La rivoluzione della birra artigianale ha salvato alcuni stili dall’estinzione, ne ha nobilitato altri e ne ha inventato di nuovi: Black IPA, New England IPA, Milkshake IPA, Italian Grape Ale o Pastry Stout, giusto per citarne alcuni, hanno avuto o stanno avendo il loro momento di gloria ma chissà se ci ricorderemo di loro tra una decina d’anni o tra un secolo. Di certo la Craft Beer Revoultion non è stata molto clemente con le Brown Ale, nobilissimo stile anglosassone la cui storia si potrebbe riassumere con pochissime parole: prima dell’invenzione delle Pale Ales, tutte le birre in commercio erano scure. Scriveva John Milton nel suo poema L’Allegro del 1645: “giovani e meno giovani si fanno avanti per giocare in un assolato giorno di vacanza, fino a quando non viene a meno la luce del sole ed arriva il momento per una speziata birra color nocciola” (And young and old come forth to play, On a sunshine holiday, Till the live-long daylight fail, Then to the spicy nut-brown ale).
A quel tempo il malto veniva essiccato a fuoco vivo: il risultato era ovviamente una birra marrone con un forte carattere affumicato. Nel 1817 Daniel Wheeler inventò il tostacaffè, una rivoluzione epocale che permise di ottenere malti scuri senza quello spiccato odore e sapore di fumo che non era amato da tutti. I birrifici iniziarono subito ad utilizzarli nelle loro Porter e Stout ed iniziò il rapido declino delle Brown Ales che di fatto scomparvero nel diciannovesimo secolo. Fu necessario attendere quasi altri cento anni: nel 1902 il birrificio londinese Mann, Crossman and Paulin produsse la Mann’s Brown Ale che con una gradazione alcolica solo del 2.7% sembrò anticipare il “Great Gravity Drop” imposto dal governo nel periodo della prima guerra mondiale. Il birrificio la promuoveva con lo slogan “la birra più dolce di Londra”. Non fu un successo immediato e ci vollero quasi vent’anni per convincere altri birrifici a seguire la strada: nel 1920, nacque la Newcastle Brown Ale che ebbe un grande successo soprattutto nella sua versione in bottiglia spingendo altri produttori ad imitarla, come Samuel Smith (Yorkshire) che lanciò la Nut Brown Ale. A Londra anche Truman, uno dei maggiori produttori di porter, iniziò a produrre la propria Brown Ale ed a nord Steward & Patteson idearono la Norfolk Brown Ale.
La rinascita di uno stile? Per lo storico Martyn Cornell non esiste nessuno stile Brown Ale: basta osservare il colore della Mann (quasi nera) e della Newcastle (ambrata) per rendersene conto. La “colpa” sarebbe del beerhunter Michael Jackson che nelle sue guide le aveva sempre raggruppate sotto ad un unico ombrello. Negli anni 70 nel Regno Unito venivano ancora prodotte un centinaio di Brown Ales, numero destinato però a ridursi drasticamente. Il BJCP definisce oggi una Brown Ale come una “birra maltata di color marrone basata sul caramello ma senza il gusto di torrefatto della Porter. Ampia categoria con diverse interpretazioni possibili: da chiara luppolata a molto scura e caramellata, tuttavia nessuna ha gusti fortemente torrefatti”. La Craft Beer Revolution americana fece qualche tentativo per rivitalizzare lo stile, potenziando ovviamente l’ABV: notabile in particolare quello di Dogfish Head con la sua Indian Brown Ale che a me era piaciuta parecchio, così come la Board Meeting di Port Brewing.
E in Italia? Non sono molti i birrifici che hanno in produzione una Brown Ale, sia nella classica interpretazione inglese che in quella americana, ovviamente più luppolata. Sul blog trovate Santa Giulia del Piccolo Birrificio Clandestino, la O.G. 1048 di Carrobiolo e soprattutto la convincente Sweet Earth di EastSide ma segnalo anche la Jehol di Bi-Du, la Chester Brown di Dada, la Flebo di Casa di Cura, la Vecchia Volpe di Valcavallina.
A quel tempo il malto veniva essiccato a fuoco vivo: il risultato era ovviamente una birra marrone con un forte carattere affumicato. Nel 1817 Daniel Wheeler inventò il tostacaffè, una rivoluzione epocale che permise di ottenere malti scuri senza quello spiccato odore e sapore di fumo che non era amato da tutti. I birrifici iniziarono subito ad utilizzarli nelle loro Porter e Stout ed iniziò il rapido declino delle Brown Ales che di fatto scomparvero nel diciannovesimo secolo. Fu necessario attendere quasi altri cento anni: nel 1902 il birrificio londinese Mann, Crossman and Paulin produsse la Mann’s Brown Ale che con una gradazione alcolica solo del 2.7% sembrò anticipare il “Great Gravity Drop” imposto dal governo nel periodo della prima guerra mondiale. Il birrificio la promuoveva con lo slogan “la birra più dolce di Londra”. Non fu un successo immediato e ci vollero quasi vent’anni per convincere altri birrifici a seguire la strada: nel 1920, nacque la Newcastle Brown Ale che ebbe un grande successo soprattutto nella sua versione in bottiglia spingendo altri produttori ad imitarla, come Samuel Smith (Yorkshire) che lanciò la Nut Brown Ale. A Londra anche Truman, uno dei maggiori produttori di porter, iniziò a produrre la propria Brown Ale ed a nord Steward & Patteson idearono la Norfolk Brown Ale.
La rinascita di uno stile? Per lo storico Martyn Cornell non esiste nessuno stile Brown Ale: basta osservare il colore della Mann (quasi nera) e della Newcastle (ambrata) per rendersene conto. La “colpa” sarebbe del beerhunter Michael Jackson che nelle sue guide le aveva sempre raggruppate sotto ad un unico ombrello. Negli anni 70 nel Regno Unito venivano ancora prodotte un centinaio di Brown Ales, numero destinato però a ridursi drasticamente. Il BJCP definisce oggi una Brown Ale come una “birra maltata di color marrone basata sul caramello ma senza il gusto di torrefatto della Porter. Ampia categoria con diverse interpretazioni possibili: da chiara luppolata a molto scura e caramellata, tuttavia nessuna ha gusti fortemente torrefatti”. La Craft Beer Revolution americana fece qualche tentativo per rivitalizzare lo stile, potenziando ovviamente l’ABV: notabile in particolare quello di Dogfish Head con la sua Indian Brown Ale che a me era piaciuta parecchio, così come la Board Meeting di Port Brewing.
E in Italia? Non sono molti i birrifici che hanno in produzione una Brown Ale, sia nella classica interpretazione inglese che in quella americana, ovviamente più luppolata. Sul blog trovate Santa Giulia del Piccolo Birrificio Clandestino, la O.G. 1048 di Carrobiolo e soprattutto la convincente Sweet Earth di EastSide ma segnalo anche la Jehol di Bi-Du, la Chester Brown di Dada, la Flebo di Casa di Cura, la Vecchia Volpe di Valcavallina.
La birra.
Quando si fa una birra l’obiettivo principale è ovviamente quello di venderla, necessità che va oltre quelle che sono i gusti personali o la soddisfazione del birraio. Il mercato non chiede le Brown Ale e i birrifici raramente le producono. Personalmente le bevo sempre con grande piacere ogni volta che le incontro, soprattutto nelle versioni “imperial”: quella degli scozzesi Tempest va un po’ al di fuori degli schemi ma è una delle birre più buone nate negli ultimi anni. Per questo plaudo al coraggio del Galaxy Beershop (da anni indiscutibile punto di riferimento per gli appassionati di Reggio Emilia, Modena e dintorni) e di Brasseria della Fonte di puntare su di una Brown Ale per la loro prima collaborazione, pronta giusto in tempo per le festività natalizie. Una scelta che va oltre la solita IPA, sempre benvoluta dai clienti, o dalla classica Strong Ale (spesso Belgian) speziata che viene prodotta in queste occasioni.
Vynile è il nome dato ad un’American Brown Ale luppolata con Magnum ed Amarillo ed un abbondante utilizzo di avena maltata e fiocchi d'avena per donarle un mouthfeel morbido e adatto ai mesi più freddi dell’anno. Un’accidentale fotografia scattata durante la produzione (whirlpool) che ricordava i vecchi LP ha fornito l’ispirazione per il nome: Vynile. Al grafico Andrea Poletti il compito di costruirle attorno un giradischi virtuale. Ne sono state realizzate 400 bottiglie e alcuni fusti distribuiti anche a locali amici.
Nel bicchiere si presenta di color mogano acceso da vivaci riflessi rosso rubino, la schiuma beige è cremosa, compatta ed ha ottima persistenza. Nonostante sia dichiaratamente un’American Brown Ale i suoi profumi sono spiccatamente british, con quel classico “nutty” accompagnato da note terrose, frutta secca e frutti di bosco; in secondo piano si scorgono accenni di tostature, caffè e cioccolato. L’avena mostra di aver svolto alla perfezione il compito per il quale è stata chiamata in causa: la sensazione palatale è morbidissima, a tratti quasi impalpabile. Alla spina l’ho invece trovata leggermente più densa. Caramello, qualche accenno biscottato e frutta secca, soprattutto nocciola, danno il via ad una bevuta calda, ulteriormente ammorbidita da qualche accenno d’uvetta e poi risvegliata da un bel crescendo amaro finale, ricco di note terrose, di richiami al caffè e al cioccolato e da una lieve acidità che pulisce benissimo il palato. L’alcool è davvero ben nascosto ed il mio consiglio è di berla il più possibile prossima alla temperatura ambiente (come si farebbe nel Regno Unito) se volete godere di quelle delicate coccole etiliche necessarie nei mesi più freddi dell’anno.
Molto ben fatta, intensa ma facilissima da bere: pulita e ben definita ma non priva di un certo carattere rustico, autentico, capace di trasportarti virtualmente in uno vecchio pub di un piccolo paeseamericano inglese. Pensate al calore che vi trasmette un vecchio disco in vinile rispetto ad un cd digitale quando ascoltate determinati generi musicali. E’ difficile da spiegare a parole, meglio bere.
Formato 50 cl., IBU 60, lotto , prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)
Vynile è il nome dato ad un’American Brown Ale luppolata con Magnum ed Amarillo ed un abbondante utilizzo di avena maltata e fiocchi d'avena per donarle un mouthfeel morbido e adatto ai mesi più freddi dell’anno. Un’accidentale fotografia scattata durante la produzione (whirlpool) che ricordava i vecchi LP ha fornito l’ispirazione per il nome: Vynile. Al grafico Andrea Poletti il compito di costruirle attorno un giradischi virtuale. Ne sono state realizzate 400 bottiglie e alcuni fusti distribuiti anche a locali amici.
Nel bicchiere si presenta di color mogano acceso da vivaci riflessi rosso rubino, la schiuma beige è cremosa, compatta ed ha ottima persistenza. Nonostante sia dichiaratamente un’American Brown Ale i suoi profumi sono spiccatamente british, con quel classico “nutty” accompagnato da note terrose, frutta secca e frutti di bosco; in secondo piano si scorgono accenni di tostature, caffè e cioccolato. L’avena mostra di aver svolto alla perfezione il compito per il quale è stata chiamata in causa: la sensazione palatale è morbidissima, a tratti quasi impalpabile. Alla spina l’ho invece trovata leggermente più densa. Caramello, qualche accenno biscottato e frutta secca, soprattutto nocciola, danno il via ad una bevuta calda, ulteriormente ammorbidita da qualche accenno d’uvetta e poi risvegliata da un bel crescendo amaro finale, ricco di note terrose, di richiami al caffè e al cioccolato e da una lieve acidità che pulisce benissimo il palato. L’alcool è davvero ben nascosto ed il mio consiglio è di berla il più possibile prossima alla temperatura ambiente (come si farebbe nel Regno Unito) se volete godere di quelle delicate coccole etiliche necessarie nei mesi più freddi dell’anno.
Molto ben fatta, intensa ma facilissima da bere: pulita e ben definita ma non priva di un certo carattere rustico, autentico, capace di trasportarti virtualmente in uno vecchio pub di un piccolo paese
Formato 50 cl., IBU 60, lotto , prezzo indicativo 6,00 euro (beershop)
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