giovedì 31 marzo 2016

Schneider Weisse Tap 5 Meine Hopfen-Weisse

Nel 2007 Garrett Oliver, birraio dell’americana Brooklyn Brewery e Hans-Peter Drexler, birraio alla G. Schneider & Sohn,  si trovano in Baviera per realizzare assieme una birra. Drexler, diplomato a Weihenstephan dove ha anche lavorato per un paio d’anni sull’impianto “
sperimentale dell’Università, è arrivato alla Schneider nel 1982 come assistente birraio per poi diventarne "mastro" nel 1990. A Kelheim, dove ha sede la Scheider, Drexler non si è accontentato di perpetuare la tradizione risalente al 1928, anno di fondazione della Weisse Hofbräuhaus, ma ha anche introdotto delle piccole ma interessanti innovazioni. Galeotta fu una trasferta negli Stati Uniti nel 1998 nel corso della quale Drexler era stato inviato come giudice ad un concorso; gli aromi ed i sapori dei luppoli americani gli spalancarono le porte di un nuovo mondo. 
L'anno successivo realizzò la Tap 4 Mein Grünes, aggiungendo una generosa (per i parametri dello stile e gli standard della Baviera) luppolatura di Cascade  ad una ricetta del 1916 (la Festweisse) che veniva prodotta nel periodo dell’Oktoberfest; è lui a lanciare la gamma delle “Tap X” sotto la quale ogni anno viene realizzata qualche birra sperimentale o barricata, e spesso proposta nel formato “gourmet” da 75 centilitri ad un prezzo molto poco tedesco. Qui  ne trovate un esempio. 
Ma ritorniamo al 2007: Oliver e Drexler desiderano realizzare con il lievito di casa Schneider una birra di frumento che celebri i luppoli dei rispettivi continenti;  a maggio in Germania viene realizzata una robusta (8.2%) Weizenbock che utilizza Hallertauer Tradition  e  Saphir mentre a Brooklyn, in luglio,  si cerca di ottenere un risultato simile scegliendo Amarillo e Palisade. La versione americana esce nella serie Brewmaster's Reserve di Brooklyn in formato 75 centilitri con il nome Brooklyner-Schneider Hopfen-Weiss; la versione tedesca viene inizialmente chiamata Hopfen-Weisse e poi, una volta entrata in produzione stabile, rinominata Tap5 Meine Hopfenweisse.

La birra.
Realizzata con il 50% di frumento maltato e 50% di orzo maltato e, come detto, Hallertauer Tradition ed  Hallertauer  Saphir, anche in dry-hopping: è una Weizenbock che si presenta opalescente e di color arancio con qualche riflesso dorato; la schiuma è bianca e compatta, molto cremosa ma non particolarmente esuberante nonostante la lunghissima persistenza. Al naso, molto pulito ed intenso spicca subito la frutta tropicale: molto ananas, fiancheggiato da mango e un po' di melone retato. La speziatura donata dal lievito (chiodi di garofano, coriandolo) è molto delicata, così come la banana che rimane sempre in sottofondo. Il gusto ricalca le orme dell'aroma presentando un bell'equilibrio tra frutta tropicale, banana e un tocco di caramello: la speziatura (noce moscata, chiodi di garofano) è molto, molto delicata e il dolce è ben bilanciato dall'acidità del frumento. L'alcool (8.2%) si fa progressivamente sentire irrobustendo la bevuta e riscaldando il palato contribuendo ad asciugare il dolce assieme ad un velocissimo passaggio amaro erbaceo, anticamera di un retrogusto molto bilanciato nel dolce della banana matura e del frutto tropicale.
Impressionante - e pericolosa - la bevibilità di questa robusta Weizenbock che riesce ad essere rinfrescante e riscaldante al tempo stesso, sopratutto quando la temperatura nel bicchiere si alza; magistralmente eseguita, pulitissima, tiene a bada gli elementi tanto detestati da chi non ama la Hefeweizen: banana e fenoli, qui molto ben integrati e a tratti quasi celati dietro al profilo tropicaleggiante. 
Se penso ad un'interpretazione moderna di una Hefeweizen, con tutte le restrizioni imposte dallo stile,   il primo nome che mi viene in mente è proprio la Meine Hopfen-Weisse di Schneider. Ammetto di avere un debole per questa birra che bevo puntualmente ogni anno alla Weisses Bräuhaus di Schneider in centro (Tal 7) a Monaco di Baviera:  mezzo litro di Hopfenweisse per aprire le danze, mezzo litro di Aventinus per accompagnare la sostanziosa portata principale e, volendo concludere in bellezza, un bicchiere di Aventinus Eisbock assieme al dessert prima di dirigersi verso il letto.
Formato: 50 cl., alc. 8.2%, imbott. 28/09/2015 16:32, scad. 28/09/2016, 1.68 Euro (food store, Germania).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 30 marzo 2016

Marstons Pedigree (Matured in Oak Barrels)

Ha ufficialmente compiuto sessant’anni nel 2012, ma probabilmente la sua età anagrafica è ancora maggiore:  parliamo della Pedigree del birrificio Marston, fondato nel 1834  da John Marston.  La Pale Ale di Marston apparve con questo nome per la prima volta nel 1952 ma veniva in realtà prodotta sin dal diciannovesimo secolo a Burton-Upon-Trent  uno dei luoghi fondamentali della storia brassicola inglese, dove un tempo operavano, oltre a Marston, anche Bass, Ind Coope, Allsopp e Worthington. Sino ad allora le Marston erano semplicemente identificate da alcune lettere scritte sui cask in legno:  P, PX, PXX e PXXX. 
Negli anni 50 del secolo scorso il birraio George Peard decise di istituire un concorso tra gli impiegati alla Marston per trovare un nome alla birra più venduta, che secondo lui non poteva continuare ad essere chiamata con una semplice “P”;  a vincere fu la collega Marjorie Newbold, che ebbe l’intuizione di suggerire il nome “Pedigree”  a sottolinearne la discendenza diretta una lunga tradizione di birre iniziata nel 1834. 
Nei suoi 182 anni di storia la Marston è passata attraverso diverse incorporazioni fino ad essere acquisita nel 1999 dalla Wolverhampton & Dudley Breweries, che nel 2007 mutò il proprio nome in Marston’s Plc. Oggi sotto all’ombrello di Marston operano ben cinque birrifici: la Park Brewery di  Wolverhampton che produce i marchi Banks, Mansfield e Thwaites;  la storica Marston di Burton upon Trent che realizza le Marston e (su licenza AB-InBev) le Bass;  la Jennings Brewery a Cockermouth;  la Wychwood Brewery di Witney  e  la Ringwood Brewery di Ringwood. 
Ci sarebbero moltissime altre cose da raccontare, ma il tempo e lo spazio non me lo permettono. Vi accenno solo, invitandovi ad approfondire gli argomenti su numerosi testi disponibili anche in lingua italiana, all’importanza che la cittadina di Burton-Upon-Trent  ha avuto nella storia brassicola inglese.  E’ nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quando a Londra e poi nel resto dell’Inghilterra si diffondono la Pale Ale chiare e luppolate, che Burton diventa la capitale birraia dell’Inghilterra con ben 31 birrifici attivi (1888) che sfruttavano le caratteristiche dell’acqua di Burton, ricca di solfati di calcio, perfetta per esaltare la generosa luppolatura di queste birre. Le Pale Ale fatte a Burton (da non confondersi con le Pale Ale di Burton, scure e dolci, che venivano esportate nel diciottesimo secolo) divennero un esempio da imitare e numerosi birrifici inglesi iniziarono ad aggiungere gesso e sali di Epson alla propria acqua per renderla simile a quella di Burton-Upon-Trent: il fenomeno prese il nome di “burtonizzazione”. 
E’ sempre qui che venne inventato il sistema “Burton Union”, realizzato nel 1838 da Peter Walker ed ancora oggi utilizzato solamente da Marston: un labirinto formato da un centinaio di botti di quercia da 150 galloni l'una e disposte a file di 20-24 unità collegate tra di loro con tubazioni, sopra le quali è posizionata una lunga vasca aperta e poco profonda. La fermentazione inizia però in  altre vasche d'acciaio aperte e, dopo una paio di giorni, la birra viene pompata all'interno delle botti; qui, spinta dalla naturale forza della fermentazione, la "schiuma" risale attraverso dei tubi di rame ricurvi (a collo di cigno) per depositarsi all'interno delle vasche posizionate al di sopra delle botti. L'inclinazione dei tubi fa sì che parte del mosto in fermentazione ritorni in basso verso le botti per un processo fatto di continui spostamenti che dura per tre o quattro giorni, assicurando la corretta quantità d'ossigeno al lievito. 
Ma anche la storia è fatta di alti e bassi e per la Pedigree è stato necessario rinnovarsi o re-inventarsi: più volte, come ad esempio cambiando nome da "Bitter" a "Pale Ale"; di recente la versione in bottiglia ha subito un calo di vendite dell’11% in un settore che è invece in crescita, risultando essere solo al numero 16 tra le bottiglie più vendute nel Regno Unito. Ad inizio 2015 Marston annuncia una nuova etichetta quadrata che sostituisce quella ovale del sessantesimo anniversario del 2012; con il re-styling si vuole anche sottolineare il fatto che Marston sia l’unico birrificio al mondo che ancora utilizza il Burton Union System, ed ecco comparire la scritta “matured in oak barrels” in etichetta. 

La Birra.
La ricetta prevede malto Maris Otter (di Cassata/Limagrain UK) e luppoli inglesi Fuggles e Goldings; la versione in bottiglia è se non erro pastorizzata. 
All’apertura mi sorprende un leggero gushing che si riesce a controllare senza troppi problemi: nel bicchiere è ramata e leggermente velata, forma un piccolo cappello di schiuma biancastra, cremoso e dalla buona persistenza.  Per quanti mi sforzi al naso non riesco ad incontrare la minima traccia di "Burton Snatch" (sulfureo): c’è invece un profilo non molto fragrante di biscotto e frutta secca, caramello, marmellata d’agrumi, mela e una leggera ma fastidiosa presenza di cartone bagnato. In bocca è abbastanza leggera, senza nessuna deriva acquosa e con poche bollicine: c'è tutto quello che serve per scorrere veloce e accompagnare il bevitore, pinta dopo pinta, per tutta la serata. Biscotto, caramello e toffee segnano la bevuta, con qualche accenno di mela e un lieve metallico che si alternano prima di arrivare al finale delicatamente amaro e abbastanza corto: ci sono note erbacee e di frutta secca. La componente maltata, benché poco fragrante, è senz'altro quella che si fa meglio apprezzare: la chiusura amaro non risulta elegante e, di nuovo, ripropone quel cartone bagnato che era presente anche nell'aroma. La birra non è particolarmente memorabile, benché piacevolmente intrisa di sapori tradizionali che le new-wave brassicole (non solo quella inglese) hanno volutamente scelto d'ignorare e che arrivano sempre più di rado nel nostro paese. La grande distribuzione l'ha forse un po' maltrattata, regalandole al tempo stesso un po' di quelle imperfezioni che non è raro incontrare nella maggioranza dei pub inglesi, dove la pulizia lascia un po' a desiderare:  anche questo è un pezzo di storia d'Inghilterra, come la Pedigree di Marston's.
Formato: 50 cl. alc. 4.5%, lotto A5252 12:29, scad. 09/10/2016, 2.73  Euro (supermercato, Italia).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 29 marzo 2016

Rodenbach Caractère Rouge

Gli chef amano la birra e i birrai amano il buon cibo: si può utilizzare questa semplice equazione per giustificare tutte le numerose birre che vengono realizzate con la collaborazione di chef più o meno stellati?  Ovviamente no: ci sono collaborazioni ben riuscite (qui e qui due a caso ospitate sul blog) ed altre francamente incomprensibili motivate solo dal denaro, soprattutto quando entrano in gioco le multinazionali: pensate alla Estrella Damm Inedit realizzata con lo chef Ferran Adrià o alle regionali di Moretti per le quali è stato scomodato lo stellato Claudio Sadler. 
La collaborazione di oggi è invece tra quelle da portare ad esempio: nel 2011 la Brouwerij Rodenbach  (fondata nel 1821 e dal 1998 di proprietà della Palm) annuncia una birra realizzata assieme allo chef stellato Viki Geunes del ristorante 't Zilte di Anversa. La Rodenbach Vintage che matura per due anni nei grandi “foeders” di legno viene sottoposta ad un’ulteriore fermentazione e maturazione di sei mesi in compagnia di lamponi, ciliegie e mirtilli rossi: nasce così la Caractère Rouge, che subisce anche la rifermentazione in bottiglia. 
La nuova nata in casa Rodenbach si aggiunge alle altre che, ricapitolando, sono:  la Rodenbach "base", ovvero un blend del 75% di birra fresca e 25% blend di birra invecchiata nei diversi tini di legno; la Grand Cru, formata dal 34% di birra giovane e dal 66%  blend di birra invecchiata nei 294 foeders che il birrificio possiede; la  Rodenbach Vintage, birra 100% invecchiata sino a due anni in un unico foeder, senza che avvenga nessun blend. 
Nel 2011 vengono prodotte circa 900 bottiglie da 75 centilitri di Caractère Rouge, disponibili nel ristorante stellato di Viki Geunes che si trova al nono piano del museo MAS di Anversa; la birra ottiene grandi apprezzamenti e nel 2012 le bottiglie prodotte salgono a 10.000,  metà delle quali destinate all’esportazione, con una percentuale predominante verso gli Stati Uniti dove le birre acide hanno una richiesta di mercato sempre più crescente. Al di là di quello che è arrivato da quando la Palm ha preso il controllo di Rodenbach, e parliamo di pastorizzazioni, colorazioni e addolcimenti con caramello, quello che conta alla fine è sempre il risultato di quanto c’è nel bicchiere, e in questo caso è assolutamente eccezionale. 

La birra.
La bottiglia in mio possesso, che credo sia l’edizione 2013, ha una bel foglietto pieghevole dall’effetto “vintage” legato al collo con uno spago; sopra la carta, un adesivo in rilievo con il logo Rodenbach a simulare l’effetto visivo di un sigillo di ceralacca. 
L’aspetto della confezione-bottiglia è suggestivo ma lo stesso non si può dire della birra nel bicchiere: ambrato piuttosto torbido, riflessi rossastri abbastanza spenti, un dito di schiuma biancastra, un po’ grossolana e rapida nello svanire.  Niente paura, basta chiudere gli occhi ed avvicinare le narici al bicchiere per essere immediatamente trasportati in un mondo di intensi profumi dove convivono legno, ciliegia e lamponi, vaniglia e richiami lontani ad una torta di panna/yogurt e frutti di bosco rossi. In sottofondo sentori floreali di violetta, il dolce dell’aceto balsamico e l’aspro dell’aceto di mela, una punta lattica. Al palato c’è una splendida alternanza tra le note dolci di caramello, ciliegia, aceto balsamico e quelle aspre di frutta acerba, subito incalzate da un dolce che ricorda di nuovo una pasticceria ai lamponi  ai quali risponde un nuovo passaggio aspro di amarene; le note vinose di ciliegia si confrontano con quelle acetiche e lattiche, a comporre un finale molto finale secco e rinfrescante, impreziosito da richiami al legno. L’equilibrio e la pulizia sono impeccabili, così come la pienezza e la fragranza della frutta, nonostante siano passati alcuni anni dalla messa in bottiglia. Impossibile indovinarne il contenuto alcolico (7%): la Caractère Rouge di Rodenbach scorre con una facilità  impressionante, nonostante questa bottiglia avrebbe probabilmente tratto beneficio da qualche bollicina in più. Ci vuole senz’altro più tempo a descriverla che a berla, perché dietro alla semplicità di bevuta si cela un’emozionante complessità non difficile da decifrare. 
Mi soffermo sul termine “emozione”: spesso sul blog mi è capitato di scrivere di birre “buone ma poco emozionanti”, ben conscio di quanto quest’affermazione possa essere soggettiva o anche solo dettata dal mio stato d’animo al momento della bevuta. Ci sono però dei rari casi in cui l’emozione diventa oggettiva, esempi in cui la birra non può altro che essere definita come “un’emozione in un bicchiere”: ecco, parole più appropriate non trovo per descrivere la  Rodenbach Caractère Rouge, il cui biglietto vale assolutamente ogni centesimo del prezzo.
Formato: 75 cl., alc. 7%, scad. 17/04/2016, 14.50 Euro (food store, Francia)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 27 marzo 2016

Toppling Goliath PseudoSue

Decorah, cittadina con ottomila abitanti circa, stato di Iowa, non lontano dal confine con Mississippi: Minneapolis si trova a 250 km mentre Des Moines, capitale dell'Iowa, è a 330. In questo angolo  poco conosciuto degli Stati Uniti opera da maggio del 2009 uno dei microbirrifici americani più promettenti e più ricercati dai beergeeks: Toppling Goliath. 
Sono Clark Lewey e la moglie Barb a fondarlo per sopperire alla  propria frustrazione di vivere in uno stato nel quale era difficile procurarsi qualcosa di decente da bere: "nel 2009 in questa zona era impossibile trovare un'IPA alla spina; era tutto controllato da Bud, Miller e Coors". L'avvio del piccolo birrificio "che rovescia Golia"(la multinazionale) è facilitato dal fatto che la famiglia Lewey opera da anni nel settore del Beverage con una grossa industria fornitrice di attrezzature, espositori e merchandising. Inizialmente Clark Lewey voleva produrre vino, nonostante il clima dell'Iowa rendesse impossibile coltivare la vite: la sua idea di importare uva dalla California e dall'Italia si rivela però poco praticabile. Scartato il progetto brewpub, che avrebbe significato anche gestire un ristorante, dopo alcuni anni di tentennamenti si opta per un microbirrificio: Clark passa sei mesi ad esercitarsi assieme alla moglie nel proprio garage con l'homebrewing, prima di autofinanziarsi vendendo una casa in Wyoming ed aprire le porte della Toppling Goliath che ha inizialmente a disposizione un impianto da soli 58 litri.
Il passaggio dal garage alla professione non è tuttavia così semplice e dopo otto mesi le chiavi della sala cottura vengono consegnate al birraio Mike Saboe, un promettente homebrewer di Iowa City. Ricorda Clark: "gli misi a disposizione un budget importante per ottenere le migliori varietà di luppolo, gli diedi carta bianca sulle ricette".
La tecnica di Saboe abbinata ad un'accurata scelta di materie prime inizia a portare lo sconosciuto birrificio dell'Iowa sulla bocca di molti beergeeks: il passaparola corre rapido e per due anni il piccolo impianto è costretto a effettuare tre cotte al giorno prima dell'arrivo di un più capiente da 11 ettolitri che tuttavia si rivela anch'esso insufficiente a soddisfare tutta la domanda. L'ultimo upgrade è quello del 2014 con un impianto da 35 ettolitri ormai già superato dall'ambizioso progetto di espansione da 10 milioni di dollari che vedrà, ad inizio 2017, un nuovo birrificio con sala cottura da 115 ettolitri. L'attuale location dovrebbe essere destinata alla produzione di birre acide, cosa che Topplig Goliath non ha ancora voluto fare per evitare ogni possibile rischio di contaminazione derivante dall'utilizzo dei lieviti selvaggi.
Nel 2015 Clark Lewey annuncia di aver raggiunto un accordo con la Brew Hub, Florida, una sorta di De Proef in terra statunitense, per la produzione in lattina di quattro birre: 17.000 gli ettolitri che arriveranno dalla Florida e che andranno a sommarsi ai 5000 prodotti annualmente dallo stabilimento in Iowa. Chissà se sia stato questo accordo con Brew Hub a far rassegnare improvvisamente le dimissioni al birraio Mike Saboe nel febbraio 2015: le due parti non hanno mai chiarito, parlando semplicemente di dissapori che sono stati tuttavia ricomposti a giugno dello stesso anno, quando Saboe è rientrato alla base.
Divertiamoci un po' con il beer-rating che, amatelo o odiatelo, diviene comunque spesso fondamentale nel portare sotto al riflettore molti birrifici che altrimenti resterebbero confinati ad una dimensione molto locale. Ratebeer mette Toppling Goliath tra i cento miglior birrifici al mondo e due delle sue birre (la Double IPA King Sue e la imperial stout Mornin' Delight) tra le cento migliori birre al mondo. Tra le migliori 100 birre al mondo secondo BeerAdvocate ce ne sono invece sei di Topping Goliath due delle quali (KBBS - Kentucky Brunch Brand Stout e  Mornin' Delight) si posizionano sul podio.

La birra.
PseudoSue è un'American Pale Ale single hop, 100% Citra: continuiamo a divertirci ancora con il beer-rating, con BeerAdvocate che la colloca al numero 35 tra le migliori birre al mondo. Secondo Ratebeer questa è la terza miglior American Pale Ale al mondo, dietro alla Zombie Dust di Three Floyds e alla What Is Enlightenment? di Hill Farmstead.
Di recente qualcuna delle lattine che escono dalla partnership con Brew Hub in Florida (i maligni negli Stati Uniti dicono che non siano assolutamente al livello delle bottiglie prodotte in Iowa) sono arrivate anche in Europa. La lattina non riporta il contenuto alcolico in percentuale: la PseudoSue nasce con un ABV del 5.8%, che dovrebbe essere stato elevato a 7% con il passaggio all'impianto da 30 barili. E' stata prodotta lo scorso gennaio, ed ha quindi sulle spalle quei due mesi e mezzo circa che sono il minimo da mettere in conto per le importazioni dagli Stati Uniti.
All'aspetto è dorata, quasi limpida e forma un cremoso cappello di schiuma bianca abbastanza compatto, dalla buona persistenza.  L'aroma è ancora abbastanza fresco e d'intensità davvero notevole, pungente e, soprattutto, pulitissimo: il cocktail di frutta (pompelmo, ananas, arancia e mango) viene completato da una lieve presenza di aghi di pino, di quell'intraducibile "dank" e da un'accenno di miele, con un gran bell'equilibrio complessivo. Difficile chiedere di più, se non qualche mese in meno dalla messa in lattina. La sensazione palatale è pressoché perfetta: corpo medio, carbonazione media, ottima scorrevolezza che non preclude una presenza morbida. Il gusto ricalca quasi in toto le orme dell'aroma con un ingresso dolce di frutta tropicale fresca (soprattutto ananas e mango) ed un tocco di miele che vengono subito incalzati dall'amaro del pompelmo, della resina e da quel "dank" che ricorda vagamente la marijuana. Gli elementi sono quelli noti, quello che invece impressiona è l'esecuzione: birra intensa e pulitissima, la cui buona freschezza permette ancora di coglierne ogni dettaglio nonostante qualche lieve cedimento dovuto al trascorrere del tempo. Nessun "fruttone" dolce all'inizio ma tanta delicata fragranza alla quale risponde un amaro intenso ma elegantissimo;  è lui il protagonista della seconda parte della bevuta, ma non viene mai lasciato solo: in sottofondo c'è sempre una patina dolce di frutta fresca che ogni tanto s'infila tra gli spazi amari per portare ulteriore equilibrio. E' un'American Pale Ale ma se ordinate una IPA e vi trovate questa nel bicchiere non avrete nulla di che lamentarvi: profumatissima, si congeda con un finale amaro intenso ma non troppo lungo che, assieme ad una buon livello di secchezza, lascia il palato pulito e pronto a ricominciare.
Indiscutibilmente una birra di gran classe o, se preferite, di "world class": mi dà un po' fastidio ammetterlo ma non se ne incontrano di questo livello in Europa ed in Italia. Il punto fondamentale è la materia prima, nella qualità delle varietà luppolo che gli americani riescono ad avere a disposizione; ci sono birrifici nostrani che si difendono molto bene anche con le "seconde scelte", ma è impossibile non notare la differenza quando ti capitano nel bicchiere birre come questa. Le APA/IPA sono uno degli stili più locali che ci siano, ma quando viaggiano ed arrivano in codeste condizioni è ancora possibile togliersi delle belle soddisfazioni.
Formato: 47,3 cl., alc. 5.8 - 7% ?, IBU 50, lotto 05/01/2016 12:50.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 23 marzo 2016

Ichtegems Grand Cru (Cuvée 2012)

Nel 1831 Carolus Strubbe arriva nella città di Ichtegem, Fiandre Occidentali, a quel tempo famosa per l’industria del lino: diviene agricoltore e birraio, attività un tempo spesso strettamente correlate in quanto il birraio era solito coltivare in proprio (quasi) tutte le materie prime necessarie. Da quella data si sono date il cambio sei nuove generazioni di Strubbe ma il birrificio è ancora saldamente rimasto nella mani della famiglia. A Carolus succedettero Louis, Medard (fu lui a cambiare il nome in Brouwerij Strubbe)  e Aimé, quest’ultimo promotore del passaggio alla bassa fermantazione; sino alla prima guerra mondiale il birrificio produceva infatti solamente due birre (2% e 4% ABV) ad alta fermentazione. Arrivarono una Bock ed una Pils che però non ottennero il successo necessario a ripagare gli importanti investimenti economici. 
Ad Aimé succedettero i figli Gilbert (birraio) ed Etienne, seguiti da Norbert e Marc, responsabili di un importante investimento che, nel 1978, portò ad Ichtegem gli impianti in rame del dismesso birrificio Aigle-Belgica (De Meulemeester-Verstraete);  nel 1986 le vasche di fermentazione aperte furono sostituite da fermentatori tronco-conici mentre successivi investimenti vennero fatti nel 1986, 1999, 2000 e 2005. Il birrificio aveva ricominciato a produrre anche birre ad alta fermentazione e, nel 1982, la Ichtegems Oud Bruin nata dalle ceneri della Bruin Hengstenbier, una delle storiche produzioni di Strubbe che vennero dismesse dopo la prima guerra mondiale. Nel 2008 Norbert Strubbe passa il testimone al figlio Stefan che affianca oggi Marc.

La birra.
La Ichtegems Oud Bruin, che costituisce anche la base per il Lambickx Kriek, viene prodotta con malto Pilsener (75%), Amber (20%) e Dark Caramel (5%), luppolo invecchiato; la fermentazione primaria avviene spontaneamente in vasca aperta a 18°C e in seguito l’80% della birra viene trasferito a maturare per due mesi a 0°.  Il restante 20% matura invece fino a diciotto mesi in vasche di metallo e, al momento dell’imbottigliamento, viene “addolcita” con una percentuale di birra fresca. Un po’ diverso l’iter produttivo della Ichtegems Grand Cru, la cui maturazione avviene per 24 mesi in barili di legno in compagnia dei batteri naturalmente presenti: alla Grand Cru non viene aggiunta birra fresca.
All'aspetto è quasi limpida e di colore ambrato molto carico, con intense venature rossastre e ramate; la schiuma biancastra si rivela compatta e cremosa ma dalla persistenza solo discreta. Il naso è pulito e piuttosto elegante, con profumi di legno umido e terrosi che si mescolano con quelli dolci dell'aceto balsamico, della ciliegia e dei frutti di bosco; c'è l'asprezza della mela acerba, dei frutti rossi (ribes?) e una nota polverosa, di cantina. Il gusto ripercorre gli stessi passi dell'aroma sul percorso "sour" e dell'asprezza di frutti rossi (ribes, amarena) e mela acerba, bilanciati da un passaggio centrale dolce di malto e di ciliegia. Il finale ritorna di nuovo in territorio acido, con una punta d'amaro tannica e terrosa appena accennata. Delle due componenti a me risulta più convincente quella "sour", delicata ma piacevolmente ruspante, con l'acetico (mela) abbastanza contenuto: la parte dolce manca un po' d'eleganza,  la ciliegia a tratti sconfina nello sciroppo "al gusto di" piuttosto che nella pienezza del frutto. Facilissima da bere - se avete dimestichezza con l'acido, ovviamente -  agevolata da una carbonazione delicata e una sensazione palatale leggera e scorrevole, risulta alla fine soddisfacente e quasi rinfrescante grazie ad un'ottima attenuazione.

Formato: 33 cl., alc. 6.5%, lotto 21A140 12:06, scad. 20/05/2020, 2.35 Euro (beershop, Belgio).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 22 marzo 2016

Brauerei Rittmayer Hallerndorf: Rittmayer (Raiterla) Rauchbier vs. Smoky George (7%)

Le “rauchbier” o birre affumicate sono una specialità di Bamberga e di buona parte della Franconia e oggi vediamone due esempi proposti dal birrificio Rittmayer di Hallendorf, venti chilometri a sud di Bamberga. 
Il birrificio oggi guidato da George Rittmayer ha ammodernato i propri impianti nel 2012 apportando alcune modifiche nel portfolio dei prodotti classici e introducendo anche la nuova gamma delle “kraftbier”. 
Partiamo dalla Rittmayer Rauchbier (4.9%) che credo sostituisca quella che un tempo era la Hallerndorfer Raiterla Rauchbier;  il cambiamento non mi rende molto felice, in primis per la perdita di quel suffisso “-la” (Reiter-la) tipico della Franconia e poi anche per la nuova etichetta che, onestamente, non poteva essere più brutta. Capisco che la birra abbia vinto la medaglia d’oro all’European Beer Star 2007, 2008 e 2009, ma trasformare quella coccarda in un’etichetta, al di là dell’opinione che una persona possa avere su quel tipo di concorsi, è davvero indice di poco buon gusto. Il perché sia stata abbandonata quella classica rimane per me un’incompressibile scelta commerciale. 
La Rauch di Rittmayer viene ancora prodotta con il malto affumicato essiccato dal fuoco “vivo” del legno di quercia, un processo antico che risale a quando non erano ancora state inventate  le tecniche (forni) di essicazione che riuscivano ad evitare il contatto diretto con il fuoco e quindi con il fumo, che veniva subito allontanato dal malto.

La birra. 
Nel bicchiere è limpida, di color ambrato molto carico e forma un compatto e “croccante” cappello di schiuma ocra, molto cremosa e dalla lunghissima persistenza. L’aroma è pulito ma non particolarmente intenso e dominato dalla carne affumicata: in sottofondo leggeri sentori di legno affumicato e pane tostato.   Caramello, pane nero e miele di castagno guidano il gusto in compagnia dell’affumicato che, rispetto al naso, si ritaglia un ruolo da comprimario; la birra scorre benissimo, con poche bollicine ed una consistenza acquosa adatta a bevute seriali. C’è giusto una punta di diacetile, peraltro tollerabile, e un finale in cui l’amaro del pane tostato è appena accennato: il retrogusto è di nuovo dolce, con il caramello avvolto da un filo affumicato. Anche al palato non c'è una grande intensità, la birra è pulita e ben equilibrata ma nella sua semplicità non regala particolari emozioni; una bevuta discreta ma nella zona (Schlenkerla e  Spezial) ci sono affumicate di ben altro livello.

Dal malto affumicato passiamo a quello torbato, protagonista della Smoky George, inserita nella linea “kratbier” e sorella maggiore (7%) della Smokey George (5%) già descritta in questa occasione. Il malto (affumicato su fuoco di torba anziché legno) arriva dalla Scozia e la birra è stata realizzata con la collaborazione del Whisky Club di Norimberga; rispetto alla Smokey (5%) aumenta il grado alcolico ma diminuisce il formato, scegliendo il 33 centilitri che si rivelerà poi appropriato.

La birra.
Limpida e ambrata, anch'essa forma una perfetta "testa" di schiuma bianchissima, cremosa e compatta dalla lunghissima persistenza. L'affumicato/torbato al naso è quasi esplosivo, proponendosi nelle forme di carne/speck, legno, formaggio e anche un pochino di gomma bruciata; qualche lieve sentore floreale non basta però a donarle un po' di eleganza che, in questo caso, viene sottomessa dall'intensità. Anche in bocca c'è una netta presenza torbata ad affiancare le sfumature di cuoio e carne a loro volta bilanciate dal caramello e dal biscotto. Il breve finale leggermente tostato (pane) e il retrogusto dolce sono gli stessi della Raiterla/Rauchbier, ma l'affumicato è molto più in evidenza. Il corpo medio e le poche bollicine non le impediscono di scorrere linearmente e l'alcool è ben nascosto ma il suo limite, peraltro lo stesso della Smokey George 5%, è costituito dal tanto affumicato che inizia rapidamente a saturare il palato senza concedere tregua. L'intensità complessiva è senz'altro superiore a quella della Rauchbier, ma in questo caso ammetto che sarebbe stato difficile finire mezzo litro: bene i trentatré centilitri ma la bevuta è davvero troppo sbilanciata "dal fumo". Anche per lei vale quanto già detto in precedenza: discreta ma nei dintorni di Bamberga ci sono birre affumicate decisamente migliori.

Nel dettaglio:
Rittmayer Rauchbier, alc. 4.9%. IBU 22, scad. 24/05/2016
Smoky George, alc. 7%, lotto 08:12 P, scad. 25/08/2016.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 21 marzo 2016

Toccalmatto/Naparbier: St. Germanus Ghost Quadrupel

Aggiungiamo un altro episodio all’infinita saga delle collaborazioni del birrificio emiliano Toccalmatto; questa volta tocca agli spagnoli di NaparBier recarsi in visita a Fidenza per realizzare una Quadrupel speziata con cannella e chiodi di garofano. La collaborazione viene annunciata a settembre 2014 con le immagini di Bruno Carilli e Juan Rodriguez – birraio di Naparbier – vestiti da monaci. 
Ammetto di non conoscere il birrificio spagnolo, fondato nel 2009  da Juan Rodriguez e Josu Taniñe, homebrewers dal 2005 e vittime dell’ERE (Expediente de Regulaciòn de Empleo), procedimento che regola i licenziamenti di massa per ragioni economiche; aiutati dal birraio tedesco  Alex Schmid e da altri due soci  (Txerra Aiastui e José Javier Rodríguez) i due homebrewers lasciano il proprio precario lavoro per iniziare la produzione di birra. Nel 2012 il birrificio si trasferisce  a Noáin, Navarra; a gennaio 2013 entra in società anche il belga Sven Bosch, che nell’ottobre dello stesso anno apre a Barcellona il BierCab, uno dei bar più frequentati dai beer geeks catalani.   A settembre 2014 il primo upgrade” degli impianti, con una nuova sala cottura da 30hl,  che permette di produrre anche alcune birre per conto terzi (Evil Twin) e di collaborare con Alvinne, Beavertown, De Molen, Hanndbryggeriet, Nøgne Ø, Lervig, Mikkeller e To Øl. 
Un primo incontro Toccalmatto era giù avvenuto a febbraio 2014 con la realizzazione della “hoppy saison” chiamata Wild Lady; come detto, il favore viene ricambiato in autunno dello stesso anno quando a Fidenza viene creata una “Ghost Quadrupel”  ispirata  - suppongo scherzosamente - “dalle pie opere di San Germano da Verona”:  se lo conoscete, fatemelo sapere, io non ne ho trovato traccia alcuna.

La birra.
Introdotta dalla macabra ma bellissima etichetta realizzata dall’illustratore spagnolo Antonio Bravo, collaboratore abituale di Naparbier, la St. Germanus si presenta del classico color tonaca di frate tendente all’ebano scuro; la schiuma è cremosa ma un po’ grossolana e collassa nel bicchiere piuttosto rapidamente.  L’intensità e la pulizia dell’aroma permettono di descriverlo senza grossi sforzi: la scena è dominata dalla frutta sotto spirito (uvetta di Corinto, prugna, datteri) alla quale s’affiancano i profumi di zucchero candito, pera, biscotto e un accenno di cioccolato. Non avverto nessuna delle spezie dichiarate (cannella e chiodi di garofano), probabile effetto dei mesi passati in cantina. Liquirizia, zucchero candito, caramello e frutta sotto spirito costituiscono la spina dorsale del gusto di questa potente Belgian Strong Ale (11%) che si sorseggia con calma ma senza troppa difficoltà: il corpo oscilla tra il medio ed il pieno, con una consistenza oleosa che le permette di scorrere senza intoppi, favorita da una carbonazione bassa. La bevuta è piuttosto dolce ma è ben attenuata e parzialmente bilanciata da una carezza amara che si compone di frutta secca, cioccolato, caffè e lievi tostature. L'alcool si fa sentire senza arrivare mai a bruciare e lascia un finale caldo ed avvolgente, morbido, intriso di frutta sotto spirito, capace di regalare buona soddisfazione a chi ha il bicchiere in mano. 
Il livello è alto ma ancora abbastanza lontano da quello delle grandi trappiste alla quale dichiara di essersi ispirata, e mi riferisco in particolare all'espressività del lievito; un fattore da tenere in considerazione visto il prezzo, nemmeno lontanamente paragonabile a quello delle belghe.
Formato:  75 cl., alc. 11%, lotto 14071, scad. 15/09/2019, 12.00 Euro (birrificio)


NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 20 marzo 2016

Aecht Schlenkerla Rauchbier Urbock

Sul blog erano già presenti la Schlenkerla Märzen, quella più famosa di tutte, e la sua sorella maggiore dedicata ai mesi più freddi dell'anno, la Eiche Doppelbock. Mancava l'autunno, e provvedo a colmare la lacuna con una bottiglia di Schlenkerla Urbock, prodotta con malto affumicato con legno di faggio: stesso procedimento della Märzen, mentre veniva utilizzata la quercia per la Doppebock.
E' una birra stagionale che matura per alcuni mesi nelle antiche grotte di roccia sotto il suolo per essere poi bevuta da metà ottobre sino al giorno dell'Epifania; la Schlenkerla Rauchbier Urbock inaugura la stagione delle Bock a Bamberga, anticipando di qualche settimana quelle di Klosterbräu, Marhs e Fässla; a inizio novembre arriva quella di Spezial e la stagione si chiude con quella di Greifenklau, disponibile solo nelle ultime due settimane di novembre. 
Il luogo ideale dove bere la Schlenkerla  Urbock è ovviamente la casa a graticcio di Dominikanerstrasse 6 a Bamberga, dove dal 1678 si trova la taverna della Brauerei Heller. Il birrificio è guidato da sei generazioni dalla famiglia Trum, con l'aiuto del birraio Michael Hanreich. Ma il proprietario  più famoso rimane senza dubbio Andreas Graser (1877-1906): dobbiamo a lui il nome Schlenkerla, indicativo della sua andatura zoppicante a causa di un incidente. Schlenkern è una vecchia parola tedesca che indica una camminata non esattamente diritta, simile a quella di un ubriaco, alla quale si aggiunge il suffisso "-la" del dialetto della Franconia.  Il birrificio si chiama Heller, ma per tutti la birra è solo Schlenkerla! 

La birra.
Assolutamente perfetta nel bicchiere, con un cremosissimo cappello di schiuma biancastra,  "croccante", compatto e dalla lunghissima persistenza: il suo colore è un limpido mogano con intensi riflessi rossastri. Il naso è ovviamene dominato dall'affumicato, che nello specifico viene accompagnato soprattutto da sentori legnosi piuttosto che da quelli di carne/speck o, se preferite, di Schwarzwälder Schinken: l'affumicatura è elegante, molto intensa e non lascia spazio a null'altro. Abbastanza diverso lo scenario che si presenta al palato, nel quale l'affumicato è solo uno degli elementi in gioco ed è molto ben integrato alla solida base maltata (caramello, pane nero, pane tostato); in sottofondo ricompaiono suggestioni legnose e di carne, accompagnate da un morbido ma diffuso calore etilico a ricordarci che si tratta di una birra prodotta per accompagnare l'arrivo dell'inverno. Il suo corpo è medio, con poche bollicine ed un'ottima morbidezza palatale: annoto anche miele di castagno, richiami fruttati di prugna ed uvetta a definire una bevuta dolce ma assolutamente ben bilanciata dal breve tocco amaricante finale che presenta note erbacee e di pane tostato, con una vaga suggestione di cioccolato e di caffè che aleggia nell'aria. Si congeda calda ed avvolgente, dolce di frutta sotto spirito.
Versione potenziata della Märzen, la Schlenkerla Urbock ne ripropone la struttura aggiungendo una bella complessità e un po' di alcool warming che ne limita solo di poco po' la facilità di bevuta rispetto alla "sorella minore". Pulitissima, molto ben fatta, ideale per riscaldarsi tra le secolari mura delle taverne nelle case a graticcio di Bamberga o anche tra le meno suggestive mure domestiche.
Una birra che è "tante belle cose", davvero.
Formato: 50 cl., alc. 6.5%, IBU 40, lotto LBJ, scad. 05/2016, 2.48 Euro (beershop, Germania).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 19 marzo 2016

Prairie Standard

Il noodling è un tipo di pesca estremo (o primitivo , se preferite) che si effettua utilizzando soltanto le mani: è uno sport molto popolare nei fiumi e nei laghi dell'Oklahoma, dov'è molto diffuso il pesce gatto. La tecnica consiste nell'esplorare nell'acqua torbida il fondale dei fiumi per cercare le tane dove i pesci si nascondono; individuata la tana, vi si infila la mano per provocare la reazione del pesce gatto che, istintivamente, morde le mani del pescatore in segno di difesa. L'animale è privo di denti e quindi a questo punto il pescatore può afferrarlo per l'interno della bocca e tirarlo fuori dall'acqua, peso e dimensioni permettendo. Il rischio principale non è rappresentato dal morso dei pesci ma piuttosto dal fatto che nelle tane sommerse si possono a volte nascondere serpenti o alligatori: se avete voglia di cimentarvi in questo sport, potreste partecipare all'annuale Okie Noodling Tournament  e cercare, in venti quattr'ore di tempo, di pescare il pesce più grosso.
Il pesce gatto, specialità gastronomica di Oklahoma City, è raffigurato su tutti i tappi della bottiglie di Prairie, birrificio americano con sede a Tulsa, Oklahoma, del quale vi avevo raccontato qui e qui. Le istruzioni su come fare noodling sono invece illustrate da Colin Healey - fratello del birraio Chase - sull'etichetta della Prairie Standard: "il solo pensiero di dover fare noodling è per noi terrorizzante, ma sapevamo che la nostra birra sarebbe arrivata a New York o a Londra..  luoghi in cui quella cosa è associata all'Oklahoma e quindi volevamo scherzarci un po' sopra. Così la gente penserà che qui passiamo tutto il tempo a pescare con le mani.."
La spina dorsale della produzione Prairie ha sempre avuto uno sguardo verso le farmhouse ales del Belgio: la Standard di Prairie rientra anch'essa in questa categoria: è dichiratamente una birra da bere in ogni occasione, anche quotidianamente. Al lievito di casa Prairie s'affianca una generosa luppolatura del neozelandese Motueka,  utilizzato anche in dry-hopping (mezzo chilo ogni 150 litri).

La birra.
Nel bicchiere è quasi limpida e di colore giallo paglierino, sul quale si forma una bianchissima testa di schiuma cremosa e compatta, generosa e dall'ottima persistenza. Impossibile risalire all'età anagrafica di questa bottiglia ma l'aroma (se si considera il generoso dry-hopping dichiarato) non è un buon biglietto da visita: intensità piuttosto bassa, con sentori floreali che affiancano la scorza d'agrumi. Più che i luppoli si scorgono i crackers, il frumento, gli esteri fruttati (banana) e una lieve nota rustica di paglia. Al palato le bollicine sono un po' troppo esuberanti, anche se siamo davanti ad una Saison, mentre il corpo è leggero. Il gusto è molto ben bilanciato tra le noti dolci di crackers e miele e quelle più aspre di limone, banana acerba e scorza d'agrumi. La sua secchezza è davvero impressionante, capace di ri-assetare il palato ad ogni sorso che si conclude con un amaro delicato composto da note terrose e di scorza d'agrumi. L'elevato livello di pulizia e di eleganza è quello "standard" (se mi passate il gioco di parole) di Prairie, quello che è forse un po' sottotono è l'intensità, anche se si tratta di una birra "quotidiana". La bevuta è un po' spigolosa ma facilissima e piacevolmente rustica, l'acidità del frumento assicura un grande potere rinfrescante e dissetante, il lievito dona una piacevole speziatura che a tratti si rivela un po' pepata. Tutto abbastanza bene, c'è sempre l'attenuante della traversata oceanica ma per il prezzo di fascia alta di Prairie mi aspettavo un qualcosina di più. 
Formato: 35.5 cl., alc. 5.6%, IBU 25, lotto 23341, pagata 4.97 Euro (beershop, Germania)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 18 marzo 2016

Fuller’s 170th Anniversary Celebration Ale

Il 1845 è la data ufficiale della fondazione del birrificio Fuller, Smith and Turner, nel sito di Chiswick, Londra, dove si produce birra ininterrottamente dal 1645: dal 1816 vi operava la Griffin Brewery che, in cattive acque finanziarie, ottenne l’aiuto finanziario (1829) da parte di John Fuller che vi entrò come socio. Nel 1841 gli altri soci Griffin gettarono la spugna e Fuller, rimasto solo, continuò le operazioni con l’ingresso di Henry Smith e del birraio John Turner, formando così la  Fuller, Smith and Turner. 
Dal 1845 ad oggi sono trascorsi 171 anni e la storia brassicola di Londra ha attraversato alti e bassi; nel diciannovesimo secolo era la capitale mondiale della produzione di birra, ma alla fine del ventesimo secolo l’unico produttore rimasto in piedi era proprio Griffin/Fuller. Nel 2000 arrivarono Meantime a Greenwich, ma ci fu bisogno di attendere altri dieci anni per assistere alla rinascita brassicola di Londra grazie all’apertura di decine di microbirrifici, brewpub e pub devoti alla “craft beer”;  che questo poi si sia realizzato principalmente con la produzione di birre che cercano di replicare quelle realizzate negli Stati Uniti è un altro discorso. Fuller ha continuato ad andare dritto per la sua strada mostrandosi quasi impermeabile alle contaminazioni americane della “new wave londinese”: dico “quasi” perché ad esempio Fullers è  importatore ufficiale per il Regno Unito di Sierra Nevada. Ma anziché iniziare a sfornare decine di IPA ha preferito continuare a rovistare nel suo straordinario passato aggiungendo ogni tanto un nuovo tassello nella sua gamma delle splendide “Past Masters”. 
Lo scorso anno Fuller ha spento 170 candeline celebrandole con la 170th Anniversary Celebration Ale: sarebbe stato forse sin troppo banale festeggiarlo con una birra “importante” come una Imperial Stout o un Barley Wine magari affinato in botte, e invece alla Fuller hanno mantenuto la loro flemma realizzando una semplice Golden (Strong) Ale con malti Caragold e Pale Ale, frumento, avena ed una luppolatura di Goldings e Liberty: l’unica trasgressione che l’head brewer John Keeling si è concesso è stata la scorza d’arancia.

La birra.
Colorata d'oro e d'arancio, leggermente velata, forma nel bicchiere una bella testa di schiuma biancastra, fine e cremosa che tuttavia si dissolve abbastanza rapidamente. L'aroma offre puliti profumi di miele e canditi, soprattutto arancia, pesca ed albicocca sciroppata, marmellata d'arancia, un sottofondo biscottato; pulizia ed intensità ci sono, nel complesso il naso risulta però molto dolce, rischiando di sconfinare un po' nello stucchevole. Bene, anzi benissimo la sensazione palatale: carbonazione bassa, corpo medio, bevuta scorrevole ma morbida e quasi cremosa, grazie all'avena. Il gusto ricalca in fotocopia l'aroma con estremo rigore: base di biscotto, miele ed arancia candita compongono un quadro dolce ma molto più bilanciato dell'aroma, grazie ad un'ottima attenuazione e ad una leggera acidità che rende la frutta sciroppata quasi rinfrescante. La chiusura indulge per pochi istanti nell'amaro, tra note erbacee, di frutta secca e di scorza d'arancia amara: l'alcool (7%) rimane sempre in secondo piano ritagliandosi un po' più di spazio solo nel retrogusto.
La birra-anniversario di Fuller è molto pulita ed elegante, è ben eseguita ma non regala troppe emozioni: il packaging curato non basta a giustificare il prezzo premium; è una buona bevuta ma mi sarei aspettato un anniversario che restasse più impresso nella memoria di chi sceglie di celebrarlo insieme a questo pezzo di storia della Londra brassicola.
Formato: 50 cl., alc. 7%, scad. 12/2018, 9.99 Euro (foodstore, Germania)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 17 marzo 2016

Malheur Dark Brut

Malheur, “malefico” in fiammingo:  il diavolo fa di nuovo capolino nella birra belga come già accaduto per il nome Duvel ed il marchio Satan della De Block Brouwerij, giusto per citarne due.  
La famiglia De Landtsheer porta avanti una tradizione brassicola iniziata all’inizio del diciannovesimo secolo quando Balthazar De Landtsheer inaugurò a Baasrode il birrificio De  Halve Maan e suo nipote, qualche tempo più tardi,  il birrificio  De Zon a Buggenhout. La seconda guerra mondiale mise fine alla produzione e la famiglia scelse di dedicarsi soprattutto all’importazione e alla distribuzione di bevande, con un occhio di riguardo alla Pilsner Urquell e Westmalle, commissionando di tanto in tanto qualche birra ad alcuni terzisti. 
Nel 1991 alla scomparsa di Adolf De Landtsheer il figlio Emmanuel  “Manu” si sente in dovere di riprendere le attività sospese quasi cinquant’anni prima e coronare un sogno a lungo discusso col padre: nell’agosto del 1997 nasce la Malheur Brouwerij  ma è a partire dal 2002 che le cose si fanno più interessanti. 
Quasi contemporaneamente Malheur e un altro birrificio di Buggenhout,  la Brouwerij Bosteels, lanciano sul mercato quelle che non possono essere chiamate “birre champagne” (chiedete a Poretti perché la “10 luppoli Birra Champagne” sia poi diventata “10 Luppoli Le Bollicine”) e che Michael Jackson incasellò sotto l’etichetta di “Bieres Brut”. Il beer-hunter inglese si trovò involontariamente al centro della disputa ancora irrisolta tra i due birrifici – che a quanto pare non si amavano molto – sul chi avesse avuto per primo l’idea. 
Thomas De Moor, attuale birraio di Malheur, ricorda una visita di Michael Jackson con alcuni amici americani; alla domanda su eventuali nuovi progetti in cantiere, Manu De Landtsheer  rispose: “mi piacerebbe fare una birra utilizzando il Méthode Champenoise, ma non ho nessun potenziale cliente per questo prodotto”.  Uno degli americani presenti si offrì subito per acquistare tutto il primo lotto produttivo. La comitiva si spostò poi in visita al vicino birrificio Bosteels dove l’aneddoto sulla birra champagne venne raccontato, l’idea “copiata” e messa in pratica con la realizzazione della “ DeuS -  Brut des Flandres”. Ma Antoine Bosteels sostiene invece d’aver avuto l'idea per primo, ispirato da un pranzo con un parente della moglie che di lavoro faceva l’importatore di champagne. 
Torniamo da Malheur: Manu  De Landtsheer assieme al birraio di quel tempo, Luc Verhaegen, iniziò a visitare alcuni produttori di champagne per studiare i metodi produttivi,  acquisire macchinari ed il lievito dall’Institut Oenologique d’Epernay; nel 2002  debutta la Malheur Bière Brut, ovvero la Malheur 10 “sottoposta” al Méthode Champenoise  con remuage, degorgement ed aggiunta del liqueur d'expedition. L’avevo già descritto parlando de L’Equilibrista di Birra del Borgo
Sebbene il birrificio non abbia mai utilizzato il termine “champagne” né in etichetta né in nessuna comunicazione pubblicitaria, la lobby dei produttori francesi non fu molto contenta che invece la stampa continuasse a parlare di “birra champagne” ed intimò a De Landtsheer di evitare l’utilizzo di qualsiasi termine che potesse in qualche modo ricondurre allo champagne. La discussione per vie legali durò cinque anni, alla fine dei quali a Malheur fu concesso il permesso di utilizzare solo l'aggettivo “Brut”: impossibilitato a citare il Méthode Champenoise, il birrificio parla oggi di “méthode originale”.  
Alla Bière Brut  fece seguito nel 2003 la Dark Brut, evoluzione della Malheur 12, mentre nel 2005 arrivò la Cuvée Royale (su base Malheur 8) per festeggiare i 175 anni del Belgio; l’ultima nata (2012) fu la Extra Brut che dovrebbe essere solo una versione “dry hopping” della Bière Brut.  Nell’attesa di conoscere se sia stato Malheur o Bosteels il padre della "birra champagne", si può affermare con certezza che la prima  Bière Brut scura sia senz’altro quella di Manu De Landtsheer; come detto il  “méthode originale” viene qui applicato alla Malheur 12, ma c’è anche un passaggio di qualche mese in botti nuove di quercia che arrivano dagli Stati Uniti; la Dark Brut debutta proprio in quel conveniente ma con il nome Black Chocolate, anche se la ricetta non prevede l’utilizzo di cacao.

La birra.
Riempie il bicchiere con uno splendido liquido color mogano rossastro, sormontato da un effervescente cappello di cremosa schiuma beige un po' grossolana e non molto persistente. L'aroma, molto pulito, regala una bella complessità fatta di prugna e uvetta, spezie, frutti di bosco, caramello, waffel e biscotto, frutta secca, una spolverata di tostato, di vaniglia e di legno derivanti dal passaggio in botte.  12% il contenuto alcolico dichiarato ma siamo in Belgio, non c'è motivo di preoccuparsi; loro sanno quasi sempre come nasconderlo e renderlo molto "digeribile". E la Dark Brut di Malheur non fa eccezione: corpo medio-pieno, mouthfeel liquoroso, le bollicine garantiscono un ingresso in bocca molto vivace ma poi si placano affinché la bevuta continui più morbida. Il gusto rimane coerente con i profumi andando a comporre una birra ricca di caramello e biscotto, uvetta e prugna, vaniglia, cioccolato amaro e liquirizia ad affiancare le suggestioni di vino liquoroso; la carbonazione aiuta a bilanciare il dolce, ma è soprattutto grazie alla chiusura secca e tannica che avviene il miracolo dell'equilibrio. C'è una punta amara nel cui piccolo spazio riescono a convivere cioccolato, caffè e quelle lievi sensazioni di frutta secca e tostato che sono forse opera del lievito da Champagne; finisce  calda, lunga e ricca di frutta sotto spirito. Il biglietto è abbastanza caro (in Italia siamo nei dintorni dei 20 Euro a bottiglia) ma lo spettacolo è di grande pulizia ed eleganza; il livello è davvero molto alto, e almeno una volta va provata.
Formato: 75 cl., alc. 12%, scad. 01/11/2016,  12.70 Euro (drink store, Belgio).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 16 marzo 2016

Rittmayer: Hallerndorfer Hefeweissbier & Hallerndorfer Summer 69

Dal birrificio Rittmayer di Hallerndorf (Franconia) dal 1422 nelle mani della omonima famiglia e guidato oggi da George, ecco due interpretazioni di birra al frumento. La prima guarda alla tradizione ed è una classica Hefeweizen, la seconda cerca invece di portare po' di modernità in Franconia abbinando il frumento ad un luppolo americano.
La  Hallerndorfer Hefeweissbier si trova nella classica bottiglia da mezzo litro con tappo meccanico; il suo colore pallido ed opaco oscilla tra il dorato e l’arancio, mentre la bianca schiuma risulta compatta, quasi pannosa, con una buona persistenza. L’aspetto è da manuale ma all’aroma non è tutto a posto; i fenoli sono abbastanza fuori controllo, con una speziatura quasi soffocante di chiodo di garofano e coriandolo che si mescola a qualche vampata di plastica bruciata. Gli esteri fruttati (banana) ed il cereale quasi faticano a farsi sentire, in un bouquet tutt’altro che piacevole da annusare. Al palato la birra scorre leggera e veloce ma la bassa carbonazione le toglie buona parte della vitalità necessaria: banana e cereali sono presenti, di tanto in tanto spunta qualche gradevole nota di albicocca e forse di mango a disegnare un interessante profilo di Hefeweizen molto fruttata; purtroppo anche in bocca c’è qualche problemino, a partire da una leggera infezione lattica inizialmente quasi inavvertibile ma che pian piano mette fuori la testa dal guscio con l’innalzarsi della temperatura. Il risultato ottenuto (involontariamente) sarebbe anche gradevole, con il lieve lattico ad accompagnare l’acidità del frumento, non fosse che ogni tanto emerge una leggera sensazione di frutta marcia a rovinare la festa. La birra si riesce comunque a bere, la sua funzione dissetante la compie, ma le perplessità rimangono.

Fa invece parte della linea "Kraft" lanciata di recente da Rittmayer la Summer 69, nel formato 33 centilitri: è anch'essa una birra che impiega una percentuale (sconosciuta) di frumento, un luppolo americano (Amarillo) e, se ho ben capito, un ceppo di lievito anglosassone anziché quello da Hefeweizen.
All'aspetto è opaca e di colore oro carico con venature arancio; piuttosto modesto il cappello di schiuma, biancastro e cremoso ma rapido nel dissiparsi. Al naso c'è solo un accenno di banana, mentre sono soprattutto i profumi tropicali (mango), d'agrumi e bubble gum a caratterizzare l'aroma, intenso ed elegante. Il gusto prosegue nella direzione indicata senza compiere nessuna deviazione: nonostante la gradazione alcolica dichiarata (5.9%) non sia proprio da session beer estiva questa Summer 69 si comporta proprio come se lo fosse. Facilissima berla e veder passare rapidamente un po' di banana, bubble gum, agrumi e mango: la pulizia c'è, l'attenuazione non è invece impeccabile e le viene in soccorso il finale leggermente amaro e zesty.  Il corpo è medio, le bollicine anche qui sono un po' sottotono ma la bevuta è complessivamente molto soddisfacente; non si tratterebbe di una Hefeweizen con luppoli americani ma il risultato non è alla fine troppo distante da quella idea e convince. 
Nel dettaglio:
Hallerndorfer Hefeweissbier, formato 50 cl., alc. 5%, IBU 11, lotto21:11 S, scad. 07/04/2016
Hallerndorfer Summer 69, format 33 cl., alc. 5.9%, lotto 00:44 S, scad. 25/08/2016

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 15 marzo 2016

Birra del Carrobiolo Coffee-Brett

Viene annunciata a novembre del 2013 la nuova birra del “Piccolo Opificio Brassicolo del Carrobiolo Fermentum”: se non erro, rappresenta anche la prima stout del birrificio brianzolo che agli storici impianti posizionati all’interno del convento ha affiancato da novembre 2014 il nuovo brewpub con cucina annessa nella centrale piazza in Indipendenza di Monza. 
Se le considerazioni di questo articolo sono corrette,  la realizzazione di una stout rappresenta per il birraio Pietro Fontana il punto d’arrivo  di un percorso iniziato negli anni ’90, quando da appassionato di Guinness ha iniziato con l’homebrewing per produrre una stout tra le pareti domestiche. 
Ma qui le cose sono un po’ diverse: la Stout è diventata imperiale (11% l’ABV della versione 2014) e viene prodotta con l’utilizzo di caffè della Torrefazione Artigianale Autogestita Malatesta di Galbiate e lieviti selvaggi, alias Brettanomiceti. Il nome scelto è assolutamente azzeccato nella sua semplicità che va di pari passo con quella dell’austera etichetta, dal rigore monastico,  in stridente contrasto con il colore della birra: Coffee-Brett.

La birra.
Non è nera ma poco ci manca, mentre il piccolo cappello di schiuma color cappuccino che si forma è abbastanza scomposto e grossolano, poco persistente. La "porta del naso" viene aperta dai lieviti selvaggi che apportano note di cuoio e di pellame, subito incalzate da quelle più convenzionali di caffè e tostature; in sottofondo c'è il cioccolato fondente, la carne affumicata e, per chiudere il cerchio, un rapido ritorno al selvaggio sotto forma di sudore. L'ottimo livello di pulizia permette di decifrarne la complessità senza grossi sforzi. 
Il sito del birrificio la descrive come  “impegnativa” ma chi ama le Imperial Stout troverà invece una birra per nulla difficile da sorseggiare e molto appagante nelle sue note di caffè e cioccolato amaro, tostature e frutta sotto spirito (uvetta, prugna) accompagnate da una patina di caramello dolce in sottofondo. Un filo d'affumicato tiene assieme tutti gli elementi di una bevuta che si può descrivere, contrariamente all’aroma, senza far ricorso agli insoliti descrittori che affiancano i lieviti selvaggi; c’è forse un accenno di cuoio al palato, ad affiancare la liquirizia, ma è più che altro la morbidezza di caffè e cioccolato ad accompagnarci sino al finale caldo e morbido di frutta sotto spirito che con la sua dolcezza porta ulteriore equilibrio in una bevuta altrimenti amara. La consistenza palatale oleosa è morbida, quasi setosa, il corpo non arriva al pieno permettendole di scorrere abbastanza bene  avvolgendo il palato con un morbido ed elegante abbraccio etilico, molto discreto nella sua intensità. 
Un'imperial stout davvero molto ben fatta e pulita: l'aroma presenta qualche sorpresa "selvaggia" mentre il gusto si muove in territori più convenzionali e rassicuranti: senza spingersi in paragoni da classifica di beer-rating, questa Coffee-Brett per me entra con pieno merito tra le migliori imperial stout prodotte in Italia.
Formato: 37.5 cl., alc. 11%, lotto 1402, scad. 12/2017,  5.90 Euro (foodstore, Italia)


NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 14 marzo 2016

Ritter St. Georgen Ritter 1645 Ur-Märzen & Weißenoher Altfränkisch Klosterbier

Dalla Germania oggi due birre accumunate dal loro richiamo alla storia e alla tradizione, a quell’“originale", "primordiale", "antico"  veicolato dai suffissi “Ur-“ ed “Alt-“ che compongono i loro nomi: la Ritter 1645 Ur-Märzen del birrificio Ritter St. Georgen e la  Altfränkisch Klosterbier della Klosterbrauerei Weißenohe.  
Il primo si trova nel centro di Nennslingen, una cinquantina di chilometri a sud di Norimberga, mentre per incontrare il secondo bisogna spostarsi più a nord, a Weißenohe, Alta Franconia,  cinquanta chilometri da Bamberga. Attenzione a non confondere Ritter St. Georgen con la St. Georgen Bräu di Buttenheim, cosa che stavo per fare.  
Il birrificio del "Cavaliere Giorgio" produce circa 10.000 hl l'anno ed è oggi guidato dal birraio Dietmar Gloßner; celebra il suo anno di fondazione con una "Ur-Märzen 1645" che porta in etichetta il motto latino "Fortes fortuna adiuvat", "il destino favorisce chi osa". A non osare molto è invece la bottiglia di oggi, che ripropone la tradizione senza spingere con convinzione il piede sul pedale dell'intensità. 

La birra.
Si colora tra l'oro antico e l'ambrato, è limpida e forma un "croccante" e compatto cappello di schiuma ocra, cremosa, dall'ottima persistenza. Pane, cereali e miele compongono il bouquet olfattivo dove emerge anche qualche tocco floreale e di biscotto; la pulizia c'è, la fragranza è discreta, l'intensità è piuttosto bassa ma non è certo uno stile dal quale aspettarsi esplosioni aromatiche. La bevuta è costruita su di un impeccabile equilibrio teso a favorire la massima facilità di bevuta: ritornano pane, biscotto, cereali e miele per un dolce bilanciato da un tocco finale di mandorla amara. La carbonazione è bassa, la birra scorre bene anche se c'è un filo di diacetile ad "imburrare" un pochino il palato; poca intensità, poche emozioni ed alcool (5.5%) quasi impercettibile: il necessario c'è e, anche se un po' penalizzato dalla versione in bottiglia, lascia comunque un ricordo positivo. Se potete andate a provarla alla Bräustüble che si trova proprio accanto al birrificio.

Per trovare quello che manca nella Ritter 1645 Ur-Märzen bisogna invece stappare la Altfränkisch Klosterbier di Weißenoher. Il 1052 è la data di fondazione dell'abbazia benedettina di Weissenohe, consacrata a San Bonifacio, nella quale i monaci produssero birra sino al 1803, quando a causa della secolarizzazione il monastero fu definitivamente dissolto e venduto a privati. Nel 1827 il birraio Friedrich Kraus acquista fattoria, taverna e birrificio, rimettendolo in funzione; oggi lo guida la quinta generazione di discendenti, Katharina ed Urban Winkler, con l'aiuto dal 2010 del birraio Martin Pelikan che produce circa 20.000 hl l'anno. Weißenohe significa "luogo del bianco ruscello", nome dato al vicino fiume Kalkack le cui acque hanno originato le profonde falde acquifere utilizzate dal birrificio attraverso i due pozzi di proprietà. Tutte le  birre possono essere assaggiate all'adiacente Wirtshaus das Klosterbrauerei.

La birra.
Malto Vienna e luppolo Hersbrucker proveniente dai campi intorno a Weißenohe costituiscono la base della Altfränkisch Klosterbier che Ratebeer incasella tra le Märzen mentre il birrificio la descrive come una "landbier" della tradizione francone, ovvero una birra "di campagna" quotidiana e facile da bere.  Limpida e splendente nel suo dorato antico, con un impeccabile "testa" di schiuma biancastra, cremosissima, compatta, dalla lunga persistenza. In questo caso la semplicità è supportata da un'eccellente pulizia e, elemento fondamentale, da una buona fragranza dei malti. Il naso è dolce nei profumi di fiori, miele, pane e fette biscottate appena sfornate, invitando subito a portare il bicchiere alla bocca. In bocca ritornano gli stessi elementi che - di nuovo - fragranza e pulizia valorizzano al massimo in un'intensità di tutto rispetto che non intacca assolutamente la facilità di bevuta. L'accenno di diacetile non penalizza una bevuta di pane/cereali/biscotto e miele, dolce ma ben bilanciata da un finale lievemente amaro di mandorla ed erbaceo. Poche bollicine, corpo medio, perfetta scorrevolezza affiancata ad una gradevole morbidezza senza nessun scivolone nell'acquoso. Una birra dall'ottimo profilo maltato, di quelle che si prestano ad accompagnarti silenziosamente nel corso di una serata senza mai reclamare attenzione. Ha retto bene il passaggio in bottiglia, ma è chiaramente in loco che dovreste andare a provarla. 

Nei dettagli:
Ritter St. Georgen Ritter 1645, formato 50 cl., alc. 5.5%, scad. 07/06/2016, 0.97 Euro (supermercato, Germania).
Weißenoher Altfränkisch Klosterbier, formato 50 cl., alc. 5.1%, lotto 1346, scad. 17/05/2016, 0.93 Euro (supermercato, Germania).

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 13 marzo 2016

Poretti 6 Luppoli Bock Rossa vs. Birra Moretti La Rossa

Oggi a confronto due "rosse doppio malto" nazionali: La Rossa  di Birra Moretti  e la 6 Luppoli Bock Rossa del Birrificio Poretti. All'appello manca la Peroni Gran Riserva Rossa, ma la sua gradazione alcolica  (5.2%) inferiore di un paio di gradi alle altre mi ha portato ad escluderla. 
Entrambe sono prodotte sul suolo italiano, ma come saprete Moretti e Poretti sono due marchi controllati da multinazionali; facciamo un breve excursus storico.  
Nel 1859 Luigi Moretti fonda ad Udine la Fabbrica di Birra e Ghiaccio, detenendone la proprietà sino al 1989 per poi cederla ai canadesi della Labatt; nel 1995 il passaggio ai belgi di Interbrew che, dopo solo un anno, la vendettero ad Heineken ancora oggi proprietaria. Lo stabilimento originario fu chiuso nel 1992, la produzione continuò a San Giorgio di Nogaro sino alla cessione (su mandato dell'Antitrust) al Gruppo Birra Castello del 1997; se volete invece approfondire la storia del "baffone Moretti", andate qui
Abbastanza simile anche la storia del Birrificio Poretti, fondato da Angelo nel 1877 ad Induno Olona; nel 1939 il passaggio ai conti Bassetti che nel dopoguerra cercano di risollevarlo da una pesante crisi finanziaria incorporandolo al Birrificio Spluga già di loro proprietà. Nel 1975 entrano i scena i danesi di Carlsberg coi quali viene raggiunto un accordo per la produzione e la commercializzazione sul suolo italiano dei marchi Tuborg e Carlsberg; nel 1982 la famiglia Bassetti cede alla Carlsberg il 50% delle azioni aggiungendone un altro 25% nel 1998, quando l'azienda  cambia il proprio nome in Carlsberg Italia. Il passaggio dell'ultimo 25% d'azioni avviene nel 2002.
Passiamo ora al confronto, partendo dalle etichette: acqua, luppolo, malto d'orzo e sciroppo di glucosio per Poretti, la cui descrizione commerciale recita "una birra dal gusto di malto tostato con venature di caramello e liquirizia. Un’intensa luppolatura per una rossa corposa dalla spiccata personalità. Luppolo dominante Saaz". A questo proposito ricordo che il numero di luppoli che danno il nome alle varie Poretti non corrisponde a quelli poi effettivamente utilizzati; si tratta semplicemente di una denominazione commerciale.
Cambio di "look" per La Rossa di Moretti, che da qualche tempo inneggia al "malto brunito", ovvero  quel “colpo di fuoco a 105°C con cui i nostri mastri birrai trasformano l’orzo puro in malto. Il risultato è il tipico colore brunito di questa birra e il suo gusto straordinariamente morbido e pieno con sentori di caramello e liquirizia".  Più interessante è la temperatura di servizio consigliata (3°C!) e il fatto che "per gustare al meglio Birra Moretti La Rossa è indicato un bicchiere che impedisca la formazione di schiuma abbondante e ne favorisca la percezione del profumo". 
Partiamo dall'aspetto: la Poretti Bock Rossa è in verità limpida ed ambrata, con venature color rame e una schiuma ocra fine e cremosa, meno generosa e meno persistente rispetto a quella della Moretti; costei ha una livrea più scura, l'ambrato è carico con intensi riflessi rubino. Anch'essa limpida, molto bella, è sormontata da una testa di schiuma color crema compatta e cremosa, molto persistente.
Il confronto visivo va ad appannaggio della Moretti che "vince" anche quello olfattivo: più intenso e meno "artificioso", il suo aroma offre sentori di pane nero, caramello e ciliegia sciroppata. C'è anche una leggera ossidazione che in sottofondo porta qualche nota meno elegante di cartone bagnato. Piuttosto bassa l'intensità della Poretti, e quel che c'è non è affatto elegante: l'impressione è di uno sciroppo di ciliegia, quasi di caramella ripiena, con leggerissimi accenni al pane nero e al caramello. La sensazione palatale è invece pressoché identica: corpo medio, poche bollicine, ottima scorrevolezza con la Moretti che scivola un pelino troppo nell'acquoso dopo un ingresso morbido.
Il gusto de "La Rossa" è perfettamente coerente con l'aroma: pane nero, caramello e ciliegia danno forma ad una sorta di sciroppo piuttosto dolce che presenta qualche nota di prugna e di diacetile. L'intensità non è affatto male, l'amaro è praticamente assente eccezione fatta per una punta terrosa che ha il compito, assieme al finale acquoso, di spegnere un po' la dolcezza. Nel retrogusto un po' appiccicoso compare un po' di calore etilico che affianca le note di biscotto al burro e quelle di caramello; nel complesso la bevuta risulta completamente priva di fragranza e di eleganza ma comunque sopportabile.
La 6 Luppoli di Poretti risponde con un gusto altrettanto dolce di caramello, pane e sciroppo di ciliegia, riproponendo quella sensazione "artificiosa" già presente all'aroma. In internet ci si diverte sempre con "i numeri virtuali del luppolo di Poretti" ma bisogna ammettere che in questa "bock rossa" c'è effettivamente una chiusura amaricante quasi sorprendente. Il livello è modesto - intendiamoci - ma rispetto alla Moretti la differenza è evidentissima. Il suo amaro  terroso e di frutta secca (mandorla) è tuttavia molto sgraziato e poco gradevole;  anche la 6 Luppoli non si fa mancare un tocco di diacetile ma sopratutto la sua bevuta risulta molto meno morbida ed armonica e lascia una scia dolce ed appiccicosa di caramello e sciroppo di ciliegia. L'alcool fa il suo ingresso da subito quasi "a gamba tesa", in maniera scomposta e senza mai davvero amalgamarsi con gli altri elementi del gusto; molto meglio il delicato "warming" della Moretti che arriva solo a fine corsa.
Le conclusioni? Tra le due ho senz'altro preferito La Rossa di Moretti, che in quanto prodotto industriale dal costo contenuto è risultato bevibile e "quasi" sulla soglia della sufficienza: non è di certo una birra che vorrei trovarmi nel bicchiere, ma per lo meno si riesce a finire. Malaccio la Poretti: pervasa da una nota di ciliegia artificiosa che la rende stucchevole e poco sopportabile, e nemmeno i "sei" luppoli riescono a salvarla e a permettermi di finire la bottiglia.
Nel dettaglio:
Poretti 6 Luppoli Bock Rossa, formato 33 cl., alc. 7%, lotto J15042J, scad. 05/2016.
Birra Moretti La Rossa, formato 33 cl., alc. 7.2%, lotto 50gg3801 1, scad. 06/2016.

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.