lunedì 31 marzo 2014

Brew Wharf Reserve

Il 23 Luglio 1999  Vinopolis apre le porte a Londra, situato sotto le arcate del treno, ad un tiro di schioppo da London Bridge e dal trendy Borough Market; si tratta uno spazio espositivo-commerciale (10.000 mq) realizzato dalla Wineworld London e completamente dedicato al mondo del vino:  esperienze formative-gustative, esibizioni, degustazioni, ristoranti ed ovviamente un negozio dove fare acquisti. Col tempo – ed è questo il motivo per cui si parla di Vinopolis su un blog di birra – le degustazioni e gli eventi vanno oltre il vino, coinvolgendo anche cocktails e distillati. Nelll’ottobre del 2005 si aggiunge anche un brewpub, chiamato Brew Wharf, ideato dai ristoratori e proprietari di ristoranti stellati Claudio Pulze (Aubergine e Cantina) e  Trevor Gulliver  (St John Restaurant a Smithfield),  con l’aiuto iniziale di Alastair Hook (Meantime) che installa e mette in funzione l’impianto da 8 ettolitri. Le birre sono inizialmente rispettose della tradizione anglosassone  e si basano sulle antiche ricetta della defunta Anchor Brewery  ma – leggo in giro – non proprio memorabili; la svolta avviene nel 2010 quando le ricette vengono completamente stravolte (ovvero americanizzate) da tre homebrewers:  Phil Lowry, Angelo Scarnera e Steve Skinner (immagino solo un omonimo del titolare del birrificio in Cornovaglia).  Phil Lowry nel 2011 è tra gli organizzatori della London Brewers Alliance:  il primo meeting inaugurale, nel 2011, si tiene proprio al Brew Wharf.   Angelo Scarnera rimane poi come unico birraio permanente, anche se viene occasionalmente affiancato da Phil e Steve che si dilettano anche a produrre birre con il marchio Saints & Sinners; la produzione viene comunque assorbita quasi per intero dal brewpub e dal consociato locale Beehive, ma occasionalmente vengono anche prodotti e distribuiti qualche bottiglia e qualche fusto.  
Non mancano ovviamente le collaborazioni,  ed ai più attenti birrofili (o beer geeks) italiani il nome Brew Wharf non suonerà nuovo, visto che nel 2011 a Londra nasce la Space Invader, una IPA “chiara” brassata assieme a Bruno Carilli di Toccalmatto; la birra viene poi replicata in italia, questa volta in versione “scura”, diventando la B Space Invader
Nel 2012 viene Brew Wharf commercializza la prima birra in bottiglia, e si tratta proprio di questa “Reserve”; il brewpub non dispone di una linea d’imbottigliamento, che per l’occasione viene fatto a  The Kernel.  La birra arriva appena prima della chiusura del locale durante le Olimpiadi di Londra del 2012, quando tutta la struttura Vinopolis diviene parte della USA Team House, ospitando gli atleti americani ed i loro familiari. 
Mille bottiglie prodotte, generosa luppolatura di Columbus, Centennial, Simcoe e Citra, aggiunta di caffè Coleman (proveniente dal vicino Borough Market) e lattosio. Una imperial porter, secondo Ratebeer; una english strong dark ale secondo l'etichetta: è completamente nera, senza che nessun raggio di luce riesca a penetrarla. La schiuma è beige, molto compatta e fine, solida, cremosa e molto persistente: aspetto sontuoso ed invitante. Al naso c'è un mix di agrumi (arancio, pompelmo), cioccolato amaro e caffè, liquirizia; il risultato è una sorta di chocolate fuit cake, potenziato da una lieve presenza di alcool. L'aroma è forte e pulito, molto invitante, e le conferme arrivano sin dal primo sorso: birra vellutata, morbidissima e cremosa, dal corpo medio-pieno e molto poco carbonata, che avvolge la bocca con una calda coltre ricca di caffè e di tostature. La bevuta prosegue con un intermezzo dolce, di agrumi canditi, per poi ritornare su territori oscuri nel finale di caffè, cioccolato amaro e liquirizia. E' una birra che rischia, mettendo in gioco a forte intensità sia la generosa luppolatura americana che la solida base di malti scuri: il pericolo di collisione/repulsione è alto, ma il mix risulta alla fine convincente e coinvolgente, anche grazie alla grande pulizia ed intensità dei singoli elementi in gioco. Ci sono quei richiami al fruit cake tipici delle migliori (imperial) stout anglosassoni, ma invece dei frutti di bosco troviamo gli agrumi portati in dote dai luppoli americani. Il risultato è un vortice di sensazioni dolci (canditi) ed amare (cioccolato, caffè), di alcool stemperato dall'acidità dei malti scuri, con un'amalgama che tiene alla distanza, appaga e convince nel lento sorseggiare. Il finale è morbido e caldo, appagante ed etilico, ricco di caffè, cioccolato amaro, liquirizia ed un delicato warming etilico. La scommessa è vinta, il bevitore è soddisfatto e questa Reserve è davvero una gran bella birra.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, lotto 2012, scad. non riportata, prezzo 5.06 Euro (beershop, Inghilterra).

sabato 29 marzo 2014

The Bruery Saison de Lente

Seguite questo consiglio, se vi capiterà di dover accompagnare la vostra famiglia a Disneyland (California, non Parigi) e già tremate al pensiero di dover passare almeno mezz'ora in fila prima di poter salire su qualsiasi attrazione. Con la scusa che i parcheggi sono situati abbastanza lontano dall'ingresso (fate finta che le comode navette non esistano) accompagnate in macchina moglie e figli sin davanti all'entrata dei cancelli; girate la macchina, dite loro che andate a parcheggiare e che li raggiungerete al più presto all'interno del parco. Voi dirigetevi verso che gli enormi parcheggi multipiano, ma poi tirate dritto, e guidate verso nord-est, in direzione Placentia, Orange County.  In soli dieci minuti sarete davanti a The Bruery; il piano sarebbe perfetto non fosse che la tasting room del birrificio apre, nella migliore della ipotesi (nei weekend), non prima di mezzogiorno.
Viene fondato nel 2008 da Patrick Rue, un giovane studente di legge che si dilettava con l'homebrewing nel garage della casa che la Santa Clara University aveva dato a lui e a sua moglie Rachel; già da tempo appassionato di "craft beer", si faceva notare per presentarsi alle feste universitarie, dove tutti bevevano le solite lager industriali, con un paio di growler di birra da lui prodotta. Terminati gli studi, Patrick cerca un lavoro in diversi studi legali, senza successo; l'alternativa sarebbe lavorare assieme al padre (un agente immobiliare), ma il sogno che inizia ad ossessionarlo sempre di più è quello di aprire un suo birrificio. Lentamente ai colloqui di lavoro preferisce le visite agli altri birrifici della California (Russian River, Lost Abbey, Stone)  in cerca di idee e di consigli pratici che possano aiutarlo. Greg Koch, fondatore di Stone, rammenta di essere rimasto molto colpito dalla chiarezza d'intenti e dalla precisione del business plan che Patrick Rue gli stava illustrando. 
Senza nessuna esperienza come birraio professionista, Patrick e la moglie Rachel decidono di farsi aiutare dall'amico Tyler King. Tyler, che aveva anche lui appena terminato il college, lavorava da quando aveva diciotto anni la sera in un brewpub e conobbe Patrick frequentando un club di homebrewers del quale questi era il vice presidente.
Potete ancora oggi percorrere la storia del birrificio sul blog di Patrick che, a partire dal 2007, rende pubbliche tutte le fasi antecedenti all'apertura, dalla ricerca della location all'acquisto dell'impianto, dalla richiesta dei permessi necessari alla scelta del tipo di birre da produrre. Il blog è ovviamente in inglese, ma vi consiglio davvero di passarlo in rassegna per riviere, a distanza di tempo, la nascita e lo sviluppo del birrificio californiano.
Il primo fusto di birra viene venduto nel maggio del 2008; per l'occasione The Bruery (il nome è un riuscito incrocio tra il cognome Rue e la parola "brewery") decide di organizzare un concorso per homebrewer, e di produrre la birra vincitrice come prima birra ufficiale: la motivazione, secondo le parola di Patrick, era che "sicuramente avremmo commesso degli errori e la birra sarebbe venuta male; volevamo quindi debuttare con una one-shot che non fosse poi mai più ripetuta". La birra è la Levuds, una strong ale dall'ABV molto sostento (11% !) che - raccontano - aveva però una grandissima bevibilità. La quantità prodotta viene sorprendentemente venduta tutta nel giro di quattro mesi, anche grazie al seguito del blog di Partrick che era diventato molto popolare nella comunità degli homebrewers e degli appassionati di birra.  "Ma adesso - ammette Rue - probabilmente la stessa quantità di birra finirebbe in quattro giorni". 
The Bruery  è dunque un birrificio guidato da giovani ragazzi, che nel giro di dodici mesi passa da tre a dodici dipendenti; contrariamente alla maggior parte dei suoi colleghi californiani,  Rue si focalizza soprattutto su birre ispirate dalla tradizione belga, piuttosto che sulle luppolatissime IPA tipiche della West Coast. Il birrificio diviene famoso per produrre saison e soprattutto una serie di birre acide ed invecchiate in botte che diventano (quasi) oggetto di culto, come la Black Tuesday, una imperial stout invecchiata in botti di bourbon che viene prodotta una volta l'anno. Nel 2010 The Bruery apre The Provisions, un negozio nel centro di Orange che offre una selezione di specialità alimentari, formaggi e cioccolata, da consumare in loco in abbinamento alle birre; per il negozio viene creata un'apposita linea di birre, chiamata The Provisional Series, in vendita solo in loco. The Provisions viene chiusa ad inizio 2013, quando Rue dichiara di volersi meglio concentrare sul birrificio piuttosto che in progetti paralleli; nello stesso periodo viene anche inaugurata una più ampia e rinnovata tasting room all'interno di The Bruery.
Dopo tutte queste parole è venuta l'ora di bere; siamo in primavera, quale migliore occasione per stappare una bottiglia di Saison de Lente, ovvero "Saison di Primavera", una delle tante birre stagionali che The Bruery produce. Debutta nel 2009, e la ricetta prevede l'aggiunta di brettanomiceti. Questa bottiglia è stata prodotta a fine 2012, ed è di un bel colore arancio pallido, opaco: la schiuma è bianca e generosa, compatta e fine, cremosa, con una buona persistenza. La primavera è ufficialmente arrivata da pochi giorni e l'aroma è in un certo senso il benvenuto che la stagione ci porta: forte, elegante e molto pulito, con sentori floreali, una lieve nota pepata e poi tanta frutta, come albicocca ed arancia, pera e banana, con una lieve acidità a bilanciare la note più dolci. E' fresca e vivace anche in bocca, con un corpo leggero ed una carbonazione media: troviamo crosta di pane, albicocca e pesca, con di nuovo un perfetto equilibrio tra le dolci note di frutta ed una leggera acidità. Chiude secca con una nota amaricante terrosa, ed è una saison intensa ma molto facile da bere al tempo stesso; dissetante e rinfrescante, come nella tradizione vallona, ma dal carattere più borghese che popolare. E' più elegante che rustica, è più gourmet che contadina (anche nel prezzo ed anche negli USA), quasi impercettibilmente sfiorata dalle note tipiche dei brettanomiceti; leggermente "tart", quasi per niente "funky", per dirla all'americana. Rimane comunque un'ottima bevuta, e se non fosse per il prezzo e se costasse quanto una Saison Dupont,  ce ne sarebbe da fare scorta all'inizio di ogni primavera.
Formato: 75 cl., alc. 6.5%, lotto 757, imbott. 18/12/2012, scad. 12/2014, pagata 13,49 Euro (beershop, Italia;  9.99 dollari prezzo consigliato negli USA).

venerdì 28 marzo 2014

L'Agrivoise Vue sur l'Amer

Nuovo appuntamento settimanale con la Francia e la sua piccola "craft beer revolution"; questa volta ci si sposta nel dipartimento dell' Ardeche, a  Saint Agrève (120 km a sud ovest di Lione, ai confini del parco naturale dei monti dell'Ardeche) dove ha sede la Micro Brasserie L'Agrivoise. Parte la solita difficile ricerca d'informazioni sui microbirrifici francesi che spesso non hanno sito internet o sono molto restii nel presentarsi; L'Agrivoise per lo meno ha una casa virtuale (sito internet): fondato nel 2008 dai coniugi Xavier Clerget e Baptistine Fambon, ha colto a Novembre del 2013 l'occasione di acquistare un terreno adiacente agli impianti per intraprendere una profonda ristrutturazione che, proprio in questo periodo, dovrebbe offrire oltre a locali più grandi dove produrre birra, anche una sorta di bar dove poterle bere ed un piccolo punto vendita. Il birrificio è anche uno dei pilastri fondatori del FHL, Front Hexagonal de Liberation del quale vi ho parlato in questa occasione.
Vue sur L'Amer viene curiosamente definita una APCA - Pale Ale Anti-colonialista, in risposta allo stile (India Pale Ale) che si riferisce proprio al periodo storico delle colonie (inglesi) verso le quali queste birre venivano esportate. Malti Pale, Munich e Caramunich, ed un bouquet di luppoli che però ignora la madrepatria inglese: centennial, citra, cascade, summit e nelson sauvin.
Si presenta di color ambrato velato, con una schiuma biancastra, cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma non è certo esplosivo ma d'intensità abbastanza scarsa, pur mostrandosi ancora discretamente fresco e pulito: l'armata di luppoli messa in campo regala però solo qualche sentori di agrumi (mandarino ed arancia), floreali e qualche sfumatura di miele, caramello e marmellata d'arance. Si guadagna la sufficienza. In bocca perde un po' di pulizia ma guadagna in intensità: biscotto e caramello costruiscono le fondamenta sulle quali s'innalza la parte luppolata (arancia e pompelmo), con un finale amaro dove convivono note erbacee, terrose e di pompelmo. La bevuta è però (come nel caso di altre birre francesi bevute) abbastanza pesante, con una presenza inopportuna dei lieviti; il corpo è medio, la carbonazione media, la consistenza è acquosa ma la birra non scorre agevolmente come potrebbe e vorrebbe. Non ci sono evidenti off-flavors, la birra è complessivamente discreta anche se un po' grezza, poco elegante e poco pulita in bocca; e sebbene anche la chiusura amara non brilli particolarmente per eleganza e finezza, rispetto alle ultime bevute francesi è sicuramente un passo in avanti.
Formato: 33 cl., alc. 6.4%, IBU 68, scad. 20/06/2015, pagata 4.00 Euro (beershop, Francia).

giovedì 27 marzo 2014

Manerba Hop’n’Roll


Viene “rinominata" Hop’n’roll ad aprile 2013, l’American Pale Ale del  birrificio bresciano Manerba. La ricetta prevede luppoli provenienti dalla Willamette e della Yakima Valley, in particolare Chinook, Columbus, Amarillo e Simcoe; anche il ceppo di lievito è americano (propagato poi  in Italia)  mentre i malti sono invece inglesi: Pale Ale, Cara Vienna, Melanoidin, Cara Monaco e Crystal.   Nel bicchiere arriva un po’ troppo esuberante, con la schiuma che riempie quasi completamente la pinta ed obbliga ad una discreta attesa per poter rabboccare; il colore è ambrato scarico, riflessi ramati, velato.  La testa di schiuma è bianca e pannosa, molto persistente. La bottiglia ha probabilmente già diversi mesi sulle spalle (scadenza 08/2014) ma l’aroma è ancora abbastanza fresco e  gradevole; ci sono sentori di mandarino, arancio, con qualche lieve sfumatura floreale e di pesca. In bocca è molto, troppo carbonata e le bollicine in eccesso disturbano sia la bevuta che la percezione del gusto, altrimenti pulito e dalla buona intensità:  base maltata di biscotto e lieve caramello, con un bel profilo fruttato di agrumi (arancio) e di pesca. Elegante è anche il finale, amaro, dove convivono note erbacee e di scorza di agrumi. La bottiglia in questione s’inizia a gustare però con soddisfazione solo dopo diversi minuti, quanto la carbonazione si è un po’ attenuata e la Hop’n’Roll scorre con la velocità e la leggerezza che fa parte del suo DNA. In estate, dopo una giornata di sole passata sulle rive del Lago di Garda, il birrificio Manerba offre un’ampia gamma di basse fermentazioni d’ispirazione tedesca da bere in grande quantità; questa American Pale Ale rappresenta una valida alternativa dissetante (ad alta fermentazione), agrumata e profumata,  ben fatta e bilanciata, da bere in eguali (grandi) quantità. Il birrificio la consiglia in abbinamento a secondi piatti saporiti, carne al forno e alla brace, salumi e formaggi stagionati. 
Formato: 50 cl., alc. 5%, scad. 10/08/2014.

mercoledì 26 marzo 2014

Partizan Stout FES

Eccoci al quarto appuntamento con il birrificio londinese Partizan, presentato in questa occasione e guidato da Andy Smith, che utilizza il vecchio impianto dismesso da The Kernel. Impossibile parlare di Partizan senza elogiare le sempre splendide etichette disegnate da Alec Doherty; sebbene il sito del birrificio sia abbastanza avaro d'informazioni, se si esclude un bel video narrativo, è sempre un piacere passare in rassegna tutte le creazioni di  Doherty che si diverte a combinare lettere antropomorfe per formare il nome dello stile delle birra. Per l'occasione di questa FES, ovvero Foreign Export Stout, braccia e uomini muscolosi si intrecciano per dare forma a  S T O U T.
Brassata (sembra) con una lista semplice di malti (pale, brown e roasted barley) e nessun altro ingrediente aggiuntivo, anche se dopo averla bevuta giureresti su qualche generosa manciata di caffè.
Di aspetto praticamente nera, forma una schiuma non particolarmente grande ma fine e compatta, cremosa, di colore beige chiaro. Discreta la persistenza. Al naso c'è tanto, tantissimo caffè, sia macinato che liquido; seguono sfumature più leggere di cioccolato amaro, brownie, leggero tabacco, liquirizia. 
Lo stesso scenario viene riproposto anche in bocca, con una generosissima dose di caffè liquido accanto a note di tostatura, amare, abbastanza intense; a spezzare la monotonia ci sono solo delle sfumature di prugna sotto spirito e liquirizia. Il corpo è medio, la carbonazione è bassa e la consistenza è più sul versante acquoso che sul cremoso. Come in una buona tazza di caffè, c'è una buona acidità che emerge sul finale della bevuta, appena prima del lungo retrogusto amaro, che chiude il cerchio proprio dove era iniziato, ovvero l'aroma: caffè, brownie, tostature, tabacco.
Questa FES non è esattamente il manifesto dell'eleganza, per quel che riguarda il caffè e le tostature, ma è comunque una bevuta molto, molto intensa e pulita che si consuma senza grande impegno, mascherando bene il rilevante contenuto alcolico. A rallentare un po' la bevuta sono piuttosto l'elevato amaro delle tostature e la forte presenza di caffè. Birra solida e ben fatta, anche se sino ad ora Partizan mi sembra convincere meglio sulle birre "chiare" rispetto a quelle scure, limitatamente alle poche assaggiate.
Formato: 33 cl., alc. 8.6%, lotto 12/03/2013, scad. 12/03/2016, pagata 4.41 Euro (beershop, Inghilterra).

martedì 25 marzo 2014

Struise Sint Amatus 12 2010

E' un'aggiunta abbastanza recente nel catalogo De Struise, questa Sint Amatus 12; viene infatti alla luce nel 2012, come una specie di tributo alle proprie radici, quel paese di Oostvleteren (l'unico in Belgio) che ha come patrono Sint Amatus o, in francese, Saint Aimé. Trattasi di un monaco nato a Grenoble intorno al 560- 570, che entrò da giovane nel monastero di Saint Maurice d'Agaune, in Svizzera, e divenne - pare - vescovo di Sion. Nella sua vita fondò due monasteri in Francia prima di ritirarsi a vivere gli ultimi anni della sua vita in una sorta di pozzo all'interno di una grotta, da eremita, nutrendosi solamente di quello che i suoi fratelli calavano dall'alto con l'aiuto di una corda. 
La birra nasce nel periodo (2009) in cui gli Struise, ancora senza impianto proprio, stavano programmando la costruzione del proprio birrificio; una birra benaugurante, o una sorta di "voto" per far sì che tutto andasse bene. Ma quel "12" posto proprio dopo il nome della birra fa inevitabilmente pensare alla "12" per eccellenza, a quella Westvleteren che viene prodotta a pochissimi chilometri di distanza di Oostvleteren.
L'etichetta  non passa certamente inosservata, nella sua dissacrante bruttezza; disegnata dallo Struise Carlo Grootaert, sembra sia nata come sarcastica reazione alla critica ricevuta da un giornalista canadese che aveva definito gli Struise come "un gruppo di bastardi dediti all'autopromozione". I birrai decidono allora di raffigurarsi come dei veri e propri santi, in una sorta di icona religiosa che vede Peter a sinistra, Urbain in alto nelle vesti di dio, Carlo al centro come una sorta di patriarca e Phil alla sua sinistra. Non cercherò di decifrare l'iconografia dell'etichetta ed i simboli in essa contenuti, come il ramo di ulivo (simbolo della pace), il libro delle scritture e quelle tre dita alzate dal "santo" a sinistra che alludono al dogma della Trinità.
Meglio berci sopra, con questa Quadrupel (o Belgian Strong Ale, se non si vuole considerare le "Quad" come uno stile) che viene invecchiata in botti di bourbon di Labrot & Graham provenienti dal le distillerie Woodford Reserve, Kentucky, USA. 
Vintage 2010, quindi si tratta di uno dei primi lotti prodotti dagli Struise. E' di un bellissimo color marrone scuro, con splendide ed intense sfumature rossastre; la schiuma è ancora in ottima forma, biancastra, abbastanza fine e cremosa, con una buona persistenza. Anche l'aroma è ancora forte, con una ricca presenza di frutta secca (uvetta, fichi, datteri), prugna sotto spirito, zucchero candito, marzapane, amaretto ed anche qualche lieve nota metallica. E' una birra che ti fa immediatamente domandare dove sia finito il contenuto alcolico (10.5%) dichiarato in etichetta: corpo più verso il medio che il pieno, pochissime bollicine, è morbida in bocca e si sorseggia con sorprendente facilità. Dopo quattro anni non ci sono praticamente segni di ossidazione, mentre il gusto è spiccatamente dolce e ricco di frutta che richiama l'aroma: datteri, uvetta e prugna. Ci sono anche note di biscotto speziato, fruit cake ed un finale lievemente astringente, con una punta amara di radice. Ben lontana dalla complessità delle migliori "quadrupel" (purtroppo non riesco a evitare il paragone con la Rochefort 10)  è una birra molto dolce che sembra addirittura "troppo" leggera rispetto all'alcool che dovrebbe portare in dote; manca quel calore etilico che ti aspetteresti di trovare un sottofondo, quelle fondamenta sulle quali si posano poi tutti gli altri elementi. Un po' di tepore in verità arriva, ma è solo a fine corsa, quando la birra è già passata per l'esofago; il livello qualitativo è alto, si tratta comunque di un bel bere che però tende a battere sugli stessi tasti (uvetta-prugna-dattero), senza molta fantasia o sorprese ed un po' avaro di emozioni.
Formato: 33 cl., alc. 10.5%, lotto B,  scad. 09/2015, pagata 5.50 Euro (beershop, Italia).

lunedì 24 marzo 2014

Turan Dry Hard 2

Risale ad oltre un anno fa l'ultimo incontro con Birra Turan; il birrificio della Tuscia gode di una buona distribuzione nell'alto Lazio ed a Roma, mentre al nord non ho mai avuto l'occasione d'incontrare le loro birre. Nel frattempo il birrificio guidato dal birraio Orazio Laudi ha affrontato un restyling del look, con nuove etichette più moderne (si veda ad esempio il confronto tra la vecchia e la nuova Ultrasonica) e, finalmente, l'arrivo del formato da 33 centilitri. Anche la gamma di birre disponibili tutto l'anno ha subito qualche cambiamento, con l'arrivo di una tripel (Public Enemy) e di una koelsch (Zerosei) che affiancano le storiche Sfumatura (ottima) ed Ultrasonica. 
Tra le novità c'è anche questa Dry Hard 2, una India Pale Ale dal nome molto azzeccato con citazione cinematografica; nasce come una one-shot che viene presentata durante l'Italian Beer Festival 2013 di Roma, dove viene presentata come una Belgian IPA abbondantemente luppolata di Citra. Esperimento riuscito visto che a distanza di un anno il birrificio decide d'inserirla stabilmente in produzione, con un nome leggermente diverso (Dry Hard 2) che fa pensare ad un "sequel" della prima birra e che, immagino, presuppone un cambio di ricetta che dal Belgio si rivolge verso gli Stati Uniti. 
Luppolata con Summit e Citra, si presenta di colore arancio con sfumature ramate; la schiuma non è particolarmente ampia, è bianca e compatta, cremosa, con buona persistenza. Il naso è invitante, con un bel bouquet dolce di frutti tropicali come mango, passion fruit, ananas maturo, melone retato; c'è anche una controparte più pungente di agrumi, con arancio e pompelmo, e qualche richiamo di pesca nettarina. Scorrevole senza risultare acquosa, in bocca è morbida e gradevole, con un corpo medio ed una carbonazione abbastanza contenuta. Il gusto gioca sullo stesso terreno dell'aroma, arruffianandosi il palato con un bel carico di frutti tropicali, dolci, che sono tuttavia sapientemente bilanciati da note più aspre di agrumi (almeno finché la birra è fresca e giovane). C'è anche una base di malto (biscotto, lieve caramello) ed un finale secco e discretamente amaro, di resina e pompelmo che pulisce bene il palato. Leggo che il suo nome (Dry Hard) sarebbe stato ispirato dall'abbondante (ma non eccessivo) dry-hopping che la caratterizza; più che di muscoli, di esplosioni e di follia si parla dunque di profumi e di aromi. I minacciosi elicotteri, il cielo infuocato ed i fori di pallottola dell'etichetta portano un po' fuori strada: il birra è ben fatta, pulita, piaciona ed ha una buona intensità, ma l'amaro è quasi in secondo piano rispetto alla frutta tropicale. Eleganza anziché muscoli, è comunque un bel bere, ma piacerebbe al burbero John McClane?
Formato: 33 cl., alc. 6%, IBU 70, lotto 1113, scad. 11/2014, pagata 3.70 Euro (beershop, Italia).

domenica 23 marzo 2014

Alameda Black Bear XX Stout

Alameda Brewing Co. viene fondata da Matt Schumacher nel 1996 alla periferia nord orientale (Beaumont Village) di Portland, Oregon, non distante dall'aeroporto internazionale. Nella città che ha la più alta densità pro capite di birrifici al mondo (più di 4 a testa!), Alameda muove i primi passi con un impianto da 5 barili, che vengono aumentati a 20 un paio di anni fa. Dal 2008 il birraio è Carston Haney.
Black Bear XX è probabilmente la birra più famosa del birrificio; una (foreign) stout che ha ottenuto la medaglia d'oro nel 2003 (categoria Foreign/Export-style stout) al Great American Beer Festival, cui hanno fatto seguito altre medaglie minori nel 2005, 2006 e 2008.
Una lunga attesa è necessaria prima di potere bere questa stout; non c'è gushing all'apertura, ma una copiosissima e molto persistente schiuma riempie completamente il bicchiere anche versando con la massima cautela. Ci vuole molta pazienza per vederla dissolversi un po': dopo diversi rabbocchi, è finalmente possibile riuscire ad assemblare un soddisfacente bicchiere di birra. E' di colore marrone scurissimo, con un solidissimo cappello di schiuma pannosa, color nocciola.  L'aroma presenta qualche curiosa nota che ricorda il cloro e che,  fortunatamente, scompare con il passare del tempo; i sentori più rassicuranti - ma non entusiasmanti - raccontano invece di orzo tostato, caffè ed una lieve nota di cenere. 
L'abbondantissima schiuma fuori controllo è un presagio che si conferma in bocca; birra estremamente carbonata, con le bollicine che rendono difficile la percezione dei sapori. E' necessaria una nuova lunga attesa per far sgasare un po' la birra, e trovare un gusto comunque poco intenso e non esattamente pulito; liquirizia, orzo tostato, caffè, con qualche lieve nota di cioccolato. Il corpo è tra il medio ed il leggero, la consistenza è watery; chiude con note di tostatura,  caffè, liquirizia ed una lieve affumicatura. 
Sebbene la qualità della bevuta migliori man mano che il  tempo passa, non è concepibile dover aspettare una buona mezz'ora per attendere l'abbassamento del livello di schiuma e di bollicine; mi viene da chiudere con una battuta: che sia questa la vera birra da meditazione ?
Formato: 65 cl., alc. 7%, IBU 55, lotto e scadenza non riportati, pagata 7.90 Euro (beershop, Italia).

sabato 22 marzo 2014

Retorto Daughter of Autumn

Nasce nel 2011 a Podenzano, in provincia di Piacenza, il Birrificio Retorto; alla guida c'è il birraio Marcello Ceresa, laureato in Tecnologie Alimentari e con alle spalle un'importante esperienza al non molto distante  Birrificio Toccalmatto; lo aiutano il fratello Davide e la sorella Monica. Terminate le pratiche burocratiche, il birrificio debutta in società all'Italian Beer Festival di Roma del maggio 2012; una nuova realtà che si fa comunque trovare ben pronta, tanto che il popolo di Ratebeer lo nomina come miglior nuovo birrificio italiano del 2013.   La produzione parte con quattro birre, tutte ad alta fermentazione; l'ottima Morning Glory (American Pale Ale), Krakatoa (IPA), Latte Più (Blanche) e la scotch ale chiamata Daughter Of Autumn. Ben presto si aggiunge anche la Black Lullaby, una Belgian Dark Strong Ale che ottiene il premio come miglior birra del Ciba 2012.  Volontà dichiarata del birrificio è di produrre birre "non estreme, che rimangano comunque beverine"; purtroppo per ora sono disponibili solamente nel formato da 75 cl., una scelta analoga a quella del già citato birrificio Toccalmatto.
Veniamo dunque all'assaggio di questa "figlia dell'autunno", una birra che dunque richiama (anche per il colore) la fine dell'estate  ed i primi freddi, quindi in netto contrasto con l'arrivo anticipato della primavera che abbiamo vissuto in queste ultime settimane.
La veste è splendida, un bellissimo color tonaca di frate con sfumature ambrate e rossastre; la schiuma, beige, non è molto ampia, ha una bella trama fine ed è cremosa, con una discreta persistenza. L'aroma è semplice ma molto pulito e di buona intensità: spiccano sentori di toffee, tornati/affumicati, qualche nota fruttata di esteri. Anche se in etichetta si definisce una "scotch ale corposa e ben strutturata", il corpo di questa bottiglia è in realtà piuttosto leggero con una carbonazione abbastanza bassa. Nessuna sorpresa in bocca, dove il percorso continua nella stessa direzione intrapresa dall'aroma: ritroviamo caramello e toffee, note di biscotto, una bel profilo fruttato di uvetta e prugna, con una nota affumicata abbastanza lieve ma elegante. L'alcool è davvero molto ben nascosto, e ci si trova quasi a dubitare del contenuto dichiarato in etichetta (7.5%); è una scotch ale che si beve davvero benissimo, watery e morbida al tempo stesso, anche se personalmente avrei gradito un po' più di corpo. Finisce quasi abboccata, con una leggera nota amaricante di frutta secca (mandorla?); nel retrogusto, torbato,  c'è anche e finalmente un timido tepore etilico di frutta sotto spirito. Ben fatta e pulita, facilissima da bere al punto da sacrificare un po' struttura e presenza alcolica; la Daughter of Autumn non riscalderà molto il vostro autunno, ma è senz'altro un'ottima bevuta che si adatta anche alle stagioni meno fredde.
Formato: 75 cl., alc. 7.5%, lotto 13048, scad. 30/04/2015, pagata 8.50 Euro (beershop, Italia).

giovedì 20 marzo 2014

La Gargouille Happy Hop

Continua il viaggio un po' masochistico alla scoperta di nuovi microbirrifici francesi, una nazione in cui sta prendendo piede in modo ancora abbastanza approssimativo una piccola "rivoluzione" di birra "artigianale"; il risultato è che spesso la velocità e l'entusiasmo con cui i birrifici muovono i primi passi non è esattamente sinonimo di qualità, anzi. Personalmente - tranne alcune eccezioni -  ho raramente avuto soddisfazioni bevendo birre francesi, anche prima della "craft beer revolution"; se le classiche produzioni francesi  blonde /ambrée/ blanche /noir non entusiasmavano, la moda che sembra aver preso piede di sfornare APA ed IPA mi fa fin'ora lasciato altrettanto perplesso.
Non si salva neppure la Brasserie La Gargouille, fondata nel 2011 dal birraio Benoit Arnaud a St. Symphorien d'Ozon, pochi chilometri a sud di Lione.  Praticamente queste sono le uniche informazioni reperibili in rete su questo microbirrificio "la Gargolla", un nome - rappresentato anche in etichetta - che ovviamente fa subito pensare agli americani di Stone; ora riesce davvero difficile giustificare, nel 2014, il fatto che un'azienda non abbia uno straccio di presenza, anche minima come una misera pagina Facebook, in internet. Ma tant'è..
Happy Hop è il nome di una (Double) India Pale Ale che arriva nel bicchiere di colore arancio, con riflessi ramati; la schiuma è abbastanza generosa, biancastra, di discreta finezza e persistenza. Il naso, poco pronunciato, non è certo quello che vorresti trovare in una IPA; qualche puzzetta (formaggio), lievi sentori floreali e di agrumi (arancio e pompelmo), ed una percepibile presenza etilica. Non abbastanza per guadagnarsi la sufficienza, ma non è che la palato le cose migliorino. Il gusto è sporco e lievitoso, la bevuta pesante: biscotto, lieve presenza sciropposa di agrumi  e soprattutto un amaro erbaceo e vegetale assai poco raffinato e gradevole. C'è un discreto warming etilico (8.5%)  ma non è certo questo che rallenta la bevuta. Ci vorrebbero impegno e costanza per finirla, ma alla fine prevale il desiderio di versarne buona parte nel lavandino. Birra quasi a livello di (inesperto) homebrewer, poco profumata, sporca e molto poco buona: non è che la completa assenza del birrificio in internet sia solo volontà di non rendersi assolutamente reperibile agli insoddisfatti bevitori ?
Formato: 33 cl., alc. 8.5%, scad. 09/2015, pagata 3.90 Euro (beershop, Francia).

mercoledì 19 marzo 2014

Menaresta 22 La Verguenza

Facciamo un salto indietro nel tempo, nel weekend del 13-14 Dicembre 2008. A Lurago Marinone, dove c’è il Birrificio Italiano, Unionbirrai organizza il  “Concorso per homeberewers XMAS 2008”;  forse qualcuno che capita occasionalmente a leggere su questa pagine c’era, e ricorda tutto. Il concorso ufficiale vede come giudici un parterre di tutto rispetto: Leonardo Di Vincenzo (Birra del Borgo), Luigi Serpe (Birrificio Maltovivo), Giovanni Campari (Birrificio del Ducato), Agostino Arioli (Birrificio Italiano), Stefano Ricci e Silvio Coppelli (degustatori Unionbirrai II livello). Al concorso ufficiale ne segue anche uno “popolare”, dove il pubblico presente alla manifestazione può assaggiare le birre in concorso e votare quella preferita. Lo stile scelto per il concorso è quello delle India Pale Ale (inglesi o americane). Vince la Buonconvento APA portata da due a quel tempo homebrewers che oggi guidano il Birrificio Del Forte: sono  Carlo Franceschini e Francesco Mancini; sul podio ci finiscono anche una IPA degli homebrewer di Laura Zava, Davide Canavesi e Andrea Croci (vincitrice del concorso popolare), e la XIBU Roberto Poppi (oggi birrificio Vecchia Orsa). In quel concorso c’è anche una birra presentata dall’homebrewer Marco Valeriani (oggi al Birrificio Menaresta), che si posiziona solamente al numero 22, su 23 iscritti; questo quanto riporta il sito del birrificio Menaresta. La pagina di Hobbybirra  su quel concorso dice  invece che le birre in concorso erano 42, e la birra di Valeriani si posizionò al numero 21. Al di là della discrepanza di fonti sui numeri, la birra ottiene invece un buon successo nel concorso "popolare", piazzandosi al secondo posto, come testimonia questo video della premiazione. 
Questo episodio “imbarazzante” e “vergognoso” ispira il nome della Double IPA di Menaresta: 22 La Verguenza. Probabilmente (o sicuramente) neppure lontana parente di quella del concorso, viene oggi prodotta con un mix di luppoli che dovrebbero essere, secondo quanto riporta la lavagna raffigurata in etichetta, Simcoe, Amarillo, Chinook, Columbus, Centennial e Bullion. E’ disponibile da Ottobre a Maggio, mentre nella stagione estiva c’è la Verguenza Summer  (con un tocco di Saaz);  nel periodo invernale arriva anche la Verguenza XMAS, leggermente più alcolica (8% anziché 7.5%).     
Fresca di podio (secondo posto nella "categoria cat. 9  - chiare e ambrate, alta fermentazione, alto grado alcolico, luppolate, d’ispirazione angloamericana") al concorso di Birra dell'Annoi 2014 che si è tenuto la scorsa settimana, 22 La Verguenza si presenta di colore tipicamente West Coast, dorato con qualche sfumatura arancione, velato; la schiuma, bianca, non abbonda per quantità, ma ha una buona persistenza ed è cremosa. Purtroppo stappo una bottiglia che ha già sei mesi di vita sulle spalle, ma l’aroma risulta ancora abbastanza fresco e pungente; molto pulito ed elegante, regala sentori di pompelmo e arancio, ananas e melone, passion fruit, persino qualche suggestione di lampone.   Equilibrio e pulizia regnano anche in bocca; sopra la base maltata (biscotto, lievissimo caramello) c’è un bell’alternarsi di dolce (frutta tropicale) e di amaro (pompelmo), con un finale ben luppolato dove a fianco di tropicale e pompelmo arrivano anche note vegetali e di resina. E’ un’interpretazione abbastanza fedele di una IPA West Coast (e non ce ne sono molte, in Europa), molto raffinata e pulita, che nasconde l’alcool in modo molto pericoloso; secca, lontana da eccessi caramellosi che spesso s’incontrano in giro, fa dell’equilibrio e della facilità di bevuta le sue caratteristiche principali, ben lontana da qualsiasi deriva estremista ed asfalta-palato. Il riferimento in California è più Russian River (la scritta “non invecchiare, consumare fresca” sembra quasi citare l’etichetta dalla Pliny the Elder) che una Ruination IPA; equilibrio piuttosto che muscoli. Nessuna di queste due birre arriva in Italia, ma piuttosto che correre dietro alle tante IPA o Double IPA Americane che spesso arrivano nel nostro paese spompe, stanche e molto poco fresche, il mio consiglio è di fare un giro in Brianza ed andare a trovare Menaresta, la soddisfazione di bere una tra le migliori Double IPA italiane sarà senz'altro più grande.
Formato: 33 cl., alc. 7.5%, IBU 90, lotto 09/13 29, scad. 09/2014, pagata 3.91 Euro (beershop, Italia).

martedì 18 marzo 2014

Lost Abbey The Angel's Share

The Angel's Share,  ovvero “la porzione degli angeli”, ovvero quella  parte di liquido che evapora anno dopo anno nelle botti dove il distillato sta invecchiando;  il nome è stato utilizzato dal birrificio californiano The Lost Abbey per un English-style Barley Wine (o di una Old Ale, secondo diverse classificazioni) che venne prodotto per la prima volta bel 2006. La birra matura per almeno sei mesi in botti di quercia che – a volte - hanno anche ospitato bourbon o brandy, a seconda delle annate.  The Angel's Share è anche la base che viene utilizzata per il blend (assieme alla Serpent’s Stout  di “Deliverance”, una birra di cui abbiamo parlato (con poche soddisfazioni e tanta delusione) non molto tempo fa.   Il millesimo viene riportato con una  piccola scritta al laser su collo della bottiglia, che tende però, col tempo, a scomparire o a diventare quasi illeggibile, come nel caso di questa bottiglia. Disponibile inizialmente solo nel generoso (e forse eccessivo) formato da 75 cl., dal 2008 viene venduta solo in quello da 37,5. Ringrazio un lettore (Indastria) il quale mi fa notare che a il formato delle bottiglie attualmente usate è iniziato solo nel 2010, mentre in precedenza erano usata delle bottiglie da 375 simili "a fiaschetta". Considerando che la Angel's Share 2010 aveva un ABV di solo 11,5%, quella che vado a stappare dovrebbe essere stata prodotta nel 2011 o, meno probabilmente, nel 2012.
Si presenta di color tonaca di frate / marrone scuro, torbido, senza formare nessuna schiuma o pizzo nel bicchiere.  Anche l’aroma porta il segno di diversi anni sulle spalle: l’ossidazione è netta, ma tutto sommato l’aroma è ancora gradevole soprattutto lasciando per un po’ la birra nel bicchiere:  sentori di legno, di cuoio, caramello, prugna disidratata e uvetta, per un risultato che richiama senza molti dubbi l’aroma di un Porto (Tawny). In bocca è calda e morbida, completamente piatta, con un corpo medio ed una consistenza oleosa; l’alcool è ben in evidenza, riscalda tutta la bevuta ed aumenta d’intensità nel finale, regalando delle note che richiamano un bourbon (rimane il dubbio se questa birra sia stata invecchiata in botti di bourbon)  e che si alternano a quelle di vino ossidato (prugna, ciliegia, uvetta, fico); nel finale sembra quasi esserci una nota di cioccolato (suggestione?).  Il suo massimo splendore lo ha chiaramente già raggiunto e superato, e questa bottiglia di Angel’s Share è una vecchietta sulla via del declino che offre comunque delle interessanti sfumature da a cogliere in uno scenario decisamente ossidato e non particolarmente vigoroso.  Rimane una decisa presenza etilica che però non va mai sopra le righe, facendo sì che The Angel's Share si possa sorseggiare in tutta tranquillità dopocena. Certo, a saperlo, andava aperta e bevuta qualche anno prima, anche perché non sono molte le occasioni in cui capita a tiro ed il prezzo non è certamente basso.
Formato: 37,5 cl.,  alc. 12.5%,  anno 2008, pagata 15.99 dollari (beershop, USA)

domenica 16 marzo 2014

Birrificio Settimo Prius

Nasce nel 2010 con il più ostico nome (per l'Italia) Siebter Himmel (Settimo Cielo), quello che oggi conosciamo come Birrificio Settimo; l'idea è di Luigi ed Antonella Barban, dal 1987 attivi nel campo della ristorazione: a Carnago (Varese), realizzano un ristorante con annesso birrificio, ovvero un brewpub. A fine 2011 in sala cottura viene chiamato un (ex) homebrewer di lunga data, Nicola "Nix" Grande; pugliese trasferitosi al nord, nel suo passato numerosi riconoscimenti in concorsi nazionali di homebrewing e partecipazione attiva nella redazione di MoBi. Nicola ridisegna completamente la gamma di birre, puntando in direzione Belgio, che riforniscono non solo il brewpub dove si trova la produzione ma anche una serie di locali (Fabbrica Pizza) di proprietà dei Barban. Nel 2013 un inatteso cambio di nome, che da Siebter Himmel diviene Birrificio Settimo, con un nuovo logo, più pulito e "moderno", per "semplificare e rendere di facile individuazione il birrificio e le sue birre. Il nome, portato dal tedesco all’italiano, sta ad indicare in maniera chiara ed inequivocabile la provenienza del prodotto e ne semplifica la riconoscibilità".  Il cambio di nome porta anche nuove etichette, il (finalmente!) pratico formato da 33 cl., ed una nuova gamma di birre (da 75 cl. e Magnum) destinate alla ristorazione; ma viene anche cancellata la stranezza di un birrificio del nome tedesco che produce soprattutto birre in stile belga.
Incontro per la prima volta il Birrificio Settimo con quella che dovrebbe essere la prima birra del nuovo corso inaugurato nel 2011 con l'arrivo di Nicola Grande. La Prius, una blond ale che arriva nel bicchiere di un colore tra il dorato e arancio pallido, opalescente; la schiuma è molto generosa, compatta, bianchissima e quasi pannosa, molto persistente. L'aroma conduce immediatamente in Belgio, con quella speziatura donata dai lieviti che - nelle birre meglio riuscite  - percepisci ma non riesci esattamente ad identificare: la suggestione ci trova un po' di pepe, forse del coriandolo? Ci sono dei sentori di cereali, e soprattutto una bella alternanza di frutti dolci (pasta gialla, polpa d'arancia) ed aspri/aciduli, limone e banana acerba, con quest'ultima che tende a diventare un po' troppo protagonista man mano che la birra si scalda. Il naso è elegante, molto pulito ed ha un'ottima intensità.  In bocca è vivacemente carbonata, leggera e scorrevole senza mai dare l'impressione di essere sfuggente; c'è buona corrispondenza con l'aroma, una leggera base maltata (cereali, pane), un bel profilo fruttato di arancia, frutti a pasta gialla e banana (di nuovo un po' troppo presente, quando la birra si scalda) e soprattutto un finale amaro decisamente zesty (lime, limone) con qualche sfumatura erbacea. Ma c'è soprattutto grande pulizia ed equilibri, con il risultato di una birra estremamente secca, rinfrescante e dissetante, che evapora dal bicchiere a grande velocità. Le coordinate, per darvi qualche punto di riferimento, sono quelle del Belgio "moderno" (penso alla Brasserie de la Senne) o, se vogliamo stare in Italia, ad Extraomnes. Sono solo una ventina i chilometri di distanza tra Settimo ed Extraomnes, due realtà che dal punto di vista brassicolo hanno trasformato la provincia di Varese in un piccolo avamposto del Belgio. Bottiglia non freschissima (scadenza a 5 mesi), ma ancora in buona forma. L'estate non è così lontana, mettete già da ora la Prius nella lista degli acquisti per affrontare il caldo e la sete.
Formato: 33 cl., alc. 4.7%, IBU 37, lotto 04113, scad. 08/2014, pagata 3.45 Euro (beershop, Italia).

sabato 15 marzo 2014

Brodie's Dalston Black IPA

Tanto per cambiare torniamo virtualmente a Londra, probabilmente la città europea che al momento vanta la scena brassicola più attiva ed eccitante; oggi non parleremo di una nuova apertura, visto che il birrificio in questione, Brodie's, è attivo dal 2008, quando la maggior parte dei birrifici che oggi movimentano la scena londinese ancora non esisteva. Nel 2000 la famiglia Brodie acquista il pub King William IV nella (estrema) periferia nord-orientale di Londra; in un piccolo edificio - quasi un ripostiglio - dietro al pub entra in funzione il birrificio Sweet William, che rifornisce il pub ma è gestito da persone esterne alla famiglia Brodie, grazie ad un impianto da cinque barili progettato da Rob Jones del birrificio Dark Star. Il birrificio non ebbe vita lunga e chiuse i battenti dopo solo cinque anni, quando venne rilevato dai cugini James e Lizzie Brodie che riescono invece a riscuotere un buon successo.  Con il tempo sono anche arrivate importanti collaborazioni con BrewDog, Dark Star, Steel City, Fanø e Mikkeller. Oltre al pub adiacente al birrificio (il King William IV), la famiglia Brodie gestisce altri due locali in posizione più centrale: l'Old Coffee House a Soho (Beak Street) e il The Cross Keys, vicino a Covent Garden. Un'occhiata all'elenco delle birre prodotte su Ratebeer può servire a farsi un'idea del profilo del birrificio; elenco molto vasto, con la tendenza a sperimentare ed a creare nuove ricette piuttosto che a concentrarsi su un nucleo di birre stabile, anche se James Brodie spiega che si tratta di una scelta quasi forzata, dovuta alla scarsa disponibilità di materie prime (soprattutto luppoli) che costringe il birraio a fare dei lievi cambiamenti alle ricette. Il birrificio da poco è passato ad usare un impianto da 15 barili (costruito su misura per entrare nel piccolo locale a disposizione) che ne aumenta la capacità produttiva, destinata comunque per lo più a rifornire i pub di proprietà.
Della vasta produzione Brodie's mi è capitata una bottiglia di Dalston, una Black IPA prodotta, tra gli altri, con il luppolo australiano Galaxy; è bottle conditioned e di colore marrone scuro con sfumature rossastre; si forma un generoso cappello di schiuma beige, cremosa e molto persistente. Nessuna indicazione né in etichetta né sul tappo riguardo alla data d'imbottigliamento o alla scadenza, ma per fortuna l'aroma è una chiara prova di una birra ancora fresca e con pochi mesi di vita alle spalle: elegante e pulito, sprigiona sentori di frutta fresca come pesca bianca, pompelmo, melone, ananas, frutti di bosco rossi (lampone, fragoline). In bocca è morbida e gradevole, con il giusto livello di bollicine ed un corpo medio. Convince un po' meno in bocca, dove c'è una netta prevalenza della componente "black" ed uno sbiadito ricordo di tutta quella fresca macedonia di frutta che aveva invece caratterizzato l'aroma. L'amaro è un mix non proprio azzeccato (secondo me) di note terrose, tostate e vegetali, che non brilla di eleganza e non splende di pulito, pur mantenendosi su un buon livello. E' una Black IPA che diventa un po'  troppo monocorde, battendo sempre sul tasto dell'amaro terroso/tostato/vegetale senza nessuna pausa o sfumatura, rallentando la bevuta nonostante l'alcool (7%) sia molto bene nascosto. Le poche note fruttate (tropicale) che ci sono sembrano correre su un binario parallelo al resto, dando come risultato un birra che ha un'ottima intensità ma che rimane un po' slegata, finendo per lasciare - è proprio il caso di dirlo - con l'amaro in bocca.
Formato: 33 cl., alc. 7%, lotto e scadenza non riportati, pagata 3.51 Euro (beershop, Inghilterra).

venerdì 14 marzo 2014

Ouroboros Ragniagniarök

La Brasserie Ouroboros si trova ad Auzon, Francia, nel dipartimento dell’Haute-Loire. In realtà la localizzazione non è molto importante, visto che si tratta di una beer-firm che produce solitamente le sue birra 300 km più a Nord, alla Brasserie Barbaroux di Chassagne Quello che però colpisce maggiormente è la quasi completa assenza d’informazioni in internet, dove solitamente le beer firm sono invece piuttosto attive. Nessun sito, solo una misera pagina Facebook senza nessun informazione.   La beer firm è stata fondata da Guillaume Gufflet nell’aprile del 2012; spulciando i forum degli appassionati birrofili francesi si viene giusto a sapere di loro partecipazioni a festival ed eventi, ma nulla più.  Non resta allora che guardare altrove, per  esempio al nome scelto:  l'Ouroboros (detto anche Uroboro o Oroboro)  è un simbolo molto antico che rappresenta un serpente che nell'atto di mordersi la coda, formando così un cerchio e "ricreandosi" continuamente; è un simbolo associato all'alchimia, allo gnosticismo e all'ermetismo. Rappresenta la natura ciclica delle cose, la teoria dell'eterno ritorno, quella dell'Uno-Tutto e tutto quello che è rappresentabile attraverso un ciclo che ricomincia dall'inizio dopo aver raggiunto la propria fine.La birra in questione è invece chiamata Ragniagniarök; ritorniamo su wikipedia:  I Ragnarǫk (in islandese moderno anche Ragnarök e Ragnarøkk) indicano, nella mitologia norrena, la battaglia finale tra le potenze della luce e dell'ordine e quelle delle tenebre e del caos, in seguito alla quale l'intero mondo verrà distrutto e quindi rigenerato.      In etichetta c’è effettivamente un serpente nero che si mangia la coda, qualche schizzo di sangue ed il nome della birra (Ragniagniarök) scritto in caratteri molto poco comprensibili; la descrizione annuncia una birra “sanguinosa” (sanglante) prodotta con malto d’orzo e d’avena, luppoli Nelson (Sauvin, immagino), Warrior, Appollo (con una “P” di troppo), Galaxy ed Amarillo. Viene prodotta secondo quanto scritto alla  “Les radicaux libres”: birrificio, brewpub o che altro? Il sito internet non funziona. 
Ricapitolando, etichetta aggressiva, birra “sanguinosa”, e scritta Brutal Brewing in bella vista mi portano a pensare di accingermi a versare nel bicchiere una sorta di mostro ultraluppolato. Il colore è tra l’ambrato ed il rame, velato; forma una generosa testa di schiuma biancastra, cremosa e molto persistente. L’aroma è piuttosto dimesso e scarno: lieve sentori di agrumi, soprattutto rancia, lampone, lychee, e qualche richiamo molto dolce di chewing-gum (big babol?).  In bocca il corpo è molto debole, e l’unica forma di brutalità (sic) che riesco a percepire è quella delle bollicine: tante, troppe, non aiutano certo alla percezione del gusto già di per sé poco incisivo.  Arriva qualche nota di biscotto e di caramello e poi si passa subito ad un amaro dai toni vegetali ed erbacei nè particolarmente gradevole nè elegante. Stupisce l’assenza della frutta che si era intravista nell’aroma, che per lo meno avrebbe aiutato a rendere la bevuta più armoniosa ed interessante. Peggiora riscaldandosi, diventando fastidiosamente astringente e lievitosa. Nelle intenzioni era forse una APA o una IPA, ma il risultato non è molto comprensibile e si finisce davvero con grande fatica; birra poco brutale e mal fatto, tanto rumore per nulla. 
Formato: 33 cl., alc. 6%, scad. 01/2015, pagata 4.00 Euro (beershop, Francia).  

giovedì 13 marzo 2014

Birra del Borgo L'Equilibrista 2010

“L’Equilibrista” prende forma come idea durante Vinitaly 2008:  Tommaso Marrocchesi Marzi (titolare della Tenuta di Bibbiano) non è per sua ammissione un gran consumatore di birra ma si trova a curiosare tra gli stand ed assaggia alcune produzioni di Birra del Borgo; rimane particolarmente impresso dalla  Genziana e, parlando con Leonardo Di Vincenzo,  nasce quasi come una scommessa la sfida di realizzare una birra con il Sangiovese. Non passa molto dalle parole ai fatti, ed il mosto di Sangiovese dalla vendemmia 2009 viene mescolato a quello della Duchessa (la saison di Birra del Borgo,  50% e 50%) dando così origine al primo lotto (dal nome non molto originale, se googolate un po’) de L’Equilibrista, all’incirca 1600 bottiglie prodotte. L’anno successivo si replica, con qualche doveroso aggiustamento alla ricetta;  il mosto  sosta per tre giorni sulle bucce (il risultato è una maggiore concentrazione e un colore simile a quello di uno spumante rosé) e vengono modificate le percentuali del mix:  39% sangiovese, 61% duchessa; i due mosti fermentano assieme nei tini, e dopo due mesi avviene l’imbottigliamento. In questa fase viene aggiunto il “liqueur de tirage”, che contiene un’alta quantità di zuccheri al fine di favorire la rifermentazione in bottiglia e quella che viene chiamata “la presa di spuma”;   a questo punto le bottiglie riposano per circa un anno sulle pupitres (supporti di legno con fori dove sistemare le bottiglie a testa in giù), e vengono periodicamente girate a mano (remouage) per favorire l’amalgama di zuccheri e lieviti (da champagne) e far depositare le fecce del lievito verso il tappo,  che vengono poi eliminate con il “degorgement” .  La fase successiva è quella della sboccatura; la laboriosa operazione viene effettuata a mano fino al 2010, ma dal 2011 il birrificio si affida ad una ditta specializzata che pratica il metodo “à la glace”: il collo delle bottiglie viene immerso in una soluzione liquida a bassissima temperatura che fa ghiacciare il deposito rendendone più agevole e rapida l’eliminazione. Tutte le bottiglie sono poi rabboccate a mano aggiungendo il “liqueur d’expedition”, nel caso a base di vino, zucchero e distillato di birra (Duchessa).  L’ultima fase del processo produttivo è quella della tappatura con il classico tappo a fungo chiuso dalla gabbietta metallica che, anche in questo caso, viene fatta a mano per l’ultima volta con L’Equilibrista 2010.
Il tutto viene forse meglio raccontato in questo video. Ancora un po’ di riposo per le bottiglie, che dopo qualche mese sono finalmente pronte per essere messe in commercio. La birra-champagne non è di certo una novità, basta pensare ad esempio al Belgio ed alla Deus di Bosteels, o alle Mahleur; negli ultimi anni sono spuntate anche in Italia diverse birre che, sebbene non vengano prodotte con il metodo champenoise, utilizzano lieviti da spumante. Birra del Borgo la realizza tuttavia nel 2009, prima del boom di microbirrifici in Italia e mi sembra sia comunque il primo esempio (se sbaglio, qualcuno mi corregga) di birra Italiana che viene prodotta con metodo champenoise, che utilizza mosto di vino e lieviti da champagne. Equilibrista, dunque, ovvero ricerca del punto ottimale d’incontro tra birra e vino, ma anche ricerca di equilibrio tra le varie fasi del suo complesso processo produttivo ed il tempo, il momento giusto in cui metterle in pratica. 
Passiamo alla sostanza; elegante scatola di cartone, - il prezzo di questa birra e della sua lunga lavorazione sembra quasi richiederla -  si presenta di color rame con marcate sfumature rosa ed ambrate; la piccola schiuma che si forma è grossolana e si dissolve abbastanza rapidamente senza lasciare pizzo nel bicchiere. Il naso è complesso, c'è una azzardata ma riuscita convivenza di sentori legnosi e rustici, di cantina, di ribes ed uva, mela verde, acidità lattica e note dolci di pasticceria, meringa. In bocca è ancora vivacemente carbonata, molto scorrevole, con un corpo da medio a leggero che non è però un preludio ad una bevuta disimpegnata e facile. Al contrario, il gusto si dimostra abbastanza complesso e ricco di sfumature aspre e dolci; l'imbocco è vinoso ed aspro, con note di uva e di ribes, una leggera acidità (lattica) che viene però subito bilanciata da una dolcezza quasi zuccherina che accompagna la parte centrale della bevuta. Al caramello ed alla mela (dolce), fa seguito un finale che vira nuovamente nell'aspro (frutti rossi) ed è caratterizzato da un morbido warming etilico. Non ho paragoni (anche a causa del prezzo che non ne permette un'acquisto così frequente) con esemplari più giovani, ma i tre anni di cantina sembrano averle portato un'interessante struttura che porta un notevole squilibrio verso lo champagne, quasi eclissando la componente "birra". Il risultato è però estremamente positivo ed interessante: bevuta fresca è un ottimo aperitivo, mentre riscaldandosi mette in mostra una buona struttura che la rende capace di essere un ottimo accompagnamento a tavola. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di uno champagne che si beve con (quasi) la facilità di una birra; difficile comunque, in una degustazione alla cieca, scommettere di avere nel bicchiere una birra. Sembra avere ancora ottime possibilità d'invecchiamento in cantina, non fosse che con gli stessi soldi, se sapete muovervi, potete acquistare un buon champagne.
Formato: 75 cl., alc. 10.9%, lotto LS115/10, scad. 11/2017, pagata 25.00 Euro (food store, Italia).

mercoledì 12 marzo 2014

Bear Republic Big Bear Black Stout

Con un po’ di nostalgia (quasi due anni dall'ultimo incontro) si torna a parlare del birrificio californiano Bear Republic, fondato nel 1996 a  Cloverdale, in pieno territorio vinicolo (Sonoma County), da  Richard “Ricardo” Norgrove, sua moglie Tami e suo padre Richard (senior).  La Racer 5 IPA è la loro birra più famosa, che impegna circa l’85% della loro produzione, seguita da altre birre molto apprezzate come la APEX (Double IPA), e la Hop Rod Rye Ale. Grazie alla prima espansione avvenuta nel 2006 il birrificio produce oggi circa 65.000 barili anno, a fronte di una capacità di circa 200.000; non è certo la domanda dei clienti quella che manca, ma piuttosto la quantità di acqua disponibile nella città Cloverdale. Attualmente il birrificio è autorizzato ad utilizzare solamente 8 milioni di galloni di acqua all’anno. La principale fonte di approvvigionamento idrica (il fiume Russian)  è infatti a rischio siccità a causa della mancanza di pioggia che da affligge in questo periodo (ma non solo) la zona della California del Nord.  Già a novembre 2013 il birrificio aveva co-finanziato con 466.000 dollari lo scavo di due nuovi pozzi idrici che a partire dal prossimo luglio saranno destinati ad aumentare le risorse di acqua disponibili in città;  ora la Bear Republic si è offerta di prestare alla municipalità quasi tutta la cifra necessaria per installare le linee idriche che collegheranno i pozzi alla rete cittadina. Il birrificio ha inoltre pesantemente investito (si parla di circa un milione di dollari) in un sistema di riciclo dell’acqua chiamato EcoVolt, inizialmente sviluppato per l’esercito americano; l'attrezzatura, che è ospitata all'interno di una sorta di container, permette non solo di riciclare gran parte delll'acqua usata ma anche di generare biogas, ovvero una fonte di energia immediatamente utilizzabile. 
Cerchiamo quindi di recuperare liquidi andando a stappare una bottiglia dell'imperial stout prodotta da Bear Republic, chiamata Big Bear Black Stout; il birrificio californiano non è certo famoso per produrre birre estreme ed annienta-palato, ma piuttosto delle birre molto bilanciate che si riescono a bere con grande facilità. Non fa eccezione questa Big Bear, un'imperial stout (o semplicemente un'american stout, per come la definisce il birrificio) dal contenuto alcolico tutto sommato modesto (8.1%) e luppolata con Centennial e Cascade; numerosi i riconoscimenti ottenuti, tra i più importanti ci sono l'oro alla World Beer Cup del 2002 e un argento nella categoria American-Style Stout del Great American Beer Festival del 2007.
Si presenta di uno splendido color nero, impenetrabile; il cappello di schiuma color beige che si forma è compatto, fine, cremoso e molto persistente. Inappuntabile. Al naso sentori di mirtilli, frutti di bosco, uvetta, prugna, caffè ed orzo tostato: pulito, elegante e di buona intensità. Si parlava poco prima di Bear Republic come un birrificio che spesso sceglie di privilegiare la facilità di bevuta piuttosto che l'estremismo e questo orientamento si riflette perfettamente nel bicchiere. Il corpo è medio, con poche bollicine ed una consistenza oleosa, che sacrifica un po' la morbidezza e la cremosità per favorire invece la facilità di scorrimento; non ci sono invece compromessi per quel che riguarda l'intensità. Il gusto è amaro e ricco di tostature e caffè liquido, con qualche sfumatura di cioccolato amaro e di liquirizia; solo quando la birra si scalda si fa più presente l'alcool, portando con sé delle gradevoli note di frutta sotto spirito. Ma è nel finale che questa Big Bear Black Stout dà il meglio di sé: una discreta luppolatura (resina) ed una lieve acidità lavano bene il palato, creando quel brevissimo momento di vuoto, quasi di silenzio, necessario per poter poi assaporare tutte le sfumature del retrogusto: lieve tabacco, affumicato ed una lunga tepore etilica, molto morbida, che ben accompagna l'amaro del caffè.  Ben fatta, pulita, intensa e gustosa, non necessita praticamente di nessun impegno per essere bevuta, ed il bomber da 65 cl. si svuota più in fretta del previsto; avercene, di birre così.
Formato: 65 cl., alc. 8.1%, IBU 55, lotto e scadenza non riportati, pagata 6.31 Euro (beershop, Inghilterra).

martedì 11 marzo 2014

Rolio Beer Easy Girl

Il Birrificio Rolio apre nel 2012 in una zona già ad elevata densità “brassicola”, visto che la provincia di Cuneo conta già una ventina di attori - alcuni ben navigati - tra microbirrifici, brewpub e beerfirm. La sede è in frazione San Martino di Castiglione Tinella, il titolare (e birraio, credo) è Alessandro Rizzoglio, che trasforma in una professione la sua passione (homebrewing?) per la birra e l’affianca alla sua attività di designer (RA Design).  Il sito del birrificio è molto curato graficamente, ma un po’ avaro d’informazioni sulla (seppur breve) storia del birrificio e di chi ci lavora. Piuttosto che tirare ad indovinare, meglio concentrarsi sull’offerta brassicola, composta al momento da cinque alte fermentazioni che s’ispirano alla tradizione belga ed a quella anglosassone:  wit/blanche, e Belgian strong ale, stout, IPA, red ale. A nemmeno un anno dell’apertura il birrificio partecipa al concorso di Birra Dell’Anno 2013 ottenendo, tra la sorpresa degli addetti ai lavori, ben due riconoscimenti. La blanche Castion  ottiene il secondo posto nella “categoria 15: chiare, alta fermentazione, basso grado alcolico, di ispirazione belga”, mentre la strong ale Easy Girl arriva addirittura all’oro nella categoria 16 “Chiare, alta fermentazione, alto grado alcolico, di ispirazione belga”, davanti a due toscani come Bruton (Stoner) e Birrificio Del Forte (La Mancina). I premi hanno senza dubbio dato visibilità alla giovane realtà piemontese (del resto i concorsi servono soprattutto a questo), incuriosendo molti appassionati che non sempre riescono ad essere informati sulle ormai oltre 600 realtà che in Italia producono o si fanno produrre birra "artigianale" e che spuntano ormai come funghi.
Ecco quindi la Easy Girl, che come detto è una Strong Ale d’ispirazione Belga, 8% contenuto alc. Abbondante presenza di lievito sul fondo della bottiglia, pur versando la birra con cautela il suo colore oro/arancio diventa nel bicchiere molto opalescente e non molto attraente; anche la schiuma è alquanto modesta,  la grana un po' grossolana,  il colore biancastro, la persistenza è molto breve. Il naso non brilla particolarmente di pulito ma ha una buona intensità con arancia, banana, coriandolo, curaçao, chiodi di garofano e soprattutto pera, in grande evidenza. E la pera è il leitmotiv che accompagna questa Easy Girl in tutto il suo percorso; anche in bocca, dopo un imbocco maltato (biscotto) c'è un richiamo all'aroma (arancia, curaçao, banana) e poi pera in abbondanza. Il corpo è medio, l'alcool è molto ben nascosto, ma la carbonazione molto bassa (e non solo per una strong ale belga) la rende purtroppo abbastanza spenta e poco vivace in bocca. Anche al palato c'è un buon livello d'intensità, che non corrisponde però ad un analogo grado di pulizia e di equilibrio, causa l'abbondanza di pera; finisce discretamente secca ma molto corta, senza nessun tepore etilico e con un retrogusto nel quale si materializza di nuovo la pera. Bottiglia spenta e con qualche problema irrisolto; ottimo l'exploit di Birra dell'Anno 2013, ma il vero concorso che bisogna vincere adesso  è  quello della costanza qualitativa nel tempo.
Formato: 33 cl., alc. 8%, IBU 27, lotto EG0713, scad. 20/11/2014, pagata 4.00 Euro (stand birrificio, fiera).

lunedì 10 marzo 2014

BrewDog Cocoa Psycho

Da qualche anno, poco prima delle festività natalizie BrewDog immette sul mercato alcune birre prototipali, che possono essere di solito acquistate presso il loro sito internet o bevute nei vari BrewDog bar, ma ne sono arrivate anche in Italia. I clienti devono poi indicare la propria preferenza sul sito del birrificio; la birra vincitrice sarà poi prodotta regolarmente nel corso dell’anno successivo. Il concorso si apre  il 9 dicembre del 2012, con queste tre pretendenti:  Cocoa Psycho, una imperial stout prodotta con cacao, caffè e vaniglia; Place Jack Hammer 7.2%, una (nuova, ennesima) IPA da 200 IBUs; Nuns with Guns, una pilsner molto luppolata.  La vincitrice del 2012 Prototype Challenge è Cocoa Psycho, che vince con il 40.88% di preferenze su un totale di 658 voti espressi. La promessa viene quindi mantenuta ed ecco che nel 2013 Cocoa Psycho va a rimpolpare la già vasta gamma di produzioni Brewdog: importante contenuto alcolico (10%), malti Extra Pale, Cara, Smoked, Black e Roasted, frumento, luppoli Cascade, Fuggles, Goldings; chicchi di caffè macinati, baccelli di vaniglia e granella di cacao. 
L’aspetto è sontuoso ma quasi minaccioso: nera, con una testa di schiuma color marrone molto scuro, compatta, cremosa e molto persistente. Al naso, pulito e abbastanza pronunciato, c’è una ben riuscita convivenza tra gli attesi sentori di caffè e di orzo tostato e sfumature che richiamano il tabacco, il cioccolato, il mirtillo, il fruit cake e l’affumicato, con una leggera presenza alcolica che s’affaccia solamente quando la birra inizia a scaldarsi. 
In bocca è meno massiccia di quanto l’aspetto possa far immaginare: il corpo è medio-pieno, e le bollicine sono molto poche; è invece piacevolmente morbida e accomodante, con una consistenza cremosa molto gradevole. Il gusto è meno interessante, meno complesso e meno pulito dell’aroma: è dominato da un amaro molto deciso di caffè liquido, torrefatto e qualche leggera nota di cioccolato amaro, senza molte altre sfumature. Se l’alcool è presente senza mai disturbare, sono le tostature che peccano un po’ di finezza ed arrivano a “raschiare” un po’  la gola; una leggera acidità conferita dai malti scuri viene un po’ in soccorso ad alleviare il palato. Chiude con un finale molto lungo, ovviamente ricco di caffè e torrefatto, dove però c’è anche una gradevole presenza (quasi polverosa) di cioccolato amaro e di affumicato. Dopo più di una delusione da BrewDog, Cocoa Psycho è una buona imperial stout che finalmente soddisfa, pur essendo ben lontana dall’eccellenza;  sebbene l’inizio (l'aroma) sia molto promettente, la birra in bocca si perde un po’ per strada risultando sgraziata in alcuni aspetti e monocorde alla distanza. Si lascia comunque bere senza grosso impegno, nonostante l’elevata gradazione alcolica. Non brilla di pulito (la vaniglia, se c’era, è affondata nel mare di caffè e di tostato?) ma riesce comunque ad essere una bevuta alquanto godibile. 
Formato: 33 cl., alc. 10%, IBU 85, lotto 218, scad. 13/09/2018, pagata 4.82 Euro (beershop, Inghilterra).