Il percorso che porta Peter Egelston dall’essere un semplice bevitore di birra ad aprire un brewpub è abbastanza noto: sbronze al college con bottiglie industriali di pessima qualità, incontro casuale con un rudimentale kit per l’homebrewing (erano gli anni ’70, e farsi la birra in casa era da poco tornata ad essere una pratica legale grazie al presidente Carter) e i primi imbarazzanti esperimenti assieme ad un amico. Homebrewer occasionale e insegnante di Inglese in una scuola pubblica di New York City, Peter riceve nel 1986 la visita della sorella Janet che lavora per un agenzia viaggi di San Francisco. E’ lei a raccontargli, mentre bevono la birra fatta in casa da Peter, di quello che sta succedendo sulla West Coast, in California e a Portland, Oregon. L’idea inizialmente buttata lì quasi per scherzo di aprire assieme un brewpub sulla costa ad est si fa sempre più concreta e si realizza in pochissimo tempo: è il 1987 e viene inaugurata la Northampton Brewery, nell’omonima città del Massachusetts, che vede Peter impegnato anche come birraio sino al 1991, quando apre un secondo brewpub a Portsmouth, nel New Hampshire: è la Portsmouth Brewery. Nel 1993 Peter partecipa più che altro per curiosità ad un’asta pubblica riguardante il fallimento di un brewpub di Portsmouth, la Frank Jones Brewing Company: se ne torna invece a casa con l’edificio e gli impianti di quella che diventerà poi la Smuttynose Brewing Company, aperta l’anno successivo inzialmente in partnership con la Ipswich Brewery ma la cui quota societaria di maggioranza arriva in breve tempo nelle mani degli Egelston.
Il sodalizio professionale di Janet e Peter s’interrompe alla fine del 2000: Janet rimane l’unica proprietaria della Portsmouth Brewery, mentre il fratello si tiene la Northampton Brewery e la quota maggioritaria della Smuttynose.
Da allora Smuttynose (che prende il suo nome da una delle nove isole che compongono il piccolo arcipelago delle isole Shoals, a sette miglia dalla costa del New Hampshire) ha svolto un percorso di crescita annuale con percentuali sempre in doppia cifra che l’hanno portata a superare abbondantemente, per volumi e redditività, quelli della Northampton. Terminate tutte le possibilità di ampliamento ed espansione sulla proprietà attuale, Peter Egelston ha dovuto combattere per oltre cinque anni con le amministrazioni locali ed i vari comitati di cittadini prima di poter annunciare un piano di espansione da 22 milioni di dollari che si è concretizzato con l’apertura del nuovo birrificio da 4000 metri quadrati a Hampton, una quindicina di chilometri più a sud dello stabilimento originale. In sala cottura ci sono da ormai lungo tempo i birrai Dave Yarrington e Greg Blanchard.
Negli ultimi mesi in Italia sono arrivate diverse Smuttynose, buona occasione per ripassare un po' un birrificio che non bevo da qualche anno.
Nel 2013 la Smuttynose lancia la sua prima IPA alla segale per la propria linea "Short Batch Series", chiamandola Rhye, un gioco di parole che combina il rinoceronte (Rhinoceros) dell'etichetta con la segale (Rye). La base di partenza è la classica Finestkind IPA (o Smuttynose IPA) aggiungendo il 30% di malto di segale e sostituendo il malto C-60 con quello Aromatic. La ricetta quindi prevede malti North American 2-Row, segale, Crisp Pale Ale, Aromatic; luppolo Magnum per l'amaro, Amarillo e Simcoe in dry-hopping.
Si presenta di color ambrato chiaro, con riflessi dorati ed arancio; la shcuma, ocra, fine e cremosa, ha una buona persistenza. Chi legge abitualmente il blog conosce la mia diffidenza verso le birre luppolate che arrivano dagli Stati Uniti: troppo il rischio di trovarle in Italia stanche e poco fresche, solo una copia sbiadita di quello che erano alla partenza. Spesso le evito, a meno che non siamo nella stagione invernale/primaverile (viaggio e magazzini italiani al fresco) e non abbia notizie certe sulla data d'imbottigliamento. La bottiglia in questione mi è stata regalata e riporta una scadenza abbastanza vicina, agosto 2015; da quanto trovato in rete, Smuttynose dà una shelf life di 6 mesi. Dovrebbe quindi trattarsi di una birra prodotta a febbraio, che ha poi impiegato i classici due/tre mesi per arrivare nei negozi italiani. L'aroma mantiene comunque ancora una buona intensità ed una bella eleganza, anche se la fragranza della frutta appena tagliata è stata sostituita da sentori meno pungenti e più tendenti al dolce: mandarino, arancio, mango, papaya e melone retato sfilano in una parata ben costruita, nella quale trovano anche posto il caramello ed i primi accenni di marmellata. Il naso promette bene (immaginate solo come poteva essere 4 mesi fa!) mentre è in bocca che la stanchezza del viaggio oceanico si fa sentire maggiormente: caramello e biscotto fanno da supporto alla classica "speziatura da segale" e al dolce della frutta tropicale e della marmellata d'agrumi. L'amaro (vegetale, resina) non morde molto e si spegne un po' troppo presto, facendo perdere alla bevuta un po' di equilibrio spostandola sul versante del dolce. Chiude con il leggero "piccante" della segale che, in una bottiglia fresca, ben s'abbinerebbe alle note resinose amare; in questo caso il pepe è invece un po' abbandonato a se stesso a lottare contro il dolce dei malti. La bevuta risulta quindi gradevole ma un po' stanca, perdendo equilibrio, eleganza e facendo nascere il solito rimpianto di non averla bevuta qualche mese prima.
Formato: 35.5 cl., alc. 6.8%, IBU 65, scad. 18/08/2015.
NOTA: la descrizione della birre è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglie, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale dei birrifici.
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