venerdì 28 settembre 2018

Wicked Weed El Paraiso Bourbon Barrel Imperial Stout 2018

Il birrificio Wicked Weed di Asheville, Carolina del Nord, era arrivato sul blog quando le acque erano ancora calme: era l’aprile del 2017, esattamente un mese prima che arrivasse la tempesta. Non per Walt e Luke Dickinson e per la famiglia Guthy, proprietari del birrificio, ma per tutti gli aficionados della craft beer: la vendita alla multinazionale AB-InBev. Wicked Weed andava quindi a far compagnia agli altri ex-birrifici artigianali che compongono il segmento “High End” di Ab-Inbev: Goose Island, Blue Point, 10 Barrel,  Elysian, Golden Road,  Breckenridge, Four Peaks, Devils Backbone e Karbach. Le cifre dell’acquisizione non sono mai state rivelate ma le dichiarazioni post-vendita sono le stesse che abbiamo sempre letto: “siamo la stessa gente di prima, gli stessi birrai, lavoriamo duro e le birre resteranno identiche a prima. Anzi, saranno migliori grazie al nostro nuovo partner strategico”
Duecento impiegati, quattro locations operative nei dintorni di Asheveille: il brewpub/ristornare downtown dove tutto è iniziato, il Funaktorium dedicato alle birre acide, un magazzino per gli invecchiamenti in botte e  il birrificio da 80 HL nella periferia ad ovest. Operazioni che hanno richiesto grossi investimenti da parte della famiglia Guthy, sino ad allora principale finanziatore dei birrari Walt e Luke Dickinson: difficile resistere alle lusinghe e ai danari di una multinazionale. Quello che ha invece impressionato è stata la reazione immediata della comunità della craft beer: 52 dei 74 birrifici annunciati al festival Funkatorium hanno immediatamente declinato l’invito costringendo Wicked Weed dapprima a posticiparne la data da luglio a settembre e poi a cancellarlo definitivamente
Il 2017 si è comunque concluso in maniera gloriosa per il birrificio di Asheville: oltre 60.000 gli ettolitri prodotti con un clamoroso aumento del 470% rispetto al 2015. Nell’autunno del 2016 qualche bottiglia era arrivata anche nel nostro continente; all’inizio dell’estate ne è arrivata una quantità ben più vasta e variegata. 

La birra.
El Paraiso (9.5%) è un’imperial stout prodotta con fave di cacao e caffè colombiano della Mountain Air Roasting di Asheville; si tratta dell’evoluzione della Red Eye (8.6%), altra imperial stout al caffè che Wicked Weed aveva prodotto nel 2013 ed era disponibile solamente alla spina. I primi fusti di El Paraiso (arricchita con bacche di Goji e peperoncini Ancho) iniziano ad apparire nel corso della seconda festa di compleanno del birrificio. La commercializzazione in bottiglia avviene solamente a partire da aprile 2016
Noi andiamo invece ad assaggiare la sua versione barricata in botti ex-bourbon, edizione 2018. Si presenta di un bel color marrone scuro e una schiuma cremosa e compatta che mostra una buona persistenza. Il bourbon non esita a conquistare il palcoscenico: l’aroma è intenso, elegante, pulito, con piacevoli sfumature di vaniglia e legno, prugna e uvetta sotto spirito, cioccolato al latte. All’appello manca solamente il caffè, relegato un po’ troppo in secondo piano. E’ un’imperial stout molto morbida, quasi setosa, senza particolari viscosità e indelebilmente segnata dal passaggio in botte di bourbon anche al palato. Uvetta e prugna sotto spirito, pochissime tostature, qualche accenno di cioccolato e vaniglia nel finale, un po’ di liquirizia: il finale è una lunga scia etilica ricca di bourbon che riscalda e rincuora senza mai andare oltre le righe. Es un medio paraiso, un paradiso a metà quello di Wicked Weed: gran bel naso che non trova corrispondenza al palato dove arriva invece una birra molto meno interessante, poco espressiva, meno pulita e meno elegante. Passaggio in botte e bourbon eleganti ma troppo caratterizzanti al punto di eclissare quasi completamente l’imperial stout: si sorseggia con piacere ma lascia qualche rimpianto per quello che poteva essere ma che non è stato.
Formato 37.5 cl., alcool 11.5%, imbott. 09/02/2018, prezzo indicative 10.00-12.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 27 settembre 2018

YellowBelly: Citra Pale Ale & Hopped In Space IPA


Il birrificio YellowBelly è abbastanza giovane (2015) ma alle sue spalle c’è una storia molto più lunga. Era il 1965 quando Simon Lambert acquistò un pub nel centro di Wexford, capoluogo dell’omonima contea dell’Irlanda sud-orientale: alla sua morte, avvenuta nel 2006, gli sono succeduti i figli Nicky e Simon, oggi gestori del Simon Lambert & Sons Pub & Restaurant.  La crisi economica del 2008  impose dei cambiamenti per cercare di sopravvivere: “dovevamo differenziarci dagli altri 20 pub di Wexford che servivano tutti le stesse sette birre. Iniziammo a proporre birre d’importazione, in Irlanda non c’erano molti birrifici artigianali e così nel 2009 prendemmo la decisione di provare a fare noi la birra” ricorda Nicky.   Dopo un periodo di formazione, nel pub entra in funzione un impiantino da 200 litri che viene affidato al birraio Declan Nixon, che ricorda: "era una specie di kit da hombrewer su grossa scala e dopo un po’ di tempo mi trovai costretto a  fare due cotte al giorno per cinque giorni alla settimana se volevamo soddisfare tutte le richieste”. Nel seminterrato viene allora installato un nuovo impianto da 1000 litri che serve al lancio commerciale del marchio YellowBelly, avvenuto all’inizio del 2016; ma in cantiere c’è già un trasloco, completato l’anno successivo, nel nuovo sito produttivo da 1000 metri quadri sulle colline (Whiterock Hill) che circondano Wexford, dove trova posto un impianto personalizzato proveniente da BrewDog e una Wild Goose Canning Line. Il potenziale è di circa 1000 ettolitri a settimana. 
A YellowBelly non interessa la tradizione irlandese ricca di Red Ale e Stout: la parola d’ordine è innovare, stare al passo coi tempi con focus sulle birre luppolate ed acide, produzioni stagionali e occasionali.  Il progetto è ambizioso: “vogliamo creare un brand internazionale, i nostri concorrenti sono  produttori craft globali come Sierra Nevada, Stone, Founders (sic). Per farci notare non potevamo raccontare che eravamo solamente un pub che produceva birra: dovevamo avere una storia che potesse interessare la gente. Così ci siamo rivolti all’illustratore Paul Reck (oggi Creative Director per YellowBelly) che ha creato per noi i personaggi che vedete su lattine e grafiche”. 
E’ lui l'ideatore delle belle etichette, i fumetti che potete scaricare e leggere dal sito del birrificio e anche del video gioco on line chiamato Hop Rocket.

Le birre.
Come detto YellowBelly ama sperimentale e seguire le tendenze della craft beer, la cui parola d’ordine sembra essere una sola: novità. Ma c'è anche una serie di birre disponibili tutto l'anno, delle quali ne andiamo ad assaggiare due. 
Partiamo dalla Citra Pale Ale (4.8%) nella quale è ovviamente protagonista l’omonimo luppolo americano assieme a malti di provenienza tedesca e belga.  Dorata, leggermente velata, bella schiuma candida, cremosa e compatta. L’aroma ha buona intensità ed espressività (fiori bianchi, ananas, pompelmo, arancia e limone) ma pulizia ed eleganza potrebbero essere migliori.  La bevuta è snella e leggera, scorre come dovrebbe sempre fare una “quasi” session beer: pane, crackers e frutta a pasta gialla sono gli elementi complementari a quegli agrumi che ovviamente dominano questa Citra Pale Ale. Finisce secca con un amaro di media intensità e lunghezza nel quale convivono note zesty ed erbacee. Bel carattere fruttato, buona intensità, bevuta che risulta piacevole e gradevole, poco impegnativa, rinfrescante: sebbene ci sia spazio per migliorare definizione ed eleganza, il livello mi sembra piuttosto buono.

Mi ha convinto meno la IPA chiamata Hopped In Space (5.9%): malti Red X, Vienna, Monaco, Pilsner e Cara Clair, luppolo Mandarina in whirlpool, Simcoe e Summit in un generoso dry-hopping. 
Il suo colore è tra l’arancio e l’ambrato, le note dank, resinose e di pompelmo dell’aroma annunciano un profilo “classico” e non contemporaneo.  In sottofondo qualche nota più dolce che richiama la frutta tropicale; bene intensità e pulizia, migliorabili eleganza e ampiezza del bouquet olfattivo.  Al palato arrivano leggere note biscottate e caramellate subito incalzate da frutta tropicale. E’ una IPA che parte bene con il giusto livello d’intensità ma che si perde un po’ per strada, spegnendosi quando sarebbe il momento d’accendersi: la trilogia amara finale pompelmo/resinoso/vegetale non morde e non spinge come dovrebbe.  La bevuta fa qualche passo indietro rispetto all’aroma: meno intensa, meno pulita e meno definita. Insomma, questa lattina di Hopped in Space non riesce proprio a decollare nello spazio e s’accontenta di  viaggiare a velocità di crociera.  Peccato.
Nel dettaglio:
Citra Pale Ale, formato 44 cl., alc. 4,8%, lotto CBK62, scad. 01/06/2019
Hopped In Space, format 44 cl., alc. 5.9%, lotto CBK59, scad. 01/05/2019

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 26 settembre 2018

Brewski / Angry Chair Ben & Brewski / Cycle Eric


Mancava dal blog da oltre un anno e mezzo, ma rieccolo qui: Brewski, birrificio svedese nato nel 2014 ad Helsingborg, nei locali di un ex-macello, per volere di Marcus Hjalmarsson, Johan Britzén, Alfred Olsson e Robin Skoglund. Dei  quattro il birraio è Marcus, anche lui folgorato dalla craft beer revolution statunitense durante una vacanza nel 2010.   Ritornato in Svezia Marcus inizia a frequentare i festival europei assieme ad alcuni amici; l'incontro con alcuni birrai al Borefts Festival 2013 organizzato da De Molen in Olanda è la molla che fa scattare in lui la voglia di farsi la birra. A casa, su di un impianto da 30 litri, i quattro futuri Brewski iniziano a mettere a punto le proprie ricette; nel ottobre 2013 Marcus liquida la propria attività e porta un impiantino presso la Höganäs Bryggeri dove inizia anche una sorta di praticantato, lavorando in parallelo alle proprie ricette.   
E' in quel periodo che nasce la beerfirm High Nose Brew le cui prime produzioni debuttano prima al compleanno del bar Mikkeller & Friends (marzo 2014) e poi compaiono sia alla Copenhagen Beer Celebration che al Öl & Whiskymässa di Göteborg. I riscontri positivi ottenuti dal pubblico li convincono a fare il grande passo con un investimento da mezzo milione di euro per lanciare il birrificio Brewski, nome credo ispirato dall'omonimo slang canadese che significa "birra".  
Brewski ha costruito il suo successo soprattutto grazie alle birre alla frutta, IPA e APA, nate dal desiderio di Marcus di replicare le birre californiane che tanto amava ma che non riusciva a riprodurre a causa della modesta qualità dei luppoli a sua disposizione. Possiamo considerarlo nel nostro continente uno dei precursori delle “Juicy IPA”: a voi stabilire se sia un merito o una colpa. Dal 2016 anche Brewski organizza il proprio festival chiamato Brewskival che si svolge solitamente l’ultimo weekend di Agosto ad Helsingborg: l’ultima edizione ha visto la partecipazione di oltre 6000 appassionati e quasi 90 birrifici, dei quali solamente uno italiano, CRAK.  
Per introdurre le due birre di oggi dobbiamo però fare un passo indietro all’edizione 2017 alla quale presero parte due gettonatissimi birrifici della Florida, Angry Chair e Cycle Brewing. Entrambi circondati da hype ed entrambi forti su quelle “pastry stout” che spingono la gente a mettersi in coda davanti al birrificio la notte prima della messa in vendita: non necessariamente per berle ma magari rivenderle subito dopo a prezzi inflazionati sul mercato secondario.

Le birre.
Due collaborazioni Svezia-Florida che rappresentano anche due diverse interpretazioni della stessa ricetta: una Imperial Milk Stout prodotta con lattosio e caffè brasiliano fornito dalla torrefazione svedese Koppi. 
Partiamo dalla versione (9.5%) realizzata con il birrificio di Tampa  Angry Chair guidato dal birraio Ben Romano (ex Cigar City); non è la prima volta che i due birrifici lavorano assieme ad una birra. Sugli impianti svedesi era stata prodotta la saison al pepe Head Spin e su quelli americani la Yah Yah (Double IPA con guava). Nel bicchiere è quasi nera mentre la piccola testa di schiuma che si forma è molto rapida a dissolversi. Il caffè non è dominante ma solamente uno degli elementi che  compongono un aroma poco pulito, poco elegante e di modesta intensità: ci sono note terrose, di liquirizia, pelle e cuoio. Le cose migliorano un po’ al palato, a partire da un mouthfeel pieno e denso, quasi masticabile ma un po’ disturbato da qualche bollicina di troppo. La bevuta è tutto sommato equilibrata tra il dolce di toffee e liquirizia, cioccolato al latte e l’amaro del caffè e delle tostature. Il risultato è un amalgamato intenso nel quale tuttavia mancano finezza, definizione, eleganza: gradevole, se vogliamo, ma ben lontano dall’eccellenza. L’alcool riscalda quanto basta senza mai esagerare, nel finale le note resinose e terrose di luppolatura (e un po’ d’anice) vengono ad intensificare l’amaro ripulendo un po’ il palato. 

Spostiamoci ora idealmente a St. Petersburg, cittadina della Florida dove ha sede il Cycle Brewing, uno dei tre marchi lanciati dell’eclettico Doug Dozark e guidato dal birraio Eric Trinosky. Eric è anche il nome della Imperial Milk Stout realizzata sugli impianti di Brewski. 
L’aspetto della birra è pressoché identico, con la schiuma che fatica a formarsi e scompare molto rapidamente.  Il naso evidenzia gli stessi “problemini” della Ben: uno scenario gradevole ma pacchiano nel quale pulizia e definizione sono assenti: caffè, alcool, liquirizia, tostature, un po’ di cioccolato. Nessuna sorpresa al palato, dove anche qui il moutfeel pieno e viscoso è molestato da una carbonazione “sottile” ma troppo in evidenza.  Nel bicchiere c’è molta liquirizia alla quale fanno compagnia caramello e cioccolato al latte, qualche estero fruttato che ricorda la prugna e l’uvetta, una lieve nota salmastra che avrei preferito non trovare.  In questo agglomerato dolce trova spazio l’amaro del caffè che, assieme a qualche tostatura, porta un po’ di equilibrio prima di un retrogusto nel quale ritornano prepotenti caramello, liquirizia, lattosio.  Imperial stout potente ed intensa, riscaldata da un vigoroso alcool warming, ma non basta: è una birra grossolana priva di eleganza e finezza. “Nessun additivo aggiunto” viene dichiarato in grassetto in etichetta, ma l’impressione in alcuni passaggi è di bere qualcosa di artificioso. 
Due birre prive di imprecisioni che si muovono più o meno sulla falsa riga e che sono accumunate dallo stesso aggettivo: deludenti.
Nel dettaglio:
Ben, 33 cl., alc. 9,5%, lotto B1 Romano, scad. 29/11/2019, prezzo indicativo 5.00 Euro (beershop)
Eric, 33 cl., alc. 11%, lotto B1 Trinoskev, scad. 29/05/2023, prezzo indicativo 6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 24 settembre 2018

Porterhouse: Hillstown Hazy Border & Celebration Stout

Anche l’Irlanda sta oggi vivendo la sua craft beer revolution e s’intravede qualche spiraglio di luce in un mercato dominato da troppo tempo dai marchi della Diageo (Guinness, Smithwicks, Harp) e della Heineken (Murphy's).  Alla metà degli anni ’80 i cugini Liam La Hart e Oliver Hughes lanciarono la loro piccola sfida aprendo il microbirrificio Dempsey’s Ale che tuttavia non ebbe grande fortuna; nel 1989 rieccoli tentare la sorte con la ristrutturazione di un dilapidato edificio a Bray, County Wicklow, dove aprirono un “pub” (con sedici camere) focalizzato principalmente su birre d’importazione: nasceva il Porterhouse Inn. 
Era la prima tappa di un successo destinato a crescere in fretta: nel 1996 venne inaugurato in centro a Dublino il primo Porterhouse Temple Bar, nel quale vennero proposte per la prima volta anche le birre autoprodotte. Quattro anni dopo arrivarono la filiale di Covent Garden a Londra ed una seconda Location a Dublino (Parliament Street); per alimentare tutte quelle spine era necessario aumentare la capacità e a questo scopo fu inaugurata la sede produttiva di  Ballycoolin, nei dintorni della capitale. La prematura scomparsa (2016) di Oliver Hughes non ha fermato la crescita di quello che è oggi un franchising da oltre venti milioni di euro di fatturato: ad affiancare Liam La Hart c’è Elliot, figlio di Oliver, mentre il birrificio è da sempre nella mani dell’esperto Peter Mosley.  Oltre alla location originale di Bray, Porterhouse oggi gestisce quattro pub a Dublino, uno a Londra, uno a Manhattan (New York), un paio di club notturni, tre tapas bar. 
Come crescere ancora? Inaugurando (aprile 2018) un nuovo birrificio da sei milioni di sterline: “eravamo privi di flessibilità, quando produci 10.000 ettolitri l’anno e 7.000 sono richiesti dai tuoi bar e pub non hai molto spazio di manovra”, ammette Elliot Hughes. Il nuovo impianto da 100 ettolitri, che si trova nella periferia nord-ovest di Dublino a sei chilometri dal Temple Bar, consentirà di triplicare la produzione arrivando a circa 30.000 ettolitri l’anno: “era assolutamente necessario. Siamo forti a Dublino, ma al di fuori della capitale la nostra visibilità cala in modo drammatico: la gente non ci conosce perché sino ad ora non siamo stati in grado di esportare con regolarità”.

Le birre.
Flessibilità è effettivamente un concetto fondamentale se si vuole essere alla moda e sempre sul pezzo: il mercato richiede continuamente novità, birre stagionali, one shot, collaborazioni.  Ancora meglio se in lattina: è questo il formato scelto da Porterhouse per la loro prima birra collaborativa realizzata assieme al birrificio Hillstown di Randlestown (Antrim). 
Hazy Border è, come il nome suggerisce, una New England IPA realizzata con malto Maris Otter, avena, maltodestrine, frumento maltato, luppoli Aurora, Amarillo, Citra e Simcoe, lievito Lallemand New England. Il  suo colore è arancio chiaro e velato ma abbastanza distante dagli estremi hazy di alcune NEIPA: l’aroma è discretamente intenso ma abbastanza carente in pulizia e definizione. Il risultato è un agglomerato non ben definibile che comunque veicola profumi tropicaleggianti e di agrumi. Le cose non migliorano di molto al palato, dove la componente “juicy/tropicale” è relegata in secondo piano dai malti (biscotto, frutta secca); il mouthfeel è gradevole, morbido e la birra scorre con quella velocità che una IPA da 4.4% dovrebbe avere. Da dimenticare invece il finale, sgraziato e astringente, con un amaro terroso che per fortuna ha breve intensità e durata; il risultato è bevibile ma ben lontano da quello che dovrebbe essere una Neipa o qualcosa di simile. Lattina con un mese di vita alle spalle nella quale tuttavia la luppolatura sembra aver già perso tutto il suo smalto, ammesso che ne avesse mai avuto.

Da un tentativo di seguire le mode passiamo ad un classico: Celebration, imperial stout che ci riporta nella Dublino più classica a colpi di malti Pale, Black, Crystal, orzo tostato, orzo in fiocchi, luppoli Galena, Nugget ed E.K. Goldings. Il contenuto alcolico di questa birra è andato man mano riducendosi nel corso degli anni: dal 10% della prima edizione del 2006 si è arrivati ai 6.5% di quella attuale.   

E’ un bel bicchiere colorato di ebano scuro e sormontato da un cremoso cappello di schiuma compatta e dalla buona persistenza. Il naso è pulito e abbastanza elegante: orzo tostato, fondi di caffè, tabacco e cenere, qualche suggestione di cacao amaro.  Non ci sono densità né particolari concessioni cremose al palato: è una birra che punta alla facilità di scorrimento e riesce nel suo intento senza tuttavia sacrificare l’intensità dei sapori.  Una bevuta nera e amara che prosegue il suo percorso in linea retta, ricca di torrefatto, fondi di caffè, tabacco qualche filo di fumo, cioccolato fondente: un velo di caramello brunito e l’acidità dei malti scuri cercano di stemperare un po’ il carattere di una birra “sporca”  nella quale sembrano rivivere idealmente i fasti del diciottesimo secolo, quando le porter/stout erano le birre più popolari nel Regno Unito. Se pensate che una Imperial Stout debba per forza avere un ABV in doppia cifra per essere degna di tale nome, questa e quella di Samuel Smith esistono apposta per farvi cambiare idea. Altro che Guinness: è la Celebration di Porterhouse che dovrebbe essere eletta a simbolo di Dublino.

Nel dettaglio :
Hazy Border, formato 44 cl., alc. 4.4%, scad. 01/12/2018, prezzo indicativo 5.50 Euro (beershop, Irlanda)
Celebration Stout, formato 33 cl., alc. 6.5%, scad. 01/09/2019, prezzo indicativo 2.30 Euro (beershop, Irlanda)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 20 settembre 2018

DALLA CANTINA: Prairie Okie 2015

Rieccoci a parlare di Prairie Artisan Ales, marchio ora di proprietà della Krebs Brewing  (Oklahoma) birrificio sui cui impianti aveva iniziato a produrre come beerfirm dal 2012; dopo aver inaugurato il proprio brewpub (2015) e quindi aver trasformato la beerfirm in un birrificio, il fondatore di Prairie Chase Healey ha ceduto alle lusinghe di  Zach Prichard, presidente di Krebs, vendendogli a giugno 2016 il marchio. Una scelta “di vita”: Healey non se la sentiva di affrontare gli investimenti necessari per aumentare la capacità produttiva di Prairie  e, soprattutto, non aveva intenzione di “gestire un azienda di grosse dimensioni. Volevo soltanto continuare a fare birra”.  Con parte del ricavato della vendita Healey ha messo in piedi un nuovo microbirrificio a Tulsa chiamato American Solera, concentrandosi sulla  produzione di birre acide e sull'utilizzo di lieviti selvaggi. 
Non vorrei scadere nel cliché de “le birre non sono più quelle di una volta” ma gli ultimi assaggi della nuova proprietà Prairie mi hanno lasciato un po’ meno soddisfatto: parliamo sempre di prodotti di alto livello, ma mi sembra che le “vecchie” Prairie avessero una marcia in più. Per correre ai ripari c’è sempre la cantina dalla quale riesumare qualcosa dal passato. Parliamo della Okie, annata 2015, una Imperial (12%) Brown Ale invecchiata in botti di whiskey che è anche una delle preferite di Chase Healey: “è una birra che invecchia benissimo, stiamo  cercando di creare delle birre che possano migliorare col tempo in modo che valga la pena tenerle in cantina per un paio di anni”
Okie fu commercializzata per la prima volta nel 2013, quando Prairie utilizzava solamente il formato 75 centilitri con tappo a gabbietta: l’anno successivo fu replicata nel più pratico formato da 35.5 cl.  L’etichetta è come al solito opera del fratello di Chase, Colin Healey, che in questo caso ha deciso di farsi un autoritratto.  A quel tempo Prairie aveva finanziato il suo progetto d’invecchiamenti in botti grazie ad una campagna di Kickstarter che aveva raccolto 23.000 dollari a fronte di un obiettivo di 10.000. Nel 2015 è stata realizzata la sua prima variante al caffè e nel 2017 sono arrivate 2500 bottiglie di Okie Paradise (due anni in botte di whiskey, successivo blend con una parte di imperial stout Pirate Paradise e aggiunta finale  di cocco tostato e vaniglia) e 400 bottiglie di Bromance (“solo” due anni d’invecchiamento in botti ex-whiskey).

La birra.
Il suo torbido color ambrato e la scomposta schiuma biancastra non sono un bel biglietto da visita ma basta avvicinare le narici al bordo del bicchiere per sorridere. Prugna e uvetta, fichi, frutti di bosco, ciliegia e caramello  sono avvolti da note di whiskey e di legno: le note ossidative apportano belle suggestioni di vino fortificato (porto) e una lieve presenza di cartone bagnato che viene immediatamente perdonata e dimenticata. A tre anni dalla messa in bottiglia la Okie di Prairie è ancora una signora birra, dal corpo vigoroso (medio-pieno) e dal mouthfeel ancora avvolgente e quasi cremoso:  la bevuta ripropone l’aroma in una splendida progressione di “dark fruits”, caramello e vino fortificato: il calore del whiskey e del legno asciugano il dolce in un finale caldo che rincuora e riscalda senza mai bruciare.  Equilibrio, pulizia ed eleganza non mancano ed è un emozionante piacere sorseggiare con calma questa Okie 2015 e passare in sua compagnia la serata. Una meraviglia, uno di quei casi in cui non rimpiangi di aver tentato la sorte abbandonando la birra in cantina: anzi, vorresti avercene messe altre.
Formato 35.5 cl., alc. 12%, lotto 15215, prezzo indicativo 13,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 18 settembre 2018

Stone (Berlin) / Hanscraft & Co Quince-Essential

Sono passati ormai due anni dallo sbarco di Stone Brewing sul continente europeo, avvenuto nell’estate del 2016 a Berlino, location scelta dal birrificio come quartier generale per le proprie operazioni: per noi europei era l’opportunità di bere le aggressive e muscolose birre californiane fresche e senza doverle far attraversare l’oceano. Tutto bene? No, perché l’avventura europea di Stone non è iniziata col piede giusto e, a due anni di distanza, le birre che escono da Berlino sono ancora delle lontane parenti di quelle che vengono prodotte ed Escondido (o almeno che lo erano: è da qualche anno che non bevo le Stone luppolate americane). 
L’ambizioso progetto europeo di Stone ha già subito qualche accorgimento: enorme (americana!) e bellissima la sede di Berlino, ma terribilmente isolata nel quartiere periferico di Mariendorf che si trova a 12 chilometri dal “centro” (virgolette obbligatorie, per la capitale tedesca).  Nel frattempo, grazie anche al traino di Stone stessa, la craft beer è cresciuta e a Berlino sono spuntati molti altri locali dove bere bene in zone molto meno periferiche: alla Stone sono corsi ai ripari inaugurando la Stone Brewing Tap Room nel più comodo quartiere di Prenzlauer Berg, in prossimità del quale si sono posizionati anche Mikkeller, BrewDog e l’italiano Birra. Anche la distribuzione ha subito inevitabili modifiche: dalle rigorose intenzioni del debutto di utilizzare solo locali selezionati che avrebbero garantito la catena del freddo si è arrivati alla grande distribuzione e oggi le lattine di Stone si trovano (al caldo) sugli scaffali di alcuni supermercati europei.  Lattine: la craft beer non era ancora stata contagiata dalla “lattina-mania”  e in questo senso alla Stone ci avevano azzeccato e avevano anticipato un po’ i tempi. Per restare al passo con la moda è bastato solo qualche accorgimento: ampliare il formato del contenitore (50 cl.) e variarne il contenuto con la maggior frequenza possibile per accontentare chi è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da bere. 
E’ questo il concetto dietro alla nuova serie Uniqcan che ha debuttato lo scorso giugno: edizioni limitate (Uniq) in lattina (can), una novità al mese, nessuna replica futura?  Il progetto altro non è che l’evoluzione della Stone Berlin Pilot Series, collaborazioni, edizioni limitate e esperimenti disponibili solamente alle spine di Berlino o in pochi locali selezionati.  Ad inaugurarla è stata la Stone Tangerine Express IPA, versione europea di quella lanciata negli USA nel 2017 e precedentemente nota come Stone Pilot Series 2018 IPA Tangerine, una IPA prodotta con mandarino ed ananas; a luglio è arrivata la Quince-Essential Hazy Ale, seguita in agosto dalla CoCo-POW! Porter, altresì nota come Pilot Series 2018 Coconut Coffee Porter.

La birra.
La Uniqcan di luglio 2017 è una “Hazy Ale” che abbraccia il protocollo New England ma che vede l’inusuale aggiunta di cotogne; la ricetta viene elaborata da Thomas Tyrell, headbrewer di Stone Berlino e Christian Hans Müller del birrificio francone Hanscraft & Co. Nel bicchiere è di colore arancio pallido, opaco ma non torbido: la schiuma è abbastanza compatta ed ha una buona persistenza. L’aroma è pulito e piuttosto gradevole e sul trenino di frutta tropicale che sfreccia davanti alle narici identifico ananas, papaia e mango, maracuia o forse la mela cotogna; tra gli agrumi, cedro e lime, c’è una netta sensazione di candito. La sensazione palatale è morbida e gradevole (o “cremosa”, secondo le intenzioni del birrificio) senza raggiungere un livello tale da rallentare troppo la bevuta e rispettare quindi la tradizione tedesca. Il gusto è tuttavia meno pulito, meno definito e meno intenso dell’aroma: pane, miele, frutta candita e tropicale delineano una bevuta piuttosto dolce e poco secca che termina con un amaro resinoso e zesty, corto e di bassa intensità. Un delicato tepore etilico fa capolino in conclusione di una birra che risulta molto meno rinfrescante di quello che potrebbe essere e, soprattutto, poco esplosiva, timida, col freno a mano tirato. Più o meno gli stessi appunti fatti su altre Stone europee bevute tempo fa: niente di nuovo da Berlino, insomma.
Formato 50 cl., alc. 6.3%, IBU 35, lotto 18/07/2018, scad. 15/11/2018, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 17 settembre 2018

Fyne Ales Jarl

Fyne Ales viene fondata nel 2001 da Jonny e Tuggy Delap in un edificio inutilizzato della loro fattoria di Achadunan, nell’Argyllshire: siamo a 70 chilometri a nord-ovest di Glasgow, in Scozia. Nel 2009 il fondatore Jonny viene improvvisamente a mancare ed il suo ruolo viene preso dal figlio Jamie: è lui ad inaugurare l’anno successivo il FyneFest, un piccolo festival con musica dal vivo, cibo e birra che diventa un appuntamento annuale capace di radunare qualche migliaio di persone nel cortile del birrificio.   Alla guida dell’impianto c’è oggi l’esperto birraio Malcolm Downie, diplomato all’Università Heriot-Watt di Edinburgo ed esperienza progessionali presso Wells & Youngs, Belhaven e Balmer.
Nel 2014 i Delap hanno completato un importante piano d’espansione da 2 milioni di sterline culminato con la messa in funzione di un nuovo impianto da 65 ettolitri in quella che un tempo era la stalla per le pecore; dai 7500 ettolitri l’anno si è arrivati ai 10.000 del 2017 ottenuti producendo 50 diverse birre, 40 delle quali nuove ricette.  
Il vecchio impianto (16 HL) è ancora in attività e viene oggi utilizzato per lotti sperimentali e, soprattutto, per la produzione della gamma Origins Brewing inaugurata alla fine dello scorso anno. Invecchiamenti in botte, fermentazioni miste e spontanee, lieviti selvaggi, aggiunte di frutta: l’ispirazione – dicono dalla Scozia – è venuta da alcuni viaggi negli Stati Uniti in visita a birrifici come Jester King, Allagash e Hill Farmstead.  Queste le quattro birre del debutto: Pandora (una saison a fermentazione mista con mirtilli), Kilkerran Wee Heavy (scotch ale invecchiata in botti di whisky), Amphora (grape ale fermentata in botti ex-vino con aggiunta di ciliegie) e  Goodnight, Summer (birra acida prodotta con frumento, camomilla e invecchiata  con uvaspina).

La birra.
Jarl è una “hoppy blonde session ale” prodotta per la prima volta in occasione del FyneFest 2010,  festival che il birrificio organizza tutti gli anni. La sua ricetta prevede malto Maris Otter Extra Pale, frumento non maltato e un solo luppolo, il Citra, a quel tempo ancora abbastanza poco diffuso tra i birrifici inglesi.  La birra ottenne un enorme successo, entrò subito in produzione regolare e nel 2012 fu eletta per la prima volta Champion Bottle Beer of Scotland dal SIBA: è attualmente la birra più venduta da Fyne.  Deve il suo nome a degli antichi conti norvegesi (Jarls) che nel dodicesimo secolo possedevano i terreni circostanti al birrificio. 
Una bella testa di schiuma candida e cremosa “protegge” il liquido dorato e leggermente velato. Al naso c’è qualche nota biscottata e di cereali ma sono soprattutto lemongrass e agrumi a conquistarsi un palcoscenico pulito ma non molto intenso. E’ al palato che si rivela pienamente la forza ed il carattere di questa session beer (3.8%) da bere senza sosta. Ancora crackers e qualche accenno di biscotto, agrumi, lemongrass, frutta a pasta gialla: la bevuta è perfettamente equilibrata, il finale è secco e preciso, l’amaro zesty è della giusta intensità per ripulire il palato in attesa di un nuovo sorso. Nonostante il protagonista sia il luppolo americano Citra, nel bicchiere c’è una Golden Ale quasi rispettosa della tradizione UK: nessun estremismo, nessuna voglia di stupire o di strafare. Jarl è una session ale da manuale, pulita, intensa ma facilissima da bere: dovrebbe essere scontato, ma non lo è. Una birra che non stanca mai, capace di accompagnarvi per una sera intera, per un giorno intero.
Formato 50 cl., alc. 3.8%, IBU 40, lotto 1001 1146, scad. 01/07/2019, prezzo indicativo 5.00-6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 13 settembre 2018

DALLA CANTINA: Oude Mûre Tilquin à l'Ancienne 2015

E’ Pierre Tilquin l’uomo dietro al progetto Gueuzerie Tilquin, assemblatore di lambic che ha debuttato nel 2011 con l’aiuto di altri soci imprenditori come ad esempio Grégory Verhelst del birrificio La Rulles.  Pierre ha una formazione in ingegneria biomedica ma ha poi seguito un corso di Brewing Technology a Lovanio, completandolo con esperienze pratiche presso il birrificio Huyghe e, soprattutto, 3 Fonteinen e Cantillon. Gueuzerie Tilquin è anche il primo assemblatore di lambic della Vallonia, avendo sede a Bierghes a poche centinaia di metri da confine, linguistico e territoriale, con le fiandre.  Tilquin acquista mosto da vari produttori (Boon, Lindemans, Girardin e Cantillon) e lo mette a fermentare e a maturare in botti usate di rovere francese provenienti dalle regioni del Rodano e Bordeaux. La “cantina” è aperta alle visite guidate di gruppi di almeno dieci partecipanti, su prenotazione; il sabato mattina, dalle 10.30 alle 13.00 è invece possibile acquistare direttamente bottiglie in loco. 
Nel 2012 Tilquin ha iniziato a produrre lambic alla frutta utilizzando  le susine e, dopo un paio d’anni, more e uva pinot. La gamma si è ulteriormente allargata nel 2016 con la Experimental Fruit Series, i cui pochi fusti hanno debuttato in alcuni festival europei nell’estate del 2017: cassis, lamponi, ciliegie griotte, prugne mirabelle, mirtilli selvatici, rabarbaro e sambuco.

La birra.
Il secondo lambic alla frutta commercializzato da Tilquin è il Oude Mûre à l'Ancienne; come riporta l’utilissimo sito lambic.info,  il 29 agosto 2014  arrivarono a Tilquin dalla Germania 957 chili di more, varietà Loch Ness (Rubus fruticosus), in parte surgelati. I frutti furono messi in una vasca assieme a 1800 litri di lambic proveniente e, dopo la fermentazione, il risultato fu blendato con altro lambic di due e tre anni d’età. Complessivamente furono prodotti 2700 litri di Oude Mûre con un contenuto di frutta finale del 35%:  1800 bottiglie da 75 centilitri e 3600 da 37.5 che furono messe in vendita per la prima volta durante il weekend del Toer de Geuze 2015, a maggio. A luglio 2016 Tilquin ricevette altri 3000 chili di more fresche dalla Germania: per il secondo lotto di Oude Mûre furono utilizzate tre vasche contenenti ciascuna 1800 litri di lambic e 1000 chili di more.
Dalla cantina andiamo a riesumare proprio una bottiglia del primo lotto prodotto a gennaio 2015: il suo colore è ambrato, piuttosto accesso ed illuminato da riflessi dorati e rossastri, mentre la schiuma biancastra è evanescente. Al naso i “profumi” tipici del lambic (sudore, cantina, “polvere”, pelle di salame) convivono con legno, uva bianca e limone, mela verde, more, aceto di mela; c’è una bella complessità e una sorprendente freschezza ad oltre tre anni dalla messa in bottiglia. Anche al palato questa Oude Mûre si rivela “giovane” e vivace, con una carbonazione ancora piuttosto sostenuta.  Il gusto mostra piena corrispondenza con l’aroma, districandosi tra l’asprezza di limone, uvaspina e mela verde, qualche accenno vinoso e lievi spunti acetici che non arrecano nessun disturbo; la mora, assieme ad altri frutti di bosco/bacche aspre, arriva solo a fine corsa di un percorso che termina con una marcata secchezza capace di rinfrescare e dissetare molto efficacemente.  Alcool  (6.4%)? Non pervenuto. Non mancano le note funky e legnose del lambic, fa capolino qualche ricordo di nocciolo di pesca ma quello che soprattutto non manca in questa bottiglia di Oude Mûre sono le emozioni: una bella complessità che rivela piccole sorprese sorso dopo sorso.
Formato 37,5 cl., alc. 6.4%, imbott. 01/2015, scad. 09/01/2025, prezzo indicativo 10.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 12 settembre 2018

Garage Beer Co.: Old Currency Session IPA & Woozy Double IPA


Beer Garage nasce nel 2015 come brewpub  nell’affollato quartiere di Barcellona chiamato Eixample, già rinominato dagli appassionati Beerxample visto che in poche centinaia di metri convivono Biercab, Barcelona Beer Company, Mikkeller Bar, BrewDog Bar e il neonato Naparbier Barcelona, tanto per ricordare i più noti. 
Sono Alberto Zamborlin e l’inglese James Welsh ad aprire il portone del garage: nel 2009 l’italiano sta facendo un master a Dublino e un amico-homebrewer statunitense gli propone le proprie birre come alternativa alla galassia Guinness: una rivelazione che si trasforma in breve tempo in passione e in un garage pieno di pentole. Spostatosi a Barcellona,  Zamborlin continua con l’homebrewing e nel 2013 s’iscrive alla Steve Academy di Steve Huxley (RIP), un inglese che possiamo considerare il padre della birra artigianale catalana. E’ in questa “scuola”  che incontra James Welsh, un predestinato: padre, zio fratello sono (o sono stati) tutti e tre birrai;  i due impiegano due anni per trovare la location giusta, inaugurare il Beer Garage Brewpub e abbandonare le rispettive occupazioni dietro alle scrivanie. Dopo soli undici mesi è già il momento di affrontare il problema della capacità produttiva, ormai saturata dalle richieste che iniziano ad arrivare anche dall’estero: tempo un mese di crowfunding e i due ragazzi hanno già a disposizione i 500.000 euro necessari per aprire un secondo sito produttivo nel quartiere di Sant Andreu, a sette chilometri dal Beer Garage originale che continua comunque a funzionare come “taproom” e come impiantino sperimentale. I 600 ettolitri annui dal vecchio impianto vengono raddoppiati con la possibilità di ulteriore espansione a 3500.  
Al successo hanno indubbiamente contribuito anche le grafiche moderne e la scelta di adottare il formato che va più di moda, la lattina; le quattro birre dell’esordio (Garage IPA, Pale Ale Riba, Zambo (Saison) e Karma (Red Ale) sono state rapidamente affiancate da un centinaio di altre etichette, incluse le immancabili collaborazioni, anche internazionali.  La produzione è attualmente incentrata sul luppolo ma, promettono da Barcellona, presto si sperimenterà anche con i lieviti.

Le birre.
Partiamo dalla Session IPA (5%) chiamata Old Currency: lievito London Ale III, malto Golden Promise, avena maltata, avena in fiocchi, frumento, destrine e luppoli Ella e Simcoe, ovviamente nell’immancabile DDH  - Double Dry Hopping. Il suo colore è simile a quello di un torbido succo di frutta alla pera, la schiuma biancastra è scomposta e poco persistente. Il naso è caratterizzato da quella poca eleganza e poca definizione che spesso contraddistinguono queste New England IPA ma c’è comunque un bouquet fresco, intenso  e gradevole: ananas, mango, mandarino e arancia sono i frutti che riesco ad indentificare. Particolarmente riuscito è invece il mouthfeel: un ottimo compromesso tra la scorrevolezza necessaria in una Session IPA e quel carattere morbido e leggermente “chewy/masticabile” delle NEIPA. Al palato c’è un’ottima intensità che, di nuovo, fa passare in secondo piano le pretese di pulizia e finezza: crackers e pane, un accenno di dolce tropicale e poi la birra scivola verso un immaginario agrumeto nel quale crescono arance, pompelmi, limoni e lime. Chiude secca ed amara di scorza, disseta e rinfresca con carattere e con spirito modaiolo. Birra convincente e soddisfacente al punto che le si perdona anche quel lievissimo “bruciore/raschiare” finale che spesso il DDH porta in dote. Per me è un bel “si”.

Woozy è invece una Double IPA realizzata in collaborazione con il birrificio svedese Stigbergets la cui ricetta prevede malti Finest Lager, Extra Pale, avena maltata e in fiocchi, lievito WLP095 Burlington e un DDH di Loral, Citra e Simcoe. 
All’aspetto è dorata con qualche riflessi arancio. Rispetto alla Old Currency c’è una pulizia aromatica nettamente migliore: ananas, mango, papaia e pompelmo, qualche accenno dank. L’intensità è buona anche se non esplosiva. Personalmente non amo molto le Double IPA “pesanti” ed alcoliche e purtroppo questa Woozy possiede entrambe le caratteristiche: la sensazione tattile al palato è piuttosto onerosa, la bevibilità ne risente e l’alcool (8.5%) non mostra nessun’intenzione di nascondersi. Sul palcoscenico transitano malti (pane e miele, qualche accenno biscottato), il dolce di mango e ananas, un amaro finale resinoso e pungente di buona intensità ma breve durata che fa pensare ad un ibrido da West ed East Coast. A poche settimane dalla messa in lattina non brilla di energia e vigore, il suo carattere fruttato è evidente ma non tanto da poter essere definito “juicy”: dal Double Dry Hopping riceve invece quelle imprecisioni che significano un livello solo discreto di pulizia, definizione ed eleganza. Le manca anche quella secchezza che potrebbe snellirla e aumentare sensibilmente il ritmo di bevuta: il risultato è una birra comunque gradevole e piacevole, ma non bisogna mai dimenticare il rapporto qualità prezzo. Quando per una IPA arriviamo a 16 euro al litro si diventa meno indulgenti e si alza l’asticella delle pretese. 
Nel  dettaglio:
Old Currency, 44 cl., alc. 5.0%, lotto 04/07/2018, scad. 03/01/2019, prezzo indicative 7.00 euro (beershop)
Woozy, 44 cl., alc. 8.5%, lotto. 27/06/2018, scad.  26/12/2018, prezzo indicativo 8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 10 settembre 2018

Peroni Nastro Azzurro vs Peroni Prime Brew

I numeri dicono che Nastro Azzurro è il marchio di birra “italiana” più conosciuto ed esportato al mondo, anche se da quindici anni il gruppo Peroni è passato di proprietà in mani straniere. Come già vi avevo raccontato,  nel 2003 la multinazionale SAB Miller aveva acquistato la maggioranza aziendale per poi cederla, nell’ottobre del 2016, alla giapponese  Ashai. E’ stato uno degli “effetti collaterali” della clamorosa acquisizione di Sab Miller da parte di Anheuser-Busch InBev: l’antitrust è intervenuta ed ha costretto questo nuovo gigante da 104 miliardi di dollari (il doppio di Heineken, terzo in classifica, giusto per darvi un’idea) a cedere alcuni prezzi pregiati.  Peroni, l’olandese Grolsh e l’ex birrificio artigianale inglese Meantime sono stati acquistati da Asahi per 2,5 miliardi di euro.  Degli 5,6 milioni di ettolitri di birra prodotti all’anno (2017) da Peroni, un terzo è Nastro Azzurro e i 1,7 milioni di ettolitri venduti all’estero (2016) rappresentano da soli i tre quarti dell’intero export di birra italiana nel mondo. 
Nastro Azzurro nacque nel 1963 nello stabilimento Peroni di Roma, con l’idea di creare un’alternativa “mediterranea” e più “leggera” rispetto alle concorrenti tedesche che dal dopoguerra dominavano il mercato italiano. Ricorda il birraio Giorgio Zasio, cinquant’anni passati a lavorare in Peroni: “la prima Nastro Azzurro era molto diversa da quella attuale. Era troppo alcolica, e risultava sempre meno gradita dai consumatori. Ci abbiamo impiegato due anni per fare un restyling e cambiarle il volto. Abbiamo abbassato l’amaro, ma anche ridotto il grado alcolico. Ed è venuta fuori una birra più in linea con i tempi. Un gusto molto diverso da quello della Peroni classica”. 
Risollevatasi dalle macerie della seconda guerra mondiale, l’Italia era nel pieno del boom economico e la Peroni decise di lanciare un prodotto che voleva essere al tempo stesso nostalgico ma orientato al futuro: il Nastro Azzurro era il riconoscimento che veniva dato alla nave passeggeri in grado di attraversare l’oceano Atlantico nel minor tempo possibile, senza scali di rifornimento. Il transatlantico italiano Rex lo ottenne nel 1933 percorrendo le 3181 miglia che separano Gibilterra dal faro di Ambrose, nella baia di New York, in 4 giorni, 13 ore e 58 minuti alla velocità media di 28,92 nodi, strappando il primato al transatlantico tedesco Europa per detenerlo sino al 1935 quando passò al francese Normandie. Il Rex, vanto dell’era fascista, fu bombardato l’8 settembre del 1944 quando si trovava nelle vicinanze di Capodistria e bruciò per quattro giorni prima di affondare: il relitto fu smantellato sul posto tra il 1947 ed il 1958, in quanto troppo costoso cercare di recuperarlo dal fondo del mare. 
Attraverso la storia, Nastro Azzurro voleva promuovere qualcosa di nuovo: richiamare il Rex e gli Stati Uniti non era soltanto ricordare i milioni di italiani emigrati via mare in cerca di fortuna ma era anche evocare il paese più moderno e sviluppato al mondo. La prima Nastro Azzurro fu commercializzata in lattina, un formato non molto popolare tra i bevitori italiani di quel tempo.

La birra.
Vanto (?) della Nastro Azzurro (5.1%) è l’utilizzo di Mais Nostrano, “una varietà autoctona recuperata grazie all’esperienza dell’Istituto sperimentale per la Cerealicoltura di Bergamo, sotto il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali”.  All’aspetto è dorata e perfettamente limpida: la schiuma è candida e impeccabilmente compatta, con un’ottima persistenza. Al naso c’è il dolce del mais, una delicatissima speziatura, qualche profumo erbaceo e di cereali: niente di entusiasmante ma nessuno si aspetterebbe un aroma coinvolgente da una lager industriale. Al palato scorre ovviamente bene e con leggerezza, anche per quel che riguarda l’intensità dei sapori, ovviamente abbastanza dimessa: pane, un tocco dolce di miele, mais e un finale corto amaro delicatamente speziato, erbaceo  e poco elegante. Nel complesso mi sembra tuttavia di livello superiore rispetto alla sorella-spremuta-di-mais  Peroni: ammetto di aver assaggiato lager industriali (o da discount) molto peggiori di questa. Bevuta piuttosto fresca, disseta e rinfresca grazie ad una discreta secchezza e il suo poco gusto la rende pressoché  innocua e questa bottiglia è stata anche graziata quei “colpi di luce” che spesso colpiscono la bottiglie della grande distribuzione. Non resta molto altro da dire.


E’ arrivata invece poco prima dell’estate la Nastro Azzurro Prime Brew, se non erro prima lager “non filtrata”  prodotta dalla Peroni. Una mossa che segue con un po’ di ritardo quella delle concorrenti Heineken, ovvero Poretti e  Ichnusa Non Filtrata  ma che è comunque indicativa del fatto che l’industria non sta con le mani in mano di fronte alla piccola rivoluzione della birra artigianale che ha costruito il suo successo anche grazie ai termini “non filtrata (e  non pastorizzata)”. 
Il lancio della Nastro Azzurro Prime Brew è tuttavia abbastanza singolare in quanto avvenuto a colpi di “grado primitivo di fermentazione”, un concetto (supercazzola?) già poco chiaro agli addetti ai lavori  e – soprattutto – del tutto incomprensibile al consumatore medio di birra.   Poco importa, perché il messaggio è stato veicolato senza problemi da siti, riviste e blog replicanti di comunicati stampa: leggo qua e là che “il processo è arrestato al grado primitivo di fermentazione”, che la birra è “nata al grado primitivo di fermentazione, con un gusto davvero unico quindi”, che è “prodotta mantenendo il grado primitivo di fermentazione” e  che  “il giovane Mastro Birraio Alberto Marzaioli ha avuto l’intuizione di interrompere il processo produttivo nel momento in cui la birra raggiunge il suo gusto più intenso”.    
Che cosa s’intende con “grado primitivo di fermentazione”, allora?  La spiegazione potrebbe essere abbastanza semplice e questo concetto sembrerebbe creato ad hoc solo per evitare di chiamare indirettamente in causa una pratica comunemente diffusa: la diluzione del mosto prodotto in “high gravity” per raggiungere il (basso) grado alcolico desiderato.  Dire esplicitamente che la Nastro Azzurro Prime Brew non viene diluita equivale a dire che la Nastro Azzurro “normale”  lo è;  ripeto, non c’è niente di male in tutto questo, ma probabilmente alla Peroni si vuole evitare di veicolare l’immagine “birra diluita” che potrebbe essere percepita in maniera negativa (annacquata?) dalla maggior parte dei bevitori che non s’interessa di processi produttivi. E poi c'è il fascino di tutto quello che è ancestrale, arcaico, primordinale: l'antitesi dell'industria, insomma. Tutto chiaro allora?  Forse no, visto che alle provocazioni degli utenti sui social network i responsabili della comunicazione della Peroni hanno risposto in maniera esilarante (“il grado primitivo corrisponde alla percentuale di zuccheri che contiene il mosto da cui deriva la birra. Solitamente a fine produzione è più basso rispetto a quello di fine fermentazione, per effetto del processo di filtrazione e della successiva correzione del grado alcolico e del livello di amaro”)  o sibillina  (“significa che la percentuale in peso di zuccheri contenuti nel mosto di da cui deriva la birra non diminuisce  - al netto delle inevitabili diluzioni di processo -  durante il processo produttivo, non essendo prevista la fase della filtrazione”) non escludendo che anche il mosto della Prime Brew venga in parte diluito.

La birra.
Prodotta anche lei con il Mais Nostrano, la Prime Brew  (5.8%) non è  filtrata e quindi velata all’aspetto. L’aroma chiama in causa note floreali e di mais, un accenno di mela verde, pane e cereali, una lieve speziatura: inutile cercare eleganza e fragranza, ma nel complesso il bouquet non è affatto sgradevole. Al palato scorre veloce ma a livello tattile risulta un po’ più “pesante” rispetto alla Nastro Azzurro normale. La non filtrazione le dona una “maggior” intensità dei sapori (pane, mais, cereali e miele) ma al tempo stesso enfatizza le caratteristiche di un prodotto industriale: manca finezza, eleganza, fragranza.  Il livello d’amaro finale è inferiore a quello della Nastro Azzurro così come la secchezza:  il risultato è una birra leggermente meno rinfrescante del previsto.  Prime Brew costa all’incirca il 50% in più al litro rispetto alla Nastro Azzurro: ne vale la pena?  Per me no.  In assenza dell’acqua, se devo proprio condannarmi a bere un’anonima lager industriale, preferisco che sia la più anonima e “innocua” possibile. Meno si sente, per quel che riguarda il gusto, meglio si sta.
Nel dettaglio:
Nastro Azzurro, 33 cl., alc. 5,1%, lotto L8 129 1 18 ROMA, scad. 01/02/2019, prezzo indicativo 0.66 Euro (supermercato)
Prime Brew, 33 cl., alc. 5.8%, lotto L8 177 1 05 PADOVA, scad. 01/06/2019, prezzo indicativo 0.99 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

venerdì 7 settembre 2018

Libertine Authentic SLO Wild Ale

Secondo appuntamento con il birrificio californiano Libertine, che vi avevo presentato dettagliatamente in questa occasione. Tyler Clark nel 2012 mette in funzione un piccolo impianto nel seminterrato del Libertine Pub  (a Morro Bay) che gestisce assieme alla moglie Shannon: il suo interesse sono le fermentazioni spontanee e quindi lascia il mosto per tutta la notte in vasche aperte a contatto con i lieviti ed i batteri naturalmente presenti nell’aria di una regione ricca di vigneti, mettendolo poi a maturare in botti di legno che arrivano dai vinicoltori della contea di San Luis Obispo o dal vicino birrificio Firestone Walker. 
Nel 2015 la capacità produttiva viene aumentata a 2000 barili all’anno grazie all’apertura di un secondo brewpub in centro a San Luis Obispo assieme ai soci Eric & Rodessa Newton: al ristorante troverete ad accogliervi ben 76 spine. Per replicare qui le birre fatte a Morro Bay, Clark "contamina" gli ambienti con i lieviti ed i batteri prelevati dal brewpub dove tutto era iniziato. Tutte le birre vengono poi trasportate via camion nella nuova sede di Santa Maria, 50 chilometri più a sud, inaugurata nel 2016: è qui che avvengono gli affinamenti in botte e il successivo imbottigliamento.  In attesa dell’apertura di una nuova “tasting room” a Buellton, cinquanta chilometri ancora più a sud verso Santa Barbara, Libertine ha di recente inaugurato altre due location: quella di Avela Beach, 12 spine affacciate su di una bella baia e il Libertine Coffee Bar downtown a San Luis Obispo, all’angolo tra la Broad e la Pacific Street. 

La birra.
Authenic SLO (San Luis Obispo) Wild Ale:  Tyler Clark si considera più un “blender” che un birraio e  “se dovessi scegliere una birra che meglio rappresenta Libertine e le nostre Wild Ales della costa centrale della California, sarebbe questa”. La birra viene assemblata selezionando le migliori diciotto tra le oltre quattrocento botti che popolano la cantina del birrificio californiano; si tratta solitamente di un blend di birre invecchiate uno, due e tre anni, con un risultato finale che presenta ovviamente delle lieve differenze da lotto a lotto. Nello specifico, andiamo a stappare il batch numero 2 che dovrebbe essere stato commercializzato nel 2016. 
Nel bicchiere è dorata e leggermente velata, mentre la schiuma cremosa è abbastanza compatta e mostra una discreta persistenza. Al naso c’è un bel mix di funky e frutta: pepe, fiori, paglia, legno, cuoio, limone e pompelmo, uva bianca e qualche accenno dolce di frutta tropicale. La bevuta è ruspante, vivacemente carbonata e, pur scorrendo bene, lascia una sensazione quasi “piena” al palato: crackers, un sottofondo dolce di frutta a pasta gialla, l’asprezza di agrumi, uvaspina, ribes e mela acerba, legno. La componente acetica è molto delicata e non provoca nessun disturbo mentre nel finale, piuttosto secco, affiora anche un delicato tepore etilico ad accompagnare note vinose e legnose. Birra di grande livello e carattere, complessa ma semplice da decifrare, elegante e rustica, molto pulita e definita, emozionante: si beve con enorme piacere e soddisfazione, senza nessun rimpianto per un prezzo da fascia alta (ma non troppo, considerando che ha attraversato l’oceano e considerando i prezzi ai quali si trovano oggi molte Wild Ales americane o europee).  Dopo l’ottima Central Coast Saison, l’asticella si alza ulteriormente: per chi ama questo genere di birre è un appuntamento da non mancare.
Formato 75 cl., alc. 6.2%, batch 2, scad. non riportata, prezzo indicativo 22.00-25.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 6 settembre 2018

Vetra Saison & Vetra Black


Il nome richiama una piazza di Milano, dietro alle Colonne di San Lorenzo, al di sotto della quale ancora scorre il canale che porta lo stesso nome: gli impianti sono invece a  Caronno Pertusella, all’estremità sud-est della provincia di Varese. Parliamo di Vetra, birrificio che cinque soci hanno inaugurato nell’autunno del 2016: tra loro il birraio Stefano Simonelli, un passato da homebrewer e significative esperienze presso Birrificio Italiano, BQ e Thornbridge (UK), oltre a collaborazioni e progetti occasionali con vari birrifici italiani. Gli altri soci che hanno investito nel progetto sono Gabriele Cucinella, Stefano Maggi e Ottavio Nava (fondatori dell’agenzia creativa We Are Social), Andrea Paci, bartender e titolare de Lo Scalo – Craft Drinks by The Lake. 
Su di un impianto da 30 hl vengono prodotte le cinque etichette che costituiscono il nucleo centrale della produzione Vetra; disponibili tutto l’anno e chiamate semplicemente con lo stile che le contraddistingue, ovvero Pale, IPA, Pils, Saison e Black (Lager). A queste s’affiancano un numero sempre più crescente di collaborazioni, produzioni stagionali e occasionali, a partire dalla Don Zaucher, una rauchbier aromattizzata con scorza d’arancio realizzata in collaborazione con il birrificio Stavio. Ma ci sono anche la Tripel Six, la India Pale Lager chiamata Pacifica e la bock chiamata Alfa, quest’ultima una sorta di tributo alla casa automobilistica che aveva il suo stabilimento produttivo ad Arese, a  pochi chilometri di distanza da dove si trova oggi il birrificio.
L’avventura di Vetra sembra essere partita con il piede giusto e a conferma di ciò c’è il secondo posto ottenuto da Stefano Simonelli tra i birrai emergenti del 2017, dietro a Giovanni Faenza di Ritual Lab, alla manifestazione Birraio dell’Anno organizzata da Fermento Birra.

Le birre.
Partiamo dalla Saison della casa, nella quale il lievito non viene lasciato “solo” ma aiutato dall’aggiunta di scorza di limone: il risultato, promette Vetra, è “un sorso d’estate in ogni stagione”. Il suo colore è effettivamente solare, nel bicchiere si forma un cappello di schiuma non esuberante ma compatto e dalla buona persistenza. Il gradevole bouquet di profumi comprende spezie, fiori bianchi, limone e altri agrumi, accenni di banana e di paglia, componente rustica che non dovrebbe mai mancare in queste birre. In bocca è vivacemente carbonata e la bevuta è agile e scorrevole, molto secca, estremamente rinfrescante: un ottimo livello di pulizia permette d’apprezzarne ogni dettaglio di una saison che parla di pane e di crackers, di frutti a pasta gialla, di pepe bianco. Il limone arriva in prossimità della fine, con un bel finale amaro di discreta intensità nel quale convivono note zesty e terrose. Una interpretazione di stile moderna e convincente, ben eseguita, intensa, profumata elegante ma non priva di carattere rustico: gli aggettivi si sprecano ed difficile evitarne l’evaporazione rapida dal bicchiere. Saison molto ben riuscita che mantiene le promesse fatte. 

Più inusuale, almeno se si pensa al panorama nazionale e agli stili che hanno portato al successo la cosiddetta “birra artigianale”, è la scelta di produrre una  (robusta, 6.8%) Dark Lager chiamata Black. Il suo vestito è colorato di un bell’ebano scuro illuminato da venature rossastre; al naso troviamo pane nero, delicate tostature, tracce di caffè e di cacao.  Al palato è morbida, con poche bollicine e una facilità di scorrimento pericolosa se rapportata alla gradazione alcolica; caramello e pane nero guidano una bevuta nella quale compaiono tostature, note di caffè e cioccolato, qualche estero fruttato (prugna). Fragrante e ben equilibrata, chiude il suo percorso con un amaro di buona intensità nel quale malti (torrefatto) e luppoli (terroso) si dividono il palcoscenico; un lieve tepore etilico in sottofondo riscalda questa robusta Black Lager, intensa e di carattere. La pulizia è buona, lo spazio per migliorare ovviamente c’è  ma anche questa è una birra molto ben fatta.
Nel dettaglio:
Saison, 33 cl., alc. 5,5%, lotto 101, scad. 01/03/2019, prezzo indicativo 4.50-5.00 euro (beershop)
Black, 33 cl., alc. 6.85%, lotto 80, scad. 01/12/2018, prezzo indicativo 4.50-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 3 settembre 2018

Oppigårds 15 Years of Independence Pale Ale

Ha festeggiato proprio quest’anno il suo quindicesimo compleanno il birrificio svedese Oppigårds, operativo dal 2003 a Ingvallsbenning, Dalarna: gli edifici sono quelli di un’antica fattoria, ora non più operativa, di proprietà della famiglia Falkeström da oltre duecento anni. Alla guida c’è Björn Falkeström con la moglie Sylvia e una decina di dipendenti: un’idea nata negli anni ottanta ma realizzatasi solamente nel 2003 quando Björn, nei momenti liberi dal suo lavoro in una ferramenta, ha terminato la progettazione e la costruzione dell’impianto. Gli ottomila litri prodotti nell’anno del debutto sono diventati oggi oltre quattro milioni, l’80% dei quali viene venduto attraverso il monopolio di stato svedese, il Systembolaget; ma c’è anche spazio per esportare in Italia, Svizzera, Austria, Ungheria, Francia, Spagna e Slovenia, Stati Uniti.  Merito anche dello straordinario risultato ottenuto al Beer and Whiskey Festival di Stoccolma del 2008, nel corso del quale Oppigårds racimolò ben dodici medaglie: nell’edizione 2014 ne arrivarono invece undici: “da allora abbiamo fatto parecchi investimenti e cambiamentiracconta Björn -  e oggi le nostre birre sono molto più stabili e consistenti: allora producevamo dei lotti di ottima qualità e altri molto meno riusciti. Quando iniziammo c’erano solo una decina di microbirrifici in Svezia, oggi vene sono oltre duecento. A quel tempo non sapevo neppure che cosa fosse una Strong Porter o una IPA, che oggi è la birra che vendiamo di più”.  
Nel 2016 è stato portato a termine un importante piano d'espansione che ha permesso di raggiungere la capacità attuale di 45.000 ettolitri: è stato acquistato un terreno vicino alla fattoria dove è ora in funzione il nuovo impianto che, in futuro, permetterà di arrivare sino a 70.000 ettolitri l’anno.

La birra.
I festeggiamenti del quindicesimo anniversario di Oppigårds sono stati affidati ad un parterre di luppoli che comprende Amarillo, Cashmere, Vic Secret e Citra. A loro il compito di dare forma a due birre:  la New England 15th Anniversary IPA  (7%) e la più tranquilla  “15 years of Independence Pale Ale” (5.5%), quest’ultima prodotta con malti Pils, Monaco e Caramello.  E’ la prima lattina commercializzata da Oppigårds ed è arrivata all’inizio di giugno  nei negozi del Systembolaget svedese: assaggiamola. 
Si presenta di colore arancio pallido, opaco, con una testa di schiuma biancastra un po’ scomposta e grossolana ma dalla buona persistenza. La finezza dell’aroma è migliorabile ma i profumi sono abbastanza intensi ed invitanti: mango e ananas, pompelmo e arancia si mescolano a note dank. Il mouthfeel è leggermente “chewy” pur senza arrivare agli eccessi dello stile New England; la sensazione palatale ne trae beneficio, la scorrevolezza viene invece leggermente penalizzata ma personalmente in questo caso lo trovo un vezzo di poco conto. La bevuta è bilanciata tra malti (pane, un tocco biscottato) e luppoli, con un carattere fruttato che segue il sentiero tracciato dall’aroma non riuscendo però a replicarne l’intensità; si chiude con un amaro resinoso e pungente di discreta intensità ma breve durata, mentre una buona secchezza lascia il palato pulito e subito desideroso di un nuovo sorso. Si festeggia con gusto e piacere il quindicesimo compleanno di Oppigårds: una birra estiva, bilanciata e abbastanza pulita, intensa ma migliorabile per quel che riguarda l’eleganza. Più fruttata al naso che al palato, moderna senza eccessi, disseta e rinfresca. Bene così.
Formato 33 cl., alc. 5.5%, lotto 1434, scad. 05/05/2019, prezzo indicativo 4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio