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lunedì 25 maggio 2020

Firestone Walker 21 (XXI Anniversary Ale)


Nel 2017 il birrificio californiano Firestone Walker festeggiava il proprio ventunesimo compleanno: sul blog lo abbiamo incontrato già molte volte. Lo fondarono nel 1996 Adam Firestone e David Walker a Paso Robles, Contea di Santa Barbara, all’interno dell’azienda vinicola Firestone Vineyard LLC di proprietà di Anthony Brooks Firestone, padre di Adam nonché ex politico californiano. Nel 2001 Firestone acquistava gli edifici della SLO Brewing Company di Paso Robles e vi trasferiva il proprio impianto: alla SLO lavorava il birraio Matt Brynildson che fu confermato in organico con una piccola quota di partecipazione societaria. Brynildson aveva lavorato per cinque anni alla Goose Island di Chicago e le sue conoscenze sul metodo di produzione della Bourbon County Brand Stout furono determinanti per il successo che Firestonepoi ottenne grazie alle sue birre barricate.  Nel 2015 i belgi della Duvel Moortgat rilevarono per una cifra mai rivelata la maggioranza di Firestone e diedero il via ad un ambizioso piano d’espansione culminato con la costruzione di una seconda location a Buellton dedicata alle birre acide e di un brewpub a Venice Beach (Los Angeles). 
Nell’autunno del 2006 il birrificio celebrava il suo decimo anniversario mettendo in vendita un’American Strong Ale chiamata semplicemente “X”, un blend di alcune birre invecchiate in botte. Queste “Blending Sessions”  sono ancora oggi un evento ricorrente ogni anno nel corso del quale a Paso Robles vengono invitati produttori di vino californiani ed altri esperti di blending. I partecipanti sono suddivisi in squadre che hanno il compito di assemblare il proprio blend utilizzando le centinaia di botti presenti nelle cantine; i blend vengono poi votati da tutti i partecipanti ed il vincitore  diventa la birra dell’anniversario di Firestone Walker. 


La birra.
Il 22 agosto del 2017 furono convocati ventisette produttori di vino col compito di dare forma alla ventunesima Anniversary Ale; la competizione fu vinta dalla squadra formata da Jordan Fiorentini e Kyle Gingras della Epoch Estate Wines di Templeton e da Anthony Yount della Denner Vineyards di Adelaide, poco distante da Paso Robles. Per il loro blend utilizzarono il 42% di Velvet Merkin, una stout all’avena (8.5%) invecchiata in botti di bourbon, il 18% di Parabola, (13.1%), imperial stout invecchiata in botti di bourbon e in botti di rovere nuove, il 17% di Stickee Monkey, una quadrupel (12.5%) invecchiata in  botti di bourbon e di brandy, il 17% di Bravo, imperial brown ale (13.5%) invecchiata in botti di bourbon e il 9% di Helldorado, blonde barley wine (13.5%) invecchiato in botti di rum. 
La Firestone Walker XXI segnò anche il debutto del nuovo formato da 35,5 centilitri che sostituiva quello da 65:  una scelta motivata dalla necessità di distribuirla a più persone e di permettere alla gente di consumare una birra dall’elevato contenuto alcolico in solitudine, senza doverla necessariamente condividere con qualcuno. 
Il suo colore ricorda la tonaca del frate, la schiuma è di dimensioni abbastanza modeste ed ha scarsa ritenzione, benché risulti cremosa e compatta. Al naso domina la frutta sotto spirito, bourbon nello specifico: uvetta, prugna e frutti di bosco. Ma ci sono anche suggestioni di porto, cocco e qualche lieve accenno meno piacevole di cartone bagnato. La bevuta è coerente con l’aroma e non divaga altrove: frutta sotto spirito e bourbon disegnano un percorso lineare arricchito da suggestioni di porto e, proprio a fine corsa, di cioccolato. Mi sembra ci sia anche un po’ di melassa di zucchero di canna, ma potrebbe essere una mia forzatura sapendo che nel blend c’è anche una percentuale di birra invecchiata in botti di rum. Spesso la mente trova anche quello che non c’è, soprattutto se lo cerca in una birra piuttosto dolce che viene però ben asciugata da bourbon e legno. Da manuale il lungo retrogusto morbido di bourbon. Quello che c’è nel bicchiere si sorseggia con grande soddisfazione in tutta calma nel corso di una serata: come altre produzioni passate in botte recenti di Firestone anche questa XXI non riesce a raggiungere profondità abissali, ma avercene a disposizione di birre come questa!
Formato 35,5 cl., alc. 11,8%, imbott. 10/2017, prezzo indicativo 12-18 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 30 gennaio 2019

The Bruery Melange #3

Mélange:  mescolanza, insieme risultante dall’unione di elementi diversi. Quando si ha a disposizione un arsenale di botti piene di birra è difficile resistere alla tentazione di mescolarle e creare blend, o mélanges che dir si voglia.  Il birrificio californiano The Bruery ha a disposizione circa 4000  tra barili e foeders: il numero si riferisce al 2016 ed è quindi probabile che nel frattempo sia ulteriormente incrementato. 
Ma il primo mélange realizzato dal birrificio di Patrick Rue era arrivato già nell’anno del debutto: nel 2008 veniva offerta in cask la Mélange #1  (11.7%), un azzardato blend tra la imperial stout Black Tuesday invecchiata in botti di bourbon e la Oude Tart, birra acida ispirata alle  Flemish Red Ales.  La birra fu poi commercializzata in bottiglia a partire dal 2011 e ancora oggi viene di tanto in tanto replicata. Nello stesso anno arrivò anche la Melange #2 Yambic  (9.5%), un altrettanto curioso blend tra la belgian strong ale Autumn Maple e un Lambic di sei settimane.  Nel 2009 toccò a Melange #3 (della quale parleremo a breve in dettaglio), Melange #4 (blend tra una Berliner Weisse, una Flanders Red e una Imperial Stout) e Melange #5, una poderosa (15%) unione tra una Smoked, un Wheat Barley Wine  (White Oak, a sua volta blend  50%-50% di Wheat Barley Wine invecchiato in botti di bourbon e la strong ale Mischief)  e Papier, una delle birre che ogni anno The Bruery assembla per festeggiare il proprio anniversario. La Mélange #5  è stata replicata rifatta anche nel 2017.
Nel 2010 arrivò la Melange #6  (9%), curioso mix di una birra sperimentale per festeggiare San Valentino prodotta con aggiunta di barbabietole rosse per darle il colore appropriato; vennero poi aggiunte fave di cacao, petali di rosa e il risultato finale fu mescolato con la White Oak Sap (bourbon barrel aged wheat wine) e la Rugbrød (brown ale invecchiata in botti di bourbon). Qualche mese dopo giunse la Melange #7, blend tra Cuvee Jeune (“lambic”) e una birra realizzata per l’occasione con aggiunta di uva Pinot Noir.  La serie Melange fu poi temporaneamente sospesa per un triennio per ritornare nel 2013 con Melange #8 (14.5%), assemblaggio di una delle Anniversary di Bruery con White Oak Sap (bourbon barrel aged wheat wine) e aggiunta di caffè. Nel 2014 fu chiesto ai membri della Hoarders Society (qui la spiegazione) di partecipare ad un “concorso di blending” con le proprie idee per creare la Mélange #9 (8%): vinse un mix di una Sour Blonde Ale, Sour in the Rye  e White Oak Sap, al quale furono poi aggiunti cocco e zenzero fresco prima dell’imbottigliamento. Nel 2015 il concorso fu replicato per dar forma alla Mélange #10 (15%): questa volta il blend ebbe come protagonisti la solita Anniversary Ale, il Bourbon Barrel Aged Barley Wine Old Richland con aggiunta finale di cioccolato, cannella e peperoncino. Nello stesso anno arrivarono anche Melange #11  (9.3% -  blend tra Sour in the Rye e Anniversary Ale con aggiunta di datteri, cannella e anice stellato) e Mélange #12  (16.8%) con varie Strong Ales invecchiate in botte per una media di 22 mesi al quale furono poi aggiunti vaniglia, fave di cacao e nocciole.
Come saprete gli americani non amano il numero 13 e quindi per scaramanzia la Mélange #13 non fu mai realizzata, passando direttamente alla #14 del 2016 (13.4%): protagonisti furono imprecisate botti di Barley Wine, Old Ale e imperial stout, incluse Black Tuesday a Share This. Nello stesso anno arrivò anche l’ultima della serie, Mélange #15 (14.8%): ancora un blend di Barley Wine e Old Ale invecchiati in botti di bourbon con aggiunta di lattosio, noci, vaniglia e fave di cacao.   Nel 2017 non è uscito nessun nuovo blend ma The Bruery ha scelto di replicarne alcuni del passato: #3 e #5. E per quanto ne so neppure nel 2018.
 
La birra.
Melange #3, 16.3%: riedizione 2017 di una birra apparsa per la prima volta nel 2009 con un contenuto alcolico leggermente inferiore, 15.5%. Si tratta di un blend di tre birre tutte invecchiate in botti di bourbon: il  Wheat Wine White Oak Sap, l’Anniversary Ale (che ricordo è essa stessa un blend della stessa Old Ale, “fresca” con altre invecchiate in botti di bourbon) e l’esagerata (20%) imperial stout Black Tuesday, ovviamente anch’essa Bourbon Barrel Aged. Le percentuali del blend non sono state rivelate.
Il suo colore opaco ricorda la tonaca del frate cappuccino o l’ebano: la schiuma è sorprendentemente generosa, cremosa e compatta se si considera la gradazione alcolica.  Al naso c’è un’impressionante quantità di uvetta e prugna impregnati di bourbon; in secondo piano si scorgono frutti di bosco, legno, melassa, note vinose che richiamano il porto, qualche ricordo sbiadito di vaniglia. La bevuta prosegue nella stessa direzione senza raggiungere grosse profondità: inevitabilmente l’alcool si fa molto sentire e scalda ogni sorso, il corpo (medio) non è particolarmente ingombrante.  E’ chiaramente una birra da condividere con più persone o da bere in piccole dosi. Tanto bourbon, tanta uvetta e prugna, ricordi di porto: la sua dolcezza viene comunque asciugata da un potente finale nel quale il bourbon è protagonista assieme a qualche nota legnosa. Birra o liquore? Difficile tracciare il confine, anche se il risultato è molto appagante, pur non raggiungendo particolari vette espressive o emotive. Lascia una lunghissima scia di bourbon e frutta sotto spirito, un abbraccio caldo e quasi infinito.  
Se avete già provato qualcuna delle Anniversay di Bruery vi troverete molti punti in comune. Il suo prezzo di listino nel 2017 era di 30 dollari / 30 euro:  non ha forse avuto troppo successo anche a causa del rapporto alcool-formato, molto impegnativo. On line la si trova perciò abbastanza di frequente in offerta, talvolta anche alla metà:  a prezzo pieno forse il gioco non vale la candela, ma se la trovate scontata è un’esperienza che vale la pena di fare.
Formato 75 cl., alc. 16.3%, lotto 01/02/2017, #3832, prezzo indicativo 15.00-30.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 20 settembre 2018

DALLA CANTINA: Prairie Okie 2015

Rieccoci a parlare di Prairie Artisan Ales, marchio ora di proprietà della Krebs Brewing  (Oklahoma) birrificio sui cui impianti aveva iniziato a produrre come beerfirm dal 2012; dopo aver inaugurato il proprio brewpub (2015) e quindi aver trasformato la beerfirm in un birrificio, il fondatore di Prairie Chase Healey ha ceduto alle lusinghe di  Zach Prichard, presidente di Krebs, vendendogli a giugno 2016 il marchio. Una scelta “di vita”: Healey non se la sentiva di affrontare gli investimenti necessari per aumentare la capacità produttiva di Prairie  e, soprattutto, non aveva intenzione di “gestire un azienda di grosse dimensioni. Volevo soltanto continuare a fare birra”.  Con parte del ricavato della vendita Healey ha messo in piedi un nuovo microbirrificio a Tulsa chiamato American Solera, concentrandosi sulla  produzione di birre acide e sull'utilizzo di lieviti selvaggi. 
Non vorrei scadere nel cliché de “le birre non sono più quelle di una volta” ma gli ultimi assaggi della nuova proprietà Prairie mi hanno lasciato un po’ meno soddisfatto: parliamo sempre di prodotti di alto livello, ma mi sembra che le “vecchie” Prairie avessero una marcia in più. Per correre ai ripari c’è sempre la cantina dalla quale riesumare qualcosa dal passato. Parliamo della Okie, annata 2015, una Imperial (12%) Brown Ale invecchiata in botti di whiskey che è anche una delle preferite di Chase Healey: “è una birra che invecchia benissimo, stiamo  cercando di creare delle birre che possano migliorare col tempo in modo che valga la pena tenerle in cantina per un paio di anni”
Okie fu commercializzata per la prima volta nel 2013, quando Prairie utilizzava solamente il formato 75 centilitri con tappo a gabbietta: l’anno successivo fu replicata nel più pratico formato da 35.5 cl.  L’etichetta è come al solito opera del fratello di Chase, Colin Healey, che in questo caso ha deciso di farsi un autoritratto.  A quel tempo Prairie aveva finanziato il suo progetto d’invecchiamenti in botti grazie ad una campagna di Kickstarter che aveva raccolto 23.000 dollari a fronte di un obiettivo di 10.000. Nel 2015 è stata realizzata la sua prima variante al caffè e nel 2017 sono arrivate 2500 bottiglie di Okie Paradise (due anni in botte di whiskey, successivo blend con una parte di imperial stout Pirate Paradise e aggiunta finale  di cocco tostato e vaniglia) e 400 bottiglie di Bromance (“solo” due anni d’invecchiamento in botti ex-whiskey).

La birra.
Il suo torbido color ambrato e la scomposta schiuma biancastra non sono un bel biglietto da visita ma basta avvicinare le narici al bordo del bicchiere per sorridere. Prugna e uvetta, fichi, frutti di bosco, ciliegia e caramello  sono avvolti da note di whiskey e di legno: le note ossidative apportano belle suggestioni di vino fortificato (porto) e una lieve presenza di cartone bagnato che viene immediatamente perdonata e dimenticata. A tre anni dalla messa in bottiglia la Okie di Prairie è ancora una signora birra, dal corpo vigoroso (medio-pieno) e dal mouthfeel ancora avvolgente e quasi cremoso:  la bevuta ripropone l’aroma in una splendida progressione di “dark fruits”, caramello e vino fortificato: il calore del whiskey e del legno asciugano il dolce in un finale caldo che rincuora e riscalda senza mai bruciare.  Equilibrio, pulizia ed eleganza non mancano ed è un emozionante piacere sorseggiare con calma questa Okie 2015 e passare in sua compagnia la serata. Una meraviglia, uno di quei casi in cui non rimpiangi di aver tentato la sorte abbandonando la birra in cantina: anzi, vorresti avercene messe altre.
Formato 35.5 cl., alc. 12%, lotto 15215, prezzo indicativo 13,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

venerdì 15 dicembre 2017

Founders Sumatra Mountain Brown

Ad aprile 2016 il birrificio Founders di Grand Rapids, Michigan, annuncia l’arrivo di una nuova birra chiamata Sumatra Mountain Brown. Si tratta di una (Imperial) Brown Ale prodotta con caffè proveniente dall’isola di Sumatra, Indonesia, la sesta isola più grande del nostro pianeta.  La birra, anche nell’etichetta, sembra essere la continuazione di un progetto iniziato nel 2012 con il nome di Frangelic Mountain Brown Ale, birra che Founders aveva realizzato per la propria Backstage Series, ovvero esperimenti e prototipi realizzati in origine solo per la taproom del birrificio che vengono poi distribuiti in bottiglie da da 75 cl.; allora era stata usata una varietà di caffè alla nocciola. 
La Sumatra Mountain Brown, resa invece disponibile nel classico formato da 35,5 cl., viene commercializzata come birra stagionale che arriva di solito in primavera. La ricetta prevede malti caramello, chocolate e monaco, fiocchi d’orzo e luppolo Perle, tedesco; la Sumatra arriva così ad ampliare ulteriormente la proposta di “birre scure al caffè”  che già include Breakfast Stout, KBS Kentucky Breakfast Stout e CBS - Canadian Breakfast Stout. "Avevamo ordinato un po' troppo caffè al nostro fornitore - racconta il birraio Jeremy Kosmicki - e, un volta realizzata la Breakfast Stout, ci chiedemmo come potessimo utilizzarlo. Prendemmo uno stile un po' sottovalutato, quello delle Brown Ales, lo "impermalizzammo" e utilizzammo il caffè rimasto in infusione. Ecco nata la Sumatra!"

La birra.
Nel bicchiere è di un bell'ebano scuro, limpido e arricchito da bellissime venatura rosso rubino; la schiuma beige è cremosa e compatta, ed ha un'ottima persistenza. L'aroma mantiene le aspettative ed è ovviamente monopolizzato dal caffè, in maniera elegante e ancora piuttosto intensa, nonostante la bottiglia abbia ormai nove mesi di vita. 
Chi ama e conosce la Breakfast Stout di Founders non potrà non notare un profilo piuttosto simile che richiama sia il caffè in chicchi che quello liquido. A fare da contorno troviamo note di tabacco e frutti di bosco. Il gusto impiega un po' più tempo del necessario per "aprirsi" ed è necessario attendere che la Sumatra Mountain Brown si avvicini alla temperatura ambiente. Il suo profilo è semplice e rigoroso, con il minimo indispensabile a supportare il caffè permettendogli di recitare il ruolo del protagonista: cammello e orzo tostato danno il via a danze che proseguono con un crescendo di caffè espresso e tostature, il cui amaro è rafforzato da una generosa luppolatura. L'alcool si mantiene quasi delicato e in un birra da 9 gradi onestamente ne vorresti sentire un pochino di più. Una lieve acidità alleggerisce per qualche secondo il palato prima di un bel finale lungo nel quale è ovviamente protagonista il caffè con un po' di frutta sotto spirito.
Pulizia, equilibrio e precisione sono i cardini di questa bella Imperial Brown Ale di Founders, nella quale il caffè si esprime con eleganza: si potrebbe chiederle un po' più di complessità, ma è un desiderio che si mette volentieri da parte se quello che c'è nel bicchiere lascia ugualmente soddisfatti.
Formato: 35.5 cl., alc. 9%, IBU 40, imbott. 31/03/2017, prezzo indicativo 5.00-6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 17 maggio 2017

DALLA CANTINA: Deschutes Conflux No. 1 - Collage

Conflux, “confluenza” è il nome che i birrifici dell’Oregon Deschutes e Hair of the Dog scelgono per la loro prima collaborazione: non si tratta tuttavia della solita birra a quattro mani ma di un progetto più ambizioso ed interessante che viene annunciato ad aprile del 2010. 
A Bend, dove si trova  Deschutes, arriva il birraio di Hair of The Dog Alan Sprints per produrre sull’impianto che lo ospita un lotto di Fred (American Strong Ale, 10%)  e uno di Adam (Old Ale, 10%), ovvero due tra le birre più rappresentative del birrificio di Portland. Il birraio di Deschutes Larry Sidor “risponde” con due birre altrettanto “famose” nella storia del proprio birrificio: si tratta di The Dissident (una massiccia Oud Bruin 10.9% con aggiunta di ciliegie)  e The Stoic (una quadrupel 16.5% con aggiunta di melograno). 
Le quattro birre vengono poi messe ad affinare in legno; Deschutes opta per le botti che vengono utilizzate solitamente per produrre The Dissident (ex Pinot Nero di Domaine Drouhin) e The Stoic (Heaven Hill Rye Whiskey) mentre Hair of the Dog sceglie Heaven Hill Bourbon Midwest per Fred ed una nuova botte di rovere dell’Oregon per Adam. L’idea è di realizzare una birra attraverso un blend di queste quattro botti, e per fare ciò i birrai s’incontrano regolarmente nei mesi successivi ad assaggiare il contenuto: l’invecchiamento in botte dura quasi due anni ed il blend viene commercializzato, dopo un ulteriore affinamento in bottiglia, solamente a maggio 2012. Il protrarsi del processo produttivo ha fatto sì che la birra chiamata Conflux No. 1 venisse in realtà messa in vendita dopo la Conflux Nr.2, una White IPA che Deschutes realizza assieme a Boulevard Brewing nel luglio del 2011. 
Il 15 maggio 2012, presso i brewpub di Deschutes a Bend ed a Portland debutta ufficialmente la Conflux nr.1:  i circa 235 ettolitri prodotti vengono distribuiti in fusto ed in bottiglia, queste ultime vendute a circa 12 dollari per 35,5 centilitri, con un limite di tre a cliente.  Ai brewpub viene anche data l’occasione di assaggiare un piccolo “beer flight” che, per 20 dollari, comprende un bicchierino di ognuna delle quattro birre invecchiate in botte più il blend finale. 
Deschutes e Hair of The Dog hanno poi replicato l’esperimento nel 2014, con un nuovo blend che ha visto coinvolte The Abyss e The Stoic (Deschutes), Fred e Doggie Claws (Hair of the Dog) e che è stato messo in vendita ad ottobre 2016.

La birra.
L’ho acquistata nell’agosto del 2012 ma la decisione su quando stapparla è stata ponderata quasi quanto come il suo processo produttivo: è sicuramente un effetto collaterale di quel beergeekismo che a volte diventa quasi una malattia. In etichetta Deschutes, come fa per molte sue birre, consigliava di berla dopo un certo periodo per permetterle un ulteriore affinamento: nello specifico veniva indicato marzo 2013, ovvero dopo quasi un anno dalla messa in vendita. Tuttavia le recensioni che leggevo da altri appassionati non erano del tutto convincenti e sembravano suggerire che il blend delle quattro birre necessitasse ancora di tempo; da allora sono passati cinque anni, l’attesa è stata lunga ma la ricompensa enorme. 
Il bicchiere si colora di uno splendido ambrato con intensi riflessi rubino:  la piccola schiuma biancastra che si forma è abbastanza grossolana e rapida nel dissolversi.  L’aroma è straordinariamente complesso, nascondendo e rivelando profumi diversi al variare della temperatura: legno e vino rosso danno il via ad un ballo che si muove tra frutta aspra (amarene, ribes, uva, qualche spunto di aceto di mela) e dolce (ciliegia sciroppata, uvetta e prugna disidratata). Man mano che la birra si scalda emergono bourbon e sherry, tabacco. Poche bollicine, corpo tra il medio ed il pieno ma soprattutto una consistenza palatale davvero morbida ed avvolgente: il gusto non tradisce le elevatissime aspettative create dall’aroma regalando una bevuta ricca di emozioni: toffee, uvetta, prugna e sherry delineano un percorso dolce che viene bilanciato da asprezza (frutti rossi) ed acidità.  Ma il meglio deve forse ancora venire e lo si trova in quel sontuoso retrolfatto, lunghissimo, dove sherry e bourbon disegnano un caldo dolce abbraccio etilico accompagnato da una velata asprezza a renderlo più lieve. 
Un blend che a cinque anni dalla nascita non mostra segni di cedimento ma l’intenzione di poter andare ancora avanti nel tempo. Le quattro birre utilizzata danno tutte il loro contributo con equilibrio, entrando ed uscendo di scena a più riprese: dalle caratteristiche aspre della Oud Bruin invecchiata in botti di pinot nero al bourbon che ha ospitato la quadrupel The Stoic (uvetta, prugna) e l’american strong ale Fred. Il risultato è una birra emozionante ed una delle più complesse che mi sia mai capitato di bere: un capolavoro, o quasi.

Formato: 35.5 cl., alc. 11.6%, imbott. 05/2012, best after 30/04/2013, pagata 10.99 dollari.

mercoledì 3 maggio 2017

Cigar City 110K+OT Batch #9

110K+OT, ovvero 110.000 dollari l’anno più straordinari: è questo il nome piuttosto originale scelto dal birrificio di Tampa (Florida) Cigar City fondato nel 2009 da Joey Redner e guidato dal birraio Wayne Wambles. La storia l’avevo riassunta qui.  Il birrificio si limita a dare qualche informazione criptica sull’etichetta della birra: “è più di quanto ti meriti. Molto di più. E ancora un po’ di più. Se hai bisogno di altre informazioni su cosa significhi 100K+OT,  va' su ratebeer.com, creati un account e chiedi scrivendo in maiuscolo “CHE COS’E’ 100K+OT”? 
Il tutto sembra risalire a dicembre 2006 quando sul forum del popolare sito di beer-rating un utente chiamato Cobra apre una discussione intitolata “quanto guadagnate?” vantandosi di guadagnare 110.000 dollari l’anno straordinari esclusi. L’utente venne ovviamente subito sbeffeggiato dagli altri forumisti che iniziarono a prenderlo in giro sottolineandone ad ogni occasione la sua stupidità in molte altre conversazioni che sono poi state riunite in questa pagina.  
A Wayne Wambles, birraio di Cigar City e frequentatore di Ratebeer, la cosa non sfuggì e decise addirittura di dedicare una birra al “lavoratore che ha gusto per le belle cose della vita e al suo stipendio che gli permette di ottenerle”.  La 110K+OT vede la luce per la prima volta nel 2009 come produzione “one shot”:  una potente smoked beer (11.4%) descritta come “non è adatta  per chi vomita al college o per le femminucce che non hanno ancora lavorato un solo giorno della loro vita. E non è neppure una birra per l’uomo comune. E’ una birra per l’uomo che lavora duro e che è arrivato. Se i tuoi stivali hanno la punta d’acciaio, torna quando ce l’avranno dorata”. 
Nel 2009 viene realizzato il Batch #2, un’imperial stout (11.4%) invecchiata su chips di cedro spagnolo, nel 2010 arriva una Double IPA (10%), nel 2011 una Imperial Amber Ale (10.1%) e nel 2012 una Double IPA (11%) con curacao.  Il Batch #6 del 2013 è una imperial stout (11%) ai lamponi ed invecchiata in botti di Porto, mentre nel 2014 tocca ad una Imperial Chocolate Porter (12%); il Batch #8 del 2015 ha visto il ritorno di una Double IPA (10%) mentre l’ultima edizione dello scorso anno, commercializzata in dicembre, è stata una Imperial Brown Ale, anzi per la precisione una Imperial Oatmeal Raisin Cookie Brown Ale.

La birra.
Avena, uvetta, vaniglia e cannella: questi gli ingredienti aggiunti alla base di una potente (9.8%) Brown Ale che dà forma al Batch #9 della 110K+OT di Cigar City. Il bicchiere si veste del colore della tonaca del frate, la schiuma è cremosa e compatta ed ha una buona persistenza.  Il naso è ricco e piuttosto complesso, ma l’eleganza potrebbe essere migliore: domina l’uvetta alla quale s’affiancano i profumi di vaniglia, pan di spagna, prugna e quel biscotto alla cannella (speculoos) che chiama in causa il Belgio e alcune Quadrupel. La sensazione palatale è davvero notevole, con l’avena che dona una morbidissima cremosità a questa Imperial Brown Ale: poche bollicine, corpo medio, la scorrevolezza è ottima, considerato l’elevato tenore alcolico. La bevuta prosegue dritta sulla strada del dolce ricalcando l’aroma con corrispondenza quasi perfetta, con il dominio di  uvetta e frutta sotto spirito; la manca forse un po’ d’amaro finale, ma in soccorso alle delicate tostature del pane arriva l’alcool a contrastare l’importante componente zuccherina di questa birra. Chiude piuttosto lunga, ricca di frutta sotto spirito impreziosita da un tocco di cioccolato e di vaniglia. Imperial Brown Ale molto intensa e potente, nella quale la componente alcolica è ben controllata e riscalda senza mai esagerare: tanta roba ma anche tanto dolce da prendere in piccole dosi. Almeno per me, un bicchiere è più che sufficiente a soddisfare e a sopprimere sul nascere la necessità di andare oltre.
Formato: 65 cl., alc. 9.8%, IBU 59, imbott.  16/12/2016, prezzo indicativo 26,00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 30 dicembre 2016

Lagunitas Brewing Company: IPA, A Little Sumpin’ Sumpin’ Ale & Lagunitas Sucks

"Vendere significa vendere il cuore dei tuoi migliori amici e quella parte della vita che i tuoi collaboratori hanno passato a lavorare per te": questo un tweet di Tony Magee datato 2013 con il quale criticava una delle tante acquisizioni di birrifici "craft" da parte di grandi multinazionali, dichiarando che lui mai lo avrebbe fatto.  
Come commentare allora l'annuncio di settembre 2015 con il quale Lagunitas Brewing Company annunciava di aver stretto una partnership 50/50 con il colosso mondiale Heineken? E' Magee stesso, fondatore nel 1993 del birrificio a Petaluma (California), a spiegarne le motivazioni direttamente sul forum di BeerAdvocate, anticipando tutte le critiche. E mentre dall'altra parte dell'oceano Heineken non parlava di partnership ma di aver  acquistato il 50% di Lagunitas, Magee chiariva di avere ormai 55 anni e la necessità di guardare al futuro assicurandolo a se stesso, ai suoi dipendenti e ai suoi partner aziendali: "abbiamo ricevuto e rifiutato proposte da AB InBev e SABMiller, siamo stati noi a bussare alla porta di Heineken che inizialmente non aveva nessun interesse nei birrifici craft".  La partnership con Heineken gli consente infatti di accedere ad una catena distributiva mondiale e di guardare al di là dei confini nazionali: "questa non è la fine di Lagunitas, è forse solo la fine del suo percorso iniziale. Ora abbiamo davanti un'opportunità storica per esportare la passione che caratterizza la Craft Beer americana in tutto il mondo; anzi questo forse potrebbe diventare il giorno della vittoria della Craft Beer americana".  
I dettagli economici della partnership operativa da fine 2015  non sono stati resi noti ma si dice che il birrificio di Petaluma, che nel biennio 2012-2014 è cresciuto del 58% con una produzione di un milione di ettolitri, sia stato valutato all'incirca un miliardo (!) di dollari. Oltre alla sede di Petaluma e a quella di Chicago sarà a breve operativa anche quella di Azusa, a quaranta chilometri da Los Angeles, città dove finalmente la craft beer sta prendendo piede e, soprattutto, luogo strategicamente conveniente per  l'esportazione verso i mercati del Sud America, Messico in primis. Una capacità iniziale di 400.000 barili/anno che, assieme a quelli prodotti a Petaluma e Chicago, porteranno Lagunitas alla pari di Sierra Nevada.
Per il momento la partnership con Heineken sta iniziando a dare i suoi frutti in Europa, con le Lagunitas che, attraverso i partner distributivi del colosso olandese, sono arrivate sugli scaffali di qualche supermercato; se qualcuno me lo avesse predetto quattro anni fa, gli avrei sicuramente riso in faccia.

Le birre.
Tre le etichette che sono arrivate dalla California; non manca ovviamente la flagship IPA (6.2%), la IPA più venduta in tutta la California. Nel febbraio 2015 il 12 pack di Lagunitas IPA divenne addirittura il "pack" più venduto in tutta la Bay Area (San Francisco), capace di superare i grandi marchi industriali. Disponibile quasi ovunque, la IPA di Lagunitas è in molti locali l'unica alternativa alle multinazionali, capace di "salvarvi" la vita quando non trovate niente di decente da bere.
La bottiglia in questione è "nata" lo scorso settembre 2016 e si presenta quasi limpida e di color oro antico, con qualche venatura ramata; la schiuma leggermente biancastra è compatta e cremosa ed ha un'ottima persistenza. Il naso non è di certo un elogio alla freschezza ed alla intensità ma è tutto sommato ancora accettabile: pompelmo e pino la fanno da padrone, accompagnati da profumi floreali e di biscotto; il fruttato più che di fresco ricorda però la marmellata. Il percorso continua in linea retta al palato senza grosse divagazioni; la base maltata, seppur non invadente, richiama biscotto e caramello e introduce il dolce della marmellata d'agrumi al quale risponde subito l'amaro, resinoso e vegetale, al quale spetta poi il compito di chiudere la bevuta. La secchezza potrebbe essere migliore, il finale amaro è lungo ed intenso ma ha perso un po' di vigore e non punge quanto potrebbe. Non c'è da fare salti di gioia ma se ci si accontenta si ha nel bicchiere una delle tante IPA americane che arrivano dopo tre mesi di viaggio e il fiato un po' corto ma ad un prezzo vantaggioso.  Se cercate la fragranza e la freschezza dei luppoli guardate altrove, se invece vi accontentate di una discreta IPA, bilanciata e facile da bere ma lontana parente di quella che era in origine, non sarebbe affatto male trovare sempre questa Lagunitas sugli scaffali della grande distribuzione. Il prezzo è un po' più elevato delle IPA crafty (Poretti, Ceres, Tennents) ma è più contenuto di molte altre IPA "artigianali" (italiane e non) che occupano gli stessi scaffali dei supermercati con alterne fortune (per chi le compra).

La seconda Lagunitas arrivata in Italia è la A Little Sumpin’ Sumpin’ Ale (7.5%): realizzata per la prima volta nel 2009 come birra stagionale estiva è poi entrata di diritto in produzione regolare. Il mash prevede il 50% di frumento ed un generoso utilizzo di luppoli in dry-hopping: India Pale Ale o  American Wheat Ale? A voi la preferenza. Il bicchiere diventa dorato, leggermente velato e anche in questo caso la schiuma che si forma è impeccabile: cremosa, fine e compatta, ottima persistenza. Buona parte del (dichiarato) abbondante dry-hopping si è evidentemente perso nel viaggio attraverso l'oceano: l'aroma è pulito ma poco intenso e, anche in questo caso, poco fresco/fragrante. Ci si muove in territorio tropicale; mango e melone, con pompelmo e frutti di bosco ad agire in sottofondo. Molto più secca della sorella IPA, riaccompagna subito il bevitore in territorio  tropicale con il dolce del mango, del melone e della papaia. Anche questa birra è stata imbottigliata lo scorso settembre e la freschezza della frutta ne risente, virando di nuovo verso la marmellata ed il candito. I malti, leggermente caramellati, supportano la generosa luppolatura che sfocia in un finale amaro, lungo e intenso, nel quale la resina punge ancora un po'. Alcool ben nascosto, corpo medio ed una carbonazione contenuta le consentono di scorrere piuttosto pericolosamente: il rapporto qualità prezzo (2.65 € per 35 cl.) è buono, ma anche qui dovete accontentarvi e non essere alla ricerca della freschezza, che purtroppo è la caratteristica principale delle birre molto luppolate.

Terminiamo questa rassegna con Sucks, una sorta di Double IPA prodotta con malto d'orzo, frumento, segale, avena ed un parterre di luppoli composto da Chinook, Simcoe, Apollo, Summit, HBC342 e Nugget.  L'avevo già incontrata un paio di anni fa in California nel formato criminale (per un ABV dell'8%) da 35 once, ovvero quasi un litro che viene venduto a cinque dollari. Quella bevuta non era purtroppo andata nel migliore dei modi e cerco di rimediare ora con una bottiglia nata - quasi come quella di allora - circa tre mesi fa. Il nome abbastanza curioso di questa birra significa “Lagunitas fa schifo” ed il perché ve lo avevo raccontato in quella occasione. 
Il suo colore è tipicamente West Coast, tra il dorato e l'arancio, appena velato; la schiuma biancastra è anche in questo caso perfettamente fine, cremosa, compatta e mostra una lunghissima persistenza. Nell'aroma convivono i profumi degli aghi di pino con quelli del pompelmo e della frutta tropicale (mango, melone, ananas): l'aroma non è esplosivo ma molto pulito, con un livello di freschezza tutto sommato ancora accettabile, se ci si accontenta. La sensazione palatale è ottima: birra morbida, corpo medio, bollicine contenute e ottima scorrevolezza. Il gusto ricalca l'aroma riproponendo la frutta tropicale che viene supportata dall'impalcatura per nulla invadente dei malti (biscotto, miele, caramello). Il fruttato ha perso un po' del suo splendore (canditi e marmellata) ma è ancora predominante e caratterizza una bevuta facile e gradevole. Il pompelmo chiude il percorso della frutta e introduce il finale amaro e resinoso, purtroppo non molto pungente, con il quale si conclude questa Double IPA. Alcool ben nascosto che riscalda con garbo solo a fine corsa, buona attenuazione, pulizia ed equilibrio: delle tre Lagunitas la Sucks è quella che è meglio sopravvissuta al viaggio oceanico. Una bevuta ancora godibile e dal buon rapporto qualità prezzo, soprattutto se dovete acquistarne più di una bottiglia per una cena tra amici o per una grigliata.

Se volete provarle, fate in fretta: sono tutte e tre state imbottigliate lo scorso settembre e il tempo non è amico di questo tipo di birra. Tra qualche mese il loro decadimento sarà ancora più evidente: ed è forse questo il maggior problema che riguarda le birre "artigianali" (anche se Lagunitas non può più essere definita tale) nella grande distribuzione. Acquisti di grossi quantitativi che poi rimangono in giro per moltissimi mesi, sino ad esaurimento scorte, quando invece sarebbe assolutamente indispensabile far arrivare regolarmente sugli scaffali lotti produttivi sempre freschi. Per ora dalla California sono arrivate queste tre birre, della tipologia meno adatta a viaggiare: speriamo che prima o poi arrivino anche altre birre meno luppolate e quindi meno suscettibili al trascorrere del tempo. Con il buon livello di prezzi di Lagunitas (negli Stati Uniti era tra i produttori craft più a buon mercato) sarebbero davvero un'ottima risorsa sugli scaffali del supermercato.

Nel dettaglio:
IPA: 35.5 cl., alc. 6.2%, IBU 51.5, scad. 07/09/2017, prezzo indicativo 2.49 Euro (supermercato)
A Little Sumpin’ Sumpin’ Ale: 35.5. cl., alc. 7.5%, scad. 07/09/2017, prezzo indicativo 2.65 Euro (supermercato)
Sucks: 35.5 cl., alc. 8%, IBU 63, lotto 1438 0424, scad. 09/09/2017, prezzo indicativo 2.65 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 19 settembre 2016

Prairie Coffee Okie

A poche settimane di distanza dalle Eliza5beth ritorna sul blog Prairie Artisan Ales, questa volta con una birra non esattamente adatta ai mesi più caldi dell’anno. Ricordo brevemente che Prairie nasce nel 2012 come beerfirm fondata dai fratelli Chase e Colin Healey, entrambi con un lungo passato da homebrewers; il primo dei due ha anche lavorato come birraio presso la COOP Ale Works ela Redbud.  E' proprio qui che Chase si fa conoscere, sperimentando con i lieviti da vino, da champagne e quelli "selvaggi"; la Redbud oggi non esiste più, ma è con una birra chiamata Cuvee Three che Chase Healey attira l'attenzione dell'importante distributore Shelton Brothers.  Una volta nato il marchio Prairie Artisan Ales, i fratelli Healey firmano subito un contratto per la distribuzione in molti stati americani e per l'esportazione all'estero. Il successo garantisce i fondi necessari per la pianificazione del proprio birrificio, e l'inaugurazione avviene a dicembre 2013, alla porta di Tulsa; il focus è quello degli affinamenti e degli invecchiamenti in botte. 
Al tempo stesso, una parte delle birre viene ancora prodotta all'esterno per poter soddisfare le richieste del mercato; è ad esempio il caso della birra di oggi, chiamata Coffee Okie e prodotta presso gli impianti della Krebs Brewing Company (Oklahoma). Si tratta sostanzialmente di una variante della Prairie Okie, un’Imperial Brown Ale (o American Strong Ale, se preferite)  che viene invecchiata per sei mesi in botti ex-Whiskey provenienti dalla Balcones Distillery di Waco, Texas. Per la Coffee Okie nelle botti vengono anche aggiunti chicchi di caffè Nordaggios, lo stesso utilizzato per realizzare la famosa imperial stout Bomb! 
La Coffee Okie, che i geeks di Ratebeer eleggono tra le 50 migliori American Strong Ales al mondo, debutta nel dicembre del 2015 giusto in tempo per portare un po’ di conforto nei mesi più caldi dell’anno. L’etichetta é al solito opera di Colin Healey che include alcuni elementi tipici dello stato dell'Oklahoma: stivali da cowboy e sigarette, il ritratto di Garth Brooks (cantante country nato a Tulsa) sullo schermo di un mini televisore, un coltello che fa riferimento al film I ragazzi della 56ª strada, diretto da Francis Ford Coppola e basato sull'omonimo libro (titolo originale The Outsiders) ambientato a Tulsa. In verità Colin ammette di essersi ispirato dalla successiva serie televisiva e non dal film di Coppola. 

La birra.
Riempie il bicchiere di un colore un po' torbido che richiama la tonaca del frate con venature ambrate e rossicce; la schiuma che si forma è grossolana, di dimensioni piuttosto modeste e scompare abbastanza rapidamente. Il naso rimedia subito ad un aspetto un po' bruttino con eleganti profumi di caffè: si va dai chicchi all'espresso, passando per il macinato. Il bouquet è un po' monotematico ma impreziosito dalle note di whiskey, di legno, caramello e vaniglia.  L'asticella sale ulteriormente al palato, dove la Coffee Okie esplode in tutta la sua potenza (13% ABV): obbligatorio sorseggiarla ed abbandonarsi al calore del whiskey che accompagna il dolce del caramello e della melassa, della frutta sotto spirito (uvetta, prugna), della vaniglia. A bilanciare, oltre alla componente etilica, una lievissima asprezza di frutti rossi e l'acidità del caffè, elemento molto meno presente rispetto all'aroma. Non c'è di fatto amaro, la pulizia è ottima in una birra dal corpo che si colloca tra il medio ed il pieno e, ovviamente, ha poche bollicine: ne risulta una sensazione palatale morbida e oleosa che le permette di scorrere lentamente ma senza intoppi. Chiude con un lunghissimo retrogusto dolce ricco di uvetta e caramello bilanciato da whisky e caffè, nel quale la componente etilica, benché protagonista, riscalda e rincuora senza mai bruciare. 
L'eleganza non è probabilmente ai livelli delle migliori produzioni Prairie, ma Coffee Okie è una birra capace di accompagnarvi per tutta la serata: ai primi sorsi può sembrare ostica, ma basta lasciare che il palato si abitui per godere con grande soddisfazione di una bevuta avvolgente, calda ed etilica sino al meritato congedo. 
Formato: 35.5 cl., alc. 13%, IBU 50, imbott. 2015, prezzo indicativo in Europa tra gli 11.00 ed i 13.00 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 30 luglio 2016

Stone (Berlin) Arrogant Bastard Ale vs Stone Arrogant Bastard Ale - Bourbon Barrel

"Questa è un birra aggressiva. Probabilmente non ti piacerà. E' abbastanza improbabile che tu abbia il gusto o la sofisticatezza per apprezzare una birra di tale qualità e profondità. Non ne sei degno". Con queste parole il 7 novembre del 1997 Stone Brewing lancia l'Arrogant Bastard Ale; una American Strong Ale aggressivamente luppolata che contribuirà a fare la fortuna del birrificio californiano, arrivando ad occupare il 30% della produzione.
Facciamo un passo indietro al 1995, anche se la storia già l'avevo raccontata qui: Steve Wagner, prossimo ad aprire Stone assieme a Greg Koch, ha appena acquistato un nuovo impianto casalingo e sta facendo i lotti pilota di quella che poi diventerà la Stone Pale Ale. Qualcosa va storto nell'adattare la ricetta al nuovo impianto più capiente: nella pentola ci finiscono un po' troppi malti e una quantità esagerata di luppolo. Da qui i ricordi di Wagner e Koch divergono: il primo sostiene di essersene accorto solo al momento di assaggiare la birra pronta. Koch ricorda invece che l'errore fu subito scoperto, ma i due decisero di non buttare la cotta e portare comunque a termine la fermentazione per vedere che cosa ne era venuto fuori. Il risultato è comunque lo stesso: al momento dell'assaggio entrambi la trovano fantastica, anche se sono consapevoli che poche persone saranno in grado di apprezzare una birra così amara.  Il nome Arrogant Bastard Ale nasce spontaneo. 
Ma nel primo anno anno dall'apertura (1996), Stone non naviga nell'oro e fatica a far tornare i conti; i soci di Wagner e Koch li sentono ogni tanto parlare di questa "Arrogant Bastard", trovano che il nome sia di grande effetto e spingono per commercializzarla, pur non avendola mai assaggiata. 
Wagner e Koch sono però dubbiosi: "la maggioranza della gente non era sicuramente degna di bere questa birra. Non volevo che qualcuno la comprasse per poi vuotarla nel lavandino; la nostra idea iniziale era di farne solamente una cotta, un'edizione limitata e quindi destinarla soltanto a quei pochi individui che l'avrebbero apprezzata". Prima ancora di iniziare a vendere la birra, Koch mette in vendita nell'estate del 1996 allo spaccio di Stone alcuni bicchieri con il logo Arrogant Bastard Ale: voleva vedere la reazione della gente al nome, e quelle pinte vanno subito a ruba. Ci vorrà però ancora un anno, e presumibilmente numerosi tentativi per affinare la ricetta, prima delle première del primo fusto di Arrogant Bastard che avviene il primo novembre del 1997 in un affollatissimo Pizza Port di Carlsbad.
Koch è poi bravo a costruire attorno al nome della birra un'aggressiva campagna di marketing che lancia la sfida nei confronti di bevitori "non degni" di berla: "agli eventi - racconta sempre Kock - la gente veniva al nostro stand, vedeva le bottiglie, e la voleva provare solo per il suo nome. Ma io dicevo loro di no. Prima dovete assaggiare la Stone Pale Ale, poi la Smoked Porter, poi la IPA e solo dopo, se siete interessati ad andare avanti, ve la farò assaggiare".  Un tipo di comunicazione che ha fatto scuola e che ha ispirato molti altri birrifici, gli scozzesi di BrewDog in primis.
Il successo dell'Arrogant Bastard ne ha fatto ovviamente nascere molteplici variazioni e, nel 2015, ha determinato la separazione del brand: è sempre Stone a produrla, ma il suo nome scompare a favore dell'Arrogant Brewing. Nella gamma ci sono la la Double Bastard (1998, 11%), la Oak Arrogant Bastard Ale (con chips di rovere, 2004), la Lucky Bastard (2010, un blend delle quattro birre precedenti), la Bourbon Barrel (2014), la Depth Charged Double Bastard (Double Bastard con aggiunta di caffè, 2015) e la sua versione barricata in botti di bourbon e sciroppo d'acero chiamata Bastard's Midnight Brunch, la Bastard in the Rye (Double Bastard invecchiata in botti di Rye Whiskey), e la piccantissime Crime (9.6%) e Punishment (12%), anche esse ora disponibile in versione Barrel Aged.
Il debutto di Stone Berlino non poteva quindi esimersi dal proporre, oltre alla Stone IPA, anche l'altra flahsghip beer del birrificio californiano; mettiamo a confronto una delle prime lattine arrivate da Berlino ed una bottiglia di Arrogant Bastard Ale Bourbon Barrel prodotta invece ad Escondido.

Le birre.
L'Arrogant Bastard Ale di Berlino è di uno splendido color ambrato carico, appena velato, con intense sfumature rosso rubino e sormontata da un perfetto  e generoso cappello di schiuma ocra, compatta e cremosa, dall'ottima persistenza. L'aroma non è particolarmente intenso e la generosa luppolatua (resina) non è affatto in primo piano; ci sono invece toffee, pane nero, profumi terrosi, di zucchero caramellato, qualche accenno fruttato (prugna) e di alcool. Nel complesso pulizia ed eleganza sono abbastanza buoni. Ottima la sensazione palatale, corpo medio, la giusta quantità di bollicine, morbidezza ed una scorrevolezza che quasi contrastano con il marketing aggressivo. Il caramello ed il  pane nero leggermente tostato riprendono l'aroma ma è solo una breve introduzione a quello che è il vero protagonista dell'Arrogant Bastard: l'amaro, resinoso ed intenso, piccante, affiancato da note terrose e da leggerissime tostature, che avvolge il palato in lungo e in largo, senza abbandonarlo più. E si continua senza sosta anche nel lungo retrogusto, dove alcool ed caramello continuano a supportare l'ondata amara che solletica per diversi minuti il palato, senza mai perdere di vista una certa eleganza. La pulizia  nel complesso è buona ma ci sono margini di miglioramento, sopratutto se confrontata con la sorella prodotta in California.
Ad ormai venti anni dalla sua nascita l'Arrogant Bastard continua a rimaner un'intensa bevuta, benché nel frattempo il palato del beergeek si sia ormai abituato a certi livelli di amaro e non ne rimane quindi particolarmente sconvolto; non c'è invero molta complessità, c'è quel gusto di pane nero (schwarzbrot!) che fa molto Germania e che non riscontro nella versione americana, ma nel complesso mi sembra una replica abbastanza vicina a quella che viene fatta ad Escondido, benché più mansueta e meno aggressiva.
Passiamo ora all'Arrogant Bastard Ale Bourbon Barrel, produzione californiana che debutta nell'ottobre del 2014 all'interno dell'Arrogant Bastard Box, un 4 pack che per una ventina di dollari vi offre una bottiglia da 65 cl. di  Arrogant Bastard Ale, Double Bastard Ale, Lukcy Bastard Ale e la nuova Bourbon Barrel-Aged.
Perfettamente limpida nel bicchiere, anche lei è di color ambrato carico con intensi riflessi rossastri; la schiuma ocra è compatta e cremosa ed ha un'ottima persistenza. Il naso, piuttosto pulito e di buona intensità , regala caldi ed eleganti profumi di caramello e vaniglia, bourbon, uvetta e prugna, toffee, legno, zucchero caramellato. Consistenza oleosa, poche bollicine, mouthfeel corretto per una bevuta lenta e morbida che riscalda ed appaga con il dolce del biscotto, del caramello e della vaniglia, dell'uvetta e della prugna. La chiusura è ovviamente meno amara rispetto alla sorella fresca: qui la resina ed il terroso non sono protagonisti ma contribuiscono a bilanciare il dolce di inizio bevuta, assieme all'alcool e ad una buona attenuazione. Il retrogusto è dolce di bourbon, vaniglia e caramello, con dettagli legnosi e un morbido tepore etilico che rincuora e riscalda, anche se siamo in piena estate e non ce ne sarebbe bisogno.
L'invecchiamento in botte le toglie ovviamente buona parte "dell'arroganza amara" che possiede la versione base ma l'arricchisce con bourbon, vaniglia e legno; ne risulta una birra il cui vigore e la cui potenza non scaturiscono dal luppolo ma dalla componente etilica, con il risultato di una bevuta più bilanciata e non priva di una certa eleganza. Molto bene.

Nel dettaglio:
Stone Brewing Berlin Arrogant Bastard Ale, formato 50 cl., alc. 7.2%, lotto 10/06/2016, scad. 07/03/2017, prezzo indicativo 5.00 Euro (beershop, Italia)
Stone Brewing Arrogant Bastard Ale - Bourbon Barrel, formato 35.5. cl., alc. 8.1%, lotto 23/12/2015, prezzo indicativo 5.50 Euro.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 15 febbraio 2015

Buxton / To Øl Collateral Carnage

La prima collaborazione tra Buxton Brewery e la beerfirm danese To Øl risale a maggio 2013; Tobias Emil Jensen si reca una settimana in Inghilterra per alcune collaborazioni. Il punto di ritrovo è il pub Marble Arch di Manchester dove i birrai accettano l'ospitalità di Marble, birrificio inglese, per discutere davanti a qualche pinta di birra. Tobias è appena tornato da Magic Rock, dove ha realizzato una saison collaborativa chiamata The Juggler. 
Nel caso di Buxton, la collaborazione con To Øl porta un duplice risultato:  nascono la Collaboration Carnage (o Samarbejds Ødelæggelse, in danese) un'American IPA, e la Sky Mountain, una Berliner Weisse. 
Nel 2014 viene realizzata una nuova birra collaborativa o, per dirla con le parole dei birrai, un "effetto collaterale della Collaboration Carnage": nasce la muscolosa American Strong Ale chiamata Collateral Carnage.
All'aspetto è di un bell'ambrato carico, con riflessi ramati, leggermente velato; la schiuma color avorio è fine, cremosa e molto persistente. I tre mesi di vita della bottiglia si riflettono sull'aroma: ancora pungente e ben fresco, con una notevole intensità composta da aghi di pino ma soprattutto frutta: tropicale (mango, ananas, passion fruit), melone retato, pompelmo e pesca. In sottofondo ci sono anche lievi sentori di Big Babol, floreali e di marmellata d'agrumi.
Ottima la sensazione palatale: è una birra dal corpo pieno, con poche bollicine e molto morbida, forse un po' "ingombrante" in bocca ma stiamo comunque parlando di una birra muscolosa e parecchio alcolica (9.1%), che va sorseggiata. Gusto pulito e ben bilanciato, a partire dalla base maltata di biscotto e caramello molto ben integrata con il dolce della frutta  tropicale (mango e ananas) e, in maniera minore, dei canditi. La bevuta è però subito equilibrata da un amaro resinoso, "pizzichino", quasi balsamico, che morde subito ai lati della lingua; il livello di percezione dell'alcool è quello giusto: né troppo, né troppo poco, riscaldando quando serve, senza mai andare oltre le righe. Chiude discretamente secca, lasciando una lunga scia amara resinosa, intensa e elegante, ben spalleggiata da un discreto warming etilico di frutta sotto spirito.
Niente da eccepire su quanto c'è nel bicchiere: birra solida e pulita, molto ben fatta, che si sorseggia con buona soddisfazione e senza nessuna difficoltà. Non mi ha però trasmesso particolari emozioni, e non so che cosa aggiunga di nuovo al già ampio portfolio di Buxton e a quello, ancora più vasto, di To Øl: bevendola ho consapevolmente assecondato quella che sta diventano ormai la regola numero uno del marketing del mondo della "craft beer".  Far uscire sempre qualcosa di nuovo, one-shot, esperimenti, collaborazioni… perché sono ormai più quelli che corrono dietro alla novità di quelli che ritornano a bere regolarmente la stessa ottima birra. Io stesso mi rendo conto di essere dentro a questo circolo vizioso, in parte per via del blog: per lo meno questa è stata una buona bevuta.
Formato: 33 cl., alc. 9.1%, imbott. 18/11/2014, scad. 18/11/2015.

sabato 31 gennaio 2015

Birranova Negramara Extra

Ritorna dopo un po' di tempo il birrificio pugliese Birranova guidato da Donato Di Palma, tra l'altro fresco del quarto posto ottenuto al "concorso" di Birraio dell’Anno 2014. E' stata di nuovo l'ultima edizione del Salone del Gusto di Torino a darmi la possibilità di riassaggiare qualche produzione di Birranova, birrificio che altrimenti trovo molto di rado sugli scaffali dei rivenditori nella mia zona.
Birraio in una regione ricca di vini, come tante altre in Italia, Di Palma ha scelto per una birra un nome che ricorda il più diffuso vitigno a bacca nera pugliese: non si tratta però di una birra prodotta con il mosto dell'uva, che in casa Birranova è stata chiamata Moscata.
Negramara Extra è invece un'american strong ale generosamente luppolata che ha, tra i diversi riconoscimenti, ottenuto il primo posto nella categoria 10 (Alta fermentazione, alto grado alcolico, d’ispirazione angloamericana) e 11 (Strong Ale d’ispirazione angloamericana) alle ultime due edizioni (2013 e 2014) di Birra dell'Anno.
La fotografia non rende purtroppo molta giustizia al colore: in realtà la Negramara Extra è di color ambrato carico, velato, con intensi riflessi rossastri: la schiuma è molto persistente, cremosa fine e compatta, inappuntabile. Il bouquet aromatico include caramello e biscotto, ciliegia, frutta secca e un timido ricordo di frutta tropicale (mango, passion fruit).
Il gusto prosegue inizialmente in linea retta riproponendo un ingresso dolce di caramello, biscotto e  polpa d'arancio, per poi deviare su un amara abbastanza intenso e pungente, quasi balsamico, di resina, frutta secca e terroso. In bocca viene comunque sempre mantenuto un buon livello di equilibrio, con una sensazione palatale davvero molto morbida, quasi cremosa, che limita un po' la scorrevolezza; il corpo è medio. Si tratta comunque di una birra dal contenuto alcolico rispettabile (8%) che non è quindi nata per essere bevuta serialmente.
Più pulita al naso che in bocca, dove ci sono ancora margini di miglioramento, è comunque un'american strong ale ben fatta ed intensa e mai sopra le righe, sia per quel che riguarda il livello di amaro che per la percezione dell'alcool, il cui apporto è quello di regalare un discreto tepore che ben interagisce con le note speziate del luppolo. 
Formato: 33 cl., IBU 40, alc. 8%, lotto L1488, scad. 01/04/2016, pagata 4.00 Euro (birrificio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 28 luglio 2014

Free Lions/Revelation Cat/Left Hand Lo Straniero

Nella settimana che andava dal 17 al 24 Febrraio 2013, si tenne a Roma la  Colorado Beer Week un’iniziativa che ha coinvolto locali e beershop nei quali  sono stati organizzati eventi e degustazioni con la presenza di Doug Odell, fondatore della Odell Brewing Co.  e di Eric Wallace della Left Hand Brewing Co.; oltre a questi birrifici  era disponibile una vasta selezione di birre provenienti da Oskar Blues, Avery e Steamworks e fatte arrivare in Italia dal Colorado da Impexbeer. Alex Liberati (titolare di Impexbeer e del birrificio Revelation Cat) e Andrea Fralleoni del birrificio Free Lions non si sono certo fatti sfuggire l’occasione di avere a Roma  due birrai americani, ed hanno convinto Eric Wallace di Left Hand a realizzare una birra collaborativa a “tre mani”, prodotta presso gli impianti di Free Lions (Tuscania). 
La birra che nasce dal trio Liberati/Wallace/Fralleoni è una American Strong Ale ultraluppolata ("guidata dall'esperienza e dall'ispirazione del momento") che viene chiamata “Lo Straniero” (no, purtroppo non credo ci sia alcun riferimento al capolavoro di Albert Camus..) e che viene presentata durante l’Italia Beer Festival di Milano 2013. I debutti all’IBF portano evidentemente fortuna (cfr. il  caso Extraomnes Zest all'IBF 2011)  perché Lo Straniero si aggiudica il premio di miglior birra del festival  tra le circa 130 presenti. Il 5 Aprile la birra debutta anche al di fuori dal festival, alle spine (ovviamente) della Brasserie 4:20 di Alex Liberati. Quella che sembrava essere una collaborazione unica, "one shot", ha evidentemente riscosso il favore di pubblico necessario per essere già replicata nel 2014.
Senza nessuna indicazione sulla tipologia di malti/luppoli utilizzati, arriva nel bicchiere di un bel color ambrato velato con intensi riflessi rossastri; la schiuma è molto compatta e fine, cremosa, color ocra, molto persistente. L'aroma rivela freschezza e pulizia, ed un carattere decisamente dolce di mango, melone ed ananas maturo, arancia rossa, pompelmo e caramello. Ma si tratta solo di un "aperitivo" di quanto sta per accadere in bocca: il gusto è davvero molto intenso, con una potenza che forse tralascia un po' l'eleganza, ma che regala la robusta spina dorsale maltata (biscotto e caramello) necessaria al sostegno della generosissima luppolatura che dapprima richiama il dolce tropicale ed il pompelmo, per poi cancellare tutto con una poderosa ondata amara, resinosa e pungente, che riesce comunque a non raschiare il palato. L'alcool (7.7%) c'è ed irrobustisce la bevuta, scaldando il palato e facendosi sentire soprattutto nel lungo ed intenso retrogusto amaro ricco di resina; non è certamente una birra da bevuta seriale, ma la bottiglia si svuota senza che sia necessario troppo impegno. E' pulita e molto muscolosa,  ben riuscita, tutta basata sul delicato equilibrio della freschezza che tiene assieme e fa funzionare tutte le sue componenti, prima che il passaggio dei mesi la possano trasformare in una pericolosa bomba di caramello, marmellata d'agrumi e luppoli stanchi. Cercate quindi di bere il più rapidamente possibile questo pezzo di artiglieria pesante, un "commando" che ha la bellicosa intenzione di assaltare il vostro palato a colpi di luppolo.
Formato: 33 cl., alc. 7.7%, lotto 1410, scad. 08/03/2015, pagata 6.00 Euro (beershop, Italia).

mercoledì 26 febbraio 2014

Rogue XS Imperial Red

Purtroppo tocca ancora una volta ripetere un discorso fatto ad esempio in questa occasione, ma ne potrei citare molte altre, su birre americane che arrivano nel bicchiere in condizioni abbastanza disastrate. Ma almeno la birra in questione mi è stata regalata e non l'ho pagata. Prodotta per la prima volta dalla Rogue Ales, Oregon, nel 2008: Great Western Harrington, Klages, Hugh Baird Crystal, Black, Munich e Chocolate i malti utilizzati, oltre all’avena ed ai luppoli Willamette, Cascade e Chinook; il ceppo di lievito è invece proprietario. Arriva nella bottiglietta di dimensioni abbastanza inutili, secondo me, di 20 cl.; dopo tutto stiamo parlando di una Strong Ale (8.32% Alc.) e non di un barley wine da 12-13 gradi. Alle spalle, un dignitoso pedigree, sebbene sappiamo quanto siano da prendere con cautela i premi ottenuti ai concorsi: nel 2011 al World Beer Championships, medaglia di platino. Bronzo agli Australian International Beer Awards del 2010 ed oro alla World Beer Championships dello stesso anno.  Oro anche al Mondial de la Biere Fest di Montreal  del 2009. 
Solita bella bottiglia serigrafata in stile Rogue, e birra che si presenta di un colore ambrato opaco, con intense sfumature rossastre; alquanto modesta la schiuma, ocra, un po' grossolana e dalla persistenza breve. Il naso è molto dolce, con caramello, melassa, marmellata di agrumi, quasi frutta candita. Uno scenario pressochè analogo mi attende in bocca: le aspettative non erano certa di un mostro ultraluppolato o di una birra amarissima (58 gli IBU dichiarati), ma in questa mini-bottiglia manca quasi completamente qualcosa che bilanci l'avanzata del dolce. Tutto quasi bene all'inizio, con caramello/toffee e marmellata dolce, ma poi non c'è più nulla; anziché accelerare, la bevuta che già non spicca per intensità e pulizia si spegne lasciando una sorta di vuoto dove appare in lontananza, sola soletta, un remoto ricordo di note vegetali amare. La bassa carbonazione le toglie ulteriore vitalità, il corpo è medio e la bevuta non è certo quella che si definisce una bella esperienza. Al prossimo incontro, e che sia più fortunato.
Formato: 20 cl., alc. 8.32%, lotto e scadenza non riportati.

venerdì 21 febbraio 2014

Lost Abbey Deliverance 2011

Se n’è già parlato in questa occasione, del ramo di Pizza Port messo in piedi nel 2006 da Tomme Arthur, fino ad allora mastro birraio a Solana Beach; con il marchio The Lost Abbey Tomme coltiva i suoi esperimenti, producendo birre ispirate principalmente alla tradizione belga, incluse fermentazioni spontanee e birre acide, e porta avanti i suoi progetti di affinamento e d’invecchiamento in botte.   
Deliverance, ovvero "liberazione",  rappresenta la battaglia tra il bene e il male, con un blend di due birre ben riuscite: si tratta della Serpent’s Stout, una imperial stout che per l’occasione viene invecchiata in botti di bourbon, e della Angels Share, un (english style) barley wine prodotto una volta l’anno ed invecchiato in botti di brandy. Una “battaglia” che si dovrebbe svolgere tra torreffatto, cioccolato e liquirizia della Imperial Stout e caramello, uvetta e fichi della Angels Share. Nelle etichetta - impregnata del misticismo che contraddistingue il birrificio - si parla di Apocalisse e di Armageddon, di dannazione e di salvezza, di liberazione dal male e di voglia di cadere in tentazione e peccare; il giorno del giudizio è arrivato e non c'è più tempo per redimersi, per cambiare e guadagnarsi il posto in Paradiso. Tomme Arthur invita ad unirsi a lui nel rilassarsi e nell'attendere l'arrivo di coloro che verranno a prenderci l'anima; la Librazione (Deliverance) che lui offre è questa birra: non vi salverà dalle grinfie di Satana, ma almeno potrete godere del piacere di peccare.
Il blend di birre non è però sempre ben riuscito, visto che sono numerose le lamentele di chi ha trovato più di una bottiglia infetta o malandata di The Angel's Share e, ovviamente, anche di Deliverance. Il birrificio ha sempre dichiarato di effettuare rigorosi controlli (e ci mancherebbe!) prima su ogni botte, poi nella vasca dove viene effettuato il blend, e quindi al momento dell'imbottigliamento, prelevando campioni all'inizio, a metà ed alla fine di ogni lotto. Le birre, per evitare ogni possibile contaminazione, vengono inoltre imbottigliate in una linea diversa da quella utilizzata dalle birre acide che Lost Abbey produce. Fatto sta che i casi di bottiglie infette o piatte, prive di carbonazione, sono numerosi e in diversi casi il birrificio ha accettato di ricompensare gli sfortunati clienti inviando altre birre in sostituzione. Stiamo parlando di una birra piuttosto cara, non so se sia mai arrivata sugli scaffali in Italia ma negli Stati Uniti - dove la birra di solito non costa come in Italia - il suo prezzo è intorno ai 35 Euro al litro. In sostanza, la Deliverance di Lost Abbey è una birra splendida quando è a posto, ma c'è anche il rischio (non so quanto elevato) che vi possa capitare una bottiglia da lavandinare. Sarà dunque inferno o paradiso, la bottiglia che mi accingo a stappare? 
Vintage 2011 stampato al laser sul collo della bottiglia, quasi illeggibile; il colore è marrone scurissimo, impenetrabile, praticamente nero; non c'è schiuma (il che non deve allarmare, stiamo parlando di una birra molto alcolica, 12.5%) ma si forma comunque un piccolo pizzo color nocciola al bordo del bicchiere. Il primo profumo è quello dell'alcool (bourbon o brandy che sia), poi segue legno, qualche remota traccia di caffè, ma c'è davvero molto poco. In bocca è completamente piatta, viscosa, dal corpo medio: il gusto è salmastro, salsa di soya, legno, bourbon, qualche accenno di caffè. L'alcool è abbastanza ben nascosto, la birra tutto sommato si riesce a bere ma è ben lontana dall'essere buona. Del blend tra una imperial stout ed un barley wine è rimasta solo la prima, ed invecchiata abbastanza male. Tra il Bene ed il Male ha (ovviamente, citando la Legge di Murphy) vinto quest'ultimo: male per il palato, e male per il portafoglio. Sono quasi tentato di mandare una mail al birrificio, non sia mai che decidono di inviare anche qui qualcosa in sostituzione. In cantina riposa intanto una bottiglia di The Angel's Share dello stesso anno. Saranno di nuovo le tenebre ? 
Formato: 37.5 cl., alc. 12.5%, vintage 2011.

martedì 26 marzo 2013

Port Brewing Older Viscosity

Della "trinità" (o del "big bang" brassicolo) della contea di San Diego Port Brewing/Lost Abbey/Pizza Port abbiamo già parlato approfonditamente in questa ed in quest'altra occasione. Andiamo quindi dritti al sodo con questa bottiglia di Older Viscosity, di Port Brewing, che rappresenta la parte più "tradizionale" della "trinità", con (muscolose) birre (spesso) molto luppolate che rispecchiano in pieno lo spirito di quella regione amichevolmente chiamata Socal (South California). Older Viscosity nasce dalla sorella minore Old Viscosity, un'american (dark) strong ale che già rappresentava un blend di birra fresca e di (20%) di birra invecchiata per almeno tre mesi in botte. La Older Viscosity raggiunge un ABV leggermente maggiore (12% vs. 10.5%) e viene lasciata ad invecchiare in botti di bourbon Heaven Hill per un periodo non inferiore a 6 mesi. L'edizione "vintage 2011" in questione, commercializzata in data 23 Aprile 2011, è stata lasciata in botte per dodici mesi, secondo le informazioni raccolte in internet. Come detto la base di partenza è la ricetta della Old Viscosity, quindi malti Two Row, Carafa III, Crystal (inglese ed americano), Chocolate e frumento, luppolo tedesco Magnum e, oltre ad un lievito proprietario del birrificio, il California Ale delle White  Labs. L'aspetto è esattamente quello che il nome e la bella etichetta evocano: immaginate di effettuare il cambio olio alla vostra macchina e di versarne un po' in un bicchiere. Un densissimo liquido quasi nero, assenza di schiuma, rimane solo un leggerissimo pizzo color beige ai lati del bicchiere. Non c'è neppure bisogno di avvicinare il bicchiere al naso per avvertire, sin da (molto) da lontano, il potentissimo aroma carico di bourbon; troviamo anche tanta frutta sotto spirito (uvetta), liquirizia, sentori di legno, vaniglia, tabacco. Aroma molto complesso, che richiede tempo (e passaggio di temperatura da cantina ad "ambiente") per essere decifrato in pieno; emergono note di cuoio/pelle, di ossidazione, ciliegia matura, a ricordare lontanamente un vino liquoroso (Porto). Nonostante l'aroma lasci presagire un ingresso in bocca devastante, la bevuta è tutto sommato meno difficoltosa del previsto; il benvenuto, a scanso di equivoci, è etilico, un morbido calore di bourbon che scalda palato, esofago e stomaco e li prepara quello che deve ancora arrivare; ripassiamo in rassegna quasi tutto quello che avevamo trovato al naso. Liquirizia, leggere note di caffè, di cuoio, frutta sotto spirito (uvetta), cioccolato; predominanza di dolce, al gusto, con qualche leggera nota acidula di caffè a bilanciare. L'alcool, che si era temporaneamente fatto da parte, rientra prepotentemente in gioco nel finale, lasciando un lunghissimo, morbido e caldo retrogusto appagante. Birra mastodontica, quasi sostitutiva di un pasto intero, dal corpo pieno, praticamente priva di carbonazione, dalla viscosità oleosa; rotonda e morbida in bocca, da bere in piccole dosi per poterla assaporare e cogliere in tutte le sue sfaccettature. Arriva in bottiglia da 375 millilitri, che non sono però pochi da affrontare in una sera; l'abbiamo anche volutamente risparmiata per riassaggiarla a distanza di 24 e 48 ore:  le note fruttate (uva passa e prugna, ciliegia) emergono con maggiore evidenza rispetto all'alcool, per una birra che si sporge maggiormente nel territorio dei vini passiti; a bilanciare il dolce della frutta, ecco caffè e cioccolato amaro. Insomma, se l'acquistate, prendetevi tutto il tempo del mondo e bevetela con molta calma, è una birra che richiede attenzion, devozione e pazienza. Formato: 37.5 cl., alc. 12%, lotto 2011, prezzo 13.33 Euro (beershop, USA).