutta sotto spirito e sciroppo di frutta, prevalentemente uvetta e prugne con una delicatissima nota speziata ad annunciare l’arrivo delle festività. Ottimo il mouthfeel, morbido e avvolgente, finale privo d’amaro ma abbastanza ben attenuato: il problema è tutto quel dolce che lo ha preceduto. Una birra pensata per gli amanti del whisky nella quale l’alcool assesta qualche colpo più violento del dovuto: si sorseggia quindi lentamene ma le manca quella complessità capace di rendere interessante quel lento sorseggiare. Dopo qualche sorso, la noia.
Formato 33 cl., alc. 10%, scad. 05/10/2019, prezzo indicativo 4,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 12 dicembre 2019

Olde Hickory Imperial Stout


Hickory è una tranquilla cittadina della Carolina del Nord dove risiedono circa 40.000 abitanti: è qui che nel 1994 Steven Lyerly e Jason Yates hanno acquistato il brewpub Olde Hickory, dotato di un impianto da otto ettolitri assemblato con componenti provenienti dall’industria casearia. Lyerly aveva iniziato con l’homebrewing ai tempi del college: “mi sono reso conto che non avrei potuto vivere facendo l’antropologo, quindi mi sono concentrato sulla birra”. L’economia di Hickory, come quella di tutta la Carolina del Nord, non è in un buon momento: i mobilifici che per anni l’avevano trainata sono in crisi  e ci sono molti edifici abbandonati: Lyerly non si lascia sfuggire l’occasione per rilevare a buon prezzo un edificio storico del 1880 in piena downtown che sino al 1960 era stato utilizzato come magazzino per il cotone. 
Nel 1998 Olde Hickory inaugura così in pieno centro il suo secondo sito produttivo con impianto da 25 ettolitri che non dispone però di taproom: i clienti devono recarsi in un altro locale che si trova a pochi centinaia di metri di distanza. Il brewpub originale Amos Howards, nel sobborgo di Long View, rimane operativo. 
Un’operazione simile viene replicata qualche anno dopo; la stazione ferroviaria di Hickory è in disuso, Lyerly e Yates l’acquistano per restaurarla e riconvertirla in un piccolo polo gastronomico: 50 spine di birra, ristorante, panificio, cocktails, vini e un piccolo mercatino per gli acquisti. Anche questa location si trova downtown ed in prossimità delle altre due.  Per molti anni Olde Hickory ha prodotto quasi esclusivamente fusti per alimentare i propri brewpub, ma la crisi economica del 2008 cambiato le cose: “la gente usciva meno a mangiare e dovevamo inventarci qualcosa per continuare a vendere; oggi la nostra produzione è divisa a metà tra fusti e bottiglie”. Le ormai obbligatorie lattine sono arrivate solo a marzo del 2019. 
La birra che fa tenere perennemente l’impianto in funzione è la Ruby Lager, ma pian piano anche Olde Hickory ha iniziato a sperimentare con gli invecchiamenti in botte e con birre più “impegnative” come barley wine, imperial stout e acide che oggi vengono anche esportate all’estero.  
“La nostra parola d’ordine è comunque sempre equilibrio – dice Lyerly – Siamo ad Hickory. Se fossimo a New York o a Los Angeles sarebbe probabilmente un’altra storia”.  Ma qualcosa anche qui sta cambiando: grazie ad una politica fiscale favorevole qualche anno fa Google e Apple hanno costruito i loro nuovi data center ad una ventina di miglia di distanza da Hickory offrendo nuove opportunità di lavoro e tornando a far crescere la popolazione: “l’arrivo di queste compagnie internazionali ci ha portato fortuna, i loro dipendenti erano già abituati alla birra artigianale e ci hanno permesso di andare avanti”. 


La birra.
Da qualche anno le Olde Hickory si trovano anche abbastanza regolarmente nei beershop europei ma a prezzi piuttosto elevati: oltre 20 euro per 65 centilitri di imperial stout non invecchiata in botte è per quel che mi riguarda una soglia che non ho intenzione di superare. Ho dovuto quindi aspettare sconti e saldi per assaggiare la mia prima Olde Hickory Imperial Stout: nello specifico una bottiglia del 2017. “Uno dei miei ingredienti preferiti è il miele grezzo. Lo utilizzo in quasi tutte le nostre imperial stout e proviene da un apicultore locale”, dice Lyerly: ovviamente questa birra non fa eccezione. 
Nel bicchiere è perfetta: completamente nera, schiuma cremosa e compatta, golosa, ottima ritenzione. A due anni dall’imbottigliamento il naso è ancora piuttosto intenso e non mostra nessun cedimento: fruit cake, miele, pane nero, tostature, caffè, tabacco. Livello di pulizia elevato. Al palato è delicata, setosa, una delicata carezza quasi impalpabile: il corpo è medio, non ci sono particolari viscosità, la bevibilità ne trae beneficio. La bevuta è pulita e bilanciatissima tra il dolce di fruit cake, miele, liquirizia, frutta sotto spirito e l’amaro del torrefatto, del caffè e di una luppolatura che è ancora ben presente. L’alcool si fa sentire quasi solo a fine corsa.
Imperial Stout vecchia scuola godibilissima e raffinata che rientra perfettamente nelle mie corde: molto equilibrata in un percorso che si conclude con un bell’amaro intenso. Con un po’ di corpo in più sarebbe stata per me perfetta, ma va benissimo anche così.
Formato 65 cl., alc. 10.5%, imbott. 13/09/2017, pagata 14,30 € (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 10 dicembre 2019

Coop Italia Fior Fiore IPA & Fior Fiore Blonde


“Nel corso del 2018, per la prima volta, gli acquisti di birra in Italia hanno raggiunto e superato il miliardo di euro, con un consumo medio pro capite di 32 litri. Continua a crescere la passione per questa storica bevanda, che può offrire agli estimatori tante versioni diverse, per gusto, sapore, tipologia di lavorazione e paese di provenienza. Se la cavano bene le birre straniere, ma crescono anche quelle italiane, sia nel mercato interno sia nell’esportazione che ha raggiunto i 200 milioni di euro e un +11% nell’ultimo anno”: questa la premessa fatta dal gruppo Coop nei primi mesi del 2019 per annunciare il rinnovamento l’ampliamento dell’offerta “Birre Fior Fiore”.  Si parte dall’Italia e dalle Birre doppio malto Fior Fiore (chiara e rossa) prodotte da Pedavena caratterizzate “da un profilo aromatico più ricco e un rafforzamento organolettico del corpo delle ricette, approvate da esperti assaggiatori” (sic)  per arrivare alla Germania dove il birrificio Wieninger, in Baviera, produce la  Birra di frumento IGP tedesca Fiorfiore.  Le novità sono invece rappresentate con due tuffi nella tradizione belga (Blanche e Blonde) e uno in quella anglosassone (English IPA). 
Curiosi di sapere come sono ? Beviamole. 

Pariamo dall’Inghilterra e dal birrificio Robinson che si trova a Stockport, nella grande periferia di Manchester. Personalmente lo ricordo solamente per quella che credo sia la sua birra più famosa e, probabilmente, la meno peggio: parlo della Old Tom, disponibile anche nella sua improbabile versione al cioccolato. Ma Robinson è anche il responsabile (sì, "che può essere chiamato a rispondere di certi atti") della serie delle Trooper, le birre ufficiali degli Iron Maiden e produce già svariate birre per la grande distribuzione inglese (Marks & Spencer) e per le Co-op europee. A loro per il mercato italiano viene chiesto di produrre la Fior Fiore IPA: sarà un clone della Robinsons 9 Hop IPA  (anche’essa  6.0%) ? Non lo sapremo mai. La novità in casa Coop non è però accompagnata da un adeguato restyling delle etichette, che ripropongono le stesse (terrificanti) linee guida di tutta la gamma Fior Fiore. Il comunicato stampa Coop ci vuole però far sapere che la birra ha seguito il “metodo di produzione del periodo coloniale, quando i lunghi viaggi verso l’India richiedevano l’uso di tanto luppolo per la conservazione della birra”. 
Nel bicchiere è perfettamente limpida, il suo colore oscilla tra il ramato e l’ambrato: schiuma biancastra, cremosa, ottima persistenza. Fiori, marmellata d’agrumi, trebbie, terra: l’aroma non è così terribile, anche se trasmette una sensazione di vecchiaia anziché di freschezza. Dopo tutto in una English IPA nessuno va a cercare l’intensità e la freschezza del dry-hopping o del DDH. Purtroppo il peggio deve ancora venire: note metalliche e saponose caratterizzano una IPA che si fa davvero fatica a bere. C’è anche posto per un po’ di caramello, di marmellata d’agrumi e per un amaro terroso e vegetale davvero sgraziato e sgradevole: anche l’alcool (6%) potrebbe essere meglio nascosto. Costa all’incirca 5 euro al litro ma fa rimpiangere i soldi spesi: se proprio volete spendere poco vi conviene andare al discount e mettere nel carrello le IPA prodotte da Amarcord o quelle della Crafty Brewing Company fatte per Lidl dal birrificio irlandese Rye River. Spenderete ancora meno meglio.

Meglio attraversare in fretta lo Stretto della Manica per abbandonare il Regno Unito e recarsi in Belgio dove al birrificio belga Van Steenberge è stata commissionata la Fior Fiore Birra Blonde. Van Steenberge è un birrificio commerciale che produce quasi più per conto terzi che per se stesso e che vanta un numero sterminato di etichette: Gulden Draak, Old Buccaneer, Piraat e Augustijn sono quelle che godono di maggior notorietà e che trovate spesso anche nei supermercati italiani. Ma Van Steenberge è anche colui che produce la Tripel de Garre, e berla alla spina dello Staminee de Garre nell’omonimo vicolo di Bruges è un’esperienza che ogni birrofilo dovrebbe fare almeno una volta nella vita.  Il problema è che Van Steenberge non di rado commercializza la stessa birra con etichette e nomi diversi: difficile orientarsi.  Ad esempio il birrificio belga produce già di suo le Keizersberg Blond, Tripel e Dubbel e quelli della Coop dicono che la Fior Fiore Blonde si basa su una ricetta del 1899 arrivata dall’abbazia benedettina di Keizersberg. Bingo? 
Mi coglie di sorpresa: gushing, dai tecnici di Van Steenberge non me l’aspettavo. Il suo colore invece è perfettamente in bilico tra l’arancio e il dorato, la schiuma non è invece quella “panna montata” tipica della scuola belga. Il naso però non è niente male: coriandolo, chiodo di garofano, pepe bianco, zucchero candito, biscotto, curacao; pulito, abbastanza intenso. Bene anche la sensazione palatale, scorrevole, vivacemente carbonata e con l’alcool (7%) che s’avverte solo nel finale come da manuale belga. La bevuta è meno interessante rispetto al naso ma comunque accettabile: biscotto, miele, zucchero candito e frutta candita disegnano una birra piuttosto dolce che viene comunque abbastanza ben attenuata e bilanciata da un tocco amaricante di curacao e purtroppo spenta da un finale un po’ troppo acquoso. Una belga standard che sembra uscire da un campionario, priva di anima ma che comunque si beve senza problemi. Rispetto alla IPA qui siamo su di un altro pianeta. 
Nel dettaglio:
Fior Fiore IPA, formato 50 cl., alc. 6,0%, lotto L9898, scad. 28/10/2020, prezzo 2,40 €
Fior Fiore Birra Blonde, formato 50 cl., alc. 7%, lotto 19HS, scad. 05/12/2019, prezzo 2,40 €

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 9 dicembre 2019

Avery Old Jubilation Ale

Del birrificio Avery di Denver, Colorado, e della sua storia vi avevo parlato qualche mese fa. Fu fondato dall’ex-homebrewer Adam Avery nel 1993 e nel 2015 ha completato un ambizioso piano di espansione costato oltre venti milioni di dollari; le vendite non sono però mai decollate e Avery ha dovuto cercare dei partner disponibili ad immettere la liquidità necessaria per andare avanti e ridurre l’esposizione debitoria con le banche. Non si sono fatti sfuggire l’occasione quelli spagnoli della Mahou San Miguel che nel 2014 avevano già rilevato il 30% del birrificio Founders: lo stesso è accaduto con Avery.  E pochi mesi fa Mahou ha messo in pratica la seconda fase del piano passando da socio di minoranza a quello di maggioranza: 70% per Avery, 90% per Founders. 
Colorado, Montagne Rocciose: il Rocky Mountain National Park è uno dei parchi più popolari degli Stati Uniti visitato da più di tre milioni di turisti ogni anno. Nonostante una cinquantina di vette che superano i quattromila metri d’altezza gli inverni in Colorado non sono particolarmente rigidi, con una temperatura media a valle di sette gradi centigradi. Per chi ha paura del freddo Avery offre una serie di birre invecchiate in botte dalla gradazione alcolica molto elevata, ma non solo.  La birra stagionale invernale di Avery per eccellenza è “soltanto” una Old/Strong Ale d’ispirazione inglese dal contenuto alcolico di poco superiore all’8%.

La birra. 
“Mi ispirai alla Old Peculierricorda Adam Averyalla metà degli anni ’90 era una delle birre che bevevo maggiormente e, siccome possedevo un birrificio, pensai di fare qualcosa che le assomigliasse. Non volevo copiarla ma realizzare una birra che si basasse sulla ricchezza dei malti. La realizzammo per la prima volta nel 1997 in un periodo in cui non ce la stavamo passando molto bene e le nostre birre si vendevano poco. Ma questa ha sempre avuto grande successo a Boulder e quindi continuiamo a produrla ancora oggi. E’ una di quelle birra che mi ha aiutato a spiegare alla gente la differenza tra il nostro birrificio e quello che la maggior parte degli altri birrifici faceva in quel periodo  Oggi abbiamo forse superato il punto in cui parlare di stagionalità non ha più senso: ci sono così tanti birrifici in giro e la gente vuole sempre qualcosa di nuovo da provare. Io mi rivolgo piuttosto a coloro che cercano semplicemente una birra intensa ma facile da bere per accompagnare i dolci e i lauti pasti delle festività: la nostra Old Jubilation è ancora lì” 
La ricetta, disponibile anche per homebrewers volenterosi sul sito di Avery, prevede malti 2-Row, Black, Chocolate, Bonlander Munich e Gambrinus Honey, luppolo Bullion e lievito London Ale: nessuna di quelle spezie che vengono di solito utilizzate per le birre natalizie. Dal 2015 è disponibile anche in lattina, formato che credo abbia ormai sostituito definitivamente la bottiglia. Io vado invece a stappare un esemplare in vetro dall’età imprecisata. 
Bel colore ambrato carico, splendidi riflessi rubini: nel bicchiere fa la sua figura e al naso regala profumi di ciliegia, uvetta e prugna, frutti di bosco, melassa, pane nero, biscotto e frutta secca a guscio. Nonostante la tradizione di riferimento sia quella inglese la carbonazione molto bassa le toglie un po’ di vitalità: il gusto mostra perfetta corrispondenza con l’aroma, espressione del ricco parterre dei malti utilizzati. Biscotto, caramello, toffee, uvetta e prugna, un amaro appena accennato di frutta secca a guscio. L’alcool quasi non si sente e in questo caso ne avverto un po’ a mancanza, visto che nel bicchiere abbiamo un cosiddetto Winter Warmer. Dolce ma perfettamente bilanciata, chiude con qualche remota suggestione di cioccolato che emerge man mano che la birra si scalda.
Le festività sono il tempo delle tradizioni, delle riunioni di famiglia, dei ricordi: la Old Jubilation Ale di Avery è la scatola degli addobbi natalizi che tirate fuori dal ripostiglio ogni anno in dicembre. Sapete perfettamente cosa c’è dentro e dentro di voi provate un piacevole misto di gioia e noia per quello che vi attenderà a breve.
Formato 35,5 cl., alc. 8.3%, IBU 45, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 4.00-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 4 dicembre 2019

Cazeau Hop Harvest 2019

Villaggio di Templeuve, Tournai, Vallonia: risale al 1753 il primo documento storico che attesta la presenza di un produttore di birra. E’ il testamento di Jacques Descamps che lasciava al figlio Nicolas la propria casa ed un altro edifici da utilizzare per la produzione e la somministrazione di birra. Il nipote di Nicolas, Denis Delecoeuillerie, cede nel 1856 la brasserie al giovane nipote francese Jean-Baptiste Agache che gestisce il birrificio assieme ai figli Arthur e Charles sino all’inizio del primo conflitto mondiale, quando i tedeschi confiscano tutti gli impianti. 
La produzione riparte nel 1918 sfruttando uno dei pochi birrifici sopravvissuti alla guerra, Duchâtelet a Néchin: è solamente nel 1926 che la famiglia Agache riesce a rimettere in funzione il proprio impianto  in Rue Cazeau a Tournai, ad un paio di chilometri di distanza da Templeuve. Nasce la Brasserie de Cazeau che verrà guidata sino al 1952 da Maurice Agache. Il testimone passa poi nelle mani del figlio Jean assistito dal fratello minore Maurice, ma la birra ambrata Cazbier che sino ad allora occupava la maggior parte della produzione inizia a perdere colpi: i gusti dei consumatori si stanno orientando sempre di più verso le basse fermentazioni, pils e lager, prodotte dai grandi birrifici industriali. Nel 1969 anche la Brasserie de Cazeau, come tutti gli altri birrifici della regione del Grand Tournai, decide di spegnere gli impianti e di dedicarsi alla distribuzione di birre ed altre bevande. 
E’ solamente nel 2002 che Laurent Agache, ingegnere civile che lavora nel settore delle costruzioni e secondo figlio di Jean, prova a riportare in vita la tradizione di famiglia assieme al cugino Quentin Mariage, perito chimico presso una ditta di fertilizzanti. In Inghilterra riescono a recuperare il vecchio impianto della Brasserie de Cazeau e lo riportano a casa apportando le necessarie modifiche; dopo due anni di tentativi a maggio 2014 nasce la Tournay Blonde, seguita nel 2006 dalla Tournay de Noël, nel 2007 dalla Tournay Noire e nel 2008 dalla Saison Cazeau. Quello che è iniziato quasi come un hobby, un'attività da svolgere nei weekend, è diventata una cosa seria e Agache ci si dedica a tempo pieno. La gamma “classica” si completa nel 2012 con la Tournay Triple, ma il birrificio ha prodotto occasionalmente una ventina di altre etichette spesso non più replicate.

La birra.
L’ultima nata in casa Cazeau è  la Hop Harvest 2019: a Tournai non fanno mistero di essersi ispirati a alla Harvest Ale più famosa di tutto il Belgio, quella che il birrificio De Ranke produce ogni anno ad una trentina di chilometri di distanza. Per la prima Hop Harvest di Cazeau è stata utilizzato luppolo Cascade raccolto in Belgio. 
Il suo colore è oro pallido, quasi paglierino, la schiuma è perfetta: candida, pannosa e compatta, lunga ritenzione. Il naso è un piccolo capolavoro di finezza, equilibrio e fragranza:  profumi floreali, erbacei, mandarino, arancia, pane e crackers, una delicata speziatura.  La bevuta è agile e vivacemente carbonata come vuole la tradizione belga: il gusto non replica le meraviglie dell’aroma ma è comunque di livello. Malti leggeri (pane e crackers), suggestioni dolci di polpa d’agrumi, un pizzico di spezie e un finale secco, moderatamente amaro che si diversifica quasi equamente tra note erbacee, zesty e terrose. Ugualmente pulita ed elegante in bocca, ma meno intensa rispetto all’aroma, la Hop Harvest di Cazeau evapora dal bicchiere in pochi minuti. Il risultato è classicamente belga e moderno al tempo stesso: una Belgian Ale luppolata che piacerà a chi ama De Ranke e Brasserie della Senne. Non fatevela scappare.
Formato 33 cl., alc. 5%, lotto B04-19, scad. 02/2020, prezzo indicativo 3,50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 3 dicembre 2019

Founders Barrel Runner

Ecco l’ultimo tassello della Barrel Aged Series 2018 del birrificio Founders di Grand Rapids, Michigan. Sei birre barricate provenienti da un’enorme “cantina” (virgolette d’obbligo), ovvero una vecchia cava di gesso ora in disuso che si trova a 5 chilometri di distanza dal birrificio. E’ qui dove oggi riposano circa 20.000  barili a 25 metri di profondità e ad una temperatura costante di 3-4 gradi centigradi. Al termine dell’invecchiamento i barili vengono riportati in superficie con un montacarichi, caricati su di un camion e consegnati al birrificio; dalle botti la birra viene trasferita in serbatoi d’acciaio e centrifugata per rimuovere i sedimenti prima del confezionamento. La Barrel Aged Series 2018 è stata inaugurata come al solito dalla imperial stout KBS (marzo) seguita da Backwoods Bastard (aprile),  Dankwood (maggio), Barrel Runner (giugno), Curmudgeon’s Better Half (agosto) e CBS (novembre).  Le trovate tutte sul blog. 
Mancava Barrel Runner, una Imperial Red IPA (11.1%)  luppolata con abbondanti quantità di Mosaic e poi invecchiata in botti che avevano ospitato in precedenza rum: ha debuttato a giugno 2018, dapprima alla spina delle due taproom di Founders e in seguito è stata distribuita in bottiglia. I prezzi americani? Quindici dollari per il 4 pack e 12 dollari per la bottiglia da 75 centilitri, tasse escluse ovviamente. Il birraio Jeremy Kosmicki dichiara di essersi ispirato ai cosiddetti tiki cocktails: “ne bevo più di quanto dovrei e hanno ispirato questa birra. Il carattere tropicale donato dal Mosaic, il rum e il legno: aggiungete un ombrellino nel bicchiere ed avrete la birra perfetta da bere a bordo piscina”.  Barrel Runner è anche la prima esperienza di Founders con botti di rum. 
E i Tiki cocktails? Pare siano stati inventati da Ernest Gantt che negli anni ’30 possedeva in California il bar Don the Beachcomber. Gnatt era arrivato dal Texas e il suo amore per le spiagge era così forte che qualche anno dopo cambiò legalmente il proprio nome in Donn Beach; qui ideò alcuni cocktail esotici a base di rum, miele e sciroppi e il suo locale era adornato di souvenir provenienti dai suoi frequenti viaggi nei tropici. Al ritorno dalla seconda guerra mondiale Gnatt si trasferì alle isole Hawaii per aprire quello che viene considerato l’archetipo del Tiki Bar, chiamato Waikiki Beach: palme, maschere hawaiane, una pioggerella artificiale perenne sul tetto e uno storno addestrato a ripetere la frase “dammi una birra, stupido!”. 
Don era solito servire i propri cocktail in classici bicchieri di vetro; i Tiki Bar utilizzano invece  oggi le tazze Tiki in ceramica che rappresentano i volti di alcune divinità; la leggenda vuole che dento ogni tazza si celi uno spirito. I tiki cocktails originali erano realizzati blendando diverse varietà di rum con liquori all’arancia (Triple sec, Grand Marnier, Cointreau), sciroppi (Falernum, Fassionola, orzata) e bitter: oggi gli stessi locali servono dei cocktails molto più docili e fruttati che cercano invece di nascondere il sapore dei distillati. La quintessenza del tiki cocktails è probabilmente il Mai Tai: rum chiaro e scuro, Curaçao, sciroppo d'orzata e succo di lime. Si dice sia stato inventato nel 1944  da Victor Bergeron al Trader Vic’s bar di Oakland, California, ma i rivali del Don the Beachcomber ne rivendicano la creazione – con una ricetta differente -  facendola risalire al 1933.

La birra.
Arancio, ambrato carico, piuttosto velato: nel bicchiere si forma anche una buona testa di schiuma cremosa e compatta. La componente etilica è subito evidente al naso: il rum è assoluto protagonista e i profumi di frutta tropicale e agrumi della Imperial Red Ale rimangono confinati nelle retrovie. L’intensità è notevole ma lo spettro aromatico risulta abbastanza ridotto e monocorde. La bevuta si muove sugli stessi binari senza deviazioni: la Barrel Runner di Founders picchia duro e forse vuole volutamente replicare i tiki cockatils originali, quelli “per uomini veri”. Il distillato la segna da capo a coda e il sorseggiare è un lento percorso che richiede frequenti pause defaticanti: lentamente il palato s’abitua e le cose vanno un po’ meglio, ma ad oltre un anno dalla messa in bottiglia la componente etilica è ancora prevaricante. L’accompagna una generale sensazione tropicale: per ovvi motivi (Barrel Aged) non è frutta fresca. E’ una il cui dolce viene perfettamente asciugato dall’alcool e da una nota amara resinosa-vegetale conclusiva che, benché funzionale allo scopo, personalmente mi sembra un po’ fuori contesto: quasi per miracolo il palato si trova comunque pulito e pronto a ricominciare. Per il mio gusto non è sicuramente la miglior Barrel Aged di Founders: molto segnata dalla botte, dimostra molto più alcool di quello che dichiara. Buona ma -riprendendo le parole del birraio - non è esattamente la birra che vorrei bere a bordo di una piscina.
Formato 35.5 cl., alc. 11.1%, IBU 55, imbott. 05/2018, scad. 26/05/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 29 novembre 2019

Eastside Baciami Ancora

Il birrificio Eastside di Latina è da qualche anno una presenza abbastanza ricorrente sul blog: qui trovate tutte le birre passate su queste pagine. Anche Eastside – da sempre attento alle tendenze birrarie -  è uno di tra i pochi birrifici italiani che hanno iniziato ad utilizzare il formato lattina 44 centilitri che sta ormai spopolando in tutta Europa. Il loro debutto è avvenuto a metà luglio, giusto in tempo per portarle in spiaggia nella borsa frigo, con l’American IPA Sunny Side seguita il mese successivo dalla Soul Kiss, l’American Pale Ale con la quale Eastside aveva debuttato. La gamma si è poi ampliata con la Double IPA Sun Stroke, l’imperial stout Baciami Ancora e l’ultima arrivata Dreamshake IPA. 
Torniamo all’estate scorsa: pare che lo staff Eastside sia rimasto particolarmente soddisfatto di una cena presso La Mangiatoia di Alassio, steakhouse che vanta anche una bella selezione di birre artigianali. Cena che si è conclusa con l’assaggio di qualche Bacio di Alassio, dolcetto tipico della località ligure inventato all’inizio del ‘900 da Pasquale Balzola. Ecco come la pasticceria ne ripercorre la storia: “agli albori del secolo scorso, in modo lento ma progressivo, gli italiani scoprirono, grazie all’ausilio dei nuovi mezzi di comunicazione, il piacere del Turismo e con esso la possibilità di recarsi nelle località balneari del Ponente Ligure per potersi immergere nelle nascenti “bagnature di mare” (così si chiamavano allora le attività marine) e trascorrere le vacanze estive. Ad Alassio, cittadina costiera dell’estremo ponente ligure, antico borgo marinaro e perla della riviera di ponente, gravitava in quell’epoca, così come accade oggi, tutto il bel mondo proveniente dalla Lombardia e Piemonte unitamente a vaste colonie di inglesi e tedeschi che apprezzavano un mare azzurro ed incontaminato unitamente ad una sabbia naturale pulitissima e ricca di quarzite, la cui ottima conducibilità di calore riusciva a curare dolori e reumatismi. Balzola Pasquale, fondatore della nostra azienda, dotato di fausto e geniale intuito, comprese la potenzialità economica che il nascente fenomeno turistico poteva rappresentare e decise di creare un prodotto dolciario con discrete qualità di conservazione che si potesse vendere alla stregua di un souvenir da regalare a parenti o amici al ritorno delle vacanze. Così fu e l’idea ebbe grande successo; sfruttando i semplici e allora poveri ingredienti che la natura avara di Liguria poteva fornire, nacquero i Baci di Alassio (da noi brevettati sin dal lontano 1919)”. 
La ricetta originale della Pasticceria Balzola prevede nocciole Piemonte IGP, zucchero, albume d’uovo, miele cacao, farina di frumento, burro e aromi per il guscio; copertura di cioccolato fondente, panna, burro di cacao, cacao in polvere e pasta di nocciole per il ripieno.

La birra.
Baciami Ancora è l’ultima imperial stout (10%) nata in casa Eastside ed è prodotta con aggiunta di farro, cacao, caffè, lattosio e Baci d’Alassio quest’ultimi usati in bollitura durante la realizzazione del mosto. Il suo vernissage non poteva che avvenire in Liguria: non ad Alassio, ma al Genova Beer Festival dello scorso 18 ottobre. 
Non è completamente nera ma poco ci manca: peccato per la schiuma, quasi inesistente e rapida nel dissolversi. L’aroma è pulito e gradevole ma d’intensità piuttosto modesta: caffè moka, tabacco, note terrose e torrefatte, cacao fondente.. La bevuta fa un netto balzo in avanti rispetto all’aroma, soprattutto per l’intensità: liquirizia, frutti di bosco, nocciola e vaniglia danno il via ad una imperial stout dolce che poi vira piuttosto velocemente sull’amaro del caffè, del cioccolato fondente, del torrefatto e del luppolo. Lascia una lunga scia morbida e moderatamente etilica nella quale caffè e cioccolato si “baciano ancora”.  Ed è un bacio nero abbastanza morbido al palato, leggermente viscoso ma non ingombrante: si sorseggia in tutta tranquillità e con piena soddisfazione.  Nonostante l’utilizzo di un pasticcino è (fortunatamente, aggiungo io) un’imperial stout che si mantiene assolutamente distante dal territorio pastry: è una birra che sa di birra, intensa, pulita e ben bilanciata tra le sue componenti. L’aroma ha un po’ il freno a mano tirato ma al palato c’è pieno riscatto: cercate ovviamente di berla fresca, caffè e cioccolato non migliorano col tempo.
Formato 44 cl., alc. 10%, lotto 42 19, scad. 08/2024, prezzo indicativo 8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 28 novembre 2019

Kasteel Donker

Dalla sua fondazione, nella prima metà del 1800, la Brouwerij Van Honsebrouck è ancora nelle mani dell'omonima famiglia fondatrice, anche se è solo dal 1950, con l'arrivo di Luc Van Honsebrouck, che il birrificio assume il nome attuale. Un cambio al timone che si rivela fondamentale per il successo e per il futuro del birrificio: Luc decide di terminare la produzione di anonime lager per dedicarsi al lambic, dotandosi di foeders nei quali far maturare il mosto acquistato dai produttori del Pajottenland. Il successo della linea St. Louis (Gueuze e lambic alla frutta) portò Van Honsebrouck a diventare il secondo maggior produttore di lambic "addolcito" del Belgio, dietro a Belle-Vue; il mosto viene oggi prodotto internamente e fermenta spontaneamente in vasche aperte; il birrificio continua ad etichettare i suoi prodotti come gueuze e lambic nonostante si trovi ben al di fuori dei confini del Pajottenland. La gamma di Van Honsebrouck si completa con i marchi Bacchus (una  Oud Bruin  prodotta dal 1950), Brigand e Kasteel; queste ultime vennero lanciate verso la fine degli anni '80 per celebrare l'acquisto del castello della città di Ingelmunster, le cui cantine vengono ancora usate per la maturazione di alcune birre. Sebbene l'edificio attuale risalga al 1700, nello stesso sito esisteva prima un'abbazia e poi, a partire dal 1400, un castello con annesso birrificio. 
Un paio di anni fa vi avevo parlato della Cuvée du Château, potente Belgian Strong Ale che Van Honsebrouck mette in vendita una volta all’anno: una birra ispirata dall’assaggio di alcuni esemplari di Kasteel Donker che riposavano da una decina d’anni nelle cantine del birrificio. L’idea è di offrire ai clienti una birra già invecchiata senza obbligarli a fare cantina: come venga esattamente prodotta la Cuvée du Château non ci è dato sapere. La parola cuvée dovrebbe far pensare ad blend di birra fresca a birra vecchia: condizionale d’obbligo.

La birra.
Facciamo un passo indietro e stappiamo invece una bottiglia di Kasteel Donker che ho tenuto in cantina per quattro anni. Belga, scura e dal contenuto alcolico importante (11%): in teoria possiede tutte le caratteristiche necessarie per poter invecchiare bene. La sua tonaca di frate (cappuccino) è ancora piuttosto luminosa, la schiuma cremosa è invece di dimensioni abbastanza modeste e si dissolve abbastanza rapidamente. Uvetta, datteri, ciliegia, mela verde, frutta secca a guscio e soprattutto pera danno forma ad un naso intenso ma poco raffinato. Corpo medio, bollicine ancora abbastanza vivaci, ottima facilità di bevuta, quasi pericolosa: è una Strong Ale che non tradisce la tradizione belga. La bevuta è molto dolce, svolge buona parte del suo percorso sul baratro della stucchevolezza ma, benchè priva di amaro, viene salvata da un’ottima attenuazione. Fortunatamente la pera si fa da parte lasciando il palcoscenico a melassa, uvetta, ciliegia sciroppata, frutti di bosco e prugna disidratata. L’alcool c’è ma si mostra in maniera molto minore rispetto a quanto dichiarato. 
Non è particolarmente memorabile questa Kasteel Donker: birra importante ma non caratterizzata da adeguata profondità e complessità, e mi riferisco soprattutto all’espressività di sua maestà il lievito. Rispetto alla Cuvée du Château bevuta qualche anno fa è comunque un passo in avanti.
Formato 33 cl., alc. 11%, lotto KAD00506G, scad. 05/2020, pagata 1,75 euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 27 novembre 2019

FiftyFifty Totality Imperial Stout

Del birrificio Fifty Fifty di Truckee, California, vi avevo parlato nel 2015: in questa sperduta località montana Alicia ed Andy Barr hanno fondato nel 2006 un brewpub lasciando il loro lavoro alla Hewlett-Packard.  Reno è a 50 chilometri mentre il Lago Tahoe è a soli venti. Nonostante avessero qualche esperienza con l’homebrewing i due decidono di affidare la direzione dell’impianto all’esperto Todd Ashman, un birraio fondamentale non solo per il successo di FIfty Fifity ma anche per l'intera Craft Beer Revolution americana e soprattutto uno dei primi a sperimentare affinamenti in botte. Nel corso della sua permanenza al brewpub Flossmoor Station a Chicago (undici medaglie ottenute al Great American Beer Festival), negli anni ’90, aveva avuto modo di studiare da vicino quello che stava facendo Goose Island. 
Ed è proprio con una birra Barrel Aged, la imperial stout Eclipse, che Todd ha portato notorietà e successo Fifty Fifty: ogni anno centinaio di beergeeks affollavano la taproom cercando d’impossessarsi di qualche preziosa variante; poi, come spesso accade, l’hype degli appassionati si è spostato altrove e le bottiglie di Eclipse sono divenute reperibili senza fare troppa fatica anche alle nostre latitudini.  Nel 2014 Ashman aveva annunciato le sue dimissioni per ritornare alla Flossmoor Station di Chicago, continuando comunque collaborare esternamente per la famiglia Barr; a quanto pare dei problemi di salute lo hanno costretto a rinunciare e alla Fifty hanno fatto una colletta ed un fundraising per pagargli le spese mediche.  Oggi Ashman riveste ancora il ruolo di consulente per Fifty ma in sala cottura c’è un team di birrai guidato da Brian McGillivray e Marley Anderson: a loro il compito di far funzionare il vecchio brewpub, che alimenta anche l’adiacente ristorante Drunken Monkey, e un secondo sito produttivo (35 hl) a Tuckee dalla. E’ invece prevista per la primavera del 2020 l’apertura di una succursale a Reno, la piccola Las Vegas del Nevada.

La birra.
Totality è l’imperial stout base che ha poi dato forma alle numerosissime varianti della più famosa Eclipse; questa è stata per molti anni l’unica birra che Fifty Fifty distribuiva fuori dalla California ed in altri continenti; solo di recente, grazie all’aumentata capacità produttiva, il birrificio ha iniziato a distribuire anche altre etichette e qualche lattina di Totality è arrivata anche in Europa. 
2row, Golden Promise, Munich Light, Dark e Honey, Red Wheat, Pale Chocolate, Brown, Chocolate, Black e malti tostati; queste dovrebbero essere le basi di una ricetta alla quale vengono aggiunti luppoli Mt. Hood, Magnum e Perle, estratto di malti e sciroppo di riso. 
Il suo colore è ebano scuro, la schiuma è cremosa, compatta ed ha buona persistenza. L’aspetto è bello e invitante, l’aroma invece è poca roba: accenni di torrefatto, fruit cake, frutti di bosco. L’intensità è davvero minima. Fortunatamente il gusto mostra segni di ripresa, non tanto per quel che riguarda pulizia e definizione, ma soprattutto per intensità. Caramello, fruit cake, liquirizia aprono un percorso dolce che viene bilanciato e concluso dall’amaro del caffè, del tostato, del cioccolato fondente e da una leggera luppolatura: la presenza etilica è quasi delicata. Al palato non ci sono particolari ingombri o viscosità, solo una leggera morbidezza. 
Totality di Fifty Fifty è un’imperial stout molto bilanciata che si lascia bere con facilità ma che non brilla per precisione e pulizia: bene ma non benissimo, per farla breve. Discorso che potrei estendere anche alla sorella più famosa Eclipse, le cui varianti viaggiano solitamente a 30€ a bottiglia: si beve bene, ma il rapporto qualità prezzo non è dei migliori e a quelle cifre oggi si trovano molte alternative.
Formato 47,3 cl., alc. 9.5%, imbott. 07/02/2019, prezzo indicativo 7,00 euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 22 novembre 2019

Ritual LAB / Stigbergets / O/O Freya

Se lo si confronta con le annate precedenti  il 2019 che si sta concludendo è stato ricco di collaborazioni  per il birrificio Ritual Lab di Formello (Roma); qualche settimana fa vi avevo parlato della Four Brothers, una Baltic Porter realizzata assieme agli olandesi di  De Moersleutel. A gennaio era invece arrivata Tangie, una saison al succo di mandarino prodotta con Oxbow Brewing Company e  Jester King Brewery e qualche settimana fa ha debuttato Goosebumps, Gose con aggiunta di melograno concepita con gli svedesi di  Wizard Brewing. 
Restiamo in questa nazione perché è da qui che a inizio ottobre arrivarono a Roma, complice la manifestazione EurHop, i birrari protagonisti di una nuova collaborazione: Stigbergets Bryggeri e O/O Brewing, ovvero due tra i produttori più apprezzati del movimento craft europeo. Per chi non lo sapesse, i due birrifici svedesi hanno condiviso assieme buona parte della loro storia: Stigbergets è balzato in cima alle classifiche del beer-rating europeo grazie alle NEIPA prodotte dal birraio Olle Andersson che al tempo stesso realizzava sugli stessi impianti anche le birre della propria beerfirm O/O.  Nel settembre del 2017 Andersson ha abbandonato Stigbergets per dedicarsi a tempio pieno ad O/O, nel frattempo si era dotata di impianti propri; è stato sostituito dai birrai Lucas Monryd e Andreas Görts, peraltro anche loro  già titolari di un’altra beerfirm svedese, All In Brewing, che ha iniziato a produrre sugli impianti di Stigbergets.

La birra.
Freya è forse la divinità norrena più popolare: è la bellissima dea dell'amore, della fecondità e della lussuria. Nel nostro caso Freya assume invece le sembianza di una Double IPA (8%) prodotta con una generosa luppolatura sulla quale non sono stati rivelati dettagli. 
Nel bicchiere assomiglia ad un torbido succo di pesca, la schiuma biancastra e abbastanza compatta ha una discreta persistenza. Mango, arancia, mandarino, pompelmo, papaya e potenzialmente qualsiasi altro frutto i vostri sensi vi suggeriscono vanno a formare un aroma molto pulito e intenso, piuttosto elegante e definito, dolce ma non stucchevole. Vi manca “l’effetto marijuana”, quel carattere dank che le NEIPA moderne hanno ormai perso per strada? Qui lo troverete senza dovervi sforzare di cercarlo. La sensazione palatale è morbida, leggermente chewy come vorrebbe lo stile NEIPA, ma non ingombrante: la sua scorrevolezza non è da record ma non ci si può lamentare. Il gusto richiama l’aroma alternando frutta tropicale dolce e leggermente più acerba/aspra: ne risulta una Double NEIPA abbastanza secca che chiude il suo percorso con un finale amaro resinoso-dank di buona intensità, anche se non di lunga durata. Ed è solo in questo frangente che l’alcool fa sentire un po’ la sua presenza.
Freya viaggia su livelli alti, e non poteva essere altrimenti visto i birrai coinvolti: NEIPA molto ben fatta nella quale il fruttatone tropicale viene bilanciato da un amaro importante che ricorda un po’ la vecchia scuola. Per chi detesta i succhi di frutta, questa è ancora una birra che sa di birra: correte a berla finché è fresca.
Formato 33 cl., alc. 8%, lotto 68, scad. 01/06/2020, prezzo indicativo 5.50-6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 novembre 2019

Põhjala Cellar Series - Pime Öö PX

Voglia di imperial (stout, porter)? Il birrificio estone Põhjala, attivo dal 2011, è diventato uno dei produttori europei più prolifici e di successo per questo tipo di birre: qui potete trovare tutte quelle che sono apparse sul blog negli ultimi anni. Il birrificio guidato in sala cottura da Chris Pilkington ed il suo team di birrai ha completato alla fine dello scorso anno un ambizioso piano di espansione che ha spostato gli impianti nel quartiere Kalamaja di Tallinn; qui è stata anche inaugurata la nuova Taproom, 24 spine Põhjala e qualche ospite, cucina gestita dallo Chef Michael Holman specializzata in barbecue texano. Aperta tutti i giorni tranne il lunedì da mezzogiorno a mezzanotte, la domenica chiusura anticipata alle cinque del pomeriggio: in caso di bisogno il beer e merchandising shop rimane comunque aperto sino alle 22. 
Põhjala organizza tutti i pomeriggi visite guidate agli impianti in inglese e in lingua estone: al costo di 10 euro potrete passeggiare tra i fermentatori ed usufruire di 3-4 assaggi. Bisogna però prenotarsi, anche on-line, almeno con un giorno d’anticipo. L’esperienza Põhjala culmina poi in una sauna che potete noleggiare per 50 euro all’ora: può ospitare sino a otto persone e, dopo il bagno di vapore, il birrificio vi mette a disposizione docce ed un’area relax privata dove – spero –  potete dissetarvi con qualche birra proveniente dalla taproom.

La birra. 
Pime Öö significa “notte oscura”. Una delle tante Imperial stout ideate per affrontare le lunghe notti dell’inverno estone che, nel suo picco tra dicembre e gennaio, vi regala solamente sei ore di luce: il sole sorge alle nove e mezza del mattino e tramonta alle 15 e 30.  La ricetta della Pime Öö (13.6%) prevede  malti Pale, Monaco, Special B, Crystal 300, Crystal 150, Crystal 200, Carafa type 2 special e  Chocolate, avena e Chocolate Rye (segale), due soli luppoli, Magnum e Northern Brewer.  Ne esistono ovviamente diverse versioni barricate e oggi assaggiamo quella invecchiata sei mesi (?) in botti di sherry Pedro Ximenez che, ricordo per i meno esperti, è un vino fortificato spagnolo. 
Il suo colore potrebbe effettivamente essere quello delle lunghe nottate nei boschi che circondano Tallinn: la schiuma, anche lei piuttosto scura, è cremosa ed ha buona persistenza. Al naso lo sherry è subito protagonista, circondato da profumi di melassa, fruit cake, uvetta, prugna disidratata, ciliegia e in secondo piano qualche lontano ricordo di caffè: non è un manifesto di pulizia e di eleganza ma è comunque una calorosa stretta di mano, un benvenuto che vi mette subito a vostro agio e che si concretizza in un sorso pieno, viscoso e denso ma non ingombrante. Se vi piace lo sherry non potrete che amare questa birra che ne è impregnata dall’inizio alla fine: molto dolce – e non potrebbe essere altrimenti – ma non stucchevole. Lo affiancano melassa, liquirizia, fruit cake, uvetta e prugna sotto spirito, timidi accenni di cioccolato e di caffè fanno una rapida comparsa finale prima di un lungo retrogusto di sherry.  L’alcool (quasi 14%) è gestito benissimo, non disturba e contribuisce a contrastare il dolce di una birra che rappresenta un porto accogliente nel quale approdare per ripararsi dalle intemperie dell’inverno.  Il passaggio in botte tende a surclassare la birra che ci è finita dentro ma è una bevuta che personalmente mi ha molto soddisfatto. A me lo sherry piace molto, chi ha invece gusti diversi potrebbe avere qualche problema.
Formato 33 cl., alc. 13.9%, IBU 60, lotto 405, scad. 14/03/2020, prezzo indicativo 8.00-10.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.