sabato 30 novembre 2013

Howling Hops Export Porter

Riprendiamo l'esplorazione dei nuovi microbirrifici di Londra e dintorni con un nuovo debutto su queste pagine, quello di Howling Hops (letteralmente, "i luppoli che ululano"). Si trova in una zona abbastanza nota ai Beer Hunters, ovvero quella d Hackney, dove nel giro di tre chilometri trovate Pressure Drop, Howling Hops, London Fields e Redchurch Brewery; prendete quindi nota e, nel prossimo vostro viaggio a Londra, pensate ad un bel "Brewery crawling". Viene fondato nel 2012 nel seminterrato della Cock Tavern, praticamente la filiale di Hackney del più famoso Southampton Arms, con 16 handpumps ed 8 spine; il birraio è Ed Taylor, 24 anni, homebrewer da quando ne aveva 18. In precedenza ha fatto il birrario alla Redemption Brewing Company. L'impianto attualmente in uso, molto piccolo, è quello usato agli esordi dalla Camden Town Brewery; chi ha visto le dimensioni del seminterrato, fatica a credere come sia stato possibile trasportarlo per le ripide scale che portano dalla Cock Tavern alla Howling Hops. La maggior parte dela produzione viene consumata al pub sovrastante ed al Southampton Arms, e dunque la distribuzione delle bottiglie è molto limitata anche perché, da quanto leggiamo, Ed non si fida molto dei rivenditori e del modo in cui trattano la birra una volta che ha lasciato le porte del birrificio. La birra viene prodotta due-tre volte a settimana, 650 litri a cotta, ed il resto del tempo vede Ed dedicarsi al suo secondo business la Square Root London, produttore di bibite.  Già una cinquantina le etichette elencate su Ratebeer, anche se per lo più si tratta di leggere varanti dello stesso mosto, che consistono in un diverso mix dei luppoli usati a seconda di quanto è disponibile; una tendenza che rispecchia in pieno quella dei "modernisti" londinesi (esempio The Kernel o Partizan), prodighi nel moltiplicare rapidamente il numero delle birre prodotte. Anche le etichette ricordano vagamente le prime Kernel, quelle prodotte prima del trasloco, stampate quasi su carta da pacchi e con il nome della birra scritto mediante un timbro ad inchiostro. 
Eccoci a stappare la Export Porter, luppolata con Columbus e Willamette; strana puntualizzazione, non sono molte le Porter che sbandierano i luppoli in etichetta, ma ci vuole poco a capire il perché. Si presenta di un bellissimo color mogano scuro, la schiuma è molto cremosa, beige, fine e compatta, molto persistente. Aroma pulitissimo e molto forte: aghi di pino, pompelmo, fragoline e solo quando la birra s'avvicina alla temperatura ambiente emerge qualche remoto sentore di tostature. Grandioso l'ingresso in bocca: 5.5% ABV, birra  scorrevole ma assolutamente vellutata e morbidissima, molto gradevole al palato. Il gusto è decisamente più black dell'aroma; inizio che parte tra tostato e terroso, seguito da una parte centrale fruttata che richiama il pompelmo, ed un ritorno molto amaro finale dove convivono note terrose, resinose ed una tostatura leggermente bruciata con qualche accenno di caffè. L'intensità è davvero notevole, la deriva amara finale è fortissima e forse un po' fuori controllo; porter abbastanza atipica, dove al naso dominano i luppoli ed in bocca c'è comunque una parte agrumata a minare le certezze del bevitore. A tratti somigliante ad una Black IPA, birra interessante, ancora un po' da perfezionare ma già di ottimo livello.
Formato: 33 cl., alc. 5.5%, scad. 01/12/2013, pagata 2.62 Euro (beershop, Inghilterra).

venerdì 29 novembre 2013

Widmer Brothers Alchemy Ale

Terzo appuntamento con la Craft Brewer Alliance; dopo Kona e RedHook, è la volta della Widmer Brothers Brewing di Portland, Oregon. Viene fondata nel 1984 dai fratelli (Widmer) Kurt e Robert, cinque anni dopo l'anno in cui l'homebrewing viene dichiarato legale in Oregon. Le prime birre prodotte sono d'ispirazione tedesca, una Alt ed una Hefeweizen filtrata, alla quale se ne affianca un paio di anni dopo una versione più classica, torbida, che viene prodotta su richiesta del Dublin Pub di Portland:  la non filtrazione non fu una decisione presa a tavolino, ma piuttosto dovuta alla necessità di risparmiare tempo e spazio, visto che nei primi anni il birrificio disponeva di impianti di dimensioni molto modeste. Ad ogni modo ancora oggi i fratelli Widmer rivendicano di essere stati il primo birrificio a produrre una American-Style Hefeweizen. Nel 1988 il birrificio è tra gli organizzatori dell'Oregon Brewer Festival, una manifestazione che si tiene ancora ogni anno a fine Luglio. Le prime bottiglie ci mettono un po' ad arrivare (1996) e, come abbiamo già raccontato qualche giorno fa, nel 2008 arriva la fusione con la Redhook a formare la Craft Brewer Alliance, della quale attualmente la Anheuser-Busch InBev detiene il 32% delle azioni. Un birrificio che ha dunque iniziato nel segno dei genitori dei fratelli Widmer, tedeschi, ed ha poi ampliato la gamma che oggi abbraccia praticamente tutti gli stili, incluse alcune collaborazioni importanti (con Cigar City) ed una serie chiamate "Reserve" che include invecchiamenti in botte e birre occasionali.
Questa Alchemy Ale è invece una "tranquilla" American Pale Ale che vede l'utilizzo di malti Pale, Caramel, Monaco e Vienna Extra Special; i luppoli provengono dalla costa Nord-Occidentale Americana e variano di volta in volta a seconda della disponibilità. Di colore ambrato scarico o ramato, ha una schiuma un po' grossolana, biancastra, dalla discreta persistenza. Le altre caratteristiche sono perfettamente in linea con l'altra birra della Craft Brewer Alliance bevuta qualche giorno fa, la Redhook Long Hammer. Luppoli stanchi e poco freschi al naso, che offre marmellata d'arancio, caramello, scorza d'arancio e qualche sentore vegetale. Buona invece la morbidezza in bocca; corpo medio, poche bollicine, un mouthfeel rotondo e soddisfacente. Il gusto è intenso ma - purtroppo - poco fresco: biscotto, caramello, marmellata d'arancia anziché pompelmo fresco ed un crescendo amaro vegetale con qualche nota di resina e di pepe. C'è intensità, se ne percepisce la solidità ma la mancanza di freschezza rende la bevuta troppo pesante  con un accumulo di amaro vegetale che non è più bilanciato dalla controparte di frutta fresca. La sensazione è quasi di una birra che si dibatte tra frutta candita dolce ed amaro vegetale, con una nota nel retrogusto di mandorla amara.
Formato: 35.3 cl., alc. 5.8%, lotto 30/07/2013, scad. 30/09/2014, pagata 2.39 Euro (supermercato, Italia).

giovedì 28 novembre 2013

Toccalmatto Tabula Rasa

Tra le novità 2013 di Toccalmatto, il birrificio di Bruno Carilli, c'è anche una nuova Saison; limitiamoci alla produzioni disponibili (quasi) regolarmente in bottiglia, senza considerare le one-shot; si tratta della quarta Saison del birrificio, dopo la "storica" Sibilla, la Tainted Love assieme ad Extraomnes, e l'esotica Oceania. Il nome scelto, Tabula Rasa, non è esattamente originale, visto che esiste già un'altra Saison chiamata nello stesso modo e prodotta dagli americani di Tired Hands. Non è noto sapere cosa ci sia dietro la scelta del nome; i più giovani penseranno forse ad un videogioco mentre quelli in zona "anta e dintorni", come il sottoscritto, penseranno agli omonimi dischi di C.S.I. o Einstürzende Neubauten. Pochissime informazioni anche in etichetta e soprattutto nessun indizio sui luppoli usati (solo "il luppolo americano in dry shopping") che lascia un po' a bocca amara (!) gli amanti delle abbondanti luppolature tipiche del birrificio di Fidenza.Con le poche informazioni disponibili anche in Internet, non ci resta che bere. 
Molto chiara nel bicchiere, tra l'arancio chiaro ed il giallo paglierino, con una grossa testa di schiuma un po' grossolana, bianca, pannosa ma non molto persistente. 
Pulito ed elegante l'aroma, leggermente acidulo e con una gradevole note rustica, quasi "polverosa"; qualche sentore di banana acerba ma soprattutto tanti agrumi, lime e limone, ed un leggero floreale. Con pochissimo corpo, è una Saison agrumatissima che sprigiona subito grandi quantità di limone, mapo e lime (o agrumi gialle, per semplificare) con qualche nota di polpa d'arancia per addolcire un po' la bevuta; una lieve acidità la rende molto rinfrescante e dissetante, grazie anche ad una grande attenuazione che pulisce il palato ad ogni sorso. L'amaro è ovviamente "zesty" (limone e lime) ed è indiscusso protagonista del pulitissimo retrogusto. Vivacemente carbonata e dalla consistenza watery, si trova perfettamente a suo agio nello scorrere dal bicchiere alla gola con pericolosa velocità. Birra facile ma assolutamente non ruffiana e scontata nel suo essere ricca di agrumi come va molto di moda adesso; il tocco rustico che ogni Saison o Farmhouse Ale dovrebbe sempre avere è ben presente e molto gradevole. Novembre non è probabilmente il suo mese ideale, anche se l'ho trovata molto piacevole in abbinamento ad una pizza al prosciutto crudo di Parma. La sua stagione per eccellenza è l'estate, dove questa Tabula Rasa può sicuramente fare strage di assetati e di accaldati; mantenuti anche gli standard molto elevati di pulizia ed intensità ai quali Toccalmatto ci ha ormai abituato.
Formato: 75 cl., alc. 5.3%, lotto 13047, scad. 13/08/2014, pagara 8.00 Euro (birrificio).

martedì 26 novembre 2013

Bristol Beer Factory Mocha

E’ sempre con grande piacere che m’appresto a stappare una bottiglia della Bristol Beer Factory, uno dei miei birrifici inglesi preferiti. La Bristol Beer Factory negli ultimi mesi ha inoltre triplicato la propria capacità produttiva e quindi l'augurio è che presto le loro birre arrivino anche ufficialmente in Italia grazie a qualche importatore; per il momento, potete acquistarle solamente in Inghilterra. Da qualche anno, il birrificio è solito preparare una serie di Stout, dodici per la precisione, che vengono vendute in un unico cartone presso lo spaccio del birrificio o spedite direttamente a domicilio dei clienti del Regno Unito. L'evento si è ripetuto nel 2011 e nel 2012 mentre quest'anno, probabilmente a causa dei lavori di ampliamento, le dodici stout non sono state prodotte. Il pacco natalizio includeva birre più classiche come una Milk ed una Chocolate Stout, ed interpretazioni più fantasiose come una Chili Stout, una Orange Stout, una Cream Brulée  Stout ed un paio di Stout passate in botte.  Nell'edizione dello scorso anno sono state introdotte alcune novità come questa Mocha Stout; session beer (4.5%)  che viene prodotta in collaborazione con la torrefazione Extract Coffee Roasters di Bristol e che vede l'utilizzo  di una speciale miscela di caffè proveniente dalla Tanzania, chiamata Hope Project Peaberry Espresso.
Marrone scurissimo, molto bello, non altrettanto all'altezza è la schiuma, un po' grossolana e di dimensioni modeste, color beige e poco persistente. Il nome della birra (Mocha) è già una buona indicazioni di quello che ci si aspetta di trovare nel bicchiere, ma l'aroma va ben oltre le attese: praticamente un caffè! In un ipotetico assaggio alla cieca, verrebbe da dire di avere sotto il naso un filtro dei caffè della caffetteria di casa; a fatica si riesce a trovare qualche sentore di Brownie (quindi leggero cioccolato) e di tostature. Naso molto pronunciato, anche se assolutamente monotematico. Se amate il caffè (quello lungo, all'americana), vi troverete a meraviglia anche con il gusto; se amate la birra, forse avrete invece qualche perplessità. Anche al palato è praticamente un caffè, con qualche leggera tostatura e, proprio nel finale, una leggera nota di cioccolato. Non si può parlare di equilibrio ma di certo è una birra molto intensa, considerata la bassa gradazione alcolica. Lasciano un po' perplessi invece la leggerezza del corpo e la marcata acquosità che, unite al dominio del caffè, rischiano davvero di far somigliare la birra ad una tazza di americano. Probabilmente una maggiore cremosità l'avrebbe resa un pelino meno scorrevole in bocca ma un più morbida e consistente. A discapito del monopolio-caffè va la data di scadenza già passata, per una birra che non è certo stata ideata per l'invecchiamento; forse bevuta fresca avrebbe regalato qualche ulteriore sfumatura. Mocha che rispetta in pieno gli standard ai quali la Bristol Beer Factory ci ha abituato (pulizia, intensità) ma che risulta molto arrischiata   e poco bilanciata: probabilmente si finisce per amarla od odiarla.
Formato: 50 cl., alc. 4.5%, scad. 26/10/2013, pagata 3,81 Euro (beershop, Inghilterra).

lunedì 25 novembre 2013

Barley Duenna

Fondato a Maracalagonis (Cagliari) nel 2006 dal birraio Nicola Perra e dal socio Isidoro Mascia, il birrificio sardo Barley è senza dubbio tra i produttori brassicoli più interessanti del nostro paese; relativamente poche (se confrontata con la media di molti altri) le birre prodotte in sette anni di vita, una decina circa.  Ecco dunque che una nuova birra viene accolta con un entusiasmo molto maggiore rispetto a quelle di altri produttori che magari sfornano una decina di novità all’anno; si tratta di una “American Saison”, che esce a Giugno 2013 e viene chiamata Duenna, una parola che in dialetto cagliaritano significa “fantasma”, come poi l’etichetta suggerisce. Per tutti i birrofili l’accostamento delle parole “Saison” e “Fantasma” non può non far pensare al birrificio belga Fantome guidato dall’estroso Dany Prignon; il rimando è solamente nel nome, perché non ci sono molte affinità tra le pulitissime ed eleganti birre disegnate da Nicola Perra e le imprevedibili (a volte sublimi, altre imbevibili) creazioni di Prignon. Saison che vede l’utilizzo di un malto neutro per permettere ai luppoli utilizzati di emergere al massimo del loro splendore: due luppoli europei, due americani ed un tocco del neozelandese Nelson Sauvin.
Aspetto perfettamente da Saison, con un colore arancio (leggermente chiaro e velato), ed un generoso cappello, molto compatto, di schiuma bianca e molto persistente, pannosa. L'aroma non è particolarmente forte ma pulitissimo e molto elegante: agrumi (mandarino ed arancio), leggeri sentori di frutta tropicale (soprattutto mango), pepe e qualche sentore erbaceo. Molto gradevole in bocca, corpo medio, morbida e non molto carbonata; si continua per la strada dell'aroma, senza grosse deviazioni e con una bevuta che procede all'insegna dell'equilibrio, della pulizia e della finezza. Se la giocano frutta esotica ed agrumi, ben sorretti dalla base maltata, con un finale amaro corto ma intenso: note erbacee, una leggera pepatura, ed un ritorno di frutta gialla. Ben lontana da estremismi e fuochi artificiali, la Duenna è una birra molto facile da bere che tuttavia invita il bevitore a sorseggiare, piuttosto che a trangugiare, per farsi apprezzare in tutte le sfaccettature; molto ben costruita, rivela un'attenzione quasi maniacale ai dettagli che la rende molto dissetante d'estate ma anche una ottima birra da pasto per tutto l'anno. Se proprio dobbiamo trovarle un difetto, è quello che accomuna un po' tutte le produzioni Barley: la loro reperibilità non è così facile come molti altri birrifici, ed il prezzo - pur supportato da un'ottima qualità - è nella fascia alta.
Formato: 75 cl., alc. 6.5%, lotto 35-13, scad. 08/2014, pagata 10.30 Euro (beershop, Italia).

domenica 24 novembre 2013

Redhook Long Hammer IPA

Il post di oggi è in qualche modo collegato a quello di qualche giorno fa, sulla Kona Longboard Island Lager; un premio credo però che la Long Hammer IPA della Redhook Brewery l'abbia già vinto. Molto probabilmente è la prima IPA Americana ad arrivare sugli scaffali della grande distribuzione italiana. Il birrificio viene fondato a Seattle nel 1981,  nei vecchi locali di un officina, da Paul Shipman e Gordon Bowker; in quel periodo ancora non si parlava di Craft Beer, ed a Seattle ancora qualcuno ricorda la "Banana Beer", appellativo dato ad una delle prime produzioni delle Redhook. Il nome era ovviamente riferito al ceppo di lievito (belga) usato per produrre la birra, che produceva appunto un aroma che ricordava la banana; ma, nel 1981, a Seattle non c'erano molti bevitori abituati a queste "innovazioni". Nel 1996 è tempo di traslocare in locali più capienti, spostandosi dalla periferia di Seattle a Woodinville, sempre nello stato di Washington; nello stesso anno viene aperto anche un birrificio nella costa opposta, quella ad est, a Portsmouth. Il primo luglio del 2008 il birrificio si "fonde" con l'altro maggior produttore di birra della West Coast, ovvero la Widmer Brothers, dando vita alla Craft Brew Alliance che viene quotata in borsa e che diventa il nono maggior produttore di birra negli Stati Uniti. I grandi numeri fanno ovviamente gola ai grandi, ed ecco che il colosso Anheuser-Busch InBev acquista il 32% delle azioni della società e ne diviene partner per quel che riguarda la distribuzione. Ampissimo il portafoglio della Redhook, che spazia da stili americani a belgi, tedeschi ed inglesi. 
Senza troppo aspettative per il lungo viaggio che l'ha portata sino in Italia e poi sugli scaffali della grande distribuzione, andiamo ad aprire questa Long Hammer IPA, brassata per la prima volta nel 1984 con malti Pale, Caramel e Munich, mentre i luppoli sono Alchemy, Cascade e Willamette.  Nel bicchiere è tra l'arancio e il dorato, leggermente velata; la schiuma, fine, cremosa e mediamente persistente è bianca. Il naso è tutt'altro che fresco, ma mantiene ancora una buona intensità: ci sono gli attesi agrumi, il pompelmo, ma sotto forma di marmellata; sembra quasi frutta candita anziché fresca ed appena tagliata. Qualche sentore di caramello, per un aroma-manifesto di luppoli "stanchi" e poco freschi. Lo stesso scenario si ripropone anche in bocca, dove un discreta intensità sfocia nel caramello e nella marmellata, con una parte amara vegetale/erbacea e leggermente resinosa che - priva della componente fruttata - diventa abbastanza pesante, rallentando la bevuta. Il finale, amaro, si muove sempre tra il vegetale ed il resinoso saturando in fretta il palato. Bottiglia che sembra quasi un manuale descrittivo di una "IPA poco fresca"e maltrattata, e perfetta dimostrazione del perchè le IPA vanno bevute fresche (giovani) e conservate in frigorifero, se possibile: frutta fresca che diviene marmellata, scorza di pompelmo e resina pungente che diventano una sorta di tisana vegetale amara. Birra che risulta sbilanciata sull'amaro, priva di quella componente fruttata, fresca e vivace, che gioca un ruolo fondamentale nel bilanciare la parte amara. Imbottigliata neppure troppo tempo fa (Giugno 2013) ha probabilmente viaggiato al caldo ed in condizioni non ottimali. Nell'impossibilità di immaginare come era all'origine, rimaniamo con una bottiglia tutto sommato bevibile, vittima della distribuzione e tuttavia una migliore alternativa alla maggior parte dei blandi prodotti industriali che trovate sugli scaffali della grande distribuzione.
Formato: 35.3 cl., alc. 6.2%, IBU 44, lotto 20/06/2013 10.43, scad. 30/09/2014, pagata 2.39 Euro (supermercato, Italia).

sabato 23 novembre 2013

St. Bernardus Abt 12 vs. Westvleteren 12 vs. Rochefort 10


Come promesso, eccoci a tirare le somme della degustazione del trittico di Quadrupel dei giorni scorsi; indiscutibilmente le migliori rappresentanti di categoria, e se proprio vogliamo dare uno sguardo ai siti di beer-rating: sia Beer Advocate che Ratebeer le mettono nella stessa posizione:  Westvleteren 12, Rochefort 10 e  St. Bernardus Abt 12. Un gradino più in alto, diamo un'occhiata (sempre con leggerezza) alle migliori birre del mondo secondo i Raters: Ratebeer indica attualmente ancora la Westvleteren 12 come miglior birra al mondo, mentre bisogna scendere alla posizione 7 per trovare la Rochefort 10; finisce fuori dalla Top 50 la St. Bernardus Abt 12. Molto più centrato sulle produzioni americane è invece Beer Advocate, dove la Westvleteren finisce al settimo posto, Rochefort 10 al diciottesimo e la St. Bernardus Abt 12 al trentaduesimo.  
Ma passiamo alle cose serie; il confronto diventa particolarmente interessante per St. Bernardus e Westvleteren, visto che le queste ultime sono state prodotte dal 1946 al 1992 proprio da coloro che oggi fanno la St. Bernardus. Chiaramente il confronto è limitato a queste tre bottiglie, con tutte le limitazioni e specificità del caso; la Rochefort - ricordo - ha un anno in meno (2010) rispetto alle altre due. St. Bernardus e Rochefort (acquistate nel 2010) hanno passato gli ultimi tre anni al buio in cantina, nelle stesse condizioni, mentre la Westvleteren è arrivata a Luglio 2011. Ovviamente hanno avuto una "vita" diversa negli anni precedenti all'acquisto che può aver influito in modo diverso sulla loro maturazione.
Aspetto: si assomigliano molto, con la Westvleteren leggermente più chiara e caratterizzata da grossi fiocchi di lievito che formano un "fondo" di quasi due centimetri nella bottiglia; più piccoli quelli in sospensione nella bottiglia di St. Bernardus. Più pulita e quasi priva di particelle la Rochefort: vince senza dubbio la valutazione "estetica", con un colore più scuro ma molto più brillante e meno torbido delle altre due, ulteriormente abbellito da splendidi riflessi rosso rubino. Per tutte e tre la schiuma, quella delle foto pubblicitarie, è ormai un lontano ricordo; ce n'è poca e quel poco che si forma svanisce abbastanza rapidamente.
Aroma: le differenze sono abbastanza notevoli ed interessanti. Per intensità vincerebbe senz'altro la Westvleteren, con la Rochefort all'ultimo posto; per quel che riguarda la finezza, l'eleganza, direi che il confronto finisce con un ex-aequo, mentre sulla composizione dell'aroma e sulla sua complessità ci sono parecchie differenze. Molto sfaccettato quello della St. Bernardus (uvetta, prugna, amaretto, frutta secca, sentori di banana matura, zucchero a velo, fruit cake e cioccolato), più semplice e spiccatamente dolce quello della Westvleteren, leggermente vinoso; la Rochefort inizialmente non sorprende (banana e pera, un classico del lievito del monastero) ma poi apre a dei bellissimi sentori di Porto e di legno umido. Se la giocano St. Bernardus e Rochefort, ma è difficile scegliere.
Mouthfeel: sono tutte e tre delle birre quasi "masticabili" (o chewy, per dirla in inglese); gli anni di cantina hanno stemperato le spigolature di gioventù e, soprattutto, abbattuto il numero delle bollicine che personalmente trovo un po' fastidiose nelle bottiglie giovani. Molto simili Westvleteren e Rochefort, ancora rotondissime, potenti, piene ed appaganti; cede un po' la St. Bernardus, con un corpo leggermente più scarico delle altre e, soprattutto, con una bevuta che risulta leggermente meno rotonda e compatta.
Gusto: eccoci alla parte più interessante. Partiamo dall'intensità, dove di nuovo troviamo la St. Bernardus dietro le altre due; intensissima la Westvleteren, così come la Rochefort, con l'alcool che in quest'ultima è molto più presente, anche se è una presenza morbida ed assolutamente non disturbante. Prugna (disidratata, per la Rochefort) ed uvetta sono le caratteristiche che accomunano tutte e tre le Quadrupel, e da qui ognuna prende poi una direzione differente: liquirizia per la St. Bernardus, erbe officinali e china per la Westvleteren, Porto/Madeira e cioccolato per la Rochefort. Un altro tratto in comune è la "vinosità", se mi passate il termine: parliamo di vini come Porto, Madeira, Marsala, Passito. C'è solo un leggero accenno di vino liquoroso nella St. Bernardus, mentre la Westvleteren, molto dolce, richiama forse più un Passito che un Porto; non lascia invece dubbi la Rochefort, con che una presenza etilica molto più ingombrante fa subito pensare a vini dolci più sostenuti come Porto e Madeira. Sono tre birre dal contenuto alcolico importante ma che si bevono con buona facilità, con qualche limite in più per la Rochefort; obbligatorio comunque il lento sorseggiare per godere appieno della loro intensità ed apprezzarne tutte le diverse sfumature. Potentissimo e quasi infinito il retrogusto della Rochefort, etilico ma morbido; sugli stesse frequenze, forse leggermente inferiore come intensità ma sempre straordinariamente appagante anche quello della Westvleteren; leggermente inferiore la St. Bernardus, ma stiamo sempre a livelli altissimi.


Il verdetto: ovviamente personale, ed ovviamente limitato alle tre bottiglie esaminate. Se le tornassi a bere tra una settimana, l'opinione potrebbe essere magari  differente. (Con)vince, senza molti dubbi, la Rochefort 10. Forse avvantaggiata da un anno in meno d'età (tre anziché quattro), si mostra quasi all'apice della sua parabola di "maturazione", in un punto di equilibrio quasi perfetto tra vigore e maturità. Ad alcuni potrebbe forse sembrare eccessivo il "warming" alcolico, personalmente l'ho trovato molto funzionale nello stemperare la dolcezza della birra, asciugando un po' il palato. Dettaglio che ho invece sentito mancare nella Westvleteren, in una bottiglia che ha forse già superato il suo apice ma che sta comunque continuando - quasi in linea retta - uno splendido invecchiamento, molto dolce ma ancora intensissimo. Invecchiamento meno riuscito quello della St. Bernardus, che ha perduto un po' di vigore e sembra aver intrapreso una parabola discendente. 
Coda: la questione prezzo gioca ovviamente enormemente a sfavore della Westvleteren, vittima delle speculazioni procurate dall'idea de "la migliore birra del mondo"; a meno che non riusciate ad acquistarla durante una visita in Belgio, risulta molto, troppo costoso farsi una piccola scorta di Westvleteren 12 in cantina da stappare negli anni a venire. Ma se anche vi trovaste in Belgio (evitando i locali/beershop che speculano anche là), avreste comunque il problema della reperibilità; dovreste comunque sempre faticare per prenotare l'acquisto, recarvi con l'automobile al monastero, e per fortuna che il Belgio è una nazione abbastanza piccola! La difficile reperibilità aveva un tempo creato quell'alone di mistero, di "misticismo" attorno a questa birra che forse ne ha anche poi condizionato le valutazioni. Oggi la reperibilità (per la bevuta occasionale) non è più un problema, ma solo una questione di prezzo; sono molto meno accessibili tante grandi birre americane (e non solo a noi europei, anche a molti americani). Rochefort 10 e St. Bernardus Abt 12 si trovano invece molto facilmente, anche in diversi supermercati, ed offrono uno straordinario rapporto qualità prezzo, costando meno della maggior parte delle birre artigianali italiane. Il consiglio è dunque quello di acquistarle, metterle in cantina ed aprirne una di tanto in tanto per apprezzarne le interessanti evoluzioni che queste birre hanno nel corso degli anni.

venerdì 22 novembre 2013

Rochefort Trappistes 10 (2010)

Eccoci arrivati al capolinea di questo trittico, e  chiudiamo in bellezza con la Rochefort Trappistes 10. E' prodotta dall'abbazia trappista di Notre-Dame de Saint-Remy della quale vi abbiamo già parlato in questa occasione; la Rochefort 10 nasce nel 1953, dopo che l'abbazia ed il suo birrificio si erano rimessi in piedi - con l'aiuto dei fratelli trappisti di Chimay - dai danni subiti durante la seconda guerra mondiale. Per l'occasione vengono appunto sviluppate due nuove birre che affiancano la "8": sono la "6" e la "10", che inizialmente viene chiamata La Merveilleuse (la magnifica). Condivide la stessa ricetta di base delle sue sorelle (due tipi di malto Pilsner ed uno di Vienna, racconta Michael Jackson), due tipi di zucchero candito, chiaro e scuro, due tipi di luppolo: Styrian Goldings e Hallertau. Qualcuno ipotizza che vi sia anche un po' di coriandolo, ma il segreto di queste birre risiede ovviamente nei ceppi di lieviti usati (due secondo Michael Jackson, tre secondo Joris Pattyn). Il nome fa riferimento ovviamente all'OG della birra (gravità all'origine, 1100) ma è anche vero che la birra diviene "pronta" da bere dopo dieci settimane di maturazione.
Bottiglia 2010, dallo splendido color marrone con riflessi quasi rosso rubino; la schiuma non è chiaramente quella delle bottiglie giovani (e delle foto pubblicitarie): piccola, colore beige chiaro, fine e cremosa ma poco persistente. L'aroma non è molto pronunciato, ma è abbastanza complesso ed interessante: sentori di banana matura, pera, toffee, leggera ciliegia sciroppata ed una discreta presenza etilica che ricorda il Porto; man mano che la birra si scalda emergono anche delle interessanti note di legno umido. Impressionante l'ingresso in bocca: birra massiccia, piena, rotondissima, ancora discretamente carbonata e "masticabile" come le due "colleghe" assaggiate nei giorni scorsi. In bocca rasenta la perfezione: non viene più chiamata "la magnifica" come quando nacque, sessant'anni fa, ma l'appellativo è ancora oggi assolutamente appropriato. Prugna disidratata, uvetta, leggere note vinose ossidate di Porto/Madeira, per un gusto potentissimo e sorretto da una ben avvertibile presenza alcolica, molto più in evidenza rispetto alla St. Bernardus Abt 12 ed alla Westvleteren 12, che tuttavia non è assolutamente fastidiosa ma straordinariamente appagante e riscaldante. Gusto dolce ma stemperato proprio dall'alcool, con un finale di liquirizia che precede quello che è un lunghissimo retrogusto, intensissimo, ricco di morbido calore etilico, frutta e - ciliegina sulla torta - una accenno di cioccolato. Bottiglia in grande, grandissimo spolvero, che si è liberata dell'eccessiva frizzantezza e dalle spigolature tipiche degli esemplari giovani ed ha intrapreso uno splendido percorso di ammorbidimento, in una parabola ascendente che probabilmente non ha ancora raggiunto il suo apice, e che può forse regalare soddisfazioni ancora maggiori. Birra dall'importante gradazione alcolica che obbliga al lento sorseggiare, alla contemplazione e, perché no, al termine tanto abusato dai birrai italiani (italiani): la meditazione. E' la birra definitiva da cantina: costa poco, si trova anche in molti supermercati e non va bevuta giovane. Prendetene più che potete, guardate la data di scadenza, dimenticatela in cantina al buio e iniziate a stapparla non prima che manchino tre anni (meglio due) alla scadenza. Le altre, lasciatele al buio/fresco e dimenticatevele per altri anni. E poi, godete.
Formato: 33 cl., alc. 11,3%, lotto 10:20, scad. 04/08/2015, pagata 2.99 Euro (supermercato, Italia).



giovedì 21 novembre 2013

Westvleteren 12 (2009)

Pur non volendo, anche questa volta ci tocca parlare di birra partendo dai siti di beer-rating; sì, perchè la "colpa" è proprio di Ratebeer se attorno al monastero di St. Sixtus ed alle Westvleteren si è formato una specie di mito, peraltro abbastanza immotivato. A St. Sixtus - il più piccolo dei birrifici trappisti - si produce birra dal 1839, mentre a Westvleteren si sono succeduti almeno tre monasteri dall'806 d.C. al 1831, anno di fondazione di St. Sixtus; è nel 1931 che la birra inizia ad essere commercializzata al pubblico, mentre sino ad allora veniva servita solamente agli ospiti ad ai visitatori del monastero. Nel 1946 la produzione viene affidata al vicino birrificio Deconinck (ora St. Bernardus) per consentire a monaci di concentrarsi maggiormente sulla preghiera. E' solamente nel 1992 che la produzione torna dentro le mura del monastero, condizione sine qua non per potersi definire "birra trappista". Le (birre) Westvleteren sono sempre state di alta qualità, alla pari delle altri sorelle trappiste, ma probabilmente non erano molto conosciute anche perché la loro reperibilità era comunque abbastanza difficoltosa. Potevano essere acquistate solamente al monastero, con un limite di dieci casse (da 24 bottiglie) per persona.
Ratebeer viene fondato nel 2000 da Bill Buchanan, inizialmente come un semplice forum sul quale gli appassionati di birra si potevano confrontare e scambiare opinioni; nel 2005 Ratebeer pubblica la solita annuale classifica di gradimento, nella quale la Westvleteren 12 viene nominata "la miglior birra al mondo", ovviamente secondo i votanti del sito. La notizia in sè non sarebbe nulla di che, ma viene ripresa e ribattuta da alcuni quotidiani europei, soprattutto belgi, iniziando a destare curiosità ed interesse in numerose persone. Lentamente, la tranquilla campagna che circonda il monastero di St. Sixtus, solitamente invasa da ciclisti che si andavano poi a dissetare con le Westvleteren al pub/bar In De Vrede, inizia ad essere sempre più invasa di automobili che si mettono in (chilometriche) code per acquistare la birra. La "razione di casse" che ogni individuo può acquistare viene diminuita da dieci a cinque e poi, nel corso degli anni, a tre ed a due. I monaci rimangono però assolutamente indifferenti a tutto questo "hype";  producono sempre lo stesso quantitativo di birra (4750 hl, ovvero 60.000 casse l'anno) e non hanno nessuna intenzione di aumentarlo solo per soddisfare la domanda dei clienti. Perchè loro sono monaci, non birrai, e la birra per loro ha la unica funzione (oltre che per essere bevuta, una al giorno) di recuperare  fondi per il sostentamento della vita monasteriale. Anzi, a dire il  vero qualcosa i monaci lo fanno: non è più consentito presentarsi ai cancelli dell'abbazia e mettersi semplicemente in coda per ritirare la birra. Bisogna telefonare, prenotarsi, dare il proprio numero di targa della macchina e andare a ritirare la birra in un giorno ed in un orario prestabilito; poi, per sessanta giorni, non potrete più telefonare. E, soprattutto, la birra è per consumo personale, non va assolutamente rivenduta. E mentre i birrofili lamentano di come sia impossibile prendere la linea, ipotizzando strane congiure (sembrerebbe che telefonando da un numero belga si abbia maggior possibilità di avere risposta), pian piano i più furbi iniziano a mettere le Westvleteren (soprattutto la 12) su Ebay o a rivenderle a prezzi sempre più allucinanti (anche 100 dollari). Al monastero una cassa di 24 Westvleteren 12 vi costa attualmente 40 Euro, più 9.60 Euro di cauzione per la cassa e 0.10 Euro di cauzione per il vetro di ogni bottiglia: totale, tutto incluso, 2,16 Euro cadauna.
A ottobre 2011 l'annuncio shock: per finanziare degli urgenti lavori di ristrutturazione al monastero, i monaci decidono finalmente di distribuire la birra oltre le mura del monastero. Si tratta della Westvleteren 12, che viene inizialmente offerta in Belgio tramite la catena di supermercati Colruyt, con un temporaneo sforzo produttivo dei monaci che consente loro di produrre la birra in più necessaria per l'operazione. Si tratta di 93.000 cofanetti contenenti 6 bottiglie (con la scritta "XII" serigrafata) più due bicchieri, venduti a 25 Euro, che consentono ai monaci di racimolare più o meno due milioni di Euro. La vendita inizia alle 8 di mattina del 3 Novembre 2011, ed alle 3 del pomeriggio dello stesso giorno ne sono stati già venduti ben 66.000, secondo quanto dissero alla Colruyt. Il giorno stesso i cofanetti iniziano ad apparire su Ebay a prezzi che vanno dai 100 ai 250 Euro. L'operazione viene replicata qualche mese dopo, ad inizio 2012, ma questa volta i cofanetti prendono la strada degli Stati Uniti, del Canada e di diversi paesi europei; c'è anche l'Italia, con una distribuzione a macchia di leopardo e dove ovviamente il prezzo (intorno ai 70 Euro) è ben lontano dai 25 Euro del Belgio. Nel frattempo le Westvleteren (e non solo quelle del cofanetto..) appaiono ormai in quasi tutti i beershop italiani, anche in quelli aperti da pochi giorni; ed anche molti pub/bar che non vantano certo  una selezione di bottiglie frutto di un attento lavoro di ricerca del publican ma piuttosto una selezione da listino Horeca, offrono ai clienti la rarità Westvleteren a prezzi che superano i 20 Euro la bottiglia. Nel frattempo i birrofili di lunga data, che fino a poco tempo fa erano anche gli unici ad averla bevuta, iniziano a confrontare la Westvleteren 12 con la Westvleteren XII del confanetto, malignando che forse si tratta due birre diverse, che la XII non è qualitativamente all'altezza della 12, e che forse lo "sforzo produttivo" che ha consentito i produrre tutta quella birra in più destinata ai cofanetti della XII è avvenuto altrove e non dentro le mura di St. Sixtus. Fantasia? Realtà?
Se ancora non vi siete addormentati nella lettura, è il momento di bere. Bottiglia anno 2009, con un impressionante fondo di fiocchi di lievito. Il colore è l'atteso "tonaca di frate" (o marrone con riflessi ambrati); molto modesta la schiuma, che svanisce quasi subito lasciando comunque il pizzo nel bicchiere. Aroma ancora forte e molto dolce, anche relativamente semplice: ciliegia e prugna sciroppata, banana matura, caramello. Al palato: corpo pieno, poco carbonata, consistenza "masticabile". Il primo sorso impressiona per l'intensità, per la potenza, e per il dolce: ondata di uvetta e prugna, con una nota amara finale di erbe officinali e di china. Sorprendente, ma anche un po' deludente. E' una birra che necessita di restare nel bicchiere diversi minuti  per aprirsi e rivelarsi finalmente in tutte le sue sfaccettature. Emergono note di banana matura, di biscotto e di caramello, ma sopratutto note ossidate che la portano nel territorio di vini come Porto, Sherry o Madeira, Passito. La bevuta diventa molto interessante, con una straordinaria intensità e, soprattutto, con l'alcool (10.2%) nascosto in modo incredibile. Il dolce è stemperato - come detto -  da una chiusura di china e di erbe officinali, una lieve pausa prima del sontuoso retrogusto, etilico, morbido ed appagante, fruttato e lunghissimo. Meglio in bocca che al naso, birra che mostra i segni dell'età ma che mostra anche di aver intrapreso una strada d'invecchiamento ben precisa. Molto dolce, rimane comunque ancora potente e rotonda (al contrario della St. Bernardus Abt 12 bevuta ieri); se forse ha già superato il suo punto "ideale" di bevuta, sembra avere ancora molto da dire avventurandosi sempre di più nel territorio dell'ossidazione e dell'invecchiamento.
Formato: 33 cl., alc. 10.2%, anno 2009, scad. 23/03/2014.


(Doverosa) Postilla:
Personalmente sono abbastanza contrariato dall'isteria che si è venuta a creare attorno a questa birra. Ammiro la passione, l'amore e l'entusiasmo per la birra, che immagino sia alla base di siti internet come ad esempio questo. Capisco perfettamente che un birrofilo possa decidere, di tanto in tanto, di spendere una cifra esagerata per bere una birra di cui ha tanto sentito parlare e che non è mai riuscito a trovare. Quello che trovo invece assurdo è la ricerca di questa birra al grido de "la migliore birra del mondo", perché è un concetto che non ha senso e che viene utilizzato da numerosi commercianti (spesso neppure appassionati) per venderla al neofita o al curioso di turno a dei prezzi assolutamente folli. Senza dimenticare che la sua vendita (esclusione fatta per il cofanetto, integro) non sarebbe permessa. I monaci la vendono a chi si prenota presso il monastero, ma non vi permettono di rivenderla. Il "messaggio" è rivolto soprattutto a chi si è da poco avvicinato alla birra, a chi sta muovendo da poco tempo i propri passi nell'universo della birra "di qualità". Spendete i vostri soldi come vi pare, ma quando tirate fuori dal portafoglio 15 o 25 Euro per una bottiglia di Westvleteren, sappiate che alla fonte questa birra costa poco più di 2 Euro, e che con la stessa cifra o quasi (4 Euro, diciamo) potete acquistare, in Italia, altre birre (anche trappiste) che sono allo stesso livello, se non oltre, della Westvleteren. Se proprio decidete di farvi rapinare, fatelo almeno dopo aver affrontato un certo percorso, dopo aver assaggiato tutte le altre trappiste e molte altre birre di "categoria" (Quadrupel o Belgian Dark Strong Ale). Fatelo dopo aver "allenato" il vostro palato, per poter almeno goder appieno di questa birra e poterla confrontare con altre. Amen.

mercoledì 20 novembre 2013

St. Bernardus Abt 12 (2009)

Iniziamo oggi un trittico di bevute (o una “orizzontale” in differita, se volete) di Quadrupel belghe con qualche anno di cantina alle spalle; vediamo come sono invecchiate e quale delle tre ha meglio sopportato lo scorrere del tempo. Westvleteren 12, Rochefort 10 e  St. Bernardus Abt 12, rigorosamente in ordine di classifica secondo quanto dichiarano i siti di beer rating; descriveremo inizialmente le singole birre, per poi dedicare un post riassuntivo dedicato al confronto.
Iniziamo il percorso con la St. Bernardus Abt 12,  una birra che ha uno stretto legame con la Westvleteren 12.  E’ una storia che vi abbiamo già raccontato almeno un paio di volte, ma per riassumere: nel 1946 l’abbazia trappista di St. Sixtus/Westvleteren decise di contrattare all’esterno la produzione di birra, affinchè i monaci si potessero meglio dedicare alla preghiera. Vince “l’appalto” Evarist Deconinck, che possedeva un caseificio ad una decina di chilometri dall’abbazia.  Il monaco-birraio di quel tempo, Mathieu Szafranski, aiutò Deconinck a mettere in piedi il birrificio, ed a fare la birra con ovviamente il ceppo di lievito di St. Sixtus. La produzione nell’abbazia continuò, in tono minore, solo per soddisfare il consumo interno e per rifornire tre “pub” nei dintorni, uno dei quali, In De Vrede, è tutt’oggi l’unico locale pubblico in cui potreste “ufficialmente” bere le Westvleteren, anche se la realtà è ben diversa. Il contratto viene rinnovato una volta ma nel 1992, dopo 46 anni, la produzione di birra torna all’interno dell’abbazia. Deconinck continua comunque a produrre birra, cambiando nome (St. Bernardus) ma, secondo quanto viene riportato sul sito del birrificio, la birra che viene prodotta oggi sarebbe esattamente la stessa (= stessa ricetta) che veniva prodotta un tempo per St. Sixtus.  Sarebbe invece stata St. Sixtus/Westvleteren a cambiare, iniziando ad utilizzare negli anni 90 un nuovo ceppo di lievito proveniente dai fratelli trappisti di Westmalle. Le etichette delle St. Bernardus sono un chiaro esempio di questa continuità:  il sorridente frate che un tempo veniva raffigurato sulle etichette delle St. Sixtus/Westvleteren  è oggi ugualmente rappresentato – sebbene in abiti civili/medievali – sulle etichette delle St. Bernardus. 
Passiamo alla sostanza: bottiglia del 2009, che si presenta con un color marrone/ambrato (o tonaca di frate, se preferite) torbido. Piccole particelle di lievito in sospensione, schiuma ocra, di scarse dimensioni e di scarsa persistenza.  L’aroma è ancora forte, davvero molto interessante e complesso:  uvetta, prugna, amaretto, frutta secca, sentori di banana matura, zucchero a velo, tortino di frutta (fruit cake) e qualche accenno di cioccolato. Ottime premesse, che vengono però un po’ deluse in bocca dove la birra sembra avvertire un po’ i segni del tempo e risulta un po’ slegata. Corpo pieno (o forse “medio-pieno”) carbonazione ancora media ed una bella consistenza, quasi “masticabile”. Morbido e caldo, il gusto è molto gradevole ma meno variegato/interessante ed intenso dell’aroma, con una predominanza quasi assoluta di frutta dolce (uvetta, prugna, datteri) e qualche leggera nota di ossidazione che alla lontana può ricordare qualche vino liquoroso. E’ una bottiglia spiccatamente dolce che avvolge completamente il palato concedendo tregua solo a fine corsa, con una relativa secchezza (che non riesce comunque a ripulire il palato completamente) ed una lievissima nota amaricante di liquirizia. Incredibilmente nascosto l’alcool (10% !), la cui presenza, calda e morbida, è discreta e presente durante tutta la bevuta accentuandosi solamente nel sontuoso retrogusto etilico di frutta sotto spirito. Facile da bere, la St. Bernardus Abt 12 è comunque una birra obbligatoriamente da sorseggiare lentamente per la sua viscosità e per goderne dell’intensità; ancora ottima al naso, un pochino spenta e stanca in bocca dove sembra aver già intrapreso la sua parabola discendente. Siamo comunque sempre a livelli molto, molto alti. Appuntamento a domani per la sua "mamma", ovvero la Westvleteren 12.
Formato: 33 cl., alc. 10%, imbott. 2009, scad. 08/10/2014, pagata 2.00 Euro (negozio, Francia).

martedì 19 novembre 2013

La Féodale de la Roche Brune

La Roche-en-Ardenne è un grazioso paese del Lussemburgo belga,  nonchè una delle mete turistiche più gettonate della regione vallona. Attraversata dal fiume Ourthe e circondata da una grande area boschiva, è d'interesse anche per i birrofili per la presenza di alcuni discreti locali dove bere ed alcuni negozi dove acquistare birra, formaggi e il tipico prosciutto affumicato. A soli 20 chilometri si trova l'eclettico birrificio Fantôme, e se cercate un posto dove acquistare le birre di Dany Prignon, La Roche-en-Ardenne potrebbe essere la destinazione giusta, anche se non certa. Il negozio più fornito di birre è La Cave du Venitien, situato sulla strada principale che attraversa tutto il paese; nel 2004 i proprietari del negozio decidono di farsi produrre dalla Brasserie Saint-Monon alcune birre chiamate La Feodale de la Roche; s'inizia con una Ambrée, che però viene presto rinominata Blonde - ci dicono - per facilitarne la diffusione visto che la maggior parte dei clienti non nota la differenza di colore tra "ambrato scarico" e "dorato carico". Due anni dopo segue una Brune. Il nome scelto è ovviamente un omaggio al castello - in buono stato di conservazione - che guarda dall'alto di una collina tutto il paese.
Andiamo dunque a stappare questa bottiglia di La Féodale de la Roche Brune, acquistata proprio nel negozio che la fa produrre; è di color marrone chiaro (o tonaca di frate, come si dice di solito) con un cappello di schiuma fine e cremosa, color beige chiaro, poco persistente. Naso dominato da esteri con netti sentori di mela verde; più in secondo piano frutta secca, uvetta, prugne, spezie ed una leggera nota di amaretto. L'aroma è forte anche se non brilla particolarmente per la finezza. In bocca pare subito un po' slegata; nonostante il discreto livello di alcool (7.5%), è una birra spiccatamente watery e con un corpo solo medio-leggero. Il gusto vede il ritorno di prugna ed uvetta, una leggera nota di cioccolato, ma nel complesso c'è poca pulizia e molta confusione, in un insieme gradevole (bevibile) che però risulta difficile da comprendere nei singoli elementi. La bevuta è dolce, con una chiusura molto secca, sul filo dell'astringente, ed una leggerissima nota amaricante terrosa proprio a fine corsa. Retrogusto abbastanza corto e privo di sorprese, in birra un po' troppo leggera e debole di corpo che risulta poco pulita e slegata, non appagante.
Formato: 33 cl., alc. 7.5%, scad. 07/2016, pagata 1.50 Euro (beershop, Belgio).

lunedì 18 novembre 2013

Geco Rosco

Sono passati un po’ di anni dall’ultima “Geco” stappata; era gennaio 2010  ed il birrificio di Cornaredo (Mi) era (quasi) fresco di apertura (2009).  In questi anni sono cambiate le etichette, si sono affinate le ricette, aggiunte nuove birre e, soprattutto per il birrificio, sono anche arrivate le prime medaglie all’ultima edizione di Birra dell’Anno per le due “scure”: bronzo per la Pecora Nera (categoria 11 - Scure, alta e bassa fermentazione, basso grado alcolico di ispirazione angloamericana) ed oro per la Barabba (categoria 12  - Scure, alta e bassa fermentazione, alto grado alcolico di ispirazione angloamericana). Oggi abbiamo invece tra le mani una delle ultime (se non l’ultima) produzioni; si tratta della Rosco, presentata se non erriamo per la prima volta in versione ancora “sperimentale” al Birrart di Casteggio  nell’ottobre 2012.  Il birrificio la descriveva come una Cream Ale (molto luppolata, aggiungiamo noi); attualmente Ratebeer la classifica come American Pale Ale. Viene prodotta utilizzando luppoli di tre continenti: Europa, America ed Oceania. Leggero gushing all'apertura, con la schiuma che esce copiosa e va a ricolmare il bicchiere; occorre una discreta attesa per vederla parzialmente dissipare e poter così rabboccare la pinta. 
E' di colore oro pallido, opaco, mentre la protagonista assoluta rimane la schiuma, bianchissima ma un po' grossolana, pannosa. Aroma agre di mapo, lime, scorza di mandarino e soprattutto limone, con qualche nota di uva (verde) che è forse portata in dote dai luppoli Oceanici; sparita la schiuma, emergono le note maltate di crosta di pane e cereali. Aroma pulito e di buona intensità. Come l'apertura lasciava presagire, la birra ha una carbonazione molto intensa che disturba un po' la percezione dei sapori; il corpo leggero e la consistenza watery le permettono una grande facilità di bevuta, che è un po' rallentata solamente dalle bollicine in eccesso. Pochissimo corpo, come detto, ed un gusto da subito carico di agrumi; leggera polpa d'arancio (dolce) ma soprattutto scorza in un mix che include pompelmo, lime e limone. C'è ovviamente grande secchezza ed il palato risulta ben pulito e dissetato ad ogni sorso, con un finale che non riserva grosse sorprese, ovvero "zesty" a più non posso. Altra birra dal DNA estivo che svolge perfettamente il suo compito, ovvero quello di dissetare e rinfrescare. Molto godibile, toglietele un po' di bollicine e può giocare anche lei la sua partita nel campionato italiano delle birre "da sole" molto agrumate, profumate ed un po' ruffiane.
Formato: 33 cl., alc. 5.3%, lotto 1213, scad. 04/2014, pagata 3.40 Euro (enoteca, Italia).

domenica 17 novembre 2013

St-Feuillien / Green Flash Black Saison

Il primo incontro tra il birrificio belga St-Feuillien e quello californiano Green Flash avviene nel 2009, quando Dominique Friart, proprietario di St-Feuillien, è in vacanza negli Stati Uniti e va a visitare il birrificio di Mike e Lisa Hinkley. Green Flash si trova a San Diego, ma  ha nel proprio portfolio un buon numero di birre che s'ispirano alla tradizione belga. L'incontro è proficuo e l'anno successivo Mike ed il birraio di Green Flash, Chuck Silva, salgono su di un aereo e si recano in Belgio per dar vita ad una birra a due mani,  la Bière De L'Amitié (Birra dell’amicizia), mai più replicata. L’anno scorso il birraio Alexi Briol di St-Feuillien ha ricambiato la visita, ma invece che riprodurre la stessa ricetta in territorio statunitense, i due birrifici hanno optato per una nuova birra, una Black Saison brassata con luppoli americani ed europei (Cascade e Styrian Golding), un mix “segreto” di spezie e un ceppo di lievito (tipo Bastogne Belgian Ale Yeast) di proprietà di Green Flash, lo stesso utilizzato per produrre la Rayon Vert.  Questo per la versione Americana, perché la stessa Black Saison è stata in seguito riprodotta anche in Belgio, presso gli impianti della St-Feuillien, con un etichetta diversa e con (forse) un diverso ceppo di lievito?  Negli USA la birra arriva sugli scaffali a Settembre 2012, con una gradazione alcolica in percentuale del 5.7%. Molte meno notizie si hanno sulla versione europea, che il sito internet della St-Feuillien neppure elenca, rispettando in pieno la tradizione che vede i produttori belgi molto poco interessati alla comunicazione via internet, poche eccezioni a parte.
Leggermente più alcolica della sorella americana (6.5%), con "vitamina C" nella lista degli ingredienti, è davvero quasi nera all'aspetto con una testa di schiuma beige, cremosa, molto generosa e molto persistente. Il naso ha un'apertura speziata (soprattutto pepe), seguono sentori di mela verde, note più lievi di agrumi e di tostatura, liquirizia e, quando la birra si scalda, un accenno di cioccolato al latte. Bottiglia non molto fresca, ma aroma che si difende ancora bene. Molto leggero il corpo (se pensiamo all'ABV di 6.5%), carbonazione decisa, una consistenza watery che le consente di scorrere molto velocemente dal bicchiere; l'imbocco è fruttato (arancio e mela) con l'anima "black" che inizia ad affacciarsi in un secondo tempo. Prima leggera tostatura, poi una bella progressione finale che passa per note di caffè, liquirizia e cioccolato amaro. Manca la componente rustica tipica di una saison della Vallonia (eccetto una leggera terrosità del retrogusto) ma è una birra elegante e dalla buona intensità. Un ibrido diviso in due, con una prima parte solare e fruttata e, come descritto prima, una bel crescendo che sfocia in un finale "scuro" ed amaro. Le bollicine forse sono un po' in eccesso, il corpo è forse un po' in difetto. 
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 32, lotto 447612:46, scad. 07/01/2014, pagata 3.50 Euro (beershop, Italia).

sabato 16 novembre 2013

Menaresta GiB

Purtroppo non sono molte le birre del birrificio brianzolo Menaresta che capitano su queste pagine, non per volontà ma principalmente per un problema di reperibilità; il birrificio ha sede in Brianza ma la bottiglia di GiB della quale parliamo oggi l'ho acquistata a Roma! E' tra le produzioni "speciali" di Menaresta, ed ha debuttato per la prima volta nel Giugno del 2013; si tratta si una ricetta elaborata da Marco Valeriani, un ex-validissimo homebrewer e da Aprile 2012 birraio a Menaresta. Sono già sette, con questa, le birre che portano la sua firma. Lo stile di riferimento, se di stile si può parlare, è quello delle Double/Imperial Kölsch; un'invenzione degli americani, che hanno il vizio di fare interpretazioni  "pompate", "double" o "imperial" di praticamente qualsiasi cosa.  Se non erriamo, dovrebbe essere il primo esempio nel nostro paese; l'origine dello stile è invece ovviamente in Germania, precisamente nella città di Colonia. L'idea iniziale era di produrre una India Pale Ale con luppoli esclusivamente tedeschi, ma in seguito il progetto è cambiato scegliendo un tipo di lievito da Kölsch. Tettnang Perle, Tettnang Tettnanger e Hallertau Mittelfrüh sono i luppoli tedeschi utilizzati; ovviamente un po' più elevata (double) dei parametri di riferimento stilistici la gradazione alcolica (6.2%). Il perché del nome è invece spiegato dal birrificio stesso: "Gib è l’abbreviazione di Gibilè, il soprannome di Marco Valeriani. Gibilè in brianzolo sta per giubileo, pandemonio; quindi “casino”. Casinista e stupidotto!"
Non mi è mai capitato di assaggiare le interpretazioni americane e quindi non ho termini di confronto su quello che mi arriverà nel bicchiere. Il colore è un giallo molto chiaro, quasi paglierino, assolutamente opalescente; la schiuma, bianchissima, è molto generosa e molto persistente, pannosa. Al naso c'è davvero un bel mix intrigante; s'inizia con sentori floreali ma la parte del leone la fanno gli agrumi: molta scorza (limone ed arancio) con qualche intermezzo dolce che a tratti sembra richiamare quasi la frutta tropicale. Nonostante l'intento (double), in bocca la parte maltata mi sembra soccombere all'abbondante luppolatura ed il gusto vira subito sul fruttato, seguendo un po' la moda di questi ultimi tempi, in un mix dolce-amaro di agrumi (polpa e scorza) ben riuscito e di notevole intensità, anche se non esattamente un esempio di eleganza. Chiude "secca ma non troppo", con un amaro ricco di scorza d'agrumi (lime e limone) e note erbacee. Nata a Giugno e quindi con DNA estivo, è effettivamente una birra perfetta per l'estate da bere a grandi sorsi, profumata e ruffiana, con l'alcool subdolamente ben nascosto.  Come detto, il risultato sembra un po' seguire la moda delle birre ultra agrumate e, sebbene la dichiarazione d'intenti (double Kölsch) ci faceva curiosi di provare qualcosa di un po' diverso, osserviamo ugualmente soddisfatti il bicchiere vuoto.  
Fornato: 33 cl., alc. 6.2%, IBU 60, lotto 05/2013, scad. 06/2013, pagata 5.50 Euro (beershop, Italia).

giovedì 14 novembre 2013

Lost Coast 8 Ball Stout

Non è tra i birrifici californiani più famosi la Lost Coast Brewery, con sede ad Eureka, circa 450 chilometri a nord di San Francisco e non lontana dal confine di stato con l'Oregon. Quel tratto di costa della California del Nord prende appunto il nome di "Lost Coast" (Costa Perduta), a causa di un massiccio calo della popolazione avvenuto negli anni '30. La sua conformazione geologica (montagne che si gettano direttamente nel mare) ha infatti impedito la costruzione di qualsiasi tipo di strada a scorrimento rapido ed ha quindi reso la zona abbastanza isolata rispetto al resto della California. Persino la famosa California Pacific Highway, che doveva in origine costeggiare tutta la California da San Diego all'Oregon, è stata alla fine fatta transitare verso l'interno. Ma l'altra particolarità del birrificio Lost Coast è l'essere guidato da due donne: Barbara Groom e Wandy Pound l'hanno fondato nel 1990, dopo aver acquistato e ristrutturato un vecchio edificio in legno (il Pythian Castle) risalente al 1892; la loro ispirazione viene dall'Inghilterra ed ai suoi pub, che hanno visitato con grande attenzione primi di iniziare la loro avventura californiana. Nel 2005 si è reso necessario un trasloco in spazi più ampi, poco lontano, per installare impianti più capienti che hanno permesso nel 2009 di abbattere il numero dei 50.000 barili per anno. Dal 2011 al 2013 il birraio è stato Matt Walsh  (ex Karl Strauss ed ex Speakeasy), che però ha da qualche mese fatto le valigie per ritornare a San Diego alla Modern Times Brewery, inaugurata a Settembre 2013. Una decina le birre prodotte tutto l'anno, che arrivano ad una trentina (quelle elencate su Ratebeer) se aggiungiamo one-shot, birre stagionali, birre disponibili solo al brewpub e le immancabili versioni barricate. 
8 Ball è una stout dalla gradazione alcolica (5.8%) tutto sommato modesta, se pensiamo agli ABV che solitamente i birrifici americani arrivano ad ottenere. E' di un bel color ebano scuro, quasi nero, con una testa di schiuma nocciola non molto grosso ma cremosa, a trama fine e dalla buona persistenza. Al naso orzo tostato, caffè, frutti di bosco e leggeri sentori di cioccolato al latte; un aroma semplice ma caratterizzato da buona intensità e pulizia. Nessuna deviazione di percorso in bocca, con tostature, caffè e cioccolato al latte a dividersi la scena con pulizia ed equilibrio, anche se con un'intensità leggermente inferiore rispetto all'aroma. Il corpo è medio, con una consistenza molto cremosa (o "setosa", se preferite) e morbida che la rende assolutamente piacevole al palato; poche le bollicine. Chiude secca con una bella nota acidula a ripulire il palato preparandolo ad un bel retrogusto amaro ricco di tostature, caffè e prugna disidratata. Stout molto ben fatta, si beve con grande facilità e, soprattutto, con grande piacere, nonostante una bottiglia in scadenza.
Formato: 35.5 cl., alc. 5.8%, lotto 11/16/12-2 del 07/2012, scad. 15/11/2013, pagata 4,50 Euro (beershop, Italia).

martedì 12 novembre 2013

Stradaregina Summer Ale

Del birrificio pavese Stradaregina vi abbiamo ampiamente parlato in questa occasione, il mese scorso; l'estate è ormai un ricordo ma in frigo è rimasta una bottiglia di Summer Ale, evidentemente una produzione dedicata all'estate  e luppolata, come indica l'etichetta, con una (nuova) varietà di luppolo Neozelandese chiamata Wai-iti. Non si tratta di una single-hop, crediamo. E non è  neppure il caso di aspettare l'estate 2014 per stapparla, visto che si tratta di una American Pale Ale (o meglio Pacific Pale Ale, visto la provenienza del luppolo) a modesta gradazione alcolica, che sicuramente non trarrebbe nessun giovamento dal riposo in cantina.
Di colore oro carico, velato, con riflessi ramati; la schiuma è biancastra, molto generosa e cremosa, ed ha una buona persistenza. Al naso qualche sentore floreale ma soprattutto agrumi (mandarino e pompelmo), perfettamente in linea con le caratteristiche che il luppolo Neozelandese dovrebbe portare in dote. C'è anche una bella nota pepata, in un aroma pulito ed abbastanza elegante. In bocca si presenta con un corpo leggero, una carbonazione modesta (nonostante l'abbondante schiuma) ed un consistenza watery, per meglio soddisfare il bisogno estivo di bere in grande quantità. Leggero caramello, biscotto, ed una parte dominante di agrumi con qualche nota di tropicale: il finale è inizialmente un po' timido, con un amaro "zesty" (scorza di lime/limone) e leggermente erbaceo, ma non molto intenso. Meglio il retrogusto, una "scia" amara pulita ed elegante che si intreccia di scorza agrumi, note vegetale e qualche gradevole ricordo di frutta tropicale. Session beer (4,5%)  profumata e facile da bere che non sacrifica però l'intensità; il gusto è abbastanza pulito, e c'è la necessaria secchezza per dissetare e ri-assetare il palato ad ogni sorso. Birra riuscita e molto godibile. Risultano invece secondo me abbastanza fuori luogo i continui richiami al vino contenuti nella breve descrizione in etichetta: "profumo intensamente vinoso", "sapore (...) seguito da note zuccherose di un vino raffinato". A che pro?
Formato: 75 cl., alc.  4,5%, IBU 52, lotto 213B, scad. 02/2015, pagata 9.00 Euro (gastronomia, Italia).


lunedì 11 novembre 2013

Kona Longboard Island Lager

In una nota catena di supermercati italiani (non facciamo pubblicità, ma ci vuole poco a scoprirlo), sono da poco apparse alcune esotiche birre americane. Evento raro visto che, se la mia memoria non inganna, l'unica birra "brewed in USA" che ho visto sugli scaffali della grande distribuzione (industriali come Blue Moon, Coors e Bud a parte) è la Brooklyn Lager. Bene, ne arrivano improvvisamente tre, tutte diverse, dai seguenti birrifici: Kona Brewing Co. (Hawaii), Red Hook (Washinghton) e Widmer Brothers (Oregon). Sembrerebbe quasi una coincidenza, ma basta una piccola ricerca per vedere che tutti i tre birrifici fanno capo alla Craft Brew Alliance, formatasi nel 2008 proprio dalla fusione tre Red Hook e Widmer. Dal 2012 quotata in borsa, è oggi il nono maggior produttore statunitense (dati del 2012) e posseduta per il 32% dalla Anheuser-Busch InBev (quella di Corona, Becks, Budweiser, Stella Artois, Leffe, Franziskaner, Hoegaarden, Bass, e molti altri).  Dal 1 Ottobre 2012 anche la hawaiana Kona è di proprietà della Craft Brew Alliance che, come vediamo, tanto "craft" non è ed infatti non possiede i requisiti richiesti dalla American Brewers Association per potersi definire tale (innanzitutto il 75% della proprietà dev'essere in mano ad un "craft brewer", ossia un artigiano). La Kona, il maggior birrificio del più esotico stato Americano, era stato fondato nel 1994 da Cameron Healy e Spoon Khalsa a Kailua-Kona. Quattro anni dopo viene aperto un primo pub/ristorante, seguito da un secondo nel 2003 e, nel 2008, da un pub-ristorante all'aeroporto di Honolulu (beato chi l'ha visitato). 220.000 i barili prodotti nel 2012, con ovviamente grande enfasi nella comunicazione all'identità hawaiana, una sorta di paradiso fatto di candide spiagge, acque cristalline e tavole da surf.  L'Aloha ed il Shaka non sono però del tutto sinceri, visto che le Kona vengono anche prodotte negli stabilimenti di Red Hook e Widmer ("così inquiniamo meno", dicono), ben lontano dalle Hawaii.
Flagship beer del birrificio è, senza nessuna sorpresa, una lager chiamata Longboard Island; quando Kona era ancora davvero "craft", si aggiudicò pure una medaglia d'argento al Great American Beer Festival (2010, helles/munich/lager category). Quasi una trentina sono comunque le medaglia ottenute in vari concorsi dal 2002 ad oggi; non è ovviamente il caso di mettersi a discutere su che valore (al di là di quello promozionale) le medaglie in alcuni concorsi anno. 2-Row il malto, Hallertau, Sterling, Millennium e Mount Hood i luppoli. Risulta già difficile apprezzare in pieno le birre americane in Europa, dopo il viaggio oceanico, le cose si complicano ulteriormente se si tratta di una bassa fermentazione ed in mezzo ci si mette un grande importatore europeo (le tre birre arrivate in Italia sono state recensite su Ratebeer da gente di tutta Europa, negli ultimi mesi) e poi la grande distribuzione italiana. Il distributore (italiano) ne indica un lotto di produzione di Giugno 2013, ma è altamente  improbabile che birre imbottigliate a giugno fossero sugli scaffali del supermercato italiano già a fine settembre, dopo essere passate nelle mani di almeno un paio di distributori. Memore di una Brooklyn Lager quasi martoriata, stappo questa Longboard Island senza nessun'aspettativa. L'introduzione alla bevuta è stata un po' lunga oggi perché sulla birra c'è davvero poco da dire.  Dorata e appena velata, forma "un dito" scarso di schiuma, biancastra e poco persistente. L'aroma è praticamente assente, ci vuole quasi un po' di suggestione per trovare dei sentori di miele e (forse) di arancio. Al palato qualche nota di cereali, pane, un accenno di agrumi ed un finale timidissimo, appena erbaceo. La bassa carbonazione, unita alla pochezza di corpo e alla scarsa intensità le dà il colpo di grazia finale. Birra innocua, lascia il palato un po' appiccicoso e molto insoddisfatto. Mancava nella collezione d'etichette, magra consolazione. Non so come sia berla in loco, sulle belle isole statunitensi; i siti di beer-rating non le danno grande credito, ma forse se vi trovaste a berla su una calda spiaggia hawaiana il vostro giudizio potrebbe essere più clemente. 
Formato: 33 cl., alc. 4.6%, IBU 20, lotto 06/2013 (?), scad. 30/09/2014, pagata 2,35 Euro (supermercato, Italia).

domenica 10 novembre 2013

Dieu du Ciel Péché Mortel

Arriva finalmente anche il Canada sulle pagine del blog, una nazione che inevitabilmente è stata contagiata dalla vicina Craft Beer Revolution americana e che, di riflesso, sta sfornando dei prodotti molto interessanti, sebbene in numero molto più modesto rispetto ai colleghi a stelle e strisce. Tra i birrifici più apprezzati c’è senza dubbio la Brasserie Dieu De Ciel!; ci affidiamo inevitabilmente ai siti di rating, dove il birrificio è praticamente “da sempre” in cima alla classifica  canadese e stabilmente nella Top 25 dei migliori birrifici al mondo (tredicesimo posto nel 2013).  Questo micro birrificio viene aperto nel 1998 da Jean-François Gravel, Patricia Lirette e Stéphane Ostiguy, compagni di studi (microbiologia) ma è Jean-François ad apprendere la passione dell’homebrewing dal padrino e dai libri di Papazian. Ad agosto 1998 un ex-ristorante russo all’angolo di Rue Laurier e Rue Clark viene convertito in brewpub: Dieu De Ciel!  sarebbe stata l’esclamazione (equvalente a "Oh My God!") che Jean-François disse dopo aver assaggiato la sua prima birra prodotta in casa.  Patricia lascia la società nel 2006, rimpiazzata (anche nell’azionariato) dal birraio Luc Boivin, esperienza decennale alla Les Brasseurs du Nord. Luc e la moglie Isabelle Charbonneau diventano “titolari” del processo di espansione ormai necessario, visto che la produzione nei modesti locali del  brewpub di Montreal non più essere incrementata e non c’è neppure lo spazio per installare una linea d’imbottigliamento, una necessità ormai improrogabile. Viene così trovato un nuovo edificio (16.000 metri quadri) a St. Jerome, 60 chilometri a nord di Montreal, vicino a casa di Luc ed Isabelle, che viene inaugurato nel 2007 e che permette di arrivare a 3500 hl/anno. Nello stesso anno vengono finalmente distribuite le prime bottiglie, mentre nel 2008, attiguo al nuovo birrificio, viene aperto un (brew)pub, analogo a quello di Montreal. Nel rapido riassunto della storia di questo birrificio canadese non va omessa la figura di  Yannick Brosseau, autore di tutte le bellissime etichette. 
Dieu De Ciel! (il punto esclamativo sarebbe obbligatorio) debutta sul blog “col botto”. Ricorriamo ancora al beer-rating per redigere il biglietto da visita di questa Péché Mortel (il peccato mortale), una Imperial Stout brassata con caffè che dal 2009 ad oggi Ratebeer proclama ogni anno come la miglior birra canadese. Stesso scenario su Beer Advocate: miglior birra canadese e, nella sua categoria, ottava miglior Imperial Stout al mondo. Arriva nell’insolito formato da 341 ml., ed è nera (quasi) come la pece; la schiuma, di colore beige scuro,  è molto fine e cremosa, con buona persistenza.  L’aroma offre sentori di caffè, alcool (bourbon), Christmas cake (tortino natalizio di frutta candita) e cioccolato amaro; più in sottofondo qualche nota di vaniglia ed una leggera affumicatura. Massiccia in bocca, dal corpo pieno, con una carbonazione modesta; la consistenza è sul versante oleoso, con una cremosità appena accennata.  “Dieu De Ciel!” è quello che viene da esclamare al primo sorso; birra intensissima, che prosegue sui binari tracciati dall’aroma in un elogio della semplicità. Pochi elementi in gioco, pulizia esemplare, nessun estremismo ma tanta cura nei dettagli. Caffè e tostature sono la parte amara, intensa e priva di bruciature, parzialmente stemperata dal dolce del tortino di frutta e da note di prugna disidratata. L’alcool c'è (9.5%) e regala un morbidissimo calore etilico che accompagna tutta la bevuta, sottovoce, senza mai imporsi.  Il finale ha un preambolo leggermente acidulo di caffè, prima del lungo ultimo abbraccio, amaro ed etilico, morbido e caldo, estremamente appagante. Compagna ideale di un dopocena di un semestre (autunno-inverno), è tutto sommato facile da bere ma sarebbe un vero peccato (mortale) non sorseggiarla con molta calma, gustandola sorso dopo sorso. Ogni tanto si trova anche in Italia, quindi tenete gli occhi aperti e non fatevela scappare.  
Formato: 34,1 cl., alc. 9.5%, lotto 06/2011, scad. 03/2018, pagata 6,90 Euro (beershop, Italia)