sabato 30 maggio 2015

Horizont Japán Búza, RothBeer Pyromania, Hedon Madame Porter

Nuovo trittico di birre ungheresi, dopo quelle della Monyo passate in rassegna qualche settimana fa. Ve le presento in ordine di gradimento in un post unico, visto che si tratta di birre che in Italia non sono mai arrivate e, forse, mai arriveranno. 
Dalla beerfirm di Budapest Horizont Sorok ecco la Japán Búza, una birra di frumento realizzata assieme all’homebrewer Kelemen Ottó, vincitore di un imprecisato concorso del 2014 dedicato alle produzioni casalinghe. La birra viene prodotta al birrificio Kaltenecker, in Slovacchia; da quanto leggo sul sito del produttore si tratta di una Hefeweizen la cui ricetta prevede, oltre al frumento, malti Pilsner, Munich, caraamber e caramünich II; ma la sua caratteristica principale dovrebbe essere la luppolatura affidata, oltre che al Magnum, al giapponese Sorachi Ace: da qui il nome scelto, Japán Búza (“buza” significa appunto frumento). 
5.6%  ABV ed un colore che l’avvicina più a quello di una Dunkelweizen (ambrato con riflessi arancio, opaco), presenta al naso sentori di banana matura, limone e, mi sembra, salvia: rendono davvero complicato descriverlo. Le cose non migliorano in bocca: pulizia cercasi disperatamente e sensazione palatale che di compone di banana matura, caramello ed un amaro erbaceo poco elegante e poco gradevole. Ma la cosa che disturba maggiormente è la sua pesantezza a livello tattile, ovvero tutto il contrario di quello che una Weizen dovrebbe essere. Le poche bollicine non aiutano di certo a risollevarla, con il risultato di una birra pesante e poco dissetante, che passa dal dolce del caramello e della banana matura all’amaro vegetale un po’ astringente. Bottiglia sfortunata?
Sempre alla slovacca  Kaltenecker produce anche la beerfirm Roth Beer che ha sede a Nagykovácsi, una quindicina di chilometri da Budapest. Fondato da Zoltán Róth, homebrewer dal 2005 e vincitore nel 2012 del titolo di miglior homebrewer ungherese con la Távoli Galaxis, una IPA che ho avuto l’occasione di provare a Budapest, onesta e di buona fattura. Nel 2013 la beerfirm viene proclamata da Ratebeer come il miglior “birrificio” ungherese; oltre alla già citata IPA, produce una serie di birre single hop IPA (Bakancslista IPA) e Pyromania (7.5%), una “Füstös Barna” (“scura affumicata”),  che tecnicamente è una Smoked Porter. Cinque i tipi di malto utilizzati (Pilsner, Munich, Dark Caramel, Carafa e Smoked) con luppoli Magnum e Spalter Spalt. 
Nel bicchiere è di un bel marrone limpido, con intensi riflessi rossastri ed una compatta schiuma beige, molto persistente. Il suo percorso inizia male, con un aroma poco intenso e  poco pulito: carne affumicata, una parvenza di pane nero. Molto meglio in bocca, dove c’è per lo meno una buona intensità ed un livello accettabile di pulizia. Il problema è che gli elementi che la compongono non sono in buona armonia tra di loro e sembrano far a spallate l’uno con l’altro per rubarsi la scena a vicenda: l’orzo tostato, il caffè e il lieve affumicato mal s’accompagnano alla generosa luppolatura che porta in dote un amaro vegetale, terroso e poco elegante. Ci sono anche liquirizia e dolce caramello, mentre la sensazione palatale è morbida; l’alcool è ben nascosto, portando solo un leggero tepore. Non ci sono evidenti difetti o puzzette, quello che manca soprattutto è amalgama ed armonia; aroma a parte, più che una porter affumicata ma ha piuttosto ricordato una Black Ale generosamente luppolata, quasi di stampo americano, non fosse che dichiara di utilizzare solo luppoli europei. La sufficienza comunque se la porta a casa, con ampi margini di miglioramento.
Chiudo il trittico con la Madame Porter prodotta da un'altra beefirm di Budapest, la Hedon, fondato da Németh Antal (birraio, ex-homebrewer), George Szlamka (Marketing) ed Elek Zoli, che attualmente produce al birrificio Guri Sörfőzde di Jászapáti, circa 150 chilometri ad est di Budapest. 
Marrone scuro, un po' torbido, con riflessi ambrati; schiuma beige, fine e cremosa, dalla buona persistenza. La gradazione alcolica quasi da session beer (5%) non è una scusa per rinunciare all'intensità: il naso è inaspettatamente ricco di orzo tostato, cioccolato al latte, chicchi di caffè, una suggestione di vaniglia e lievi sentori di carne affumicata e di cenere. C'è pulizia ed una discreta eleganza. Bene anche il gusto, semplice ma ben fornito di caffè, orzo tostato, cioccolato e liquirizia. L'unico appunto che mi sento di farle è di essere leggermente slegata ed un po' sfuggente in bocca, con troppe bollicine per lo stile ed un'acquosità un po' troppo accentuata. Detto questo, nonostante i 24 IBU dichiarati ha una chiusura amara abbastanza intensa di caffè e tostature. Una Porter ben fatta, bilanciata e pulita, che mantiene alta l'asticella dell'intensità garantendo il massimo della facilità della bevuta. 
Nel dettaglio:
Horizont Japán Búza, formato 33 cl., alc.5.8%, IBU 16, scad. 14/08/2015, pagata 2.51 Euro.
RothBeer Pyromania, formato 33 cl., alc. 7.5%, IBU 35, scad. 16/09/2015, pagata 2,79 Euro.
Hedon Madame Porter,formato 50 cl., alc. 5%, IBU 24, scad. 20/07/2015, pagata 2.68 Euro.

NOTA: la descrizione della birre è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglie, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale dei birrifici.

giovedì 28 maggio 2015

Buxton Two Ton Double IPA

Lo scorso 10 Aprile 2015 viene lanciata in anteprima, in una quarantina di locali selezionati in tutta Europa, la nuova Imperial/Double IPA del birrificio inglese Buxton chiamata Two Ton. Oltre ai 25 locali del Regno Unito, è possibile berla anche in Polonia (Varsavia e Cracovia), in due locali di Lille, a Stoccolma e Oslo, al Biercab e all’Ale & Hop di Barcellona e all’Helsinki Beer Festival. In Italia ne viene omaggiato il Tuxedo Beer House di Piacenza e, credo, un locale a Roma che non sono riuscito ad identificare. Ma questa massiccia Double IPA (11%) viene prodotta soprattutto per la Copenhagen Beer Celebration che si tiene nel weekend del 01 Maggio; il nome scelto (Two Ton) si riferisce al fatto che per produrla sarebbero state usate circa due tonnellate di malto, ovvero tutto quello che il tino di ammostamento poteva contenere. Completano l’opera luppoli americani ed australiani. 
Premetto di non amare troppo questo genere di IPA (Double o Triple, a seconda di come volete chiamarle) dall’ABV a doppia cifra: ne ho trovate davvero poche veramente fatte bene e solo negli Stati Uniti (qui, quiqui, qui e qui qualche esempio). Ma Buxton è un birrificio che mi ha dato sino ad ora delle buone soddisfazioni, e quindi ho voluto provare. Difficile infatti garantire una buona bevibilità in uno stile che prevede una robusta struttura maltata per sostenere l’abbondante luppolatura: bisogna nascondere bene l’alcool, scegliere bene i malti e, se l’attenuazione non è adeguata, spesso la bevuta diventa una mappazza difficile da digerire. Altra condizione fondamentale per una bevuta soddisfacente è la freschezza, in maniera ancora maggiore che in una IPA “normale”: se lasciate svanire l’abbondante luppolatura la birra diventerà molto probabilmente un dolcione molto poco equilibrato. Almeno questa condizione è rispettata: bottiglia nata il primo aprile 2015, età ancora accettabile. 
Nel bicchiere arriva di un bel colore ambrato, con intensi riflessi rossastri e arancio: la schiuma avorio è compatta e cremosa, dalla trama fine e dall’ottima persistenza. L’aroma è ovviamente ancora fresco, con un’ottima intensità che si avverte anche a diversi centimetri di distanza dal bicchiere: i profumi sono ovviamente quelli della frutta tropicale (mango, ananas, melone), con qualche incursione di fragola, di agrumi e, quando la birra si scalda, di caramello e di alcool. In bocca non ci sono sconti: corpo pieno, poche bollicine, una bella cremosità data dall’utilizzo di avena. L’alcool si fa però sentire sin da subito, e nonostante la morbida sensazione palatale questa Two Ton si sorseggia piuttosto lentamente.  Dopo le note maltate di caramello, fetta biscottata e miele, c’è un (troppo) breve intermezzo di frutta tropicale (mango e ananas) e subito un intenso amaro resinoso con qualche nota di pompelmo. L’alzarsi della temperature ne aumenta la dolcezza, con delle leggere sfumature di canditi e di marmellata, ma l’elevato livello di amaro riesce comunque a mantenere la birra in un sostanziale equilibrio. 
In conclusione?  Per quel che riguarda il mio gusto personale, che non ama particolarmente queste bombe alcoliche luppolate, avverto una presenza etilica troppo invadente, sento la mancanza di una maggiore componente fruttata e, soprattutto, ci vorrebbe più secchezza: caratteristiche che invece erano presenti in quelle poche DIPA americane dall’ABV in doppia cifra che mi erano davvero piaciute. Tralasciando “quel che piace a me”, la Two Ton di Buxton è oggettivamente una Double IPA molto pulita e ben fatta, intensa, con la quale sarete a posto per tutta la serata: il consiglio è ovviamente di berla  finché è fresca e finché le temperature non diventano davvero estive. Dopo tutto è stata realizzata pensando alla Copenhagen Beer Celebration di Maggio: chi ha orecchie per intendere, intenda.
Formato: 33 cl., alc. 11%, imbott. 01/04/2015, scad. 01/01/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 27 maggio 2015

Lost Abbey Saints Devotion


Nel 2006 Lost Abbey è tra i primi birrifici americani, se non il primo, ad offrire un programma di “membership”:  pagando una determinata quota, vi viene garantito l’invio a casa di un determinato numero di birre nel corso dell’anno.  Iscrivendosi al “Patron Saints Club”, avrete la certezza di bere le creazioni “in stile belga” di Lost Abbey (che a quel tempo aveva una distribuzione molto meno importante di quella attuale) senza doverle cercare in giro e, soprattutto, senza rischiare di restare senza. La quota di sottoscrizione comprende solo il costo delle birre, alle quali vengono poi aggiunti i costi di spedizioni ogni volta che questa avviene, indicativamente un paio di volte al mese. 
Qualche mese dopo viene lanciato un secondo club, chiamato “Patron Sinners”, dedicato alle birre più rare, a quelle acide o affinate in botte; si tratta di birre che, a quel tempo, erano prodotte in quantità davvero limitata e spesso non venivano neppure distribuite al di fuori del birrificio, in quanto andavano esaurite poche ore dopo la messa in vendita.  Con l’apertura di questo “club” Lost Abbey vuole dare l’opportunità di berle anche a chi non è in grado di presentarsi di persona a San Marcos; al tempo stesso il denaro raccolto “in anticipo” dalle sottoscrizioni aiuta a finanziare lo sviluppo del programma di affinamento in legno, ovvero l’acquisto di un numero maggiore di botti. La sottoscrizione al club garantiva inoltre la possibilità di acquistare merchandising esclusivo, i biglietti per alcune serate di degustazione riservate ai soci ed alcune birre ad edizioni limitata, come ad esempio Isabelle Proximus 
Giusto per darvi un’idea, i costi iniziali erano di 160 dollari per il Patron Saints (200 membri) e di 235 per il Sinner Club, che ha ospitato, nelle diverse annate, birre del calibro di Red Poppy, Duck Duck Gooze , Deliverance , Framboise Amorosa, Cable Car, Yellow Bus e Angel Share Grand Cru.  Una volta raggiunto il numero massimo di iscritti, eravate inseriti nella lista d’attesa per l’anno successivo che, da quanto leggo, contava 400-500 persone. 
I due club vengono però inaspettatamente chiusi nel 2011; a quanto pare la loro gestione stava diventando troppo complicata e stressante per il ridotto staff del birrificio. Sui forum di Ratebeer ed BeerAdvocate si possono leggere le frustrazioni dei clienti:  lunghi ritardi nelle spedizioni (soprattutto per le barricate, che non erano ancora pronte), difficoltà nel contattare qualcuno del birrificio per chiedere informazioni e, soprattutto, il fatto che a volte queste birre “esclusive” si trovavano in qualche festival o, peggio ancora, in qualche Whole Foods. Alcune birre, come la Mother of All Beers (poi divenuta Judgment Day) ebbero una richiesta dal mercato talmente elevata che non furono inviate ai membri come promesso ma sostituite da qualcos’altro. 
La motivazione di Tomme Arthur è invece un po’ diversa, e chiama in causa soprattutto la difficoltà nel districarsi nel complicato labirinto delle leggi dei diversi stati americani per quel che riguarda la legalità dello spedire direttamente la birra al cliente finale da parte di chi la produce. Inoltre, Arthur vuole avere maggior flessibilità nella produzione delle birre acide e sugli affinamenti in botte senza dover necessariamente essere obbligato a produrre una determinata quantità di una specifica birra per soddisfare il programma dei propri affiliati. La capacità produttiva di Lost Abbey era già parecchio sottodimensionata, al punto che fu chiesto l’aiuto di Vinnie Cilurzo di Russian River per produrre ed imbottigliare la quantità destinata al club della Cuvee de Tomme e della Synergy.
Nel 2008, tra le offerte del Patron Saints Club c’è una versione “brettata” della Devotion, la Belgian Ale di casa Lost Abbey; la birra viene poi riproposta nel 2012, dopo la fine dei club, guadagnandosi la medaglia d’oro al Great American Beer Festival nella categoria 70  “Belgian and French-Style Ale”. Nel 2013 ottiene l’argento alla San Diego International Beer Competition (Hybrid Belgian-Style Ale), entrando così stabilmente in produzione anche per cavalcare la moda del “brett”, ormai dilagante negli Stati Uniti. La versione brettata della Devotion diventa quindi la Saint’s Devotion (etichetta differente) o, come nella bottiglia capitata a me, semplicemente Devotion Ale Saint’s Edition.
Si presenta di un bel color dorato, leggermente velato e sovrastato da un generoso cappello di schiuma avorio, quasi pannosa, dall'ottima persistenza. L'aroma offre un elegante e pulito bouquet che si compone di fiori bianchi, lime e limone, pepe bianco; più in sottofondo i sentori lattici dei brettnomiceti (molto lievi, in verità), ananas, miele, banana e una nota rustica di paglia. Il gusto è un po' meno sfaccettato dell'aroma ma, nella sua relativa semplicità, offre grandissima soddisfazione. Pulitissimo e molto ben bilanciato tra la crosta di pane, il miele, il dolce della polpa d'arancio e della pesca gialla e una rinfrescante acidità. Rappresenta indubbiamente più l'eleganza di un salotto borghese che la rustica campagna raffigurata in etichetta, ma non è una colpa, anzi: molto dissetante e secca, chiude con amaro erbaceo e 'zesty', con una punta di lattico. Corpo medio e bollicine vivaci quanto basta, bevibilità a livelli elevatissimi: il carattere brett forse emerge un po' poco, ma è un vezzo che le si perdona senza nessun rimpianto.
Formato: 75 cl., alc. 6.66%, lotto non riportato, pagata 10.07 Euro (beershop, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 26 maggio 2015

Extraomnes Chien Andalou

Il 6 giugno del 1929 viene presentato per la prima volta presso Lo Studio Des Ursolines di Parigi il cortometraggio Un Chien Andalou, debutto alla regia dello spagnolo Luis Buñuel; nella capitale francese André Breton aveva pubblicato qualche anno prima (1924) il Manifesto del Surrealismo, e a tutti gli effetti Un Chien Andalou si può considerare il primo film surrealista della storia. 
All’origine del film ci sono i sogni fatti da Luis Buñuel  (un rasoio che recide un occhio) e  Salvador Dalí (una mano piena di formiche) in una notte a Figueres; il film viene realizzato in tre settimane (una per la sceneggiatura, due per le riprese) con i soldi prestati dalla madre di   Buñuel e con l’aiuto di amici e fidanzate impiegati come attori La stesura avviene con il metodo della “scrittura automatica” del surrealismo, per aprire volutamente le porte all’irrazionale senza utilizzare nessuna logica o significato. Le immagini di Un Chien Andalou sono state tuttavia interpretate sotto i più diversi punti di vista: chi vede nella scena del taglio dell’occhio una metafora del lavoro del regista (“vedere” e “tagliare”), chi il desiderio di tagliare l’occhio dello spettatore per “fargli vedere un mondo completamente diverso” e chi, in una visione psicanalitica, evoca la solita angoscia di castrazione (occhi come simbolo dei testicoli). 
Nel nonsense di un'opera surrealista - a quasi novant’anni di distanza -  immaginate la trasformazione di un occhio tagliato in una birra da bere: il film di Buñuel e la celebre scena, vengono infatti scelti dal forum  "Il Barbiere della Birra" come punto di partenza per realizzare una birra. L’idea trova poi la collaborazione di Luigi 'Schigi" D'Amelio del birrificio Extraomnes: se il cane (chien) è il simbolo dl birrificio di Marnate, una tagliente lametta da barba è quello del forum.  Quest'ultimo è la continuazione (o involuzione?) delle vecchie esperienze del newsgroup di it.hobby.birra  (spulciando negli archivi troverete anche interventi di coloro che oggi sono divenuti affermati birrai: Campari, Loverier, Di Vincenzo...) e poi del forum di MoBi; il  “Barbiere della Birra” è un non-luogo virtuale dove appassionati di vecchia e nuova data discutono di birra, senza risparmiare qualche “rasoiata” o critica, quando è necessaria…. e  anche quando forse non lo è. 
Un manipolo di utenti partecipa alla cotta che viene realizzata il 20 dicembre 2014 presso il birrificio Extraomnes  con l'aiuto del birraio Luigi Schigi D'Amelio; la ricetta era stata precedentemente elaborata nell’apposita sezione “segreta” del forum, (quasi) seguendo il principio della “scrittura automatica” surrealista: proposte, controproposte, aberrazioni ed insulti che avevano fatto nascere una “Belgian Quintupel” di 22.4° Plato e prodotta con l’utilizzo di miele, zucchero candito scuro, uvetta Corinto e Sultanina, mandorle, nocciole e vaniglia. 
Fatta la birra, per l’etichetta viene organizzato un concorso pubblico: illustratori, grafici e disegnatori sono invitati ad inviare la propria proposta che deve contenere cane (Cirneco dell'Etna), rasoio/lametta e taglio dell’occhio. Ad insindacabile giudizio degli utenti del forum, tra le quasi cinquanta bozze pervenute viene scelta l’etichetta della giovane grafica romana  Eleonora De Martini, con qualche strascico polemico in pieno “Barbiere-style”. Alla vincitrice il premio di  24 bottiglie di Chien Andalou ed  un posto in prima fila all'evento di presentazione al “Ma che siete venuti a fà” di Trastevere il 07 Marzo 2015. 
Chien Andalou, provocatoriamente definita quintupel,  è una Belgian Strong Ale la cui importante gradazione alcolica (11%) l’avvicina pericolosamente a sua maestà Rochefort 10. Il suo vestito è di color marrone piuttosto scuro, con qualche riflesso più chiaro che richiama la tonaca del frate; la schiuma beige è impeccabilmente fine e cremosa, dall’ottima persistenza. L’aroma, pulito ed elegante, è piuttosto ricco e complesso: uvetta e miele, caramello, biscotto, mandorle, sentori di prugna e di vaniglia, lievissima pera; la componente etilica richiama quasi un babà al rum. In bocca il corpo è meno consistente del previsto, tendente al medio anziché al pieno: le bollicine sono poche, con una sensazione generale di morbidezza. Passano in rassegna biscotto e miele, mandorla, zucchero caramellato, uvetta, prugna, datteri. Impressionante il modo in cui l’alcool è nascosto e anche la secchezza che riesce a stemperare il dolce di questa birra; all’inizio si ha quasi l’impressione di una lieve astringenza, che scompare però col passare dei minuti. Il conto arriva solo a fine bottiglia, quando  gli 11 gradi in percentuale si fanno sentire:  sontuoso il retrogusto, morbido, con un’avvolgente calore etilico di frutta sotto spirito che non va mai oltre le righe. La pulizia è encomiabile ed i quasi sei mesi in bottiglia hanno già iniziato ad ammorbidire  le irrequietezze della giovane età: una Quadrupel molto, molto ben fatta che obbliga a recarsi in alcune selezionate località del Belgio, se la si vuole proprio paragonare a qualcosa. E' da gustarsi con calma dopocena, magari accompagnata dal solito cioccolato fondente. E, come per l'ineguagliabile Rochefort 10, è quasi obbligatorio metterne qualche bottiglia in cantina, per vedere come sarà "da grande". 
Formato: 33 cl., alc. 11%, lotto 022 15, scad. 31/01/2018, pagata 5.30 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 maggio 2015

Stillwater As Follows


Continuiamo con gli assaggi di Stillwater Artisanal, la beerfirm americana di Brian Strumke della quale qui trovate la breve storia. Oggi è la volta di “As Follows”, una Belgian Strong Ale prodotta per la prima volta nel 2012 per festeggiare il secondo compleanno della beerfirm. A quel tempo fu chiamata “Escathological Ale”,  quindi una birra che implica la riflessione sul destino dell’uomo dopo la morte;  l'escatologia cristiana, nello specifico, ha a che vedere con la resurrezione dei morti, la vita eterna, il giorno del giudizio e l'Aldilà. 
Birra da meditazione, dunque ? Non proprio; qualcuno ricorderà che il 2012 era l’anno della profezia dei Maya, secondo la quale il mondo sarebbe terminato il 21 dicembre o in prossimità di esso. Ecco la birra escatologica, quindi, da bere in attesa dell'apocalisse e di quello che verrà dopo.
Ovviamente la profezia Maya non si è avverata ed ecco che si è reso necessaria cambiare nome alla birra, che diventa "As Follows", l'andare oltre, il "come segue". Il tutto è forse spiegato nella bella ma complessa etichetta disegnata, credo, dal fido Lee Verzosa, amico di Strumke, illustratori e tatuatore; i numeri romani (MMXII) riportano l'anno citato in precedenza, un teschio, un uomo che sembra scrutare oltre, nel futuro, attraverso un complicato cannocchiale.
Molto più rassicurante è la birra nel bicchiere: arancio pallido, velato, ed un bel cappello di bianca schiuma "croccante", cremosa e compatta, dalla buona persistenza. Al naso c'è una pacifica convivenza di sentori aspri di frutta acerba e di scorza d'agrumi (lime e limone) con quelli dolci dei canditi e del miele; in sottofondo una leggera speziatura (coriandolo) ed una lievissima nota volatile, di solvente, che fortunatamente scompare dopo qualche minuto. In bocca si sente subito la mancanza di un po' di bollicine a dare un po' di vivacità; ne guadagna la morbidezza, non la piacevolezza, e la birra dal corpo medio scorre piuttosto agevolmente. Biscotto, miele e sopratutto canditi (agrumi) sono la spina dorsale del gusto che viene arricchito dalla pesca sciroppata e dall'albicocca; una bella attenuazione riesce poi a contrastare la dolcezza della bevuta, che termina con una timida nota amara di scorza d'agrumi. Il retrogusto è di nuovo dolce di frutta sciroppata, riscaldato da una lieve alcool warming. 
Una Belgian Strong Ale pulita e ben fatta, che non è riuscita però a regalarmi molte emozioni: quasi un esercizio di stile che si lascia bere bene, ma con tutto quello che già c'è più vicino a noi, in Belgio, personalmente non vedo l'utilità di farla arrivare dagli Stati Uniti. E visto che questo discorso si potrebbe fare su molte altre birre che attraversano l'oceano, meglio concluderlo ancora prima di iniziarlo e finire di gustarsi questa As Follows.
Formato: 35.5 cl., alc. 9%, lotto 345:24 15:54, scad. non riportata, pagata 5.40 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 24 maggio 2015

Amager / Grassroots Shadow Pictures - Skyggebilleder

Una decina sono le ore di volo che separano Kastrup, la piccola località  a  sud di Copenhagen dove ha sede la Amager Bryghus, e Greensboro Bend (Vermont, USA) dove invece si trova la Hill Farmstead Brewery di Shaun Hill. Ma non molti anni fa (2008) la distanza tra i birrai era di pochissimi chilometri: il birraio americano era emigrato proprio a Copenhagen per lavorare alla Norrebro Bryghus; Amager aveva aperto le porte nel 2007 e, visto che la capitale danese non abbonda di microbirrifici, è normale che tra Shaun Hill, Morten Valentin Lundsbak e Jacob Storm (i due titolari di Amager) fosse nata una bella amicizia. Nel 2009 Shaun lancia il suo marchio "Grassroots", iniziando così l'attività di "birraio zingaro" arricchita da svariate collaborazioni; una delle prime è proprio con Amager,  quando viene realizzata la Black IPA chiamata Black Nitro
Grassroots ha vita breve, perché nel 2010 Shaun ritorna negli Stati Uniti per aprire Hill Farmstead; il marchio finisce per un po' nell'oblio ma viene rispolverato ogni qual volta c'è la voglia di collaborare con qualcuno. Nel 2013 Morten e Jacob di Amager vengono invitati nel Vermont e per l'occasione viene anche realizzata una Double IPA collaborativa che viene chiamata "Shadow Pictures of a Journey, nome che si ispira agli scritti di Hans Christian Andersen. Si trattò di una "one shot" mai più ripetuta, per lo meno negli Stati Uniti: in Danimarca invece la ricetta viene riprodotta, o meglio re-interpretata dai birrai di Amager. Il nome varia leggermente "Shadow Pictures - Skyggebilleder" e il marchio di Grassroots fa comunque la sua comparsa in etichetta.
Malti Pilsner, Cara-Hell, Munich e un ricco parterre di luppoli che comprende Herkules, Tomahawk, Simcoe, Chinook, Amarillo, Centennial, Cascade e Citra; impossibile poi non citare la bella etichetta realizzata dall'illustratore Simon Hartvig Daugaard.
Nel bicchiere si presenta tra il dorato e l'arancio velato, con una cremosa e compatta schiuma bianca dall'ottima persistenza. Bottiglia che dovrebbe avere un paio di mesi di vita sulle spalle e ciò si riflette sull'aroma, ancora fresco: difficile staccare il naso dal bordo del bicchiere quando si hanno i profumi di una macedonia composta di ananas, melone, mango, passion fruit, papaya e mandarino. Domina la frutta tropicale, ma soprattutto eleganza e pulizia, senza nessuna deriva cafone che, purtroppo, spesso accompagna questo tipo di succhi tropicali. Le aspettative appena create sono mantenute anche al palato: è una Double IPA davvero ben fatta, morbida e molto pulita, con il corpo medio e poche bollicine. Ci sono crosta di pane e qualche accenno di miele a supportare un ricco bouquet di frutta tropicale (soprattutto mango ed ananas) e agrumi. L'alcool (8%) ha una presenza discreta e mai invadente, l'amaro arriva quasi all'ultimo minuto ma con un rapido crescendo diventa il protagonista del finale, bilanciando la bevuta con eleganti note resinose. A questa Shadow Pictures mi sento di contestarle solo un'attenuazione non impeccabile, che l'allontana un po' dai migliori esempi della West Coast; un'altra buona IPA/DIPA da Amager, che dopo la Batch 1000 continua a produrre bere molto pulite e molto buone, continuando il suo percorso di fuoriuscita dalla "scuola scandinava" in direzione di quella a stelle e strisce: le frequenti collaborazioni con birrai americani hanno evidentemente dato i loro frutti. E la soddisfazione di fine bevuta rende più digeribile il prezzo del biglietto, che per questa birra non è esattamente economico.
Formato: 50 cl., alc. 8%, lotto 992, scad. 03/2016, pagata 9.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 22 maggio 2015

Gambolò Gasoline Super 15 Minutes IPA

Il mio primo ed unico incontro con il Birrificio Gambolò risale ad un paio di anni fa e – devo ammettere – non fu particolarmente soddisfacente, complice anche una bottiglia probabilmente poco fresca. Ma ricapitoliamo la storia: situato nell'omonimo comune della provincia di Pavia il birrificio è guidato da Simone Ghiro, diploma universitario d'insegnante di educazione fisica ma passione per la birra che scorre nel sangue. Frequenta diversi corsi, diventa degustatore ADB, partecipa come giudice ad un paio di edizioni di Birra dell'Anno. Appena può, frequenta alcuni microbirrifici per apprendere quanto più possibile; sono il Birrificio Menaresta ma, soprattutto, Fermentum - Birrificio del Carrobiolo di Monza. E' proprio Pietro Fontana, birraio di Carrobiolo, a guidare i primi passi nella pratica e nella burocrazia di Simone che, dopo oltre un decennio di homebrewing si decide nel 2010 a fare il grande salto nel mondo dei professionisti. Un paio d'anni di preparativi, tanta burocrazia e finalmente, a dicembre 2012, l'apertura delle porte. 
Il primo "grande" appuntamento che il birrificio decide di affrontare è quello di Birra dell'Anno 2013; dopo averla vissuta ai tavoli dei giudici, questa volta Simone passa dall'altra parte della barricata. La spedizione di Rimini si rivela un buon successo, con la birra Nowhere che si aggiudica la medaglia d'oro nella propria categoria. All’ultima edizione di Birra dell’Anno il birrificio ha portato a casa un’altra medaglia (argento), sempre con la Nowhere,  nella categoria 7, dietro alla Re Ale di Birra del Borgo. 
Ritorno quindi a bere Gambolò questa volta con la certezza di stappare una birra abbastanza fresca. E’ la Gasoline Super 15 Minutes IPA, che prende chiaramente il nome dalla tecnica inventata dall’americano  Sam Calagione di Dogfish Head: il luppolo viene gettato costantemente durante gli ultimi minuti di bollitura (15, in questo caso) per preservare gli oli essenziali del luppolo e quindi il loro contributo impatto aromatico. Non se poi sia anche effettuato un dry-hopping, come Calagione fa con le sue 60 e 90 Minutes IPA.  
Il colore di questa Gasoline Super mi porta subito il sorriso sulle labbra: finalmente una IPA dorata (e non ambrata, come la maggioranza italiana), con qualche riflesso arancio, come vuole la scuola della West Coast: la schiuma color avorio ha un’ottima persistenza, è compatta e cremosa. Benissimo anche l’aroma, con una macedonia di frutta ancora abbastanza fresca che è ruffiana quanto basta senza cadere nella cafoneria: ananas, mango, melone retato, mandarino. In sottofondo la leggera presenza delle note di pane e di crackers, le stesse che in bocca costituiscono il supporto necessario all’esibizione dei luppoli. C’è una lieve nota di miele, un richiamo di frutta tropicale (soprattutto ananas) e poi tanta scroza di agrumi, piuttosto che polpa: pompelmo, lime e limone. Le bollicine sono nella quantità giusta, il corpo è tra il medio ed il leggero con un ottimo compromesso tra la necessità di scorrere veloce e quella di lasciare comunque una morbida presenza palatale. Finisce secca ed amara, con le note “zesty” a dominare nettamente quelle resinose, delle quali personalmente avrei gradito una maggiore presenza, anche a costo di sacrificare un po’ l’accessibilità di questa Gasoline Super. 
Il risultato è molto positivo: pulita e molto dissetante, bilanciata nel suo DNA amaro e lontana anni luce da  quelle stucchevolezze caramellose che vengono spesso utilizzate per bilanciare la generosa luppolatura.  A temperatura ambiente avverto anche un leggerissimo warming etilico, ma è una IPA che si presta tranquillamente a bevute seriali senza “se” e senza “ma”: l’estate è alle porta, e lei vi aspetta.
Formato:  33 cl., alc. 5.8%, lotto 0215, scad. 23/01/2016, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 maggio 2015

St Bernardus Extra 4

St Bernardus Extra 4: quella che potrebbe sembrare una novità, è in realtà un ritorno. Facciamo un passo indietro nel tempo al secondo dopoguerra, quando Padre De Groote, da trent'anni abate all’Abbazia di St. Sixtus di Westvleteren decide d’interrompere quasi del tutto la produzione di birra del monastero: le attività stavano impegnando troppo i monaci, distogliendoli da quella che doveva essere la loro vocazione primaria,  pregare.  Continua ad essere prodotta nel monastero solamente una piccola quantità necessaria al consumo interno, mentre la restante viene “appaltata” al  vicino Evarist Deconinck, già produttore di formaggi a Watou per conto dell’abbazia. Il contratto, di durata trentennale, viene firmato nel 1946 e poi rinnovato nel 1962. Nel 1992 la produzione di birra ritorna dentro le mura di Westvleteren, condizione necessaria se si vuole mantenere il marchio “Authentic Trappist Product”: da St. Bernardus, a Watou,  non si possono quindi più produrre le Westvleteren, ma c’è tutto il necessario per andare avanti in proprio. C’è l'esperienza di cinquant'anni, ci sono le ricette e, soprattutto, i preziosi lieviti “originali” di St. Sixtus, che a partire proprio dagli anni ’90 li abbandona per utilizzarne dei nuovi gentilmente forniti dai fratelli di Westmalle. 
St. Bernardus riparte quindi con le proprie gambe e con una serie di birre molto simili a quelle di Westvleteren, anche visivamente: lo stesso sorridente frate che un tempo veniva raffigurato sulle etichette delle St. Sixtus viene riproposto - in abiti civili/medievali – sulle etichette delle nuove St. Bernardus. 
Tra le birre prodotte a partire dal 1946 per conto di St. Sixtus c’erano Abt 12, Prior 8, Pater 6 and Extra 4. Quest’ultima, la più “leggera” era quella che veniva bevuta principalmente (e quotidianamente) dai monaci, una “patersbier” equivalente alla Chimay Doreé, alla Westmalle Extra e alla Petite Orval. 
Negli anni ’70 la domanda della Extra 4 da parte dei clienti subisce un grosso calo e la sua produzione alla St. Bernaerdus viene soppressa continuando solamente, suppongo, all'interno del monastero per il consumo interno. Nella primavera del 2014 alla St. Bernardus decidono di riportarla in vita: sarà prodotta inizialmente una sola volta l'anno e messa in vendita a partire dal 15 di maggio. Quanto abbia in comune con quella che oggi è il prodotto più leggero di Westvleteren (la Blond, 5.8%) non sono in grado di dirlo. Meglio assaggiarla.
Il suo colore è il giallo paglierino, opaco: bianchissima la schiuma, cremosa e compatta, dalla trama fine, molto persistente. Aroma pulitissimo e ancora abbastanza fragrante, nonostante la bottiglia abbia ormai festeggiato il primo compleanno: banana, scorza d'arancio, sentori di fiori bianchi, spezie (coriandolo, pepe), qualche nota erbacea e di zucchero a velo. Perfetta in bocca, leggerissima e vivacemente carbonata, scorre con la stessa velocità dell'acqua senza però perdersi in essa. Pane e crackers, un tocco di miele, la delicata speziatura del coriandolo e del curaçao, agrumi: una semplicità caratterizzata da una pulizia maniacale che permette al lievito di esprimersi al massimo delle sue possibilità. Attenuatissima, chiude con un amaro elegante e delicato, lievemente erbaceo e zesty: il tempo di bevuta  dell'intera bottiglia sarebbe stato di pochi secondi se non avessi dovuto scrivere di lei bevendola. Sarà forse anche stata "colpa" del caldo, ma l'ho trovata una (quasi) session belga molto elegante e delicata, con ogni cosa al posto giusto, da bere senza sosta: anche in Italia si comincia a trovare ad un prezzo decente, ben ai di sotto dei 3 Euro.
Formato: 33 cl., alc. 4.8%, lotto A, scad. 30/04/2016, pagata 2.16 Euro (beershop, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 maggio 2015

Birra Perugia Ila Scotch Ale

Presentata ufficialmente lo scorso 27 febbraio al “Non C’Era” di Perugia, “Ila” è una delle novità 2015 di Birra Perugia: si tratta di una scotch ale prodotta in collaborazione con Samaroli, importante selezionatore di distillati operativo dal 1968 e primo operatore non britannico o scozzese ad intraprendere questa professione. In sostanza,  "seleziona campioni che gli giungono da tutte le più importanti distillerie; piccoli flaconi provenienti ognuno da una specifica botte; sceglie il barile e lo fa imbottigliare con etichetta propria".
Dalla collaborazione con Birra Perugia nasce Ila: il nome è una precisa indicazione di cosa aspettarsi nel bicchiere: siamo nel territorio dei Whisky torbati. La scotch ale è infatti finita in un single cask da 230 litri fornito da Samaroli ed utilizzato in precedenza per far maturare un Whisky Caol Ila del 1980. Questo prima botte è arrivata a Perugia nel settembre del 2014, e quindi la birra è stata affinata per circa 4/5 mesi. 
La distilleria Caol Ila, il cui nome in gaelico significa “il suono di Islay”, ovvero di quello stretto di mare sul quale s’affaccia la distilleria che separa Islay dall’isola di Jura, fu fondata  nel 1846 da Hector Henderson. La società ha subito numerosi cambi di proprietà: nel 1854 fu venduta a Norman Buchanan e  nel 1863 da questi alla Bulloch Lade & Co di Glasgow (il cui logo viene riportato sull’etichetta della birra)  poi autoliquidatasi nel 1920. La distilleria venne acquisita da un consorzio di imprenditori che la rifondarono chiamandola Caol Ila Distillery Company Ltd: nel 1930 la maggioranza delle azioni divennero di proprietà della Scottish Malt Distillers Ltd.  Nel 1972 i vecchi edifici furono completamente demoliti e ricostruiti in un paio di anni; la distilleria diventò poi parte del gruppo multiazionale Diageo (quello della Guinness, per intenderci, ma anche dei marchi Vodka Smirnoff, Johnnie Walker, e Moet &/Chandon, tanto per citare i più noti).
La ricetta della Ila Scotch Ale indica malti Maris Otter, Caramel e Crystal, luppoli Challenger ed East Kent Golding; è molto bella all’aspetto, di colore tonaca di frate impreziosito da intense nuances rosso borgogna: la schiuma ocra è fine e cremosa, compatta, con un'ottima persistenza. Al naso troviamo toffee e frutta secca, sentori legnosi e tornati, con una lievissima presenza iodata; bene la pulizia, un po' debole l'intensità, che invece sale drasticamente di livello al palato. Morbida in bocca, con poche bollicine e corpo medio, Ila ripresenta il caramello/toffee, la frutta secca e il biscotto, qualche accenno di uvetta. L'inizio dolce viene poi bilanciato dalle note legnose, solo lievemente astringenti, che portano ad un'equilibrata chiusura tannica. Il passaggio in botte, relativamente breve, non è risultato particolarmente invadente e le note torbate non coprono la birra ma ne costituiscono solamente un bell'arricchimento; idem per quel che riguarda il whisky la cui presenza, delicata e discreta, s'avverte solamente quando la birra raggiunge la temperatura ambiente. L'alcool è sempre sotto controllo, con il risultato di una birra che scalda quanto basta mantenendo una buona facilità di bevuta; l'intensità aumenta solo nel retrogusto, avvolgente e caldo di frutta sotto spirito, torbato e con una leggerissima nota marina.  
Ben fatta e bilanciata, è una birra abbastanza elegante che vedo sicuramente adatta per i dopocena autunnali o invernali; in assenza della stagione giusta, io ho approfittato dei temporali di una sera di maggio, con buona soddisfazione. La consiglierei anche a chi non ha molto familiarità con il torbato (o non lo ama particolarmente):  come già detto, la sua presenza molto discreta questa scotch ale potrebbe essere un'ottima via d'accesso che porti ad esplorare poi altre birre dalla caratterizzazione molto più importante.
Ringrazio il birrificio per avermi inviato la bottiglia da assaggiare, anticipando le mie intenzioni: ero curioso di provarla e l'avevo già messa sulla mia "wishlist".
Formato: 75 cl., alc. 8%, lotto 0415, scad. 08/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 18 maggio 2015

Tilmans Das Helle

Da Monaco di Baviera ecco un’altra valida alternativa (quasi) locale alle birre delle “sei sorelle” industriali (Augustiner, Hacker Pschorr, Hofbräu, Lowenbräu, Paulaner e Spaten-Franziskaner)  che hanno il monopolio non solo dell’Oktoberfest ma anche della quasi totalità dei locali della città. Già vi avevo parlato di Giesinger, microbirrificio inaugurato nel garage di un condominio e ora operativo in una più ospitale sede che lo ha trasformato in un brewpub. L’altra “novità” di Monaco è rappresentata da Crew Republic, una beerfirm che – contrariamente a Giesinger – snobba la tradizione tedesca per concentrarsi sugli stili anglosassoni. 
Una delle ultima beerfirm sorte (la data del debutto è 23 Aprile 2014) si chiama Tilmans Biere, guidata da Tilman Ludwig. Nel suo passato un po’ di homebrewing, un diploma da birraio all’università di Weihenstephan e infine un paio di anni in Svizzera lavorando alla Huus Braui, un ambiente tranquillo dove però non c’era grossa possibilità di crescita, considerando che si trovava in un paese (Roggwill) abitato da circa 3000 anime. 
Tilman decide quindi di tornare nella sua natia Monaco e di fare le cose in proprio: grazie ad alcuni sussidi destinati alle start-up, mette in piedi una beerfirm con l’aiuto di Ian Pyle, birrario americano emigrato ad  Amburgo alla Ratsherrn Brewery, e di Richard Hodges, altro americano che lavora/collabora con  Crew Republic.  
Il progetto Tilmans Biere parte con due birre: un American Brown Ale (prodotta presso la Weissbräu Schwendl am Chiemsee), ed una interpretazione “moderna” di una tipica Helles bavarese che vede l’utilizzo, oltre che del luppolo tedesco Tettnang, anche dell’americano Chinook. Una Helles non è certamente il “palcoscenico” che privilegia l’espressività dei luppoli; un birra quotidiana e bilanciatissima, dove devono la fragranza  e la discreta dolcezza dei malti a brillare, con i luppoli che devono equilibrarla e non certo caratterizzarla. 
In etichetta uno stilizzato leone, simbolo della Baviera ma anche di quel gruppo (Spaten-Löwenbräu, oggi di proprietà Anheuser-Busch InBev) che nel 1894 inventò proprio la prima Münchner Hell.
Prodotta alla Brauerei Gut Forsting di Pfaffing, una cinquantina di chilometri ad est di Monaco, si presenta di colore oro antico molto carico, quasi limpido: la schiuma biancastra è fine e cremosa, dalla discreta persistenza.  L'aroma è pulito ed offre una discreta fragranza maltata (crosta di pane, cereali, miele) ed una lieve presenza di agrumi (arancio, lievissimo pompelmo rosa) portati dalla luppolatura americana, evitando le tipiche note resinose del Chinook. Il corpo è pienamente rispettoso della tradizione tedesca: dev'essere una birra da bere (anche o soprattutto) in grande quantità, quindi corpo leggero, carbonazione medio-bassa, consistenza snella ed acquosa. L'intensità del gusto non è al massimo, personalmente penso che si poteva fare di più per meglio distinguersi dalle numerose helles industriali: c'è comunque anche in bocca una buona fragranza di pane, crackers e miele d'arancio, un accenno di biscotto e - come al naso - di agrumi. Delicata anche la chiusura finale, con un amaro erbaceo appena percepibile ma anche un'acquosità che secondo me fa un po' oltre il dovuto. Non ci metterei la mano su fuoco, ma mi è anche sembrato di avvertire una leggera punta di diacetile.
Birra che cerca di apportare una leggera variazione ad una secolare tradizione con una luppolatura americana;  un compito difficile, perennemente a rischio: troppo luppolo e lo stile viene snaturato, troppo poco luppolo americano e nessuno s'accorgerà del suo utilizzo.
Tilmans se la cava con un compromesso che si concretizza nel donare ad una helles un leggero carattere agrumato che ben si sposa con la dolcezza dei malti. Fin qui tutto bene, ma non bisogna dimenticare i due elementi principali che - in una birra così - vanno poi a fare la differenza rispetto ad un prodotto industriale: la fragranza dei malti e l'intensità del gusto. Su questo c'è ancora da lavorare, il livello è buono ma al momento mi sembrano molto più pronte e soddisfacenti le produzioni di Giesinger, per restare a Monaco. 
Formato: 50 cl., alc. 5.1%, scad. 17/09/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 17 maggio 2015

HOMEBREWED! Postino Brewery New Dawn Fades Saison


Anche l'appuntamento di maggio con le produzioni casalinghe è con l'homebrewer Giancarlo Maccini, alias Gianpostino/Postino Brewery. E' la terza saison che mi capita di assaggiare, dopo la Deux e la Trois, è il turno della New Dawn Fades; dichiaratamente ispirata alla omonima e splendida canzone dei Joy Division, tratta dall'album Unknown Pleasures e della quale alcune parole del testo vengono riportate sul retro della etichetta. 
La ricetta prevede malti Pilsner e Aromatic, farro, mile di fiori d'arancio, luppoli Pilot e First Gold e aggiunta di petali di calendula.
Il suo colore è arancio carico, opaco, con un generoso cappello di schiuma, "croccante", compatta e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma ha una buona pulizia e, nonostante sia ormai passato un anno dall'imbottigliamento, c'è ancora un discreto livello di freschezza; mandarino, arancio e qualche sentore di pera per quel che riguarda la frutta, mentre evidente è la presenza floreale della calendula (ho giusto una piantina da annusare a portata di mano) e del miele d'arancio. Quello che manca è invece la speziatura prodotta dal lievito che invece avevo trovato in altre birre di Giancarlo prodotte con lo stesso tipo (WLP 566). La sensazione palatale è abbastanza buona, con corpo medio ed una buona vivacità/frizzantezza: la sensazione "tattile" è forse un tantino troppo pesante, mentre l'alcool (7.2%) è ben nascosto.
Il gusto non presenta la stessa pulizia dell'amaro: l'inizio è abbastanza buono, con il dolce del miele, dell'arancio e del mandarino, ma la piacevolezza della bevuta peggiora man mano che avanza a causa di una chiusura amara, un po' astringente e poco elegante, vegetale ed un po' terrosa. Il palato rimane "allappato" e avvolto da un gusto poco piacevole, almeno per il mio gusto personale.
Bene quindi l'aroma, pulito e con una discreta eleganza, benino l'inizio bevuta con un dolce agrumato e rinfrescante che però chiude in modo sgraziato. Benino il mouthfeel, che personalmente cercherei di snellire un po' per rendere questa saison ancora più scorrevole e facile da bere.  La mia "umile" valutazione è quindi di 34/50 sulla scala BJCP (aroma 8/12, aspetto 3/3, gusto 13/20, mouthfeel 3/5, impressione generale 7/10).
Ringrazio Giancarlo per avermi sfatto assaggiare la sua produzione; spero che questi miei appunti siano per lui in qualche modo utili per migliorare la birra e ricordate che la rubrica HOMEBRWED! è aperta a tutti i volenterosi homebrewers!
Formato: 37.5 cl., alc. 7.2%, imbott. 11/06/2014.

Geco Pecora Nera

Fondato nel 2009 dai fratelli Marco e Luca Ligas, provenienti da un decennio di homebrewing, il Birrificio Geco non è probabilmente tra quelli italiani che fanno continuamente parlare di sé. La sua è una presenza quasi discreta, con un bel percorso di crescita dalle tre birre degli esordi  (Ambra, Maia e Pecora Nera) alle dieci che compongono attualmente la gamma. Birre facili da bere, prezzi al di sotto della esosa media nazionale e, soprattutto, una presenza quasi costante nel medagliere di Birra dell'Anno a testimoniare i miglioramenti fatti in questi anni. 
Nell'edizione 2015 è stata la Marvin a portare a casa l'oro nella categoria 6 (ambrate, alta fermentazione, basso grado alcolico, d’ispirazione anglosassone), ma se non erro la birra più medagliata di Geco è la milk stout chiamata Pecora Nera. Podio sfiorato quest'anno (quarto posto in categoria 12), ma bronzo nel 2013 e argento nel 2011; a queste si aggiunge il primo posto all'Italian Beer Festival del 2012 nella categoria delle stout, il secondo posto al CIBA 2014 e 2015, il terzo nell'edizione 2013 tra le Porter, Imperial Porter, Stout, Imperial Stout, Milk Stout, Sweet Stout.
Assaggiamola, allora. Colora il bicchiere di marrone scurissimo, con una splendida schiuma nocciola, fine e compatta, cremosissima e molto persistente. Al naso c'è molta pulizia ed una buona eleganza fatta di chicchi di caffè e cioccolato al latte, sentori di cenere ed orzo tostato, frutti di bosco, lieve caramello bruciato. 
Sensazione palatale davvero ottima per una session beer dalla gradazione alcolica contenuta (4%): leggera cremosità, morbidezza, corpo leggero e poche bollicine. L'intensità non è per nulla sacrificata alla facilità di bevuta: il gusto segue per filo e per segno l'aroma ed è abbastanza ricco di caffè e tostature, cioccolato al latte e qualche sfumatura di cenere. Non c'è la stessa pulizia dell'aroma, ma il livello è comunque buono; rimane da registrare un po' di dolce del caramello, l'acidità del caffè ed un bel finale elegante ed amaro di tostature e di caffè. Una stout che fa della semplicità e della facilità di bevuta il suo punto di forza: ben eseguita, tranquillamente sessionabile, porta in dote il giusto livello d'amaro ben bilanciato dalla leggera presenza di dolce: gli esempi in Italia ben riusciti non sono poi così numerosi, nonostante i quasi novecento soggetti che commercializzano birra attualmente. Se la trovate sulla vostra strada, non fate finta di niente e provatela: bottiglia da 33 centilitri piuttosto insoddisfacente, il mezzo litro sarebbe decisamente più adeguato.
Formato:  33 cl., alc. 4%, lotto 1704, scad. 09/2015, pagata 3.70 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 15 maggio 2015

Russian River Temptation

Non voglio mescolare il “sacro con il profano”, ma dopo l’esperienza di iere delle Regionali di Moretti avevo bisogno di risollevarmi un po’ il morale ed il palato; riesumo allora dalla cantian una delle poche Russian River ancora rimaste, in cerca di conforto. 
E’ la Temptation, una “sour blonde ale” invecchiata in botti che hanno ospitato Chardonnay;  ed è una birra particolarmente significativa visto che è stata, una quindicina di anni fa, la prima invecchiata in botte e prodotta con lieviti selvaggi realizzata dal birrificio di  Santa Rosa. La Napa Valley californiana è famosa per i suoi vini, ed il birraio Vinnie Cilurzo (peraltro figlio di viticultori) non nasconde la sua passione enologica; da qui l’idea di provare a  far incontrare il mondo del vino a quello dei Lambic, l’altro suo grande amore. 
Con questa birra venne inaugurata la serie  “-TION” di Russian River, birre d’ispirazione belga, spesso acide e affinate in legno il cui nome termina sempre con  questo suffisso: Supplication, Damnation, Consecration, Procrastination. L’ispirazione su questi nomi arriva di nuovo dal Belgio,  dove molte strong ale hanno riferimenti diabolici: Duvel, Delirium Tremens, PranQster, Judas, Lucifer: “ero in macchina e stavo ascoltando una canzone degli Squirrel Nut Zippers chiamata Hell  - racconta Cilurzo - nella quale veniva ripetuta la parola Damnation. Decisi subito che avrei chiamato una birra con quel nome e, nel tragitto verso casa, avevo anche già immaginato i nomi per altre birre:  Redemption, Salvation e Temptation." 
La Temptation nasce da una ricetta piuttosto semplice: malti Pilsner e Pale, frumento non maltato, luppoli Sterling e Styrian Goldings e, secondo quanto riportato dal libro American Wild Beers, lievito White Labs Abbey Ale WLP530; dopo la fermentazione primaria la birra  viene messa in botte e, contemporaneamente, vengono aggiunti brettanomiceti. In un primo periodo la birra riceveva poi solamente i lieviti selvaggi naturalmente esistenti nell’aria della “cantina” del birrificio dove le botti venivano messe a riposare;  per abbassare un po’ l’acidità dei primi lotti di Temptation, Cilurzo decise poi  di aggiungere, dopo qualche mese dalla messa in botte,  nello spazio lasciato appositamente ”vuoto” un po’ di birra “fresca” fermentata con brettanomiceti e anche altri batteri (lactobacilli e pedicocchi). 
La partenza sembra apparentemente semplice, ma il difficile viene dopo: si tratta di un paziente  e meticoloso lavoro di monitoraggio di quanto sta accadendo nelle diverse botti per raggiungere il risultato finale desiderato.  Nemici “dichiarati” di Cilurzo sono l’acido acetico, che egli non ama e di cui cerca di ridurre al massimo la presenza nelle sue birre:  per fare ciò le botti di rovere francese scelte all’inizio per la loro elevata porosità che permetteva ai batteri di penetrare meglio all’interno del legno sono state sostituite da rovere americano, la cui minore permeabilità contribuisce a ridurre la formazione di acido acetico. L’altro punto fondamentale su cui bisogna lavorare è la caratterizzazione del legno delle botti  (e il  vino da loro un tempo contenuto): deve solamente arricchire la birra, non “mangiarsela”; per ridurre il carattere legnoso e vinoso che viene “trasferito” alla birra, ogni botte viene riutilizzata tre volte. Ogni lotto di  Temptation invecchia in botti “giovani” ed in botti che hanno già ospitato la birra per una o due volte.  Le botti riposano poi in un ambiente a temperatura controllata che oscilla tra i 14 e i 17 gradi centigradi: la temperatura relativamente bassa ritarda un po’ la fermentazione della birra ma, secondo Cilurzo, aiuta a ridurre la formazione di Acetobacter. A seconda “dell’età” delle botti, l’affinamento dura da 9 a 15 mesi: l’ultimo passo da compiere è quello del “blend”, ovvero l’assemblaggio del prodotto delle diversi botti a comporre la Temptation che viene poi messa in bottiglia ed in fusto. 
Il risultato, per quel che riguarda le medaglie ai concorsi, parla di oro al GABF 2002, argento al GABF 2003, 2004, 2007 e 2010, oro alla World Beer Cup 2006 ed argento a quella del 2008. 
La “tentazione” di Russian River è di un bel color dorato quasi limpido: schiuma bianca, “croccante” e compatta, cremosa, molto persistente. Al naso le note lattiche e “funky” di cantina umida vengono affiancate da quelle del cedro e del limone, della uva bianca: pulizia ed eleganza sono ad un livello impressionante, e l’aroma viene impreziosito da delle suggestioni di vaniglia e leggerissimi richiami dolci di pesca ed ananas, cedro candito, che sono percepibili solo quando la temperatura è vicino a quella dell’ambiente. Al palato c’è un perfetto equilibrio tra morbidezza e scorrevolezza, con una carbonazione molto bassa ma finissima. Il gusto è aspro di uva bianca, ribes, mela acerba, con note di cedro: l’encomiabile pulizia permette di cogliere il raffinato apporto del legno e un lievissimo dolce di pesca ed ananas in sottofondo. Una birra elegantissima,  dall’evidente carattere vinoso, chiude con un finale leggermente tannico con una punta amara di lattico; è  caratterizzata da una bella complessità che risulta tutta via piuttosto facile da decifrare, con l’acidità e le asprezze che non vanno mai “oltre“, rispettando quell'equilibrio che è un po' il marchio di fabbrica di tutte la produzione Russian River, IPA incluse
E' fantastica fresca, con l'alto potere rinfrescante e dissetante della sua acidità: ma se riuscite a recuperare una bottiglia (purtroppo il birrificio non esporta nulla) abbiate la pazienza di farla scaldare un po' e gustatevela come fareste con un ottimo vino, lasciandovi un po' cullare dal suo morbido tepore etilico che emerge all'aumentare della temperatura. Gran birra, davvero.
Formato: 35.5 cl., alc. 7.5%, imbott. 18/06/2014, pagata 12,95 dollari (birrificio, USA)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 14 maggio 2015

Birra Moretti alla Piemontese, alla Siciliana, alla Friulana

2015 anno ricco di novità per Birra Moretti, il marchio italiano di proprietà della multinazionale Heineken e nominata Official Beer Partner di Expo 2015.  Fin qua nulla di strano, o vi aspettavate che qualche microbirrificio italiano mettesse a disposizioni i fondi necessari per la sponsorizzazione dell'evento?  Il binomio Moretti-Expo non è tuttavia iniziato nel migliore dei modi, con la lettera di “protesta” inviata da Unionbirrai nei confronti di un servizio di Studio Aperto nel quale un servizio sulla birra artigianale veniva mandato in onda proprio dall’interno del padigione Expo di Moretti, che artigianale (qualsiasi cosa si voglia intendere con questa parola) sicuramente non è. 
Da qualche mese Birra Moretti ha inoltre rifatto un po’ il look delle proprie etichette ed ha lanciato quattro nuove specialità chiamate “Le Regionali”: queste birre, caratterizzate dall’utilizzo fra gli ingredienti di un prodotto tipico dell’area geografica di riferimento, ricalcano un po’  il percorso fatto dalla cosiddetta “birra artigianale” sino a qualche anno fa, appellandosi al tanto abusato concetto di “territorialità”. Mi sembra che ultimamente si sia un po’ placata la tendenza dei microbirrifici di utilizzare l’elemento “strano”  o  “locale” per dare visibilità alle proprie birre, puntando piuttosto sugli stili classici: ma fino a pochi anni fa vi erano birrifici (alcuni di loro non più attivi) che annoveravano tra le proprie produzioni una birra al tartufo, una al basilico, alla liquirizia e allo zafferano, giusto per citare i primi che ricordo, o addirittura con ingredienti afrodisiaci
L’eco delle nuove specialità regionali di Moretti si è ben presto diffuso in rete grazie al comunicato stampa ufficiale prontamente ribatutto da blog, compiacenti e/o prezzemolati siti gastronomici, foodies e food consultants. La presentazione è avvenuta nell’ultima edizione di Identità Golose, che ovviamente annovera Birra Moretti tra i suoi sponsor. Finche c’è trasparenza, nulla di male.  
Ovviamente la loro presenza è assicurata tra gli “alti cibi” (sic) che si trovano sugli scaffali di Eataly e nei suoi ristorantini tematici, per proseguire il “percorso di diffusione della cultura birraria che Birra Moretti promuove fin dal 2007 e di cui, la partnership con Eataly, è il naturale proseguimento”, visto che “sposa i suoi stessi valori fondanti: qualità, italianità, convivialità”. Sappiate inoltre che le quattro birre “Regionali” sono state  “studiate all`origine dai mastri birrai di Birra Moretti in collaborazione con due `mostri sacri` dell`alta ristorazione: lo chef stellato Claudio Sadler e il sommelier Presidente ASPI Professor Giuseppe Vaccarini”. I miei complimenti, perbacco. 
Passiamo all’assaggio: ho volutamente tralasciato la Moretti alla Toscana, prodotta con l’orzo della Maremma, per concentrarmi sulle altre tre che vedono l’utilizzo di ingredienti meno tradizionali. 
Iniziamo dalla Birra Moretti alla Piemontese: gli ingredienti scelti sono (l’estratto di) mirtillo rosso della Val Sangone assieme al riso DOP Sant’Andrea (25%); l’etichetta elenca anche aromi naturali e la descrive dal “gusto insolito, intrigante e piacevolmente acidulo con sentori di erbe aromatiche, caramello di mirtillo e note di cereali”. Nel bicchiere è di un limpidissimo color oro antico carico, con qualche riflesso ambrato; perfetta la schiuma, cremosa e compatta, dalla lunga persistenza. Il naso è poco intenso: sentori di amido di riso e cereali, il dolce dello sciroppo di mirtillo che “lega” abbastanza bene con le note del miele, anche se il risultato non è assolutamente elegante. DNA “industriale” rispettato in bocca: prima di tutto la facilità di bevuta e la scorrevolezza, quindi corpo leggero, poche bollicine, acquosità. Il gusto è d’intensità piuttosto modesta, del tutto paragonabile ad una Moretti “standard”:  una vaga idea di biscotto e di miele, chiusura amaricante erbacea sgraziata che ricorda un po’ la gomma bruciata, e quella nota artificiosa di sciroppo di mirtillo che ogni tanto fa capolino. C’è un po’ di diacetile e il palato a fine corsa rimane sempre un po’ appiccicoso ed impastato: ne risulta una birra poco dissetante, che tuttavia invoglia ad un altro sorso proprio per pulire la bocca impastata. Strategia azzeccata, insomma.  La temperatura di servizio consigliata da Moretti ( 3-6 °C) è quasi corretta:  lasciatela riscaldare ed il mirtillo scomparirà evidenziando ancora di più i difetti (diacetile e gomma bruciata). 
Spostiamoci al sud per Birra Moretti alla Siciliana la cui ricetta, oltre a malto d’orzo e luppolo, prevede (estratto di) fiori di zagara siciliana, (estratto di) arancia e granoturco. Più chiara della Piemontese, si presenta limpida e dorata con un’impeccabile e cremosa testa di schiuma bianca, molto persistente. L’aroma evidenzia la zagara e l’arancia, ma il risultato è piuttosto artificiale  (personalmente mi ha ricordato purtroppo quello di alcune saponette o bagnoschiumi) e c’è anche un po’ di mais. In bocca replica perfettamente la Piemontese, con una facilità di bevuta inversamente proporzionale all’intensità del gusto che propone mais e cereali, arancia artificiale ed un finale amaricante erbaceo davvero sgraziato con parecchia gomma bruciata ed un po’ di plastica.  Di nuovo viene voglia di bere subito un altro sorso per allontanarne la sensazione poco gradevole e trovare un po’ di sollievo nel dolce dell’arancia che ricorda un po’ quelle spremute realizzate con il concentrato. Anche qui – pignoleria – lieve diacetile.  La “Regionale” in teoria più semplice da realizzare (una lager dal gusto agrumato!) è risultata alla fine la peggiore delle tre da me bevute. 
Il viaggio termina con la Birra Moretti alla Friulana che viene realizzata con (estratto di) mela renetta friulana, granoturco ed imprecisati aromi naturali. L’aspetto è quasi identico alla Siciliana, con il dorato che risulta appena più carico. L’aroma è completamente monopolizzato dalla mela verde: quello che nuovamente manca è la finezza, e i profumi di mela risultano piuttosto artificiali. Mouthfeel da capitolato Moretti: scorrevole, acquosa e leggera.  Alla fine è lei a risultare “la meno peggio” delle tre, rivelandosi perlomeno rinfrescante e dissetante, senza “impastare” il palato. Il gusto è piuttosto insapore, con una generale sensazione di granoturco dalla quale emerge ogni tanto la mela verde; il retrogusto amaro è più aggraziato, senza quella sensazione di  gomma bruciata che affligge le due sorelle. Bevuta fredda risulterebbe alla fine una “decente” lager industriale, non fosse per quell’insopportabile aroma artificiale di mela verde che personalmente ho trovato davvero fastidioso. 
Conclusioni? Non avevo nessun’aspettativa a riguardo e quindi non posso parlare di delusione o di sorpresa: sono tre prodotti industriali che devono necessariamente avere dei bassi costi di produzione, con tutto ciò che ne deriva. Più che nella produzione, si preferisce ovviamente spendere soldi in marketing.   Il livello mi sembra tuttavia inferiore ad altri prodotti industriali come ad esempio le ultime Poretti assaggiate, sebbene queste abbiano un costo superiore. Se volete bere bene, dovete guardare altrove e spendere di più.  Per la mela ci sono ottimi sidri “artigianali”, per il mirtillo vi indirizzo sulla Draco del Birrificio Montegioco e per la zagara perché non provare la  Nanai di Birra Malarazza? 
Per quel che resta, preferisco poi non entrare nel merito degli abbinamenti gastronomici che sicuramente saranno proposti in un svariato numero di eventi organizzati “ad hoc” e non commentare la consulenza di guru (stellati e non) che avrebbero presumibilmente collaborato alla realizzazione di queste regionali.
Dettagli:
Birra Moretti alla Friulana, alc. 5.9%, lotto 506438011, scad. 01/06/2016, 1.69 Euro al supermercato.
Birra Moretti alla Piemontese, alc. 5.5%, lotto 506413808, scad. 01/06/2016, 1.69 Euro al supermercato.
Birra Moretti alla Siciliana, alc. 5.8%, lotto 5047380SE, scad. 01/05/2016, 1.69 Euro al supermercato.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 13 maggio 2015

Wild Beer Ninkasi

Nuovo appuntamento con Wild Beer Co., il birrificio inglese di Evercreech, nel Somerset, attivo da ottobre 2012 e fondato da  Brett Ellis (un passato da chef) ed Andrew Cooper (ex Business Development Manager alla Bristol Beer Factory ed accreditato Beer Sommellier); ad aiutarli c’è un altro ex-chef, Chris Boddy. Il birrificio ha da subito dichiarato il proprio disinteresse verso gli stili tradizionali inglesi e le real ales in cask per le quali, secondo loro, c’è già ampia offerta disponibile; il loro obiettivo entrare nel mondo della ristorazione, con birre appositamente studiate per abbinamenti gastronomici. 
In poco più di due anni di vita sono già molte (qualcuno potrebbe dire troppe) le birre prodotte, con risultati però non sempre riusciti e soddisfacenti per chi beve. Eccone due esempi, nel male (la Solera, bevuta poco tempo fa) e nel bene, la Ninkasi di oggi. 
Dedicata all’antica dea della birra, si tratta di una Belgian Strong Ale / Saison  prodotta con una generosa quantità di luppoli neozelandesi, succo di mela del Somerset e lieviti selvaggi; una volta imbottigliata, viene rifermentata con lieviti da champagne.  Arriva in bottiglia da 75 cl. con la curiosa e scenografica ceratura che potete ammirare nella fotografia. Il suo prezzo non è particolarmente economico neppure in Inghilterra, ma se volete andare oltre sappiate che ne esiste anche una versione barricata in botti ex-sidro della Somerset Cider Brandy Company e chiamata Ninkasi Premier Cru.
Nel bicchiere arriva di un bel color dorato carico e luminoso, leggermente velato: la schiuma bianca è generosa e quasi pannosa, ma poco persistente. Il benvenuto dei profumi dell’aroma è piuttosto invitante: leggera speziatura (pepe e coriandolo), mela, uva e kiwi, fiori bianchi, frutta secca. Il naso è molto pulito e piacevolmente rustico; l’acido lattico dei lieviti selvaggi è appena percepibile, mentre molto in evidenza è l'apporto dei lieviti da champagne che le donano un aroma con molti richiami vinosi. Ottima anche la sensazione palatale: corpo medio, tante bollicine, birra molto scorrevole e vivacissima. Il  gusto è molto pulito e piuttosto ben assemblato con il dolce dei malti (crosta di pane, miele) e soprattutto  l’aspro della mela verde e dell’uva, qualche nota di kiwi e di agrumi: la leggera acidità lattica la rende molto rinfrescante e invitante, nonostante una gradazione alcolica (9%) che sembrerebbe richiedere invece un po’ di cautela nella bevuta. Anche in bocca è evidente il suo carattere vinoso (champagne o spumante, fate voi), mentre la chiusura leggermente amaricante richiama la mandorla. 
A voi scegliere se berla fresca, magari come un dissetante aperitivo, o se lasciare che la sua temperatura si alzi facendo emergere una morbida nota etilica ed accompagnarla al vostro pasto. In entrambi i casi la soddisfazione non mancherà: birra riuscita e molto ben fatta, unico neo il prezzo che non ne consente di certo l’acquisto regolare.
Formato: 75 cl., ALC. 9%,  lotto e scadenza non riportati, pagata 14.90 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.