sabato 22 agosto 2015

Pausa Estiva 2015

E finalmente siamo arrivati anche quest'anno al momento della pausa estiva; il blog va in ferie e torna la seconda settimana di settembre. Per chi si sentisse abbandonato, ecco gli inevitabili collegamenti alle pagine "social" che vi terranno compagnia con un po' di #beerporn vacanzieri:

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venerdì 21 agosto 2015

To Øl Sesson

A febbraio 2014 la beerfirm danese  To Øl (la loro storia la trovate qui) annuncia la nascita della loro Session Series: la serie altro non fa che cavalcare la moda attuale della "sessionabilità", diametralmente opposta a quella dell'"imperializzazione" che invece dilagava qualche anno fa. Si parte con tre birre che - a guardarci bene - più che delle innovative "session" non sono altro che birre leggere per definizione: l'APA Sofia King Pale (4.7%), la Hope Love Pils (4.5%) e la Cloud 9 Wit (4.6%).  Insomma, sbandierare come "session" una Pils è un po' come gridare di aver scoperto l'acqua calda.
Le etichette, come spiegano i danesi, sono state volutamente semplificate da Kasper Ledet, il loro grafico di fiducia, per trasmettere anche visivamente la "facilità" di fruizione di queste birre. Ampio spazio ai caratteri Gill Sans ed immagini quasi ridotte al minimo. 
Alle tre "session" iniziali se ne aggiunge più tardi una quarta chiamata "Sesson", una parola che fonde al suo interno "session" e "saison". Anche qui ci sarebbe qualcosa da dire su come sia ridondante specificare "session saison"; sappiamo che le Saison erano le birre che nel diciannovesimo secolo erano prodotte alla fine della stagione fredda e destinate ad essere poi bevute in estate, durante il duro lavoro estivo nei campi, in quanto più sicure e salubri dell'acqua che era spesso portatrice di malattie ed infezioni. In assenza della refrigerazione, per farle "durare" qualche mese più del solito venivano abbondantemente luppolate ed anche il contenuto alcolico era leggermente superiore alla norma; bisogna però considerare che a quel tempo una birra dal contenuto alcolico in percentuale del 4% era già considerata "forte". 
Come inoltre fa notare Phil Markowski nel libro Farmhouse Ales, è probabile che sino alla prima guerra mondiale coesistessero almeno due tipi di "saison". Quelle che venivano bevute di giorno nei campi, per dissetarsi e rinfrescarsi durante il lavoro, con un contenuto alcolico normalmente inferiore al 2.5% e quelle di qualità "superiore" (ovvero più alcoliche) che venivano bevute al termine della giornata lavorativa. 
La Sesson di To Øl vede un dry-hopping di Vic Secret (Australia) ed Amarillo; nessuna novità neppure qui, visto che era pratica diffusa (stiamo sempre parlando del secolo XIX) praticare il dry-hopping dei cask per "ringiovanire" queste birre prodotte qualche mese addietro prima di essere spedite al consumatore. 
Nel bicchiere arriva di colore oro pallido, leggermente velato e con un abbondante cappello di schiuma bianca e pannosa, dall'ottima persistenza. L'aroma vede gli agrumi in primo piano (lime, limone, mandarino e arancia) seguiti da sentori floreali, un accenno dolce di frutta tropicale e rustico di paglia; c'è anche la leggerissima acidità donata dal frumento, per un aroma pulito e ancora discretamente fresco. La "sessionabilità" viene perseguita al palato soprattutto attraverso la leggerezza del corpo e la consistenza acquosa, con un'impeccabile scorrevolezza ed una vivace carbonazione; ne soffre un po' l'intensità dei sapori. Leggero imbocco di crackers e di miele, il dolce della polpa d'arancia e qualche suggestione di canditi per un finale che arriva piuttosto in anticipo, con un amaro pulito e gradevole composto da note erbacee e di scorza d'agrumi. La secchezza è quella giusta, assicurando un ottimo potere dissetante e rinfrescante che - raffreddando il palato - dimentica però di scaldare il cuore. Birra molto pulita e "perfettina", eseguita con precisione chirurgica dal fido De Proef a scapito di quelle imperfezioni "rustiche" spesso responsabili di quelle emozioni che le grandi Saison riescono a dare. 
L'importatore italiano la definisce curiosamente un tributo alla Saison Dupont Cuvéé Dry Hopping; non so se questa informazione sia arrivata direttamente dal produttore, ma andiamoci piano ad avvicinare irrispettosamente il profano al sacro.
Formato: 33 cl., alc. 4.6%, scad. 30/03/2017, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 18 agosto 2015

Birrificio Oldo Belgian Shower

La torrida estate 2015 reclama birre leggere e facili da bere, profumate e con una buona secchezza per dissetarci, rinfrescarci, ed alleviarci dai tormenti delle elevate temperature. È con questi requisiti che viene elaborata la ricetta per una Belgian Ale "estiva" elaborata da Marcello "barone birra" Giuliani e Roberto Maioli in collaborazione con il Summertime Pub Birreria di Igea Marina. La birra viene realizzata presso gli impianti del Birrificio Oldo di Cadelbosco di Sopra (RE), con l'aiuto fondamentale del birraio Francesco Racaniello.  Viene scelto un lievito tipo Saison per garantire una buona attenuazione mentre per la luppolatura ci si affida all'ormai onnipresente Mosaic affiancato dal Citra. 
Il risultato  viene chiamato Belgian Shower, con la divertente etichetta estiva che gioca con il nome della birra e fa qualche innocente rimando all''urofilia; la sua presentazione ufficiale avviene lo scorso 18 luglio ovviamente al Summertime Pub. 
Nel bicchiere si presenta di colore arancio, opalescente, e forma un generoso cappello di bianca schiuma pannosa, dall'ottima persistenza.  La bottiglia è molto fresca e forse al naso la generosa luppolatura sovrasta un po' il contributo del lievito belga. Il bouquet olfattivo è intenso, pulito e ruffiano quanto basta: lime, mandarino e arancia con qualche sentore tropicale di ananas e una fugace suggestione estiva che richiama la fragola e persino (?) l'anguria. Rimane molto in secondo piano la speziatura ed il carattere rustico/saison.
La buona complessità dell'aroma non preclude comunque ad una grandissima facilità di bevuta per una birra che rientra nei confini  (4.2%) della sessionabilità. Anzi, per descriverla mi devo sforzare di rallentare il ritmo di sorsata: i malti (crackers) sono leggeri e la generosa (e necessaria) carbonazione rende vivace l'esuberante carattere fruttato che richiama gli agrumi dell'aroma (arancia e mandarino) aggiungendo il dolce della pesca e una lieve acidità a bilanciare. La delicata speziatura rimane in sottofondo e introduce con garbo l'amaro erbaceo e zesty col quale la bevuta prosegue per poi concludersi con la necessaria secchezza. Birra molto pulita e capace di offrire un'ottima intensità nonostante la gradazione alcolica contenuta. Volendo proprio farle le pulci mi è sembrata in alcuni passaggi un po' sfuggente in bocca, ma è comunque una belgian ale estiva (e non) dal livello molto alto. Dopo la Grannie Hoppie dello scorso anno, un'altra produzione estiva molto ben riuscita e "pensata" dall'appassionato birrofilo (ed ex? publican) Macello Giuliani. In Italia ci sono ormai quasi un migliaio tra birrifici e beer/brewfirm, molti dei quali con (purtroppo) tanta, tantissima strada da fare prima di arrivare ad un livello qualitativo accettabile. E' quindi davvero un peccato che questa Belgian Shower rimanga una one-shot dalla distribuzione piuttosto limitata: il suo livello meriterebbe assolutamente palcoscenici ben più ampi.
Formato: 50 cl., alc. 4.2%, lotto 040-15, scad. 31/03/2016, pagata 4,50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 16 agosto 2015

Stillwater Of Love & Regret

Nuovo appuntamento con Stillwater Artisanal, la beerfirm americana di Baltimora nata nel 2010 e guidata da Brian Strumke che negli ultimi mesi ho ospitato più di una volta
Oggi è il turno della saison "Of Love &  Regret", birra che ha inaugurato nel 2011 la Import Series di Stillwater, ovvero collaborazioni con birrai europei prodotte in origine nel nostro continente e poi replicate anche negli Stati Uniti. Per l'occasione Strumke incontra Jef Goetelen della ‘t Hofbrouwerijke di Beerzel, in Belgio; viene realizzata una saison con l'utilizzo di malti tedeschi, frumento e un piccolo "raccolto" di campo che si compone di camomilla, lavanda, erica e tarassaco. Le stesse "spezie" verranno poi utilizzate da Goetelen per realizzare la sua Flower Sour.
"Love & Regret" diventerà qualche anno più tardi, nella primavera del 2012, anche il nome del pub/ristorante di proprietà Stillwater che si trova a Baltimora; tre le 23 spine a disposizione oltre alle birre della casa anche qualche ospite ma, volutamente, nessuna IPA.
Altro non resta che citare la solita bella etichetta di Lee Verzosa, amico di Strumke nonché graphic designer e tatuatore.
Perfettamente dorata, solo leggermente velata, forma un discreto cappello di schiuma biancastra e cremosa, dalla buona persistenza.
Al naso, dopo un benvenuto leggermente speziato (pepe e coriandolo), c'è una piccola festa floreale di lavanda e camomilla; completano il bouquet sentori erbacei e di erbe officinali, miele e, quando la birra si scalda, frutta candita. Con un ottima sensazione palatale è una saison che riesce ad essere morbida pur mantenendo la vivace carbonazione che lo stile prevede; la bevuta parte piuttosto dolce, di miele millefiori e di biscotto, di arancia ed albicocca candita, con qualche richiamo floreale all'aroma (camomilla, lavanda); a bilanciare c'è una bella acidità ed un delicato amaro finale che richiama sensazioni terrose e di erbe officinali. C'è anche una leggera speziatura (scorza d'arancio, pepe, coriandolo) a completare una birra dall'ottima intensità che mantiene un'ottima scorrevolezza e facilità di bevuta. Nonostante l'impiego di fiori ed erbe il risultato è quasi sin troppo elegante e privo di qualsiasi carattere rustico; una saison "da salotto", buona ma un po' avara nel trasmettere emozioni.
Formato: 35.5 cl., alc. 7.2%, lotto 265:15 08:51, pagata 5.40 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 12 agosto 2015

Birrificio Maiella Emigrante

Dopo qualche anno d’assenza ritorna sulle pagine del blog il Birrificio Maiella, fondato nel 2008 da Massimiliano Di Prinzio a Casoli, in provincia di Chieti,  con l’aiuto della moglie Sonia.  Dopo il passaggio dall’homebrewing al mondo dei professionisti, per Di Prinzio è stato necessario nel 2014 il trasferimento in locali pià capienti che permettessero di ospitare il nuovo e più capiente impianto produttivo. 
La località scelta è Cerrani, una frazione di Pretoro, una ventina di chilometri più a nord (e ad un’altitudine più elevata) rispetto alla sede originale; i lavori iniziati nella primavera del 2014 sono stati completati verso la fine dell’estate. Per l’occasione è stato anche effettuato un restyling dell’etichette, del sito internet (che offre ora anche la possibilità d’acquisto on-line)  ed è finalmente arrivato il formato 33 cl. 
Dopo l’ottima Bucefalo è la volta di Emigrante, una pale ale nata nel 2012 e dedicata a tutti i concittadini di Casoli emigrati all’estero: nel paese abruzzese si tiene, credo annualmente, anche la “Festa dell’Emigrante” Una birra Internazion-Ale, come riporta l'etichetta, la cui ricetta prevede malti tedeschi, inglesi e belgi assieme ad un mix di luppoli provenienti da Stati Uniti e Nuova Zelanda. La foto inganna un po', perché il suo colore è oro carico con venature che passano dall’arancio all’ambrato; in superficie si forma un discreto cappello di schiuma ocra, compatta e cremosa, dalla buona persistenza. 
Al naso non trovo onestamente nessuna traccia dei luppoli di provenienza extra-europea utilizzati; ci sono piuttosto i profumi dei malti, del pane e dei cereali, della fetta biscottata e – in un bouquet che nel compesso mi fa pensare all’Inghilterra – la frutta secca. 
Al palato c’è una sensazione tattile un po’ troppo pesante per quella che dovrebbe essere una session beer dal contenuto alcolico modesto (4.5%); il corpo è tra il medio ed il leggero, con una carbonazione bassa. Note di biscotto, frutta secca, un tocco di miele e di caramello caratterizzano l’inizio della bevuta che vira poi progressivamente in territorio amaro, con un finale piuttosto intenso ma leggermente astringente dove predominano note terrose e tracce di resina e frutta secca. Non so quali luppoli americani e neozelandesi siano stati usati nello specifico, ma anche il gusto mi fa pensare ad una birra di stampo anglosassone, priva di quelle componenti agrumate e tropicali che di solito accompagnano i luppoli extra-europei;  non so se l’intenzione fosse quella di creare una sorta di “best bitter” inglese con ingredienti extra-europei, ma la descrizione del birrificio che parla di  un “profumo intenso d’agrume” mi porta a pensare che questa bottiglietta non sia venuta come doveva. L’aroma – benché abbastanza pulito - è scarso e poco invitante e in bocca – pesantezza tattile a parte – c’è una bella intensità che però non è supportata da altrettanta finezza ed eleganza.
Formato: 33 cl., alc- 4.5%, IBU 36, lotto 12 15, scad. 21/04/2016, pagata 3.50 Euro (foodstore, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 11 agosto 2015

Mad Hatter Baltic Porter Chocolate Chilli

Una seconda opportunità non la si nega a nessuno ed ecco il ritorno del birrificio di Liverpool Mad Hatter Brewing Co., protagonista qualche settimana fa di una stout piuttosto deludente, per dirla con parole gentili.  La produzione di Mad Hatter è iniziata a febbraio 2013 sotto a mano del birrario (e proprietario, assieme alla moglie Sue Starling) Gareth "Gaz" Matthews. 
Continuano a piacermi moltissimo le etichette, realizzate dall'illustratrice Emily Warren (The Stealthy Rabbit) che ripropongono gli elementi fantastici ed onirici del libro  di Lewis Carroll "Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie". In questo caso un coniglio è alle prese con un improbabile tavolo da biliardo a forma triangolare mentre in primo piano vi è una pinta di una baltic porter  (bassa fermentazione) prodotta con fave di cacao e peperoncino. Curiosamente "baltic" ha anche a che vedere con la zona di Liverpool nella quale il birrificio si è da poco trasferito; si tratta del Baltic Triangle,  l'area che si trova proprio dietro al famoso Albert Dock e che è stata di recente coinvolta in un importante progetto di recupero e di restauro. Gli edifici industriali progressivamente abbandonati vengono riconvertiti ed occupati da gallerie d'arte, artisti, giovani start-up, locali e bar, studi di registrazione e atelier di moda: qualcuno l'ha definita il "Meat-Packing District" di Liverpool, con ovvio riferimento al quartiere di  New York.
La Baltic Porter Chocolate Chilli di Mad Hatter è di color ebano scuro opaco e forma in superficie una splendida schiuma beige, cremosissima e compatta, molto persistente. Al naso c'è subito un evidente sentore di fragola, affiancato da quelli del cioccolato, del caramello bruciato, del pane nero, delle tostature, del cacao in polvere ed una leggero piccante. La pulizia è discreta, ed il risultato complessivo - un po' bizzarro -  è simile a quello di un cioccolatino al latte con ripieno di fragola. Purtroppo le cose vanno meno bene in bocca: il gusto è piuttosto sporco e leggermente astringente. Si parte con pane tostato, liquirizia e caramello bruciato che svaniscono in un lieve passaggio acquoso, preludio ad un finale piuttosto amaro, dove protagonisti sono le tostature, un po' raschianti, e l'acidità piuttosto marcata dei malti scuri che rovina un po' la sensazione palatale morbida e gradevole della prima parte della bevuta. Non ho avvertito la presenza né del cioccolato né del piccante, se si eccettua un lievissimo tepore che affiora nel retrogusto quando la birra si scalda. Il risultato è una porter intensa ma poco elegante e piuttosto sbilanciata sull'amaro e sulle tostature, che satura in fretta il palato e che non lascia un ricordo troppo positivo di sé, complice un  retrogusto molto amaro e dalle tostature leggermente bruciate.
Formato: 33 cl., alc. 6.6%, scad. 15/12/2015, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 10 agosto 2015

Wasosz Polka Pils

Ha una storia breve ma abbastanza movimentata quello che attualmente è noto come birrificio Wąsosz  (Browary Regionalne Wąsosz) di Konopiska, 230 chilometri a sud-ovest di Varsavia, non lontano al confine con la Repubblica Ceca. La fondazione è datata 1993 quando Jan Kowalski decide di trasformare la sua attività principale dal commercio di funghi alla produzione di birra; nasce così il birrifcio GAB (le prime tre lettere del nome della figlia, Gabrysi ovvero Gabriella); è interessante scoprire che il birrificio era specializzato nelle alte fermentazioni (leggo di una GAB Stout e un’amber ale chiamata Kama Sutra).  A partire dal 2008 Kowalski è alla ricerca di qualcuno disposto ad acquistare gli impianti, ma le richieste sono davvero scarse; nel 2010 il birrificio viene preso in affitto per sei mesi dal  birrificio Browar Konstancin, che viene a produrre la propria lager.  Nel 2011 la proprietà viene poi rilevata da un gruppo di imprenditori di Cracovia che vi cambiano il nome in Browar Południe  e continuano per la strada – maggiormente in voga – delle basse fermentazioni. La loro  Krakauer Stout; non era altro che una Schwarzbier. 
Nel 2014  Michal Olszewski e Maciej Grzywacz rilevano il birrificio, dandogli il nome della strada (Wąsosz) in cui si trovano gli stabili: Browary Regionalne Wąsosz. Michał Olszewski è proprietario del  Krajina Piva, un pub a Torùn che svolge anche distribuzione di birre all’ingrosso e forniture per locali nonché del beershop Piwex, nella stessa città; sua anche la beerfirm Browar Olimp.  Il ruolo di head brewer è stato affidato a Marcin Ostajewski .   
La produzione di Wąsosz   si divide attualmente un due linee: una moderna chiamata Piwoswasem  (“birra coi baffi”) che guarda agli stili americani  (American Lager, Wheat, IPA) e una “classica”  fatta di basse fermentazioni. Di emulazioni polacche di birre americane ne avete già viste un po’ sulle pagine del blog in questi ultimi mesi, con risultati più o meno riusciti; mi sembra quindi più interessante prendere in esame una bottiglia di Polka Pils che, come il nome suggerisce, si tratta di una Pils prodotta esclusivamente con luppoli polacchi, Marynka e Sybilla nello specifico; i malti sono Pilsner e Monaco. 
Il primo (Marynka) è assieme al Lublin il luppolo polacco più diffuso, utilizzato peraltro anche in alcune birre italiane come ad esempio la I-Pils di Vento Forte; si tratta di un luppolo coltivato nella zona di Lublin e imparentato in qualche modo con il nobile Saaz.  Più recente è invece la nascita dal Sybilla, elaborato dalla IUNG Polacca (l’istituto della scienza dell’agricoltura) incrociando il Lublin con lo  Styrian Golding. 
All’aspetto è dorata e leggermente velata e forma un bel cappello di schiuma bianca, fine e cremosa, dall’ottima persistenza. L’aroma non è molto intenso ma offre quello che si dovrebbe pretendere da una pils: pulizia, eleganza e soprattutto fragranza, in questo caso da parte dei malti (pane, miele e cereali). Un po’ evanescente in luppolo, con una presenza quasi impercettibile di sentori erbacei. Al palato il bevitore incontra l’essenziale, senza fronzoli o difetti, con un buon livello di pulizia: pane, crackers ed un accenno di miele per continuare in perfetta sintonia con l’aroma e chiudere con una nota amaricante erbacea, appena speziata. Una pils delicata e pulita, che fa esattamente quello che deve fare, ovvero rinfrescare e dissetare con gusto; i malti sono fragranti, c'è una bella secchezza finale e una chiusura amara di buona intensità che non perde mai di vista l'eleganza. Complice il caldo di questi giorni, il mezzo litro è sparito dal bicchiere con grande velocità; una buona interpretazione di uno stile tutt'altro che semplice da realizzare, nel quale il minimo errore viene subito smascherato.
Formato: 50 cl., alc. 4.1%, scad. 30/10/2015, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 9 agosto 2015

Birrificio Badalà W.IPA

Ha da poco festeggiato il suo primo compleanno (maggio 2015) il Birrificio Badalà di Montemurlo, provincia di Prato. I fondatori sono Alberto Nannini ed Elena Mornati, il primo alle prese dal 2002 con l'homebrewing sino ad arrivare al ritmo di una cotta alla settimana; seguono le partecipazioni a numerosi concorsi nazionali, i corsi e - soprattutto - due tentativi di aprire un birrificio (2006 e 2008) non andati a buon fine. C'è voluto un po' di tempo più del previsto ma nel 2014 è stato finemente messo in fusione l'impianto Easy Bray da 2.5 hl., con tre fermentatori da 700 litri.
Il giovane birrificio è partito con una gamma abbastanza ampia che al momento si compone di sei birre: Ge.A (Pale Ale con luppoli americani e tedeschi), Kast.A (al miele di castagno),  Fum.A (una birra affumicata e prodotta con farina di castagne), Stro.bi (una bitter con luppoli americani), Wai.Zen (ovviamene una Weizen) e l'ultima nata chiamata W.IPA, la birra che costituisce anche il debutto del birrificio toscano sul blog.
La ricetta di questa White IPA  dovrebbe prevedere malti Pils e Pale Ale, frumento maltato e frumento in fiocchi; i luppoli utilizzati in bollitura sono Centennial, Cascade e Sorachi Ace, questi ultimi due utilizzati anche in dry-hopping. A completamento ci sono le classiche spezie di una Blanche/Witbier, ovvero coriandolo e scorza d'arancia.
Di colore oro pallido, leggermente velato, forma un generoso cappello di schiuma bianca, quasi pannosa, compatta e dall'ottima persistenza. L'aroma non è particolarmente intenso ma la sua discreta pulizia permette di cogliere i sentori agrumati (limone, lime, scorza di mandarino), quelli del coriandolo e dei cereali, con una remota suggestione di frutta tropicale (cocco).  
Meno bene al palato, dove c'è un netto calo del livello di pulizia e la bevuta risulta piuttosto confusa e indecifrabile: si passa dall'ingresso di cereali e pane direttamente ad un amaro erbaceo e resinoso che mostra un po' i muscoli tralasciando però finezza ed eleganza. Nel mezzo c'è poco, una reminiscenza d'arancio che la carbonazione molto elevata non aiuta a percepire, e sopratutto una sensazione tattile al palato troppo pesante per una birra (4.5%) che in teoria dovrebbe essere sessionabile e che ha un corpo leggero. Il finale, leggermente astringente, porta ulteriore amaro resinoso in una birra che alla fine risulta poco bilanciata e poco rinfrescante. Nello stile ibrido delle  White IPA personalmente mi aspetto di trovare il carattere leggero, speziato e fruttato di una Wit/Blanche abbinato ad una generosa luppolatura, e la bravura del birraio consiste di trovare il modo di far coesistere questi due stili senza che uno annulli l'altro. In questa bottiglia di W.IPA l'esercizio è riuscito in parte solo nell'aroma, mentre per quel che riguarda il gusto c'è parecchio lavoro da fare per pulire, snellire/alleggerire e dare un po' di eleganza.
Formato:  50 cl., alc. 4.5%, IBU 52, lotto 14215, scad. 03/2016, pagata 4.45 Euro (foodstore, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 8 agosto 2015

Poretti 9 Luppoli Porter

Il “trittico” dei 9 luppoli Poretti si completa con la Porter; dopo la Witbier e la India Pale Ale, assaggiate qualche mese fa, ecco il marchio di proprietà Carlsberg alle prese con una birra “scura”, una tipologia che nel nostro paese i marchi industriali raramente propongono.
Ricordo brevemente che tra le multinazionali operanti in Italia Carlsberg  - attraverso Poretti - è l’unica ad aver tentato è di avvicinarsi al mondo “artigianale” andando oltre le semplici definizioni “doppio malto”, “birra chiara/rossa” e iniziando ad utilizzare una terminologia più appropriata, con riferimento a precisi stili brassicoli e materie prime. Il marketing ha deciso di legare Poretti al luppolo, e così anche uno stile (stout/porter)  nel quale normalmente i luppoli non sono in evidenza viene raccolto sotto la linea “9 luppoli”;  e sebbene – lo  ricordo - il numero “9” non indica assolutamente i luppoli utilizzati in realtà, il nome fa comunque istintivamente pensare ad una birra dove di luppolo ce ne sia stato messo parecchio. In questo caso ci informano che quello predominante è lo “Styrian Golding, un luppolo dall'aroma delicato coltivato principalmente al confine tra Austria e Slovenia”; secondo la descrizione commerciale è “una birra scura, dalle meravigliose note tostate di caffè e cacao. Un gusto deciso per chi non ha paura di osare e provare emozioni forti. Da gustare nei momenti che contano”. 
Versata nel bicchiere ha un colore ebano scuro, con limpidi riflessi rossastri; la schiuma beige è compatta e cremosa ed ha una buona persistenza.  Al naso ci sono sentori di pane nero e pumpernickel, caramello, ciliegia ma anche una leggera punta di cartone bagnato (ossidazione?).  Sulla lattina sono ben in evidenza le parole “scura e corposa”, ma in verità la Porter di Poretti ha un corpo tra il medio e il leggero, un “tasso” di acquosità un po’ troppo elevato e poche bollicine. La bevuta è un po’ slegata ed attraversata da qualche nota metallica, mentre il gusto latita: le tostature sono quelle del pane e c’è il dolce del caramello, ma l’intensità è davvero scarsa. Il viaggio termina con un finale piuttosto acquoso, dal quale emerge un leggero retrogusto amaro dove la componente terrosa (luppolo, luppolo!) è predominante rispetto a quella tostata. Una birra piuttosto deludente, dove c’è poco gusto e quel poco che c’è è davvero poco elegante.  Il risultato finale (al di là della fermentazione alta/bassa) mi sembra più paragonabile ad una delle tante dark lager o schwarzbier industriali.  Porter? Un indizio, probabilmente.
Formato: 33 cl., alc. 5.5%, lotto J15077P, scad. 03/2016, pagata 1.75 Euro (supermercato, Italia).
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 6 agosto 2015

Toccalmatto Zona Cesarini

Non la bevevo da un po’ di tempo, in precedenza l’avevo ospitata sul blog nel 2011 e la recente svolta “trentatré centilitri” del birrificio Toccalmatto mi ha fatto venire voglia di ritrovarla; è in un certo senso un esercizio divertente, quello di confrontare le note gustative di quattro anni fa. E’ la Zona Cesarini,  flagship beer del birrificio di Bruno Carilli ed un pezzo importante della giovane storia della cosiddetta “birra artigianale italiana”. 
Una birra che ha da poco compiuto cinque anni, essendo stata presentata sabato 5 giugno 2010 presso il Domus Birrae di Roma dove oltre a Carilli era  presente anche Alessio Gatti, a quel tempo birraio presso Toccalmatto. Oggi siamo ormai abituati all’utilizzo di luppoli asiatici (o “pacifici” che dir si voglia), ma a quel tempo non erano ancora così diffusi, se si esclude la moda del Nelson Sauvin che proprio in quel periodo aveva iniziato a contagiare diversi birrai.  Viene quindi definita una “Pacific IPA”  ispirandosi al calciatore Renato Cesarini, mezzala juventina degli anni trenta che realizzò diversi gol nei minuti finali di partita;  il novantesimo minuto della Zona Cesarini riguarda gli ultimissimi momenti della bollitura, nei quali vene utilizzato il 90% dei luppoli.  L’etichetta omaggiava invece il Giappone, paese d’origine del luppolo-novità che viene utilizzato: è il Sorachi Ace, accompagnato dal neozelandese Pacific Gem e da una miscela di altri luppoli provenienti anche da Stati Uniti (Citra) ed Australia. 
E’ lo stesso  “Allo” Gatti a ricordarla dopo qualche anno sulle pagine de Il Barbiere della Birra salvo poi smentire quanto scritto (“naturalmente non è vero niente”) qualche riga dopo: “il nome Zona Cesarini l'avevo già in mente in quei due mesi che ho lavorato per Leonardo (Birra del Borgo, nda) e ne avevo parlato anche con lui.. poi evidentemente non c'era stata occasione di produrla  (…)  Io avevo in mente una ipa tendenzialmente chiara dove il 9 era numero ricorrente. 9 gradi, 90 ibu, 90 minuti di bollitura e 90% di luppolo in whirpool e in dry hop, o qualcosa del genere. Parlandone con Bruno lui si era dimostrato entusiasta ma ovviamente aveva messo mano alla ricetta per renderla più appetibile, con ottimi risultati direi. In quei giorni erano arrivati a Toccalmatto diversi luppoli giapponesi e neozelandesi, ancora abbastanza sconosciuti in Italia, et voilà, ecco la Zona.  L'etichetta mi ricordo che era stata concepita sul banco dello spaccio ed eravamo presenti io, Bruno e Marcello, adesso Retorto, e per questo era uscita l'idea di mettere i tre aerei. La mia intenzione iniziale era quella di un'etichetta che ricordasse la rovesciata di Parola sulle figurine Panini ma l'idea non era passata”
L’etichetta 2015 ha subito un leggero re-styling: il sol levante è stato rimpicciolito e spostato più ad ovest, i raggi ingranditi, gli aerei da guerra spostati; è scomparsa la pianta di luppolo sulla destra, mentre l’onda verde è diventata più imponente e “giapponese”, con un chiaro riferimento ai dipinti di Katsushika Hokusai
Il colore della Zona Cesarini si trova tra il dorato e l’arancio, velato: la schiuma è bianca e cremosa, compatta, dall'ottima persistenza. Freschi ed eleganti  sono i profumi di frutta tropicale, con l’ananas in primo piano al quale s’affiancano i sentori del cocco caratteristici del luppolo Sorachi Ace; completano il bouquet mango, mandarino, pompelmo e un tocco di lime. Il bouquet olfattivo è davvero molto invitante, ma in bocca questa bottiglia di Zona è molto meno piaciona e ruffiana rispetto all’aroma: bollicine un po’ sottotono, malti (crackers, pane) e frutta tropicale (mango e ananas) leggermente accennati in una bevuta dove l’amaro resinoso (intenso ed elegante) si ritaglia si da subito un ruolo da protagonista che rilega un po’ in secondo piano il dolce fruttato. Rispetto a cinque anni fa, quando fu presentata, i luppoli giapponesi e neozelandesi non sono più una novita nel nostro paese ma la Zona Cesarini rimane comunque un punto di riferimento col quale confrontarsi.  La sua bevibilità è ottima, con alcool (6.6%) ben nascosto, grande scorrevolezza, intensità, pulizia ed una chiusura piuttosto secca; personalmente non la ritengo una birra da bevuta seriale, quando l'incontro una pinta è sufficiente per soddisfarmi completamente. Brindiamo allora con un paio di mesi di ritardo al primo lustro di Zona Cesarini, birra "flagship" di Toccalmatto che anche all'estero dimostrano di apprezzare, e non poco. 
Formato: 33 cl., alc. 6.6%, lotto 15016, scad. 05/05/2016, pagata 4.80 Euro (birrificio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 5 agosto 2015

Oud Beersel Framboise 2012

“Anno 1882”, questa è la scritta che compare sul logo di Oud Beersel. E’ la data in cui Henri Vandervelden  inizia a costruire il proprio birrificio nel paese di  Beersel, situato alle porte meridionali di Bruxelles;  Henri sfruttò la sua esperienza maturata presso il birrificio De Kroon, a quel tempo specializzato nella produzione di lambic, dove lavorava nei mesi freddi; nei mesi caldi si occupava invece di raccogliere la frutta in campagna. 
Nel 1922 il testimone passa poi al figlio Egidius e, passati i tumulti della seconda guerra mondiale, a Henri Vandervelden II, figlio del prematuramente scomparso (1953) Egidius. Fortunatamente Henri si era già formato all’Institut National des Industries de Fermentation ed aveva già le idee molto chiare su come guidare il birrificio. Ne espande la capacità produttiva a 50 ettolitri (rimarrà così sino alla chiusura del 2002) e ne cambia il nome in Oud Beersel, con quell’aggettivo “vecchio” (oud)  scelto apposta per sottolineare il carattere tradizionale del suo birrificio e differenziarlo dal “nuovo” che arrivava dalla vicina Bruxelles.  
Nel 1991 per Henri II arriva il momento di andare in pensione ma, a causa dello scarso interesse verso il lambic del figlio Hubert, il birrificio passa in mano al nipote Danny Draps: è il periodo più difficile per Oud Beersel. Non ci sono le risorse per fare gli investimenti e ammodernamenti necessari, ed il futuro dell’azienda è in grosso pericolo. Nel 1996 l'imbottigliatrice del 1938 si rompe e, in assenza di soldi per cambiarla, un primo aiuto viene da Frank Boon (Brouwerij Boon, altro storico produttore di lambic) che inizia ad imbottigliare le bottiglie per Oud Beersel. E’ sempre Boon a "prestare" le ciliegie necessarie alla produzione della Kriek e, nel 1997, a fornire il lambic necessario a “tagliare” quello di Oud Beersel che era divenuto troppo acido a causa di una stagione estiva particolarmente calda.
Il 26 novembre 2002 Danny Draps decide di chiudere Oud Beersel e la taverna annessa 't Brasserie (al suo posto c’è oggi un fioraio), per dedicarsi ad un’altra occupazione. La notizia sorprende prima di tutti proprio Frank Boon, che si sfogherà a posteriori (il 23/10/2004) con una lettera pubblicata sulla Burgundian Babble Belt  verso chi gli rimproverava di non aver aiutato i colleghi: "Ho visitato Oud Beersel per la prima volta nel 1973, era un birrificio particolare, fatto in casa e datato 1968; il lambic di  Vandervelden è molto speciale, abbina l'acido lattico ad un carattere amaro che ricorda quasi quello del luppolo fresco. Era l’unico birrificio a produrlo così e la sua chiusura è una grossa perdita per tutto il mondo del lambic. Quando Vandervelden e Draps mi hanno chiesto un aiuto, io ho cercato di fare il possibile: ho fornito loro pezzi di ricambio, ciliegie, malti e luppoli, ho imbottigliato per loro, ho prodotto lambic per loro. La notizia della chiusura mi colse di sorpresa: avevo fatto per loro un blend di 240 ettolitri  da imbottigliare, e a Beersel ce n’erano altri 300 pronti. Drops mi chiese di acquistare il loro lambic ed usarlo per il mio Oude Geuze Boon, ma rifiutai. Acquistai il suo lambic e le sue etichette e imbottigliai a nome Oud Beersel; feci poi altre quattro produzioni di lambic per blendarlo con quello che era rimasto a Beersel. Il birrificio è ora in vendita per 575.000 Euro, qualcuno è interessato? Chi compra il birrificio avrà anche il marchio Oud Beersel in omaggio. Ancora oggi sto imbottigliando l’ultimo lambic di Oud Beersel, anche se questo rappresenta solo l’1.8% delle mie vendite.  Ho fatto il massimo per aiutarli a sopravvivere e se questo per qualcuno è “non aver fatto nulla”, allora è meglio che smetta completamente."Tocca all'allora settantasettenne Henri Vandervelden mettersi alla ricerca di un possibile acquirente; si moltiplicano gli appelli, l’associazione Zythos raccoglie 4000 firme su una petizione ma è solo grazie “al caso” che la fenice risorge dalla cenere.
Gert Christiaens e Roland De Bus sono amici dai tempi della scuola superiore e s’incontrano regolarmente ai tavoli di Le Zageman di Brussels per bere la Oude Geuze di Beersel, la loro preferita; un giorno il proprietario del locale gli avvisa che le scorte di bottiglie stanno per finire e che il birrificio ha chiuso in attesa di trovare qualcuno disposto a rileverlo. Il progetto iniziale di Gert e Roland era soltanto di aiutare Vandervelden a riaprire, ma lo stato di conservazione degli impianti era deteriorato a tal punto che non sarebbe stato possibile fare altro che ricostruire tutto da capo.
Alla fine del 2005 Christiaens e De Bus acquistano Oud Beersel, lanciando contemporaneamente la Bersalis Tripel prodotta da Huyge per raccogliere i finanziamenti necessari a rimettere in piedi il birrificio.  Nel frattempo il lambic secondo la ricetta di Vandervelden viene prodotto da Frank Boon e portato poi a maturare nelle botti di legno a Beersel, per poi essere riportato da Boon per il blend finale e l'imbottigliamento. Il 16 marzo del 2007 vengono ufficialmente commercializzate le prime Oude Geuze e Oude Kriek di Beersel, mentre pochi mesi dopo Roland De Bus rassegna le dimissioni ma viene prontamente sostituito dal padre di Gert, Jos Christiaens, da poco in pensione.
Negli ultimi anni i prodotti di Oud Beersel hanno riscosso un buon successo permettendo di reperire le risorse finanziare necessarie per continuare la ricostruzione; in attesa di avere un impianto produttivo proprio, il lambic continua ad essere prodotto da Boon per essere poi trasportato a Beersel con un autocisterna dove oggi avviene la fermentazione spontanea. La priorità al momento sembra essere quella di ristrutturare i locali dell’edificio per avere maggior spazio disponibile ove mettere nuove vasche e botti necessarie per la fermentazione, la maturazione e l’assemblaggio finale del lambic. Il ”birrificio” è visitabile tutti i sabati mattina, con la possibilità di fare acquisti in loco.
Dalla produzione Oud Beersel stappo una bottiglia di Framboise, un lambic prodotto con lamponi e, in quantità minore, di ciliegie; è disponibile se non erro solamente nel formato da 37.5 cl.  Riempie il bicchiere di un intenso color rossastro, con sfumature che spaziano dall’ambrato  al dorato; l’effervescente schiuma cremosa è bianca appena macchiata di rosa e scompare piuttosto rapidamente. Il naso è completamente dominato dal profumo dei lamponi maturi, piuttosto dolce e zuccherino; in secondo piano sentori di ciliegia sciroppata e di marmellata di lamponi. Il percorso continua uniforme al palato, con tanto lampone e qualche suggestione di ribes nero; anche il gusto non risparmia dolcezza, ricordando frequentemente la marmellata e la gelatina di lamponi. L’acidità lattica non bilancia la bevuta, alleggerendo dal dolce il palato solo a fine bevuta, con una punta amaricante: il retrogusto è di nuovo di lampone dolce. Personalmente avverto anche la mancanza di una qualche bollicina in più che avrebbe forse aiutato a mitigare ulteriormente il dolce: rimane una birra leggera e molto scorrevole che andrebbe bevuta ad una temperatura bassa (il birrificio indica tra i 2 e gli 8 gradi) se la si vuole utilizzare per rinfrescarsi. E’ un lambic alla frutta piuttosto morbido, che tende però a diventare un po’ troppo dolce man mano che si scalda.
Formato: 37.5 cl., alc. 5%, lotto 2132 12:17:44, scad. 11/05/2016, pagata 3.59 Euro (supermercato, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 3 agosto 2015

Birrificio Lariano New Age

Arriva nel 2013 la prima birra dichiaratamente estiva del Birrificio Lariano, aperto nel 2008 dai due ex-homebrewer Fulvio Nessi ed Emanuele Longo a Dolzago (Lecco): viene chiamata New Age. Un birrificio che sta riscuotendo molti consensi in tutta ma che, per qualche strano motivo, ho sempre difficoltà ad incontrare. 
Fortunatamente  sono in via di ultimazione i lavori di costruzione della nuova sede nella vicina Sirone, dove troverà posto il nuovo impianto, più capiente, che presumibilmente permetterà anche una più facile reperibilità delle birre in tutta la penisola. Nel frattempo il luogo più sicuro dove potete trovarle è la birreria di proprietà del birrificio a Perego, chiamata Statale 52. Non sono invece riuscito a scoprire l'autore delle belle nuove etichette che hanno da qualche tempo rimpiazzato quelle del debutto.
Torniamo alla New Age, descritta come un American Golden Ale nella quale spicca sopratutto il Citra; credo non si tratti di una single-hop, ma non ho trovato l'elenco degli altri eventuali luppoli utilizzati.
Gradazione alcolica (4.2%) all'interno della soglia di "sessionabilità" e birra che arriva nel bicchiere con il colore di un sole pallido, velato e sormontato da un bel cappello di schiuma bianca, cremosa e compatta, dalla buona persistenza.
Il naso apre con i profumi dell'ananas in primo piano, seguiti da quelli del mandarino, della pesca bianca e dell'arancio; c'è una bella pulizia, mentre la freschezza e la fragranza potrebbero essere migliori. Purtroppo è un'estate molto calda e il rischio di trovare delle bottiglie che abbiano un po' sofferto il caldo è concreto. Le mie impressioni vengono confermate in bocca, dove questa New Age paga un po' di "stanchezza" che comunque non le impedisce di essere una buona session beer dissetante e rinfrescante; peccato, perché mi sarebbe piaciuto incontrarla un po' più in forma. Il gusto offre leggere note maltate (crackers, miele) e soprattutto frutta, nella fattispecie agrumi (mandarino, arancio) ed ananas, prima della chiusura amara erbacea con qualche sfumatura zesty. Leggera e delicata, presenta la giusta quantità di bollicine e la necessaria consistenza acquosa per essere consumate nel formato (il secchio) che molti bevitori sembrano prediligere.
Discretamente intensa, è una bottiglia un po' penalizzata da una fragranza un po' carente che la fa risultare meno efficace di quanto potrebbe essere. Le dò appuntamento alla prossima occasione, cercando di anticipare il caldo della prossima estate.
Formato: 33 cl., alc. 4.2%, lotto 32 15, scad. 02/2016, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 2 agosto 2015

CREW Republic Roundhouse Kick Imperial Stout

"Una tranquilla serata davanti al camino: il rumore della legna che brucia, le fiamme che danzano…" sono queste le evocative immagini utilizzate da CREW Republic per descrivere l'atmosfera adatta per stappare una bottiglia di Roundhouse Kick Imperial Stout. Ora siamo in agosto e l'estate 2015 è particolarmente calda: approfitto di una sera di pioggia per bere qualcosa di diverso dalle birre chiare e dissetanti che stanno un po' monopolizzando il blog da qualche settimana. 
La beerfirm CREW Republic l'avevo presentata in questa occasione, lo scorso anno: nel frattempo ho scoperto che le birre sono ufficialmente importate in Italia, buono a sapersi per chiunque le volesse assaggiare. Anche questa viene prodotta presso gli impianti della Hohenthanner Schlossbrauerei, novanta chilometri a nord-est di Monaco di Baviera, la città in cui la beerfirm ha sede.
La sua ricetta prevede malti tostati, Pilsener, Chocolate e Crystal, provenienti da Belgio, Germania ed Inghilterra; i luppoli utilizzati sono invece Columbus e Hallertauer Tradition.
Si presenta praticamente nera, con una bella testa di schiuma color cappuccino, compatta e cremosa, dall'ottima persistenza. Al naso emerge da subito una discreta componente etilica che accompagna i sentori di pane nero, di caffè e tostature, di fruit cake; intensità ed eleganza sono di buon livello, mentre quando la birra si scalda emerge una lievissima nota salmastra e di salsa di soia.
L'arrivo in bocca è molto soddisfacente: il corpo è tra il medio ed il pieno, con una consistenza oleosa molto morbida ed avvolgente, caratterizzata da una carbonazione bassa.  Il gusto prosegue il percorso dell'aroma riproponendo con discreta pulizia pane nero tostato, liquirizia, lieve cioccolato amaro con qualche nota dolce di caramello. Più che di caffè c'è la presenza di orzo tostato, mentre l'alcool (9.2%) è molto ben controllato rendendo la bevuta non particolarmente impegnativa. L'intensità scende un po' nel finale e questa Roundhouse Kick anziché dare quel "calcio" raffigurato in etichetta e chiudere col botto, si ritira un po' in se stessa, nell'acidità dei malti tostati ed in una lieve astringenza, sedendosi un po' sugli allori. Lieve alcool warming nel retrogusto con note di liquirizia e tostatura: anche al palato c'è da annotare un punta salmastra e di salsa di soia. 
Un'imperial stout che si sorseggia senza difficoltà, con la scuola tedesca che vuole sempre la scorrevolezza e la facilità di bevuta come caratteristiche imprescindibili; bene l'equilibrio, migliorabile la pulizia. Il risultato è un po' freddo, e non mi sto ovviamente riferendo al potere rinfrescante di questa birra ma alla sua capacità di veicolare emozioni, caratteristica che ho riscontrato anche nelle altre Crew assaggiate. Ciò non toglie che si possa comunque bere con soddisfazione, soprattutto pensando al prezzo al quale viene venduta in Germania. Il birrificio la consiglia in abbinamento a carni affumicate e, ovviamente, a dessert a base di cioccolato. 
Formato: 33 cl., alc. 9.2%, IBU 71, scad. 21/01/2019, pagata 2.27 Euro (foodstore, Germania).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 1 agosto 2015

Extraomnes Yanqui

Estate ricca di novità in casa Extraomnes, come segnala il blog  Malto Gradimento: ben tre le proposte, a partire dalla Egocentrique, versione barricata della  Ciuski  (maturata per tre mesi in botti ex-whiskey Laphroaig) per proseguire con la Goud, una saison aromatizzata al mango. Ma la “sfida” più interessante è probabilmente vedere il birrificio di Marnate, da sempre legato alla tradizione belga, cimentarsi con una classica American Pale Ale; le viene affibbiato il nome “Yanqui”, un adattamento in lingua spagnola del termine inglese “Yankee”. 
Le origini della parola anglosassone sono incerte: le ipotesi più accreditate fanno riferimento alla vasta colonia olandese presente nel diciassettesimo secolo  in quella regione che oggi corrisponde al New England.  Tra i nomi propri più in voga a quel tempo tra gli olandesi vi erano Jan (Giovanni) e Kees (Cornelio), spesso usatoi contemporaneamente; Yankee non sarebbe altro che la “storpiatura” del nome Jan Kees. Nei paesi del Sud America la parola Yanqui viene anche utilizzata con accezione dispregiativa nelle manifestazioni di anti-americanismo e di ribellione all’imperialismo americano: la troverete con discreta frequenza nei discorsi ufficiali dell’ex-presidente venezuelano Hugo Chávez, del boliviano Evo Morales, del nicaraguense Daniel Ortega, dell’ecuadoriano Rafael Correa e ovviamente di Fidel Castro. 
La birra in questione viene invece semplicemente annunciata da Luigi “Schigi” D’Amelio con “con grande modestia”:  “volevamo solo dimostrare che possiamo fare la migliore APA italiana”.
Ricetta molto semplice, malto 100% Pilsner, lievito American Ale e una luppolatura che, almeno per l’aroma, mescola un classico come il Simcoe con i più “moderni” Citra ed Equinox.
 Il suo colore ė dorato con riflessi arancio, opalescente: nel bicchiere si forma un cremoso cappello di schiuma bianca, compatta e molto persistente. Tanta frutta al naso, sono in evidenza soprattutto gli agrumi (cedro, mandarino, lime) affiancati da frutta tropicale (ananas, melone), qualche suggestione di fragola ed un tocco di aghi di pino; bene l'intensità, ottima pulizia e freschezza che riflette i nemmeno due mesi passati dall'imbottigliamento. Il gusto ripropone in buona parte l'aroma: in principio c'è il dolce della frutta tropicale ma sono soprattutto gli agrumi (pompelmo e lime) a caratterizzare una bevuta il cui amaro s'intensifica progressivamente sfociando in un finale "zesty", leggermente resinoso e pepato. Il corpo leggero e la consistenza watery facilitano la grande scorrevolezza, mentre il DNA Extraomnes (birre snelle, secche e agrumate) garantisce un ottimo potere dissetante e rinfrescante; le note meno positive riguardano invece una carbonazione troppo elevata che necsssita di essere fatta stemperare con un po' di pazienza. 
E riguardo alla provocatoria affermazione di Extraomnes, ė questa la miglior APA italiana? Rispondere di no implicherebbe anche fare i nomi di quelle birre che sarebbero "migliori".   Yanqui è un' American Pale Ale intensa e molto ben fatta, pulita ma forse non ancora completamente definita in bocca: un po' più di tropicale in evidenza e la scalata alla mia personale classifica di gradimento potrebbe cominciare.
Format: 33 cl., alc. 5.5%, lotto 159 15, scad. 31/12/2016, pagata 4.00€ (beershop, Italia). 
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.