venerdì 29 marzo 2019

Goose Island Bourbon County Stout 2018

Il birrificio Goose Island, uno dei pionieri della craft beer americana, è stato fondato nel 1988 nel quartiere Lincoln Park di Chicago da John Hall. A quel tempo in tutti gli Stati Uniti esistevano più o meno solamente duecento produttori artigianali di birra.  ll brewpub è cresciuto trasformandosi in un più grande birrificio nel 1995 e nel 1999 ha aperto un secondo brewpub nel quartiere di Wrigleyville. Il 28 marzo 2011 la multinazionale AB InBev acquistò Goose Island per la modica cifra di 38,8 milioni di dollari: 22,5 milioni finirono nelle tasche di John Hall (allora sessantottenne) che deteneva il 58% della società;  il restante 42% AB InBev lo prelevò dalla Craft Beer Alliance (Oregon) già partner nella distribuzione di Goose Island. Da notare che la multinazionale possedeva già anche il 32% di  Craft Beer Alliance. La storia di Goose Island è stata raccontata nel 2012 dal giornalista Josh Noel nel libro “Barrel-Aged Stout and Selling Out: Goose Island, Anheuser-Busch, and How Craft Beer Became Big Business”. Lettura consigliata a chiunque voglia approfondire le acquisizioni di microbirrifici da parte di multinazionali. Dell’accordo non fecero inizialmente parte i due brewpub Goose Island nei quartieri di  Clybourn e Wrigleyville: il secondo chiuse definitivamente nel 2015, il primo fu acquistato da AB InBev nel 2016. Non è questo il momento di raccontare la storia di Goose Island. Concentriamoci sulla birra che ha contribuito a renderlo famoso tra gli appassionati di birra artigianale: la Bourbon County Stout. 
Alla metà degli anni novanta Greg Hall (birraio di Goose Island e figlio del fondatore John) si trovava al LaSalle Grill di South Bend (Indiana) ad un evento-cena dedicato agli abbinamenti tra bourbon e sigari; per l’occasione aveva portato da Chicago qualche fusto di birra, visto che a quel tempo Goose Island ancora non imbottigliava. A quella cena era presente anche Booker Noe della distilleria Jim Beam: i partecipanti riempirono quasi per scherzo un barile vuoto di bourbon con dell’acqua del rubinetto e, dopo averlo fatto rotolare un po’ sul pavimento, si versarono il contenuto nel bicchiere, aggiunsero un po' di ghiaccio e  bevvero quell’acqua fredda “sporca di bourbon” come fosse tè freddo. Greg Hall stava pensando a come festeggiare la millesima cotta di Goose Island, magari producendo una birra speciale: nel corso della serata venne fuori l’idea di mettere in una botte vuota di bourbon della birra, anziché dell’acqua. “Alcuni birrifici producevano una birra speciale per la loro cotta numero 500, 1000, 1500 etc etc. Larry Bell del birrificio Bell’s era uno dei più bravi in questo e le sue birre celebrative erano molto ricercate dagli appassionatiricorda Hall - Chiesi a Booker Noe se poteva darmi qualche barile vuoto di bourbon da usare per una birra speciale; il giorno dopo c’erano sei barili davanti alla porta del nostro magazzino”.   
Non è chiaro se la  Bourbon County Brand Stout  (BCBS) di Goose Island sia stata la prima imperial stout al mondo invecchiata in botti ex-bourbon: certo è che chi l’assaggiò al Great American Beer Festival di Denver per la prima volta rimase spiazzato: era una birra ma al tempo stesso era qualcosa di completamente nuovo. Nessuno ricorda esattamente che anno fosse, neppure alla Goose Island: per anni sulle etichette della BCBS era riportata la scritta “Since 1992”, poi sostituita nel 2017 con “The Original” in seguito di una segnalazione del giornalista Josh Noel. Le sue ricerche, pubblicate in un articolo sul Chicago Tribune, sembrano confermare che il primo fusto di BCBS fu attaccato nel 1995. Nel 2003 apparvero le prime bottiglie, etichetta fatta a mano con un semplice pennarello, disponibili solo per i dipendenti: nel 2005 furono per la prima volta vendute anche al pubblico, con quell’improbabile tappo svitabile  che in quel periodo di Goose Island utilizzava per tutte le proprie birre. Nel 2007-2008 venne definitivamente sostituito dal tappo a corona. 
Al di là che la BCBS sia davvero la prima imperial stout bourbon barrel-aged, una verità è inconfutabile: è la prima birra che si è guadagnata un culto tra gli appassionati che ogni anno, nel giorno del Black Friday, cercavano di accaparrarsene una bottiglia o una cassa direttamente al brewpub Goose Island o nei liquor stores. E, dopo l’acquisizione della multinazione AB InBev è stata la prima birra a mettere in difficoltà i beergeeks ed i puristi della craft beer: devo continuare a berla? 
L’ingresso di AB-InBev ha permesso di ampliare in maniera esponenziale il programma dedicato agli invecchiamenti in botte. A questo è stata dedicata la Goose Island Barrel House, una serie di magazzini collegati tra di loro all’interno di quali, oltre a migliaia di barili, vengono anche ospitati eventi, cene a tema, matrimoni e visite guidate.  La quantità di BCBS disponibile è aumentata sempre di più e la produzione della birra base da invecchiare in nelle botti occupa il birrificio per diversi mesi; in realtà la BCBS che beviamo è un blend di diverse botti nelle quali la birra ha riposato dagli otto ai quindici mesi. I magazzini non sono né riscaldati né refrigerati e sono sottoposti agli sbalzi termici tra i freddi inverni e le caldi estati di Chicago: “con il freddo i barili si restringono e la birra aumenta il contatto con legno, mentre col caldo si espandono e il liquido si muove maggiormente al loro interno. Ciò diminuisce i tempi di maturazione impartendo alla birra più rapidamente il carattere del distillato” dice il birraio Jared Jankowski, responsabile della Barrel House.

La birra.
Oggi l’hype per la BCBS è ovviamente scemato, e non solo perchè si tratta di una birra prodotta da un birrificio di proprietà di una multinazionale. Le concorrenti, altre barrel aged imperial stout, si sono oggi moltiplicate e sarebbe impossibile per chiunque restare ai vertici delle classifiche del beer rating per troppo tempo. Goose Island è corsa ai ripari elaborando una serie di varianti di BCBS che ogni anno affiancano la versione standard; queste varianti non raggiungono cifre astronomiche sui mercati secondari ma sono comunque ancora abbastanza ricercate dai beergeeks. 
Le Bourbon County Stout 2018 sono arrivate come al solito nel giorno del Black Friday, ovvero il 23 novembre. Otto le varianti disponibili; la versione base invecchiata in botti di bourbon Heaven Hill (4 anni), la Reserve Bourbon County Brand Stout (botti di bourbon Elijah Craig di 12 anni), la Proprietor’s Bourbon County Brand Stout (con aggiunta di fave di cacao), il  Bourbon County Brand Wheatwine, la Bourbon County Brand Vanilla Stout,  la Bourbon County Brand Bramble Rye Stout  (botti di whiskey di segale con aggiunta di purea di lamponi e mirtilli del Michigan), il  Bourbon County Brand Coffee Barleywine e la Bourbon County Brand Midnight Orange Stout (con aggiunta di scorza d’arancio e fave di cacao). 
La ricetta della versione base prevede malti 2-Row, Black Malt, Caramel e Chocolate, luppolo Millennium. Impensabile trovarla nel nostro continente fino a qualche anno fa; l’arrivo della multinazionale AB-InBev ha fatto in modo che negli ultimi due-tre anni qualche bottiglia riesca ad arrivare anche da noi. A voi decidere se ciò sia un bene o un male.  Nel bicchiere non è completamente nera ma poco ci manca: la piccola testa di schiuma che si forma è cremosa e compatta ma poco persistente. Il naso è splendido: intenso, elegante, pulito, caldo e avvolgente. Passano in rassegna legno, bourbon, fudge, uvetta e prugna sotto spirito, fruit cake, cioccolato, melassa, vaniglia, accenni di fumo e tabacco. Ogni volta che le narici s’avvicinano al bicchiere sembrano emergere nuovi profumi. Al palato è piena e morbida, viscosa:  una morbidezza densa piuttosto che vellutata. Il gusto non delude le grandi aspettative generate dall’aroma: l’alcool (15%) si sente tutto ma sorseggiarla non è affatto difficoltoso. A piccoli colpi il bicchiere si  riuscirebbe a svuotare più rapidamente del previsto ma sarebbe un peccato mortale: è una birra che reclama un’intera serata dedicata a se stessa, come fosse un liquore. E allora abbandoniamoci a fudge, fruit cake, vaniglia e cioccolato, melassa, frutta sotto spirito, il tutto abbondantemente inzuppato nel bourbon. Il lunghissimo finale è glorioso: cioccolato fondente, accenni di caffè e tostature, frutta sotto spirito, ancora bourbon. Sinceramente a me poco interessa che si tratti di un prodotto “industriale”: nel bicchiere c’è davvero tutto quello che vorrei trovare in una imperial stout invecchiata in botti di bourbon. Livello elevatissimo, pulizia e precisione, gran bel carattere donato dal passaggio in botte. Una delizia che riesce persino ad emozionare.
Formato 50 cl., alc. 15.2%, IBU 60, imbott. 31/08/2018, prezzo indicativo 20,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 26 marzo 2019

Stigbergets Muddle

Orfano da settembre 2017 del birraio che lo ha reso celebre in tutta Europa, il birrificio svedese Stigbergets ha continuato il suo percorso di crescita aprendo nel 2018 il nuovo birrificio a Ringön, nei dintorni di Göteborg. Il birraio Olle Andersson, ora impegnato con la propria “creatura”   O/O Brewing  è stato sostituito in sala cottura dai birrai Lucas Monryd e  Andreas Görts, titolari della beerfirm All In Brewing che ha iniziato ad utilizzare gli impianti di Stigbergets per produrre anche  le proprie birre. Esattamente la stessa cosa che faceva Andersson con O/O Brewing.
Il nuovo birrificio di Ringön (40 hl) ha permesso di raddoppiare la capacità produttiva chiudendo  il 2018 a quota 800.000 litri: l’obiettivo dichiarato per il 2019 è di arrivare vicino al milione. L’inaugurazione ufficiale, un “open day” al quale hanno partecipato quasi un migliaio di persone, è avvenuto ad ottobre.  Su questo impianto, dotato di una “inlattinatrice”, sono prodotte le birre disponibili tutto l’anno; il vecchio impianto (20 hl) di Göteborg vicino al Museo Marittimo (Gamla Varvsgatan) rimane operativo e viene utilizzato per le birre occasionali e stagionali.   “Il successo ci ha fatto rivedere al rialzo i nostri progetti d’investimento – dice l’amministratore delegato Nils Hultkrantz - Nel nuovo birrificio possiamo fare una cotta ogni novanta minuti; aggiungendo altri fermentatori potremmo superare i due milioni di litri all’anno, ma al momento non è nei nostri piani. Vogliamo crescere ma con moderazione”. 
Qualche tempo fa avevo accennato al fatto che l’ex-vice presidente del birrificio americano Three Floyds, Barnaby Struve, si era trasferito in Svezia alla Stigbergets. Un amico in comune (Victor Brandt del gruppo death metal svedese Entombed A.D.) aveva reso possibile un incontro che è poi diventato a tutti gli effetti una collaborazione commerciale. Struve non lavora come birraio in Svezia ma è una sorta di “consulente” di Stigbergets per gli Stati Uniti. A lui il compito di organizzare eventi e collaborazioni con birrifici americani: sino ad ora sono state fatte birre a quattro mani con Other Half, Mikkeller San Diego, Modern Times, GIgantic e Arizona Wilderness.

La birra.
Amazing Haze, West Coast IPA e Muddle sono le tre birre più popolari del birrificio di Göteborg, almeno stando alle classifiche di beer-rating. Le prime due le avevamo già assaggiate, ora vediamo la terza. Muddle è un’american IPA all’avena prodotta con luppoli Columbus, Simcoe  e Citra; ha debuttato a gennaio 2017. 
Si presenta di un velato ma luminoso colore a metà strada tra l’arancio ed il dorato; la schiuma biancastra è abbastanza compatta ed ha buona ritenzione. Non conosco la data di nascita di questa lattina ma, ipotizzando una shelf life semestrale, dovrebbe risalire al mese di gennaio. L’aroma, benché pulito ed elegante, sembra aver perso un po’ di spunto e di vitalità: la macedonia tropicale (ananas, mango, papaia e arancia) è tuttavia molto gradevole, anche se non fa spuntare il sorriso sulle labbra. L’avena le dona una piacevole morbidezza palatale che riesce a non ingrossare troppo il corpo; la sua scorrevolezza è ottima ed è facilitata dalla maniera esemplare in cui l’alcool (7%) è celato. Pane e crackers sono il supporto maltato alla generosa luppolatura che si traduce in una bevuta tropicaleggiante, fruttata senza arrivare agli estremi del succo di frutta. In chiusura arriva un amaro erbaceo e terroso, con qualche intermezzo zesty, di modesta intensità e breve durata. Il risultato è molto piacevole, educato e assolutamente bilanciato: quasi una Session IPA da 7 gradi. Le manca invero un po’ di esplosività e  di sana arroganza, ma non so se questo sia dovuto alla mano dei nuovi birrai o al fatto che la lattina abbia quasi tre mesi di vita alle spalle. 
Formato 44 cl., alc. 7%, lotto 932, scad. 06/06/2019, prezzo indicativo 8,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 marzo 2019

Kees Peated Imperial Stout

Del birrificio olandese Kees abbiamo già parlato più di una volta. Kees Bubberman, homebrewer dal 1996, ha lavorato come birraio per sette anni (2007-2014) presso il birrificio olandese Emelisse per poi mettersi in proprio.  Acquistato il vecchio impianto da 25 hl dagli inglesi di Magic Rock, grazie anche all’aiuto del crowfunding e aggiunto sei fermentatori, a febbraio 2015 ha prodotto il primo lotto di East India Porter alla nuova Brouwerij Kees che si trova ad una ventina di chilometri di distanza da Emelisse.  Da allora Bubberman ha progressivamente ridotto il numero di birre prodotte tutto l’anno per seguire la moda al ritmo di una novità o quasi ogni quindici giorni. Attualmente Session IPA e Pale Ale Citra guidano la classifica delle vendite, affiancate da numerose produzioni stagionali, occasionali e da altre cinque birre sempre disponibili: Double Rye IPA, Porter 1750, Mosaïc Hop Explosion IPA, West Coast IPA e American Barley Wine. Nella gamma non mancano poi New England IPA, aromatizzazioni alla frutta e pastry stout.  Kees poi ha lanciato il proprio Barrel Project dedicato agli invecchiamenti in botte; è stato anch’esso finanziato con un crowfunding che ha raccolto 23.000 dei 15.000 euro richiesti. Ai finanziatori è stato offerto in cambio la birra Bubberman, una potente imperial stout (13.5%) invecchiata due anni in botti di bourbon. Potevano mancare le lattine? Ovviamente no: anche Kees ha da qualche tempo iniziato ad utilizzare questo ormai imprescindibile contenitore.

La birra.
Variante torbata di una delle birre di successo di Kees, la Peated Imperial Stout non viene oggi più prodotta. La ricetta era basata su quella della  Export Porter 1750 (malti Pale Ale, Caramel, Carafa 1, Carafa 2, luppoli Fuggles e Sorachi Ace) alla quale viene aggiunta una imprecisata percentuale di malto torbato. 
Nel bicchiere è quasi nera e forma una piccola testa di schiuma un po’ grossolana che svanisce piuttosto rapidamente.  Il torbato è protagonista di un aroma che regala in sottofondo anche profumi di cuoio/pelle e frutta sotto spirito: intensità, pulizia e finezza sono tutt’altro che impressionanti. Aspetto visivo e naso sembrerebbero un mediocre biglietto da visita ma questa Peated Imperial Stout di Kees riesce fortunatamente a riscattarsi al palato, regalando una bevuta bilanciata, intensa e piuttosto godibile. Caramello, fruit cake, prugna e uvetta, accenni di cioccolato e di caffè: il torbato è il filo che lega questi elementi tra loro, entrando e uscendo di scena a più riprese. L’alcool (11.2%) fa sentire la sua presenza soprattutto nel finale, riscaldando il lungo retrogusto amaro di caffè, torrefatto e cioccolato. Corpo quasi pieno, morbida: al palato non ci sono particolari densità o viscosità. 
Il livello generale è piuttosto buono anche se ci sarebbero ampi margini di miglioramento per quel che riguarda pulizia ed eleganza;  in generale non posso dire di amare le birre di Kees, ma in questo caso la bevuta è risultata davvero piacevole.
Formato 33 cl., alc. 11.2%, IBU 65, lotto 16.33, scad. 12/2018, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 22 marzo 2019

Alefarm Kaleidoscopic Octopus

Del birrificio Alefarm, uno degli astri nascenti della scena danese, vi avevo già parlato nel 2017: da allora sono già avvenuti grossi cambiamenti, a partire dall’addio del co-fondatore (e birraio) Andreas Skytt Larsen che qualche mese fa ha lasciato il comando all’amico e co-fondatore Kasper Tidemann, ora aiutato dalla moglie Britt van Slyck. E nel 2018 è avvenuto anche il trasferimento da  Køge a Greve, trenta chilometri a sud di Copenhagen, dove a maggio è entrato in funzione il nuovo impianto da 20 ettolitri che ha permesso di produrre circa 1400 ettolitri all’anno, buona parte dei quali destinati all’export. Un bel salto in avanti per un birrificio che aveva chiuso il 2017 a quota 120 distribuendo le proprie birre quasi solo in Danimarca. 
Andreas Skytt Larsen aveva aperto Alefarm per produrre quasi esclusivamente piccoli lotti di saison/farmhouse ale con lieviti selvaggi e batteri; la nuova gestione Tidemann ha invece dato priorità alle lattine e ha spostato momentaneamente il focus su IPA e DIPA che evidentemente consentono di far quadrare meglio i conti. La strategia commerciale è quella ben nota: sfornare una novità dietro l’altra per assecondare quello che chiede la gente. Poco importa se novità significhi solo cambiare il mix di luppoli in una IPA; l’importante è che sulla lattina ci sia un’etichetta diversa. In sei mesi ne sono già arrivate oltre cinquanta,  tutte ideate da Dan Johnstone, Brand Manager. Ogni settimana potete anche acquistare le novità direttamente dal negozio on-line del birrificio. Tidemann promette comunque che a breve Alefarm tornerà ad essere operativa anche nella produzione di birre acide. A questo scopo è arrivato il birraio Joseph Freund che vanta esperienze presso Jolly Pumpkin e Monkish Brewing negli USA e  Beavertown in Inghilterra. Sempre da Beavertown è arrivato in agosto Mark Walewski: a lui il compito di elaborare continue variazioni sul tema APA, IPA, DIPA e dintorni, ovviamente torbide come vuole la moda. Nei progetti futuri di  Tidemann c’è l’apertura di una vera e propria taproom nel birrificio e il sogno di un Alefarm Bar in centro a Copenhagen.

La birra.
“Uno dei nostri obiettivi del 2019 è di esplorare, sperimentare e migliorare le ricette di alcune delle nostre birre più popolari, come ad esempio la Kaleidoscopic Octopus.  E’ una Double IPA per la quale abbiamo utilizzato la più grande quantità di luppoli in doppio dry-hopping: cinque chili di Cascade nel whirpool e cinquanta chili di Mosaic, Simcoe e Citra nel fermentatore”. 
Protocollo NEIPA rispettato: nel bicchiere assomiglia ad un torbido succo di frutta e la schiuma , benché un po’ scomposta, mostra una buona persistenza. Intensità ed irriverenza non le mancano: l’aroma è un esplosivo cocktail di frutta tropicale nel quale individuo ananas, mango, pompelmo, arancia. Come spesso accade in queste birre finezza ed eleganza non sono le caratteristiche principali. La scarsa definizione non impedisce tuttavia di godere di un piacevolissimo aroma tropicaleggiante, anche se un po’ cafone. Al palato è piuttosto ingombrante, chewy o masticabile che dir si voglia: non è una Double IPA da corsa, insomma. Si sorseggia comunque con piacere anche se le manca un po’ di morbidezza: le sottili ma generose (per lo stile) bollicine remano un po’ contro. Per quel che riguarda il gusto valgono le stesse considerazioni dell’aroma: è un gradevole succo di frutta tropicale, anche se meno intenso rispetto all’aroma. La messa in lattina dovrebbe risalire alla prima settimana di febbraio e il tempo l’ha probabilmente ammorbidita smussandone le asperità: non c’è quel tanto temuto “bruciore/grattino” e il breve passaggio amaro finale non fa danni pur lasciando una curiosa sensazione vegetale, “verde”. Se cercate pulizia, finezza e precisione dovete rivolgervi altrove; lo stile non aiuta ma onestamente ho bevuto NEIPA che gestivano questo aspetto in maniera assai migliore. Detto questo il risultato soddisfa pienamente la voglia di succo di frutta e di stare alla moda. Non ci trovo particolari spunti emotivi o tecnici: è una buona birra che probabilmente domani avrò già dimenticato. Ma questo non è importante visto che la prossima settimana Alefarm ne avrà già messa in vendita una nuova, diversa ma al tempo stesso uguale.
Formato 50 cl., alc. 8%, scad. 31/07/2019, prezzo indicativo 8,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 marzo 2019

MC77 BowTie & Breaking Hops Double IPA


Ultimamente ci sono più ritorni che novità sul blog, ma se devo essere sincero mi è un po’ passata la voglia di andare a cercare lo sconosciuto  e preferisco affidarmi alle certezze che ormai sono tante, nel panorama italiano. E’ il caso del birrificio marchigiano MC77 guidato da Cecilia Scisciani e Matteo Pomposini: nato come beerfirm nel 2012 e diventato birrificio dopo pochi mesi. Ve l’avevo presentato in questa occasione. Vincitore nella categoria “emergenti” all’edizione 2015 di Birra dell’Anno il birrificio ha vissuto inevitabili momenti di difficoltà a seguito del terremoto che ha colpito l’Italia centrale nel 2016;  la produzione si è fermata per qualche mese per poi ripartire nei primi mesi del 2017 nella nuova sede di Caccamo di Serrapetrona (MC). Da allora il percorso di crescita è ripreso senza più fermarsi e ai riconoscimenti per le birre “classiche” sono arrivati anche quelli nelle categorie più alla moda, ovvero quelle luppolate e torbide altresì note come New England IPA.  A Birra dell'Anno 2017 l’argento per la NEIPA Velvet Suit spezzò il dominio in categoria del birrificio Crak, vincitore di oro e bronzo.

Le birre.
Complemento ideale del “vestito di velluto” (Velvet Suit) è la ultima arrivata BowTie, ovvero il cravattino a farfalla: New England IPA fermentata con lievito Vermont e luppolata con Citra, Mosaic, Ekuanot e Simcoe. Ha debuttato nell’aprile del 2018 e all’ultima edizione di Birra dell’Anno ha conquistato il primo posto nella categoria 17 (chiare e ambrate, alta fermentazione, massicciamente luppolate in aroma, di ispirazione statunitense - New England IPA) rubando il primo posto proprio alla Velvet Suit. 
NEIPA “educata”, come mi piace definirla,  la BowTie di MC77  segue il protocollo “hazy” senza essere voler somigliare ad un torbido succo di frutta; la schiuma, cremosa, abbastanza compatta e dalla buona ritenzione, ne trae vantaggio. Il naso è una macedonia molto ben assortita composta da mango, papaia, ananas, cedro, pompelmo, lychee, melone e pesca; non manca qualche suggestione floreale. Un aroma fresco, pulito ed elegante, complesso: le sue componenti sono molto ben bilanciate tra loro, entrando ed uscendo di scena al variare della temperatura nel bicchiere. Al palato è delicatamente “chewy” e caratterizzata da poche bollicine: forse potrebbe esserci un po’ più di morbidezza, ma è questione di dettagli. Il gusto è un po’ meno intenso ed elegante dell’aroma ma rimane su livelli piuttosto alti:  il dolce della frutta tropicale è bilanciato da un’ottima attenuazione e da un finale nel quale l’amaro resinoso fa una fugace apparizione senza affliggere il palato con quel “grattino/bruciore” che spesso queste birre si portano con sé. Alcol (6.3%) molto delicato in una NEIPA molto intelligente che non si prefigge di stupire con fuochi d’artificio ma che mette al primo posto equilibrio e facilità di bevuta: proprio per questo i puristi del protocollo NEIPA la troveranno forse un po’ sotto le righe. Per me invece è il suo vero valore aggiunto. 
Davvero ottima la BowTie di Mc77.  Se la facesse in lattina un birrificio inglese che ha il logo a forma di nuvoletta (tanto per citarne uno) ci sarebbe mezza Europa a parlare di lei; ma siamo in Italia e dobbiamo accontentarci.

Con la Breaking Hops torniamo invece sul classico: trattasi di una Double IPA  (7.8%) prodotta dalla primavera del 2014. Anche lei ha portato a casa una medaglia da Birra dell’Anno: era il 2018 ed arrivò l’argento nella categoria 13 (birre chiare e ambrate, alta fermentazione, alto grado alcolico, luppolate, di ispirazione angloamericana - Double IPA). Nello stesso anno Mc77 conquistò anche un oro con la Bastogne New England Edition in categoria 4 (birre chiare e ambrate, alta fermentazione, basso grado alcolico di ispirazione anglosassone: English Golden Ale, English Pale Ale). 
Se nome e grafiche non lasciano dubbi sull'ispirazione, credo che invece la ricetta abbia subito nel corso del tempo inevitabili modifiche.  Sul sito del birrificio viene infatti definita ambrata mentre nel bicchiere la trovo tra l’arancio e l'oro antico; la luppolatura se non erro dovrebbe contemplare Nelson Sauvin, Mosaic e Simcoe. L’aroma parla di ananas, mango e pompelmo, resina e pino: frutta fresca e candita convivono fianco a fianco. L’aroma è pulito ed elegante ma l’intensità è un po’ dimessa: non pretendo l’esplosività dell’abbondante dry-hopping di una NEIPA, ma da una Double IPA con un mese di vita m'aspetto qualcosina in più.  Miele, accenni biscottati e frutta tropicale/pompelmo costituiscono il supporto dolce alla generosa luppolatura che sfocia in un finale amaro, pungente, lungo e intenso ricco di note resinose e qualche divagazione dank. Anche l’alcool in questa fase offre il suo contributo portando un po’ di calore. Interpretazione abbastanza classica di una West Coast IPA, pulita e ben fatta, che si beve con piacere anche se mi sembra mancare un po’ di personalità e di esplosività. Tutto bene dal lato consumatore: data d’imbottigliamento ben chiara e shelf-life corta, a quattro mesi, come dovrebbe sempre essere per queste birre.
Nel dettaglio:
BowTie, 33 cl., alc.  6,3%, lotto del 10 25/02/2019, scad. 25/06/2019, prezzo indicativo 5,00 euro (beershop)
Breaking Hops, 33 cl., alc. 7.8%, lotto 08  del 19/02/2019, scad. 19/06/2019, prezzo indicativo 5,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 20 marzo 2019

Cigar City Marshal Zhukov's Imperial Stout 2017

La storia ve l’avevo già raccontata ma vale la pena ripeterla:   Georgij Konstantinovič Žukov, ovvero “il generale che non ha mai perso una battaglia”: di origini contadine, venne arruolato in cavalleria nel corso della prima guerra mondiale. Dopo la rivoluzione d’ottobre entrò nell’Armata Rossa dapprima come comandante di Brigata, poi di divisione ed infine di corpo d’armata. Nel 1938 fu nominato vicecomandante di tutte le Forze Armate della Bielorussia: in Mongolia sconfisse l’esercito giapponese, ottenendo per la prima volta il titolo di “Eroe dell’Unione Sovietica”. Nel 1940 venne nominato Capo di Stato Maggiore ed fu lui ad organizzare la difesa che contrastò il lungo assedio (1941-1944) dell’esercito nazista a Leningrado.  Stalin, impressionato dal suo lavoro, lo chiamò ad organizzare anche la difesa di Mosca affidandogli il comando generale di tutte le operazioni: la strategia di Žukov, grazie anche all’aiuto del gelido inverno russo che arriva in anticipo, ebbe successo. Dopo alcuni contrasti con Stalin e conseguenti declassamenti fu richiamato per dirigere l'Operazione Urano per il salvataggio di Stalingrado, assediata dai tedeschi: Žukov preparò la “controffensiva del Don”, facendo traghettare oltre il Volga 170.000 soldati, 27.000 automezzi e 1300 vagoni ferroviari  senza che il nemico se ne accorgesse. Il 31 gennaio 1943 liberò Stalingrado dopo aver accerchiato i nemici: nella battaglia -  che segnò l’inizio della disfatta di Hitler - persero la vita un milione e mezzo di tedeschi.  Žukov, si guadagnò il soprannome de “il salvatore”, ma a seconda delle occasioni era anche “l’uragano”, “l’invincibile” oppure “l’ariete” al quale viene affidata l’Operazione Berlino. Fu lui a battere sul tempo inglesi ed americani entrando per primo (30 aprile 1945) nella capitale  tedesca ormai in macerie issando la bandiera rossa sul Reichstag; sarà lui a presenziare ed a firmare l’atto di resa della Germania.  Salvatore di Mosca, liberatore di Stalingrado, conquistatore di Berlino: la sua fama era ormai maggiore di quella di Stalin, che iniziò a vederlo come un pericoloso avversario. Nel dopoguerra Žukov fu messo in disparte, venne indagato dalla polizia segreta ed esiliato negli Urali; alla morte di Stalin, nel 1953, Žukov fu nominato Ministro della Difesa dal successore Malenkov. La sua parabola si concluse con l’avvento al potere di Kruscev, che lo destituì accusandolo di aver cercato di sottrarre l’esercito al controllo del Partito Comunista. Venne obbligato a fare una autocritica sulla Pravda e visse recluso e lontano della vita politica sino alla sua morte, avvenuta nel 1974.  Žukov, dal carattere difficile, venne ripreso più volte per ubriachezza e violenze ma fu uno dei militari sovietici più decorati e l'unico a ricevere quattro volte il titolo di Eroe dell'Unione Sovietica".

La birra.
All’invincibile maresciallo (Marshal) Zhukov il birrificio della Florida Cigar City (qui la sua storia) dedica quella che è diventata rapidamente una delle sue birre di maggior successo. La parabola dell’hype beergeekiano è poi scemata col tempo spostandosi su altre imperial stout prodotte dal birrificio della Florida o su alcune varianti barricate della Marshal Zhukov stessa. Dal 2008 Marshal Zhukov esce ogni anno tra fine luglio e inizio agosto, periodo non proprio ideale: “come gli strateghi militari le Russian Imperial Stout danno il loro meglio dopo un po’ di tempo. Noi la commercializziamo nel torrido agosto in modo che possa dare il meglio con l’arrivo di gennaio e febbraio” dicono alla Cigar City. 
Facciamo un salto indietro nel tempo al 2017 quando l’uscita della birra avvenne nell’ambito del Red Banner Day, un evento dedicato al debutto della Marshal Zhukov fresca e ad alcuni vintage; in quell’anno erano presenti alle spine anche le version Cognac, Bourbon e Double Barrel  (Bourbon e Rum) oltre alla  Marshal Zhukov Penultimate Push Bourbon Barrel Aged. Per quel che riguarda le bottiglie, nessun limite all’acquisto per la Marshal Zhukov normale; solo due bottiglie a testa per la sua versione Cognac Barrel-Aged 2017 da 75 cl., in vendita solo alla taproom. 
Nel bicchiere è completamente nera con un cremoso cappello di schiuma minacciosamente scuro, anche se di dimensioni contenute. I profumi dell’aroma sono tuttavia molto più “rassicuranti”: fudge, fruit cake, melassa, prugna disidratata e uvetta, liquirizia, accenni di tostature, caffè  e cioccolato. Una bella partenza dolce che trova parziale seguito anche nei primi istanti della bevuta prima dell’arrivo delle tenebre, ovvero un amaro piuttosto intenso e pungente che si snoda tra torrefatto, caffè ed una generosa luppolatura erbacea, ancora pungente a quasi due anni dall’imbottigliamento. Anche il cacao fa  ogni tanto capolino, l’alcool (11.2%) c’è e riscalda ogni sorso con vigore: è una imperial stout potente ed intensa, da sorseggiare senza fretta abbandonandosi al suo lungo finale etilico, caldo e avvolgente.  E anche se lascia di sé un ricordo prevalentemente “duro ed amaro” la Marshal Zhukov di Cigar City non disdegna diversi passaggi in territorio dolce e goloso (“decadent cake”, per dirla in inglese). Ci potrebbe essere qualche emozione in più nel bicchiere ma il livello è indiscutibilmente elevato e non c’è nulla di cui lamentarsi.
Formato 65 cl., alc. 11.2%, IBU 70, imbott. 13/07/2017, prezzo indicativo 20.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 marzo 2019

DALLA CANTINA: Elav Progressive Barley Wine 2014

Dopo un’assenza di cinque anni ritorna sul blog il birrificio bergamasco Elav, fondato nel 2010 da Antonio Terzi e Valentina Ardemagni. Vediamo quanto di nuovo è avvenuto dal 2014 ad oggi: in quell’anno Elav metteva in funzione il nuovo impianto da 2,5 ettolitri a cotta seguito a ruota dalla nascita della Società Agricola Elav nel territorio che circonda il Monastero Vallombrosano ai piedi di Bergamo Alta. Due ettari di terreno  nella Val d’Astino sul quale si coltivano luppolo, erbe officinali e frutti rossi anche destinati alla produzione di birra. 
Sugli stessi campi si trova la Cascina Elav, “succursale” estiva del birrificio aperta da fine maggio a settembre: ristorante, pizzeria, pub e una corte all’aperto dove vengono ospitati eventi culturali, laboratori, seminari, spettacoli, concerti, mercati, corsi e workshop. Nei mesi più freddi dell’anno, ma non solo, potete dissetarvi allo storico Clock Tower Pub di Treviglio o all’ Elav Kitchen & Beer,  inaugurato a Bergamo Alta a gennaio 2018. Se state invece partendo per una vacanza troverete la Beerstrotheque Elav all’aeroporto di Orio al Serio, precursore italiano di un fenomeno che sta lentamente iniziando a prendere piede in molti aeroporti nel mondo: finalmente si possono ingannare i tempi d’attesa tra un volo e l’altro dissetandosi con birre di qualità e non con i soliti anonimi prodotti industriali. Abitate a Bergamo? Elav in collaborazione con Winelivery vi consegnerà a domicilio con bicicletta elettrica la vostra birra preferita in mezz’ora. Ogni giorno potete scegliere tra sei diverse birre che vi verranno recapitate a casa in appositi contenitori pressurizzati che promettono di preservare al meglio la qualità del prodotto. Il prezzo? Lo stesso di una pinta al bancone, ovvero sei euro per mezzo litro. 

La birra.
Dalle innovazioni commerciali passiamo a quelle nel bicchiere. Il barley wine di casa Elav si chiama Progressive non a caso: lievito american ale, solo due malti (pils e pale) e un luppolo esotico (Sorachi Ace), ma il birrificio assicura che questa birra “vi stupirà per la sua complessità e la sua spiccata personalità”. Alla prova dei fatti una bottiglia del 2014: i cinque anni in cantina le avranno fatto bene? 
Nel bicchiere si presenta di un color ambrato opaco ma ancora vivace e luminoso: la schiuma biancastra è cremosa ma di dimensioni piuttosto modeste e poco persistente. Il naso sorprende subito per pulizia, espressività e complessità: frutta secca a guscio, uvetta e datteri, mela, ciliegia, albicocca disidratata, toffee, accenni di vino marsalato. Aroma caldo, liquoroso e sensuale: si creano grandi aspettative che il gusto fortunatamente non delude. La bevuta è un liquore ricco di frutta sotto spirito la cui dolcezza viene stemperata da una leggera asprezza vinosa e da un’acidità quasi rinfrescante che, a cinque anni dalla messa in bottiglia, appare stupefacente. Il finale, anticipato da una punta amara di frutta secca, è caldo e ricco di nuovi rimandi ai vini liquorosi.  Sono quegli effetti positivi dell’ossidazione che vorresti sempre trovare in queste birre. Gran bella sorpresa questo barley wine di Elav, un piccolo gioiello tutto da scoprire: bilanciato nella sua dolcezza, morbido al tatto ed amalgamato tra tutte le sue componenti, scalda (11%) senza bruciare regalando sorprese ad ogni sorso. A cinque anni d’età è ancora in splendida forma e mostra di poter andare ancora avanti nel tempo: peccato non averne qualche altra bottiglia in cantina. Non mi sembra godere di notorietà tra gli appassionati, ma per quello che trovo in questo bicchiere la meriterebbe.
Formato 33 cl., alc. 11%, IBU 65, imbott. 14/05/2014, scad.  14/05/2034, prezzo indicativo 6,00 euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 18 marzo 2019

DALLA CANTINA: Alaskan Smoked Porter 2008

Birre e cantina: anche se la stragrande maggioranza delle bottiglie va bevuta fresca ogni birrofilo cela dentro di sé l’irrefrenabile desiderio di provare ad invecchiare i suoi acquisti. Per chi non ha molta esperienza e volesse approfondire la questione segnalo l’interessante libro Vintage Beer di Patrick Dawson; non è ancora stato tradotto in italiano ma al suo interno troverete tanti utili consigli su come allestire una piccola o grande cantina personale. Quali sono i fattori che contribuiscono positivamente all’invecchiamento di una birra, quali sono le tipologie maggiormente indicate all’invecchiamento, come invecchiarle e alcuni appunti di degustazione di diverse annate della stessa birra. 
Alla regola generale  che dice d’invecchiare “birre acide o birre scure dall’alta gradazione alcolica” ci sono alcune eccezioni e la birra di oggi è una di queste: parliamo della Smoked Porter del birrificio americano Alaskan che abbiamo già assaggiato in questa occasione quando era passato “solamente” un anno dall’imbottigliamento. 
Una birra che fa anche rivivere il processo usato alla fine del diciannovesimo secolo dai birrifici in Alaska: producevano porter con malti da loro stessi essiccati in forni alimentati ad ontano, il legname da sempre utilizzato dai nativi di quella regione per affumicare il pesce. E fu proprio ad un affumicatore di salmone che si rivolse il fondatore del birrificio Geoff Larson nel 1988, anno in cui la Alaskan Smoked Porter fece il suo debutto: è la birra che ha ancora detiene il record del maggior numero di medaglie (21) vinte nelle diverse annate del Great American Beer Festival. 
Dal libro Vintage Beer: “con una percentuale d’alcool del 6.5 non sembrerebbe essere una candidata all’invecchiamento. Ma i fenoli derivanti dall’affumicatura agiscono da preservante facendo in modo che la birra invecchi in modo eccezionale  come quelle con un contenuto alcolico di molto superiore”.  Secondo Larson “il fumo è molto evidente quando la birra è fresca, ma col tempo s’affievolisce lasciando il posto ad altri elementi che danno forma ad un profilo complesso. Dopo dieci anni questo si semplifica un po’ e il fumo ritorna ad essere protagonista”.

La birra.
Ottobre e novembre sono i mesi in cui ogni anno il birrificio Alaskan mette in vendita la sua Smoked Porter.  Non tutti i millesimi arrivano in Italia e  in Europa: attualmente nei vari beershop c’è ancora disponibilità delle annate 2013-2014 e se cercate bene potete trovarle a prezzi davvero sorprendenti.  Il prezzo del biglietto diventa invece più salato se volete tentare la sorte con qualche esemplare degli anni 90 (35 cl. ed etichetta color violetto) o dei primi anni 2000 (47 cl.). 
Noi facciamo un passo indietro nel tempo al 2008 quando la Smoked Porter spegneva la sua ventesima candelina. Giudicandola dall’aspetto non le daresti tutti questi anni:  la testa di schiuma è ancora generosa, compatta e piuttosto persistente. Il suo vestito è il classico ebano scuro, prossimo al nero. L’aroma è piuttosto intenso ed è dominato dal legno affumicato; impossibile non pensare allo Schwarzwalder Schinken, il prosciutto affumicato tedesco. In sottofondo emergono anche profumi di cioccolato, cola e caramello. Davvero pochi gli acciacchi dovuti all’età: si scorge giusto qualche accenno di gomma bruciata. Neppure il mouthfeel mostra particolari segni di cedimento e dopo dieci anni mantiene la stessa grande scorrevolezza e bevibilità delle bottiglie più giovani senza sembrare slegata o scarica. L’affumicato è il protagonista indisturbato dei primi sorsi e per apprezzare in pieno questa Smoked Porter dovete attendere che il vostro palato si abitui alla sua presenza per assistere alla sua “trasfigurazione”. Ecco affiorare biscotto, caramello, cola, prugna e uvetta, un sottofondo di cioccolato e un finale amaro di caffè prima del ritorno dell’affumicato che era improvvisamente scomparso. L’alcool (6,5%) è praticamente assente.  
Alla cieca credo sarebbe impossibile per chiunque dire che nel bicchiere c’è una birra che ha dieci anni d’età: il tempo sembra non essere passato.  Ed è forse questo pensiero ad emozionare maggiormente della bevuta in sé, comunque estremamente gradevole e soddisfacente ma incredibilmente priva dei classici segni del tempo. Una birra perfettamente conservata (quasi) come fosse nata ieri.
Formato 65 cl., alc. 6.5%, IBU 45, lotto 10/2008.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 12 marzo 2019

[Le birre rivisitate] Firestone Walker Parabola 2018

Nel 2015 riuscivo finalmente a stappare una bottiglia di una birra che era da sempre sulla mia lista dei desideri: l’imperial stout Parabola del birrificio californiano Firestone Walker, recuperata con un po’ di fortuna nel 2014 nel corso di una vacanza negli Stati Uniti.  A quel tempo Firestone Walker era ancora indipendente e la loro produzione “barrel aged” abbastanza limitata: nessuna di queste birre veniva esportata in Europa. Nell’estate del 2015  Adam Firestone e David Walker hanno ceduto la maggioranza (? -  i dettagli dell’accordo non sono mai stati resi noti) della loro azienda ai belgi della Duvel Moortgat il cui denaro è stato utilizzato per finanziare un ambizioso piano d’espansione. Qualche anno dopo si sono iniziati a vedere i risultati: nel 2018 la Proprietor’s Vintage Series ha varcato l’oceano e qualche bottiglia è arrivata anche nel nostro continente.   
Il legame Firestone – Duvel  ha suscitato più di qualche perplessità tra gli appassionati americani: la ciliegina sulla torta fu proprio la Parabola millesimo 2017. Quell’anno la birra fu interamente prodotta e imbottigliata,  sotto la diretta supervisione del birraio di Firestone Walker Matt Brynildson, in un altro birrificio americano di proprietà Duvel Moortgat: Boulevard Brewing a Kansas City, Missouri.  E, come avviene spesso in questi casi, le reazioni di beergeeks non furono entusiaste: qualità inferiore, non è più la Parabola di una volta. In quell’anno avvenne anche il passaggio dal formato 65 a quello più pratico, per uso personale, da 35.5 centilitri. 
La dura legge dell’hype ha colpito anche Firestore Walker, nome ancora molto apprezzato ma ormai al di fuori da quel circolo ristretto di birrifici che fanno impazzire gli appassionati. Per recuperare un po’ di terreno perduto Firestone ha iniziato a giocare con le varianti di Parabola, oggi ancora molto ricercate: Parabajava (con aggiunta di caffè), Scotch Parabola (invecchiata in botti di whisky torbato scozzese Ardbeg) e Parabanilla (invecchiata in botti di whiskey di segale con aggiunta di vaniglia).

La birra.
Per la storia della Parabola vi rimando al post di quattro anni fa: oggi concentriamoci sulla sua edizione 2018, quella arrivata anche in Italia. Fece il suo debutto in aprile: nelle tre locations di Firestone Walker (Paso Robles, Buellton e Venice) era anche disponibile la sua versione Coconut Rye, ovvero invecchiata in botti di whiskey di segale con aggiunta di cocco tostato. Di quest’ultima solamente 300 casse disponibili, con un limite d’acquisto massimo di dodici bottiglie a testa. 
La Parabola 2018 vede una gradazione alcolica leggermente inferiore alle annate precedenti (12.7% anziché 14% e dintorni): ho trovato informazioni discordanti anche sul suo processo produttivo. Sulla sito del birrificio viene attualmente dichiarato che “questa imperial stout è stata invecchiata un anno in botti che avevano contenuto in precedenza burbon Heaven Hill”. I comunicati stampa rilasciati al momento dell’uscita riportano invece che Parabola nasce – come era a me noto -  da un blend di botti che avevano contenuto diverse tipologie di bourbon: Buffalo Trace, Elijah Craig, Four Roses, Pappy Van Winkle e Woodford Reserve. 
Le uniche certezze riguardano la ricetta: malti Maris Otter Pale, Munich, Cara-hell, Carafa, Dark e Light Crystal, Chocolate, avena e orzo tostato, luppoli Zeus in amaro e un non ben specificato “Hallertau” a fine bollitura. Il suo vestito non è completamente nero ma poco ci manca; si forma una piccola testa di schiuma, cremosa e compatta ma poco persistente. Al naso tanti “dark fruits” (prugna, uvetta, frutti di bosco, ciliegia sciroppata), accenni di caffè e tostature, qualche nota di cioccolato fondente e bourbon. La bevuta è morbida, leggermente oleosa, corpo medio-pieno: densa ma non troppo, si potrebbe dire. Fruit cake, dark fruits e bourbon caratterizzano una bevuta intensa e molto soddisfacente che si sviluppa per la maggior parte sul versante dolce per poi essere bilanciata dall’amaro del caffè, del cioccolato fondente e del torrefatto. 
E’ una birra potente che scalda corpo e anima senza esagerare: giocoforza impegnativa, non proibitiva. Mettetevi comodi e dedicatele tutta la serata, seguendo dopo ogni sorso la sua lunga scia di bourbon, cioccolato e frutta sotto spirito. 
Una imperial stout nella quale c’è tutto quello che si può desiderare? Quasi. Invero non c’è molta profondità e anche l’eleganza non raggiunge l’eccellenza, ma è un po’ il voler cercare il pelo nell’uovo: mi riferisco soprattutto alle caratteristiche apportate dal passaggio in botte, da sempre uno dei punti di forza del birrificio di Paso Robles. C’è il bourbon, c’è il legno ma non riesco a trovare quei dettagli preziosi capaci di fare la differenza, come cocco e vaniglia ad esempio; forse è il mio naso o forse è l’ennesimo prezzo da pagare quando la qualità viene leggermente sacrificata in favore della quantità. Si viaggia ancora in prima classe ma avevo di lei un ricordo migliore. E’ cambiata lei, è cambiato il mio palato o nel 2015 ero troppo influenzato dall’entusiasmo di poterla finalmente bere per la prima volta? Forse di tutto un po’.
Formato 35.5 cl., alc. 12.7%, IBU 69, lotto 2018, prezzo indicativo 16.00-20.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 11 marzo 2019

DALLA CANTINA: Lervig Brewers Reserve Barley Wine Aged in Bourbon Barrels 2014

Dal 2013 il birrificio norvegese Lervig è stato una costante presenza sul blog: qui trovate tutte le birre stappate in questi anni.  Stavanger, capitale del petrolio norvegese, è oggi conosciuta dai beergeeks per l’eccellente lavoro svolto dal birraio Mike Murphy, chiamato nel 2010 a risollevare le sorti di un marchio che non stava riscuotendo grande successo. Lervig è uno dei più apprezzati produttori europei e la fredda Stavanger ha iniziato a scaldare i motori: dal 2014 anche lei ha il suo piccolo festival birrario, chiamato “What’s Brewing”. 
Ad organizzarlo furono James Goulding  e David Graham in collaborazione con l’agenzia media Melvær&Co: Goulding (oggi European Manager per i canadesi della Collective Arts Brewing) a quel tempo lavorava per la Lervig, di cui a tutt’oggi Graham è ancora head brewer.  Il birrificio non volle organizzarlo in prima persona ma diede il proprio benestare a James e David; Mike Murphy sfruttò la propria rete di conoscenze per portare in Norvegia alcuni amici birrai stranieri per la prima edizione del festival. 
Da allora il “What’s Brewing” festival di Stavanger è cresciuto ed ha da poco annunciato i partecipanti all’edizione 2019 che si terrà il 18 e 19 ottobre: Verdant, Siren, Left Handed Giant, Harbour e Cloudwater (UK), Whiplash e White Hag (Irlanda), Basqueland (Spagna), To Øl, Mikkeller e Æblerov (Danimarca), O/O Brewing, Stockholm Brewing, Stigbergets e Omnipollo (Svezia), Loverbeer e Cra/k (Italia), Fuerst-Wiacek e Mahrs Bräu (Germania), Põhjala (Estonia), Lervig e Yeastside (Norvegia), Cascade, Other Half, Lamplighter, Modern Times, Stillwater, Norway, Sand City e Bruery (USA), Coedo e Shiga Kogen (Giappone), Jing-A e Great Leap (Cina), Collective Arts e Malty (Canada).

La birra.
“Our Barley Wine is the most special beer we make”: così alla Lervig descrivono una birra prodotta solamente una volta all’anno. Nel 2011 fu fatta la prima cotta, 800 litri in tutto, sull’impiantino pilota che Mike Murphy utilizzava per i propri esperimenti.  Oggi il Barley Wine viene fatto assemblando una piccola percentuale di birra fresca con quella che riposa da almeno un anno in diverse botti ex-bourbon. La ricetta prevede malti Monaco, Caramello e Chocolate, luppolo Styrian Goldings. Il birrificio le dà una shelf life di dieci anni: andiamo a vedere come si trova il Barley Wine 2014 a metà del suo percorso, dopo cinque anni in cantina. 
Il suo vestito è colorato di ebano scuro, o tonaca di frate cappuccino se preferite: in superficie solamente un piccolo pizzo di bolle sul bordo del bicchiere. L’aroma è caldo e intenso: arrivano subito ricordi di porto e di vini fortificati, frutti di bosco scuri, prugna disidratata, ciliegia sotto spirito, melassa, bourbon, qualche nota legnosa.  Il mouthfeel mostra qualche cedimento dovuto all’età ma la sensazione palatale è ancora gradevole, leggermente oleosa: poche bollicine, corpo medio-pieno. La bevuta corrisponde in pieno con l’aroma: dolce, calda, ricca di melassa, caramello e tanta frutta sotto spirito: prugna, uvetta, ciliegia, frutti bosco. I ricordi di vino fortificato sbiadiscono lentamente lasciando posto ad un finale nel quale emergono bourbon, legno e qualche nota ossidativi meno piacevole. Il bilancio degli effetti del passare del tempo è comunque ancora ampiamente positivo. Il passaggio in botte non (r)aggiunge particolari complessità o vette espressive ma ciò andrebbe verificato anche in un esemplare più giovane. L’alcool riscalda e rincuora senza esagerare ma è ovviamente una birra capace di fare serata da sola: mettetevi comodi e gustatevela con calma, cogliendo le sue diverse sfumature man mano che la temperatura nel bicchiere si alza. Ha già passato il suo picco, ma regala ancora belle soddisfazioni.
Formato 33 cl., alc. 13%, IBU 40, lotto AR 2014, scad. 30/01/2024, pagata 7.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 7 marzo 2019

Põhjala / Jing-A (京A) Cellar Series - Early Morning Regrets

Del birrificio estone Põhjala abbiamo già parlato in molte occasioni e non c’è quindi molto da aggiungere, se non che lo scorso dicembre è stata inaugurata a Tallin la nuova taproom: 24 spine, cucina specializzata in barbecue texano, negozio merchandising e possibilità di noleggiare una sauna privata. La taproom è aperta tutti i giorni tranne il lunedì da mezzogiorno a mezzanotte; la domenica è invece dedicata a chi si alza tardi: colazione servita tutto il giorno, dalle 10 sino alla chiusura anticipata alle 17. 
Ma Tallin non è solo Põhjala: da quattro anni la capitale estone ospita la Craft Beer Weekend, festival di due giorni con una cinquantina di birrifici locali, nazionale e esteri. L’edizione 2019 è prevista per il primo weekend di maggio. Come spesso accade in queste occasioni i festival rappresentano per i birrifici locali anche una conveniente opportunità per realizzare qualche birra collaborativa con i birrifici stranieri. 
Alla Craft Beer Weekend del 2017 fu invitato il birrificio cinese Jing-A (京A), fondato nel 2013 a Pechino dagli americani Alex Acker e Kristian Li, entrambi residenti dal 2000 nella capitale cinese: dagli Stati Uniti si sono portati dietro la passione per l’homebrewing e, dopo aver deliziato amici e parenti con le birre fatte in casa, hanno deciso di trasformare l’hobby in una attività professionale. In un primo periodo le birre sono state prodotte su impianti terzi e solo successivamente i due americani hanno lasciato le loro precedenti occupazioni lavorative per dedicarsi a tempo pieno alla birra dotandosi di impianto proprio e aprendo un brewpub a Pechino con cucina e una dozzina di spine.  
In quell’occasione Põhjala e Jing-A realizzarono la loro prima birra collaborativa chiamata Late Night Date (9%), una baltic porter %) prodotta con datteri e fichi affumicati su legno di lychee e melo. Nel 2018 Jing-A fu nuovamente invitato a Tallin per il festival e per realizzare un’altra birra assieme a  Põhjala.

La birra.
L’ideale seguito della Late Night Date (un appuntamento a notte fonda) è  almeno nel nome la Early Morning Regrets, ovvero i “rimpianti della mattina presto”. In sostanza si tratta di una imperial stout invecchiata in botti ex bourbon con aggiunta di chicchi di caffè cinese, proveniente dalla provincia di Yunnan, anch’essi “invecchiati” nelle stesse botti. Chi si aspettava l’utilizzo di qualche spezia, frutto o ingredienti della tradizione cinese rimarrà un po’ deluso; i due birrifici hanno deciso di non rischiare troppo e di andare sul sicuro, aggiungendo caffè ad uno stile che Põhjala ha già dimostrato di saper maneggiare alquanto bene.  Un’occasione mancata? Vediamo. 
La ricetta prevede malti Pale, Monaco, Crystal 50, Cara 150, Carafa T-2 Special, Roasted, Black, Chocolate wheat, Chocolate rye e avena in fiocchi; i luppoli sono Warrior e Chinook. Il suo colore è nero come la notte che si è appena lasciata alle spalle: la schiuma è cremosa, compatta ed ha una discreta persistenza. L’aroma è ricco, pulito e anche abbastanza elegante: caffè, cioccolato fondente, orzo tostato,  accenni di vaniglia, uvetta e prugna sotto spirito. Il caffè è l’indubbio protagonista. Il suo corpo è quasi pieno ma la consistenza di questa massiccia (12.6%) imperial stout non è particolmente densa o viscosa: per il mio gusto un po’ di “ciccia” in più non le avrebbe fatto male. Il gusto è un po’ meno interessante e variegato dell’aroma: il caffè esce di scena per lasciare spazio al bourbon, alla frutta sotto spirito, a melassa e liquirizia. La componente dolce, croce e delizia di quasi tutte le imperial stout di Põhjala, è qui abbastanza ben contrastata dal bourbon e da un finale leggermente amaro al quale contribuiscono note legnose, di caffè e di torrefatto. Il retrogusto è sorprendentemente quasi delicato, un ben riuscito abbraccio tra cioccolato fondente e bourbon. 
L’aroma ha un passo in più del gusto ma questa  Early Morning Regrets di Põhjala e Jing-A è comunque una bella bevuta che regala soddisfazione: potente e pulita, intensa, da sorseggiare con calma. In barba al suo nome, in questo caso il prezzo di fascia alta non lascia grossi rimpianti la mattina dopo averla bevuta e smaltita.  
Formato 33 cl., alc. 12.6%, IBU 35, lotto 753, scad. 01/10/2021, prezzo indicativo 10,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 5 marzo 2019

Founders Curmudgeon Old Ale 2014 vs Curmudgeon's Better Half 2018

Aggiungiamo un altro tassello mancante per completare la Barrel Aged Series 2018 del birrificio Founders di Grand Rapids, Michigan. Sei birre barricate provenienti da un’enorme “cantina” (virgolette d’obbligo), ovvero una vecchia cava di gesso ora in disuso che si trova a 5 chilometri di distanza dal birrificio. E’ qui dove oggi riposano circa 20.000  barili a 25 metri di profondità e ad una temperatura costante di 3-4 gradi centigradi. Al termine dell’invecchiamento i barili vengono riportati in superficie con un montacarichi, caricati su di un camion e consegnati al birrificio; dalle botti la birra viene trasferita in serbatoi d’acciaio e centrifugata per rimuovere i sedimenti prima del confezionamento. 
La Barrel Aged Series 2018 è stata inaugurata come al solito dalla imperial stout KBS (marzo) seguita da Backwoods Bastard (aprile),  Dankwood (maggio), Barrel Runner (giugno), Curmudgeon’s Better Half (agosto) e CBS (novembre).  Oggi tocca alla Curmudgeon’s Better Half, ovvero la versione barricata della Old Ale Curmudgeon: visto che in cantina avevo qualche bottiglia di Curmudgeon ho colto l’occasione fare un confronto, in verità non del tutto equo. Quest’ultima ha già cinque anni sulle spalle mentre la Better Half ha “solo” sette mesi di vita.  
Partiamo innanzitutto dal nome: Curmudgeon è una sorta di “vecchio musone”, un anziano che ha un brutto carattere ed è spesso di pessimo umore. Lo sguardo dell’uomo (un pescatore in un vecchio pub di un porto di mare, a quanto dicono) ritratto in etichetta è abbastanza significativo:  la stessa riporta anche la scritta “Old Ale brewed with molasses and Oak Aged”.  Oak Aged non significa Barrel Aged e come Founders stesso conferma in questo caso vengono usati chips di rovere. 
Nel bicchiere si presenta di color ambrato carico, piuttosto velato e con intense sfumature rossastre: si forma una discreta testa di schiuma ocra, cremosa e compatta. Al naso non ci sono grosse profondità ma l’intensità è ancora notevole:  melassa e caramello, prugna, ciliegia, uvetta, qualche nota di legno e vino fortificato.  Non ci sono drammatici cedimenti dovuti all’età e anche al palato la Curmudgeon – fedele al proprio nome - non sembra essersi ammorbidita più di tanto. Corpo tra medio e pieno, carbonazione ancora presente: tra melassa, biscotto, uvetta e prugna si scorge qualche traccia di porto, l’alcool  (9.8%) non intende nascondersi e caratterizza la bevuta dall’inizio alla fine, contribuendo in maniera decisiva a contrastare il dolce. Nel finale, abbastanza ben attenuato, si fa ancora sentire l’amaro resinoso/terroso dei luppoli. Il suo congedo è lungo e lento, caldo, ricco di alcool e frutta sotto spirito.  Ha quasi cinque anni d’età ma questa bottiglia di Curmudgeon, vigorosa e vivace, sembra poter resistere in cantina ancora a lungo: anche se arrivava sugli scaffali in primavera, per me rappresenta un antidoto perfetto ai freddi inverni del Michigan. Da sorseggiare con calma nel corso di una serata.

Passiamo alla Curmudgeon’s Better Half: per parlare della “migliore metà” del vecchio musone dobbiamo fare un salto indietro nel tempo al 2012. In quell’anno Founders annunciava il debutto in bottiglia di una birra che sino ad allora era stata occasionalmente disponibile in fusto alla taproom di Grand Rapids e in pochi fortunati locali:  la Kaiser’s Curmudgeon, ovvero la Curmudgeon invecchiata per 254 giorni in botti ex-bourbon che avevano di recente ospitato sciroppo d’acero del Michigan. La dolce consorte del “musone” è raffigurata in etichetta pronta a versare un po’ di sciroppo d’acero sui pancakes nella speranza di far spuntare un sorriso al vecchio marinaio: fece il suo debutto in bottiglia nel giorno di San Valentino 2012 modificando il proprio nome in Curmudgeon’s Better Half. Da allora Founders non l’ha più replicata, per lo meno in bottiglia. Ma negli ultimi anni la Barrel Aged Series del birrificio del Michigan ha saputo rallegrare i propri clienti riesumando alcune birre scomparse dal radar: il caso più eclatante fu il ritorno nel 2017 della mitica CBS, anch’essa invecchiata in botti di bourbon/sciroppo d’acero. E così nell’agosto del 2018 arrivò da Grand Rapids l’annuncio del ritorno della Curmudgeon’s Better Half: “era un birra che dovevano riportare in vita”  disse Jason Heystek, responsabile del programma Barrel Aged di Founders.
La fotografia al solito non le rende giustizia perché all’aspetto è davvero bellissima:  color ambrato acceso da luminose ed intense venature rossastre. Nonostante l’imponente gradazione alcolica (12.7%) la schiuma ocra è generosa, fine, compatta e ha ottima ritenzione. Sin dall’aroma è evidente come il passaggio in botte rappresenti un salto di qualità impressionante per la Curmudgeon: bourbon, melassa e sciroppo d’acero in primo piano, vaniglia, legno, biscotto, uvetta, prugna, datteri e ciliegia nelle retrovia. Pulizia e finezza rimediano ad un’intensità un po’ dimessa. La sensazione palatale è quella che vorrei sempre trovare in una birra così “importante”: il corpo è quasi pieno ma dal punto di vista tattile questa birra è una morbida carezza, cremosa e vellutata. Il palato si trova ad affrontare una specie di dessert liquido assemblato con melassa, uvetta, ciliegia, datteri e prugne, il tutto generosamente inzuppato nel bourbon: in superficie è stata versata qualche goccia di sciroppo d’acero e, prima di servire il piatto, una spolverata di vaniglia. Il dolce è miracolosamente bilanciato dalla componente etilica, da qualche nota legnosa e dal buon lavoro del lievito: il risultato non è comunque stucchevole e molto, molto soddisfacente. 
Per me il livello è piuttosto alto e il passaggio in botte rappresenta un vero valore aggiunto alla Curmudgeon “base”, birra piacevole ma un po’ avida di spunti emotivi ed espressivi: elementi che invece ritrovo nella sua “dolce metà”, in questo caso davvero la “migliore metà”.  Non gode della stessa fama delle sorella KBS e CBS ma probabilmente la meriterebbe. Volendo proprio farle un appunto le si potrebbe contestare quel carattere un po' "patinato", un po' borghese che le Founders hanno oggi: inevitabile, quando si diventa grandi, molto grandi.
Nel dettaglio: 
Curmudgeon Old Ale, 35.5 cl., alc. 9.8%, IBU 50 , imbott. 04/2014, scad. 12/05/2015, pagata 5.00 euro (beershop)
Curmudgeon's Better Half, 35.5 cl., alc. 12.7%, IBU 35, imbott. 08/2018, scad. 13/08/2019, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.