martedì 26 giugno 2018

Bruery Terreux Oude Tart 2015

Bruery Terreux è la costola del birrificio californiano The Bruery che si dedica alle produzioni di birre acide con lieviti selvaggi e batteri. Uno “spin-off” necessario per eliminare qualsiasi rischio di contaminazione batterica sulle birre normali. Il mosto delle birre viene ancora prodotto sugli impianti di The Bruery ma inoculazione dei lieviti selvaggi, fermentazione e eventuale invecchiamento in botte e imbottigliamento avvengono in uno stabile che si trova a qualche chilometro di distanza, anch’esso dotato di taproom. 
Patrick Rue, fondatore di The Bruery, ha scelto di affidare l’intero progetto Terreux a Jeremy Grinkey, proveniente dal mondo del vino e  - sebbene appassionato birrofilo -  alla grossa prima esperienza in ambito brassicolo.  Sotto il marchio Terreux, operativo dal 2015,  sono migrate con nuove etichette tutte le birre acide e prodotte con lieviti selvaggi, tra le quali ad esempio le famose Saison Rue, Oude Tart,  Sour in the Rye, Reuze e Tart of Darkness. 
Ricordo che a maggio 2017 Bruery ha ceduto la propria maggioranza alla  società di private equity Castanea Partners di Boston: da loro provengono gli investimenti necessari per crescere. Attualmente The Bruery produce e vende circa 17.000 ettoltri l’anno a fronte di una capacità potenziale che supera i 40.000, e una collezione di quasi 5000 botti di legno. Una delle prime novità è stata la decisione di affiancare allo storico formato da 75 cl. anche quello  da 37.5 per andare incontro alle richieste del mercato.

La birra.
Oude Tart è il tributo di The Bruery alle Flemish Red Ales del Belgio. Prodotta per la prima volta nel 2009, viene invecchiata per diciotto mesi in botti che avevano in precedenza contenuto vino rosso.  Ne esistono anche versioni con aggiunta di ciliegie e di boysenberry, un frutto di bosco ibrido ottenuto incrociando il lampone con la mora del Pacifico. 
Nel bicchiere è splendida, d’un acceso color rubino quasi limpido sul quale si forma una testa di schiuma cremosa e compatta ma poco persistente. L’aroma è pulito, piuttosto gradevole e dominato dall’asprezza dei frutti rossi: visciole, ribes e mela. A contrastarlo una controparte dolce che chiama in causa ciliegia e frutti di bosco, mentre in sottofondo ci sono note vinose e di legno. La bevuta risulta meno complessa e molto più sbilanciata verso l’aspro: il risultato è una birra a tratti tagliente, con qualche deriva acetica di troppo che brucia un po’ in gola: un velo di ciliegia sciroppata in sottofondo non basta a lenire. Al palato la Oude Tart  di Bruery scorre senza grosse difficoltà ma dal punto di vista tattile è molto più ingombrante di una classica Flemish Red belga. Nel finale acidità lattica e asprezza di limone chiudono una bevuta molto secca, a tratti un po’ astringente,  che disseta e rinfresca ma che obbliga a qualche pausa di troppo per far riposare un po’ il palato. Legno e vino aggiungono un po’ di profondità ad una birra spigolosa che ogni tanto viene improvvisamente accesa da qualche vampata di alcool. 
Qualche imprecisione di troppo in una birra che al palato non mantiene le belle promesse dell’aroma:  The Bruery non è un birrificio economico e quindi diventa più difficile perdonarle.
Formato 75 cl., alc. 7.7%, IBU 6, imbott. 31/08/2015, prezzo indicativo 16.00-18.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 giugno 2018

Buxton / Omnipollo Original Rocky Road Ice Cream

2014: è questo l’anno in cui, a seconda dei punti di vista, inizia l’inferno o il paradiso delle cosiddette “birre dessert” di Omnipollo, beerfirm svedese della quale abbiamo già parlato più volte. E’ in quell’anno che Henok Fentie realizza assieme al birraio Colin Stronge di Buxton Brewery (UK) l’imperial stout Yellow Belly prodotta con arachidi e biscotti che, in versione barricata, diviene Yellow Belly  Sundae.  Dal sundae al gelato il passo è breve e l’idea viene inizialmente realizzata con birre “chiare”: sempre sugli impianti di Buxton nasce la Ice Cream Pale ovvero un’American Pale Ale realizzata con avena, lattosio e vaniglia, seguita ad inizio 2016 dalla Cloudberry Ice Cream IPA, nella quale il “gelato” (vaniglia e lattosio) viene arricchito con il camemoro, una sorta di lampone artico.  
A novembre 2016 Buxton e Omnipollo hanno annunciato l’arrivo di quattro nuove edizioni di quella che è stata chiamata la serie delle “Original Ice Cream”;  la Original Lemon Meringue Ice Cream Pie, versione liquida dell’omonima torta,  la Chocolate Ice Cream Brown Ale e  due imperial stout: Original Texas Pecan Ice Cream e Original Rocky Road Ice Cream. Le etichette sono realizzate da Karl randin, abituale collaboratore di Omnipollo; a voi decidere se quell’oggetto che cammina sia un gelato o un escremento.

La birra.
La Original Rocky Road Ice Cream si ispira all’omonimo gelato inventato nel 1929 da William Dreyer a Oakland, California: si dice che Dreyer usò le forbici da cucire della moglie per tagliare noci e marshmallow e aggiungerle al suo gelato al cioccolato. Lui, che era gelatiere, voleva replicare il dolce appena “inventato “ dal socio Joseph Edy: i due avevano fondato assieme la società Edy's Grand Ice Cream.  Si separarono nel 1947 e l ’azienda venne rinominata Dreyer's Grand Ice Cream: oggi è un marchio di proprietà della multinazionale Nestlé.
La ricetta elaborata da Buxton ed Omnipollo include marshmallow, lattosio, fave di cacao, baccelli di vaniglia e “aromi” (il virgolettato è mio). Nel bicchiere è quasi nera con una sottile patina di schiuma che si dissolve immediatamente. Al naso  arachidi, marshmallow alla vaniglia, cioccolato, Nesquik; c’è poca intensità e l’impressione è di avere il naso nel sacchetto di una merendina industriale. Il corpo è medio ma il mouthfeel non è particolarmente morbido o cremoso, in alcuni passaggi è un po’ slegata/sfuggente; le bollicine fini ma per il mio gusto un po’ troppo sostenute per questo tipi di birra.  Anche al palato è impossibile non pensare ad una merendina: un agglomerato dolce nel quale è inutile cercare pulizia o finezza. Arachidi, marshmallow e vaniglia, cioccolato al latte e nel finale c’è anche spazio per della frutta sotto spirito. E' una birra ovviamente (molto) dolce, ma con una chiusura abbastanza secca e un tocco amaricante luppolato che aiuta a ripulire un po’ il palato. L’alcool (10%) si sente ma non ci sono eccessi ad ostacolarne lo scorrimento che rimane abbastanza buono. 
E’ una  “porcheria” ma non pensate necessariamente in negativo: a tutti noi piace mangiare ogni tanto qualche schifezza/porcheria per poi magari avere subito sensi di colpa.  La Original Rocky Road Ice Cream di Buxton e Omnipollo  è una Pastry Stout di nome e di fatto ma in questo caso il dessert è industriale, anziché Pâtisserie Fine: ammetto di essere abbastanza prevenuto e di non amare particolarmente il genere, ma questa birra non mi pare proprio l’Omnipollo meglio riuscita.  
Formato 33 cl., scad. 25/10/2021, prezzo indicativo 9.00-10.00 Euro (beershop).

 NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 22 giugno 2018

LoverBeer For Fan 2014

Uva (BeerBera e D’uvaBeer), visciole (Saison De L'ouvrier Griotta), susine (BeerBrugna) e albicocche:  questa fruit beer di Loverbeer è un non celato tributo alla celebre Fou’ Foune di Cantillon. Un lambic alla frutta che fu chiamato con il soprannome (Foufoune) di François Daronnat, il coltivatore che aveva fornito le albicocche a  Jean Van Roy.  Il collegamento non è casuale: sin dai giorni dell’homebrewing l’interesse di Valter Loverier sono stati i lieviti selvaggi e le fermentazioni spontanee. Il suo primo esperimento fu quella  che oggi è chiamata BeerBrugna, una birra ispirata dai lambic alla frutta che impressionò al primo assaggio  Lorenzo “Kuaska” Dabove al punto che decise  di portarne una bottiglia al Brassin Public di Cantillon del 2005 per farla assaggiare proprio a Jean Van Roy che, dicono, l’apprezzò molto. 
La For Fan viene di Loverbeer fermenta per opera di  un inoculo di batteri lattici e lieviti selvaggi (tra cui brettanomyces); matura poi per dodici mesi in barriques con aggiunta di albicocche (tonda di Costigliole Saluzzo) fresche in macerazione in estate.  Il frutto viene prodotto “nella parte collinare dei comuni di Busca, Piasco, Verzuolo, Manta, Saluzzo e in tutto il territorio di Costigliole Saluzzo dove la varietà ammonta a circa 2500 tonnellate ed interessa una superficie coltivata di circa 250 ettari; si hanno cenni storici della sua coltivazione risalenti fin dagli inizi dell'800”.

La birra.
L’etichetta ricorda un po’ quella della BeerBrugna e Saison De L'ouvrier Griotta:  monaco e contadino sino intenti a raccogliere i frutti dall’albero. La produzione di For Fan è di circa 2000 litri all’anno. 
Il millesimo 2014 è di colore arancio piuttosto carico ma alquanto opaco: la piccola schiuma che si forma è abbastanza rapida a scomparire. Al naso convivono i tipici odori dei lieviti selvaggi (sudore, cuoio, cantina) con i profumi aspri dell’albicocca acerba, dell’uvaspina e del limone; in sottofondo qualche nota legnosa e anche una leggera presenza di solvente che tuttavia non crea particolari fastidi. Lo stesso scenario viene riproposto al palato, in una bevuta che non fa del pulito e della finezza le sue caratteristiche principali ma le rimpiazza con un carattere rustico e “sincero”.  L’asprezza di albicocca, limone, uva e frutti rossi garantiscono un elevato potere rinfrescante e dissetante, mentre un sottofondo dolce chiama in causa l’albicocca matura e la frutta a pasta gialla.  La bevuta è agile e semplice ma nel bicchiere c’è una bella complessità che include le caratteristiche tipiche del lambic (sudore, pelle di salame, cuoio), legno, acidità lattica e un accenno acetico. Si chiude in maniera molto secca con una punta amaricante terrosa e lattica.  L’alcool (7%) è praticamente inesistente e la For Fan di Loverbeer si potrebbe anche bere ad alta velocità, ma è meglio gustarsela con calma per apprezzare le sue evoluzioni nel tempo in cui rimane nel bicchiere. Non ho colpevolmente accennato alle emozioni, ma quando nel bicchiere c’è Loverbeer  io lo dò per scontato.
Formato 37.5 cl., alc. 7%, lotto PFAN02-0915, scad. 01/12/2023, prezzo indicativo  8.00 – 9.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 giugno 2018

Pinta / O'Hara's Lublin to Dublin 2017

Sono duemila i chilometri che separano Lublino (Polonia)  da Dublino  (Irlanda) ma basta una birra per accorciare le distanze. Lublin to Dublin è il nome scelto dal birrificio irlandese Carlow/O’Hara (qui la loro storia) e dalla beerfirm polacca Pinta (eccoli qui) per una collaborazione datata 2014 e ripetuta poi negli anni a seguire. 
Entrambi possono essere considerati come dei precursori della craft beer revolution nei loro rispettivi paesi: la famiglia O’Hara ha avuto il coraggio di fondare il microbirrificio nel 1996, in un periodo in cui il mercato era un deserto completamente dominato dalle multinazionali. Browar Pinta ha invece realizzato nel 2011 la prima IPA polacca (Atak Chmielu), birra “colpevole” di aver poi ispirato decine di altre beerfirm polacche a gettare quanto più luppolo possibile nei bicchieri.  
Non ho trovato notizie su come sia nato questo incontro ma non credo sia importante quanto il risultato: una Foreign Extra Stout (6.5%) prodotta con malti irlandesi, avena e luppoli polacchi, nello specifico  Marynka e Lubelski. Nel 2015, ovviamente sempre sugli impianti irlandesi di Carlow, viene invece realizzata una Robust Milk Stout (6%) con anice stellato e lattosio che s’aggiungono agli ingredienti già elencati.  La terza collaborazione datata 2016 vede invece un ritorno della Lublin to Dublin  Foreign Extra Stout ma con un ABV leggermente ritoccato al rialzo (7%).  Lo scorso anno è invece stata realizzata la Lublin to Dublin Rye Stout  (6.5%): malti inglesi ed irlandesi, malto di segale (20%), fiocchi di segale e i soliti luppoli polacchi Marynka and Lubelski. Proprio in queste settimane è stata infine commercializzata la nuova Lublin to Dublin 2018, una Turkish Coffee Stout che utilizza caffè appena macinato proveniente dalla Turchia.

La birra.
Irlanda e Polonia hanno entrambe una tradizione brassicola “scura”:  stout irlandesi e baltic porter polacche non hanno certo bisogno di presentazioni.  La Lublin to Dublin 2017 si presenta di un bel color ebano scuro sul quale si forma un’impeccabile testa di schiuma cremosa e compatta dalla buona persistenza.  L’aroma è pulito e abbastanza intenso: caffèlatte, orzo tostato e fondi di caffè sono i protagonisti su di un palcoscenico che ospita anche note terrose e di cenere. Al palato c’è un leggero eccesso di bollicine ma per il resto il mouthfeel è perfetto: è una stout morbida e quasi cremosa che tuttavia scorre senza nessun intoppo. Il gusto conferma quanto di positivo espresso al naso e disegna una bevuta intensa e ricca, molto pulita ed elegante: il caramello è l'unica controparte dolce ad una bevuta che s'incammina subito nel territorio scuro del torrefatto, del caffè e del terroso: accenni di cenere e di cioccolato amaro non modifica la palette dei colori di una stout "nera", precisa e definita. L'acidità dei malti scuri è solo accennata, i luppoli supportano le tostature ripulendo bene il palato e regalando un finale amaro abbastanza secco e delicatamente riscaldato dall'alcool.
Ogni cosa è al posto giusto in questa stout davvero ben fatta che si lascia bere con grande soddisfazione: una collaborazione ben riuscita che vale la pena d'andare a cercare.
Formato 50 cl., alc. 6.5%, lotto 7216, scad. 28/02/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 20 giugno 2018

DALLA CANTINA: BFM Abbaye de Saint Bon-Chien 2011

BFM, ovvero Brasserie des Franches Montagnes, fondata nel 1997 dall'eclettico Jérôme Rebetez (classe 1974) a Saignelégier, nella Svizzera occidentale, a pochi passi dal confine francese e dal lago di Neuchatel. Jérôme, allora solamente ventitreenne e con studi di enologia alle spalle, aveva appena vinto un concorso svizzero per homebrewers; pieno di entusiasmo ma privo di soldi, si vede aiutare dalla dea bendata. Vince un premio al programma televisivo svizzero "Le rêve de vos 20 ans" e con i soldi intascati mette in piedi il birrificio; non intende però seguire la tradizione tedesca alla quale si rifanno la maggior parte delle birre bevute in Svizzera. A lui piace sperimentare con ingredienti inusuali e, soprattutto, trasferire le sue conoscenze enologhe in ambito brassicolo. Nel 2009 grazie all’arrivo di un nuovo socio investitore il birrificio è stato trasformato in una Société Anonyme e oggi impiega circa 25 dipendenti: è imminente l’inaugurazione di nuovi locali adiacenti a quelli attuali che permetteranno di aumentare la capacità produttiva, della quale una buona parte è destinata all'export verso gli Stati Uniti. 
Punta di diamante della produzione BFM è la sour ale Abbaye de Saint Bon-Chien: non deve il suo nome alla tradizione monastica ma ad un gatto, ospite fisso in birrificio sino alla sua morte nel 2002. Il suo nome era “buon cane” (Bon Chien) e alla morte è stato santificato con una birra, per l’appunto Saint Bon-Chien. 
Viene prodotta dal 2004 una volta l’anno assemblando con cura il contenuto di numerosi botti: Rebetez ne possiede oggi più di 500 che hanno ospitati diverse varietà di vini e distillati. La classica Abbaye de Saint Bon-Chien viene poi occasionalmente affiancata da edizioni speciali realizzate con il contenuto di una sola botte o dalla versione Grand Cru, un blend fatto con il contenuto di botti speciali come ad esempio rum. L'Abbaye de Saint Bon-Chien del 2005 venne ad esempio realizzata con un blend derivante da una botte ex-grappa, tre di Pinot Noir e sei di Merlot che erano state precedentemente usate per la Saint Bon-Chien del 2004.

La birra.
Grazie all’importante contenuto alcolico (11%) l’ Abbaye de Saint Bon-Chien è una birra che non teme il trascorrere del tempo e che potete tranquillamente dimenticare in cantina per qualche anno. Splendido esempio ne è questo millesimo 2011 del quale però non ho trovato informazioni sul processo produttivo.
A sette anni dalla messa in bottiglia si presenta di colore ambrato, opaco e non molto luminoso: la piccola schiuma biancastra che si forma è un po’ grossolana e piuttosto rapida a dissolversi.  L’aroma è splendido, avvolgente, ricco di amarena e marasca, ribes rosso, vino bianco, legno, mela acerba, legno; c’è una controparte dolce che richiama l’albicocca disidratata e il caramello. L’acetico (mela) è fortunatamente molto in secondo piano. Al palato è perfetta: morbida, quasi “piena”,  leggermente oleosa e ancora piuttosto carbonata. La bevuta ripropone l’aroma con identica pulizia ed eleganza: l’asprezza dei frutti rossi è meno evidente e la birra è quasi gently sour, con una componente dolce che chiama in causa vini fortificati, caramello, prugna e frutti di bosco. In sottofondo note legnose e vinose, tannini, un accenno amaricante. L’acetico fa una bellissima virata sul balsamico, la chiusura è secca e riscaldata da una morbida presenza alcolica. 
Complessa, elegante ed intrigante, intensa ma soprattutto emozionante questa Abbaye de Saint Bon-Chien 2011: il tempo sembra quasi non averla scalfita e lei si diverte a regalare diverse sfaccettature al variare della temperatura nel bicchiere. Può rinfrescare o riscaldare, a voi scegliere come berla.
Formato 75 cl., alc. 11%, lotto  2, bottiglia nr. 276, scad. 27/06/2021, pagata 17.00 Euro (foodstore, Svizzera)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 giugno 2018

Birra Antoniana IPA

Debutta a giugno 2013 il Birrificio Antoniano di proprietà di Sandro e Michele Vecchiato già fondatori negli anni ’80 di Interbrau, uno dei maggiori distributori di birra sul territorio nazionale.  L’idea di aprire un birrificio era un progetto che i Vecchiato accarezzavano da molto tempo e che si concretizza sotto forma di società agricola: la legge impone che almeno il 51% delle materie prime utilizzate siano autoprodotte, per poter godere dei benefici previsti dalla legge. Il birrificio gestisce infatti direttamente la coltivazione dell'orzo in più di 90 ettari di terreno nel Nordest d'Italia.
Si parte con una capacità produttiva di 4000 hl annui che viene poi portata, con un cospicuo piano d’investimenti, agli attuali 15.000 grazie ad un impianto Flex-Bräu  da 20 hl. In sala di cottura c’è oggi l’esperto birraio Luciano Masocco:  nonostante le dimensioni ancora modeste, ai termini di legge il Birrificio Antoniano non può tuttavia considerarsi “artigianale” in quanto ricorre a tecniche industriali (pastorizzazione e/o microfiltrazione). 
Le birre sono attualmente suddivise in tre gamme: “Le Classiche nascono dalla reinterpretazione italiana della tradizione brassicola internazionale, rendendo omaggio alle bellezze paesaggistiche e naturali dell’Italia, dove arte, gusto e cultura si fondono; Le Valoriali esaltano le materie prime (…)  e di questa gamma fanno parte le “Birre dei Presidi”, nate in stretta collaborazione con Slow Food. Della stessa gamma fa parte Birra Antoniana La Veneta a Km 0, la prima birra ad essere certificata “Km 0” da Coldiretti Veneto”. L’ultima nata è invece la linea Craft, “una gamma nuova dove la tradizione birraria incontra l’estro e la fantasia del birraio”:  IPA e American IPA, Strong Ale, Dubbel e Keller, tutte non filtrate e rifermentate in bottiglia.  Disponibili nel canale Ho.Re.Ca ma anche nella presso la grande distribuzione.

La birra.
Non ci sono molte informazioni in etichetta ma il birrificio la descrive come “delicata dall'accentuato aroma floreale di luppolo. I luppoli, aggiunti in  fase di Whirpool,  le conferiscono un aroma persistente e piacevole, con note agrumate e speziate.  Il finale è piacevole, con note di frutta esotica”. Questa IPA non è tuttavia da confondersi con l’American IPA
Nel bicchiere è piuttosto bella, con un colore appena velato che si colloca tra il dorato e l’arancio: la schiuma è cremosa, compatta e molto persistente. L’aroma non è però altrettanto invitante e poco corrispondente a quanto promesso: qualche nota terrosa e floreale ma con intensità scarsa, quasi inesistente. Le cose vanno fortunatamente un po’ meglio al palato: è una IPA semplice e di vecchia scuola che disegna una bevuta semplice ma con l’alcool (6.7%) che si fa sentire anche più del valore dichiarato. Pane, miele e qualche accenno caramellato hanno il compito di bilanciare un amaro luppolato intenso ma non particolarmente aggraziato, resinoso e terroso; c’è qualche remota suggestione di frutta a pasta gialla. Non ci sono difetti e off-flavors ma la bevuta è piuttosto monocorde e noiosa, poco definita e caratterizzata da una scarsa secchezza. La bevibilità inevitabilmente ne risente e non procede a passo spedito. 
Dalla sua ha il prezzo: sei euro al litro sono (purtroppo) quasi una manna per i tempi che corrono. Ma alla domanda fondamentale “la ricompreresti?”  la mia risposta sarebbe negativa: le alternative sugli scaffali del supermercato ormai non mancano, italiane ed estere. Ed è doveroso aspettarsi di più da birre che non hanno attraversato l'oceano per arrivare a noi. 
Formato 33 cl., alc. 6.7%, IBU 44, lotto 2018 13, scad. 11/04/2019, prezzo 1,99 Euro (supermercato).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 18 giugno 2018

Au Baron / Jester King Noblesse Oblige

La Brasserie Au Baron si trova in Francia a Gussignies (Nord-Passo di Calais) ma il confine con il Belgio è letteralmente a poche decine di metri. E’ qui che Alain Bailleux ha finalmente realizzato il sogno di famiglia, possedere un microbirrificio. Ci aveva già provato il padre Roger, impiegato prima presso il birrificio belga Cavenaile e poi in giro per il mondo come tecnico per una multinazionale: nel suo lavoro vedeva spesso piccoli birrifici chiudere dopo essere stati acquistati dai grandi marchi. 
Non è riuscito a concretizzare il suo sogno di aprirne uno, ma a quello ci ha pensato il figlio Alain. Diplomato in chimica, acquista una casa di campagna nel villaggio di Gussignies: a pochi metri di distanza c’è un’ estaminet, un café  chiamato Au Baron il cui proprietario, ormai anziano, vuole vendere. Nel 1973 avviene il passaggio di consegne ma c’è un problema: per mantenere i permessi e le licenze il locale non dev’essere chiuso e quindi per alcuni anni  Alain Bailleux alterna al suo lavoro di chimico a quello di “barista” nei weekend. Inizialmente ai clienti vengono servite solo bevande, poi anche qualche snack e i primi piatti caldi: nel 1982 decide di trasformare l’attività in un vero e proprio ristorante che, nel giugno del 1989, viene affiancato dal microbirrificio Brasserie Bailleux, in seguito rinominato Brasserie Au Baron. 
A quasi trent’anni dall’apertura non è cambiato molto a Gussignies: si continuano a produrre le stesse sette-otto birre (con piccoli aggiustamenti a seconda della reperibilità delle materie prime) e l’80% della produzione è destinata al mercato locale. Al birrificio lavorano quattro persone, al ristorante altre nove. Il carattere “autentico” e rustico delle birre di Bailleux non è sfuggito all’importatore americano Shelton Brothers che ha iniziato a distribuirle negli Stati Uniti e nel 2015 il birrificio ha aumentato la propria capacità portandola da 1700 e 2500 ettolitri l’anno. Il ristorante è aperto tutti i giorni escluso il martedì nei mesi di giugno, luglio e agosto; nei restanti mesi dell’anno solamente da venerdì’ a domenica. 
Ricordo ancora con grande piacere la saison/bière de garde della casa, chiamata Cuvée des Jonquilles, un oasi di pace tra numerose birre imbevibili incontrate nel corso di una vacanza nel nord della Francia di otto anni fa.

La birra.
La Brasserie Au Baron si mantiene ben lontano dalle mode, dal marketing e da tutto quello di artificioso che circonda oggi la birra “artigianale”. E’ quindi quasi una sorpresa scoprirlo protagonista di una collaborazione con i texani di Jester King, birrificio specializzato in farmhouse ales e lieviti selvaggi che ama la tradizione belga ma che, volente o nolente, deve sottostare alle tendenze del mercato americano e accogliere, di tanto in tanto, centinaia di persone che si mettono in fila per acquistare alcune delle birre più famose. 
Noblesse Oblige è il nome scelto per una saison/bière de garde (4.7%) la cui ricetta prevede malti Pilsner e Monaco, miele, luppoli Brewers Gold, Sorachi Ace, Cascade e Simcoe, questi ultimi tre portati evidentemente in dote dagli Stati Uniti.  La birra viene prodotta nel 2016. Il suo colore è dorato e movimentato da piccole particelle di lievito in sospensione; un leggero gushing movimenta un po’ lo stappo, mentre l’esuberante schiuma pannosa sembra non voler mai scomparire.  Il miele indicato tra gli ingredienti  si fa sentire subito al naso ed è accompagnato da un bel bouquet rustico: profumi floreali, di paglia, pane e cereali, accenni di frutta a pasta gialla e agrumi. Non c’è molta intensità ma l’aroma è molto gradevole.  Le bollicine sono un po’ troppo aggressive anche per una saison, ma basta aver un po’ di pazienza per godere di una bière de garde ruspante il cui gusto mostra una corrispondenza quasi perfetta con l’aroma. Pane e miele, lievi accenni di frutta a pasta gialla, una delicata speziatura e una virata amara finale abbastanza decisa, anche se breve: alla scorza di agrumi s’aggiungono note terrose. Tutta la bevuta è attraversata da una bella acidità  e il risultato una birra solare, scorrevolissima, secca, rinfrescante e dissetante.  Semplice ma autentica, rustica, con piacevoli imprecisioni ed ellissi che in questo caso rappresentano un valore aggiunto e non un difetto: ciò vale anche per il contributo dei luppoli americani a due anni della messa in bottiglia. Anche questo rientra nei parametri dello stile. Quando stappo una saison vorrei sempre trovarci dentro un pezzo di campagna, e qui non manca. 
Formato 75 cl., alco. 4.7%, scad. 31/12/2018, prezzo indicativo 9.00-10.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 15 giugno 2018

Central Waters Brewer's Reserve Bourbon Barrel Stout

Del birrificio del Wisconsin Central Waters avevamo rapidamente parlato in questa occasione:  Rift IPA e Satin Solitude Imperial Stout le due birre assaggiate. Il birrificio nasce nel 1997 a Junction City, duecento chilometri a nord ovest di Milwaukee: lo fondano gli amici Mike McElwain e Jerome Ebel  adattando un vecchio impianto di un caseificio in uno stabile che nel 1920 ospitava un concessionario della mitica Ford Model A.  I soldi a disposizione erano pochi e il fai-da-te”era la parola d’ordine: l’impianto fu assemblato dai soci fondatori, inclusi collegamenti idraulici ed elettrici, e le birre venivano auto-distribuite nel Wisconsin. 
Paul Graham era  a quel tempo ancora un homebrewer e venne inizialmente chiamato a dare una mano part-time in birrificio, ma dopo sei mesi era già lui a gestire tutta la fase produttiva.  Per crescere c’era però bisogno di finanziamenti: ottenuto credito dalle banche, nel 2003  Paul Graham e il socio Anello Mollica rilevano il birrificio dai due fondatori. Nel 2007 avviene il trasloco nella location attuale di Amherst dove viene messo in funzione un nuovo impianto dalla capacità di 17 ettolitri barili che nel 2016 è stato sostituito con uno da 60; attualmente la produzione è di circa 18.000 ettolitri l’anno.   
Il mutuo viene ripagato grazie alle vendite delle birre “quotidiane” (la più venduta è la Mudpuppy Porter), ma la novità principale introdotta da Graham è l’inizio degli invecchiamenti in botte; oggi le birre barricate racchiuse nella gamma “Brewer’s Reserve” hanno raggiunto il 30% della produzione e aumentato i margini di profitto. “Le prime due botti usate – ricorda Graham – le acquistammo con 25 dollari. Consegnammo una busta con 50 dollari ad un autista di camion diretto in Kentucky che passava di qua per caso e lui ci portò le botti. Oggi per comprarne una ce ne vogliono 190”! Central Waters è attualmente uno dei birrifici americani, dietro a  Goose Island, New Holland, Firestone Walker e Founders, che possiede il maggior numero di botti usate. 
Le botti hanno anche contribuito a creare un po’ di “hype” attorno al nome Central Waters, cosa che negli Stati Uniti non deve mai mancare. Ogni anno, alla fine di gennaio, centinaia di persone sfidano il freddo del Wisconsin  per accaparrarsi qualche bottiglia della birra con la quale il birrificio festeggia il proprio compleanno, solitamente una imperial stout invecchiata in botti ex bourbon. Nel 2016 è andata esaurita in poche ore la Ardea Insignis, una imperial stout invecchiata per tre anni in botti che avevano ospitato per 25 anni bourbon: la potete ancora trovare sul mercato secondario alla modica cifra di 300 dollari.

La birra.
Se non capitate nel periodo in cui vengono messe in vendita, ovvero nei mesi più freddi dell’anno, può diventare abbastanza difficile reperire negli Stati Uniti una delle imperial stout invecchiate in botti di bourbon di Central Waters. Per fortuna qualcuna è inaspettatamente arrivata anche dalle nostre parti nei mesi scorsi.  Parliamo della Brewer's Reserve Bourbon Barrel Stout che il birrificio del Winsconsin mette in vendita una volta l’anno, nel caso specifico a novembre 2017. 
Si veste di un bell’ebano scuro e forma una piccola testa di schiuma cremosa e compatta che ha una discreta persistenza. Al naso pulizia ed eleganza non mancano e il bouquet olfattivo è notevole: il bourbon traina un carico di uvetta e prugna, fruit cake, frutti di bosco. In secondo piano ci sono note di vaniglia e cocco, accenni di cioccolato, legno.  La gradazione alcolica non è riportata in etichetta ma dovrebbe corrispondere al 10.5%: a supportarla c’è tuttavia un mouthfeel abbastanza leggero che avvantaggia la scorrevolezza ma lascia qualche rimpianto per quel che riguarda la densità. E’ questo l’unico appunto che mi sento di fare ad una imperial stout molto ben eseguita, pulita e intensa, nella quale il gusto risulta tuttavia un po’ meno profondo e complesso rispetto all’aroma. Del “nero” di una stout in verità non ci sono molte tracce e la bevuta è marcata dal calore del bourbon e  della frutta sotto spirito: ciliegia, prugna, uvetta. Ad asciugare il dolce ci pensa la componente etilica e un finale abbastanza secco nel quale emerge una netta nota legnosa. Sul taccuino bisogna annotare anche la vaniglia e, in fondo in fondo, un ricordo di cioccolato. 
E’ un po’ leggerina di corpo ma è una imperial stout molto ben fatta e raffinata questa Brewer's Reserve Bourbon Barrel Stout di Central Waters: perfetta per i  gelidi inverni del Midwest americano.
Formato 35.5 cl., alc. 10.5% (?), IBU 48, lotto 29017, prezzo indicativo 7.00-8.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 14 giugno 2018

CRAK Guerrilla Celebration 2018 NEIPA

Terzo cambio d’abito, anche se questa volta temporaneo, per la Guerrilla IPA del birrificio padovano CRAK.  Nel 2013 faceva il suo esordio “rivoluzionario” con la beerfirm Olmo che la descriveva come “una bionda luppolata da assalto, artigianale non filtrata nè pastorizzata che esorta a combattere l’iniquità della giustizia. E’ intollerante verso i politici che tramano intese segrete nel buio del palazzo e che si cuciono addosso il loro diritto su misura. Detesta i giochi pubblicitari delle false industrie che tra giri di parole, false metriche e tattiche verbali ci propinano i loro prodotti al solo fine di arricchire il proprio business. Sazia la sete degli attivisti che si alzano in piedi e rompono le regole del consueto. Le sue armi sono malto e tanto luppolo che, invece di mietere vittime, risvegliano coscienze”. 
Nel passaggio da Olmo (beerfirm) a CR/AK (birrificio) è arrivata la nuova etichetta e la ricetta ha subìto qualche necessario aggiustamento, pur mantenendo gli stessi luppoli: Mosaic, Galaxy e Simcoe. Meno amaro e più frutta tropicale: “le sue armi sono malto ed un’invasione di luppoli americani, Simcoe e Mosaic, e l’ australiano Galaxy che le donano uno spiccato aroma tropicale, mango, ananas e pompelmo su tutti”.  E Guerrilla è stata la protagonista della festa per  il terzo compleanno di Crak che si è tenuta alla fine di maggio al Parco Fenice di Padova: nei due giorni della Woodscrak Guerrilla Celebration una ventina di birrifici italiani e stranieri hanno animato un evento arricchito da musica live, offerta culinaria e possibilità di piantare letteralmente le tende per la notte. Questi i protagonisti delle spine: Beavertown, Birra Mastino,  Birrificio Italiano, Brasserie du Mont Saleve, Brekeriet, BrewFist, Brewski, Cerveja Letra, Extraomnes, Fox Farm, Fyne Ales, Garage Beer, Hammer, Jester King, Lervig,  Magic Rock, Mean Sardine, MØM Brewers, Other Half, Sleeping Village, Vento Forte.

La birra.
Per l’occasione la Guerrilla si è vestita di nuovo non una ma ben sei volte: sei infatti le differenti etichette con cui è stata commercializzata l’edizione Celebratrion NEIPA 2018.  “Lotta per ciò in cui credi, tutti possono e devono farlo! Per questa versione abbiamo pensato non ad una ma a sei vesti grafiche, ognuna con un diverso pugno Guerrilla in primo piano, per sottolineare ancora una volta che Guerrilla è per tutti.” Nella lattina il contenuto è invece lo stesso: si tratta di una versione New England della Guerrilla, con lievito Vermont ed un  massiccio Double Dry Hopping di Citra ad affiancare i luppoli tradizionali Mosaic, Galaxy e Simcoe. 
Nel bicchiere è di colore arancio pallido, opalescente ma non torbido da sembrare un succo di frutta: la schiuma un po’ scomposta ha una discreta persistenza. A dare il benvenuto c’è un aroma molto intenso e ricco di mango e ananas, pesca, arancia e pompelmo: in secondo piano qualche profumo “dank” ma anche qualche leggero odore meno nobile che richiama il vegetale e l’aglio.  Pulizia ed eleganza, come non di rado accade quando ci si cimenta col New England, non sono impeccabili. Il mouthfeel richiama le caratteristiche delle NEIPA senza tuttavia estremizzarle: c’è una leggera morbidezza, una delicata sensazione “chewy” che non influisce in maniera negativa sulla facilità di bevuta. Anche il fruttato (l’asse mango-ananas-pesca) non è esasperato e ciò sarà apprezzato da chi non ama molto le “juicy”; si chiude con un amaro dank/resinoso di breve durata ma buona intensità: non c’è il tanto temuto “grattare” in gola del pellet/vegetale ma ci andiamo vicino.  Il “problema” (virgolette obbligatorie) di questa lattina si chiama invece alcool, percepibile ben oltre quel  7.5% dichiarato in etichetta e più consono a una Double IPA: la bevibilità ne soffre e la componente etilica si fa sentire dall’inizio alla fine, riscaldando quello che di fatto è un succo di frutta. Non so voi, ma io un succo di frutta lo preferisco fresco e non ”caldo”. 
Bene ma non benissimo la Guerrilla Celebration 2018 NEIPA: qualche imprecisione di troppo e  qualche spigolo dovuto allo stile scelto che, se non viene eseguito con maestria, inevitabilmente scopre sempre qualche tasto dolente.
Formato 40 cl., alc. 7.5%, imbott. 17/05/2018, scad. 17/10/2018, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 13 giugno 2018

Cervisiam S'Morbidly Obese

La beerfirm norvegese Cervisiam l’avevamo già incontrata a Natale: fondarla sono tre homebrewers, Pushkin Hama, Shea Martinson e Martin Borander.    Dopo alcuni anni passati a trafficare con le pentole in casa, all'inizio del 2013 installano nel garage di Martin, nella periferia di Oslo, un impianto Braumeister da cento litri. Con il nome di Brewmance partecipano a numerosi concorsi per homebrewer, vincendone alcuni: uno dei premi in palio è la possibilità di produrre una birra su di un impianto professionale e i tre ragazzi realizzano la loro Citrus Lager (aromatizzata con lemon grass e scorza d'arancia) alla Crow Bryggeri di Oslo. I mille litri che vanno esauriti in tre settimane sono la molla che fa scattare in loro la decisione di entrare nel mondo dei professionisti con la beerfirm Cervisiam. 
Inizialmente si appoggiano al birrificio Ego, cento chilometri a sud di Oslo, per poi spostarsi alla Arendals e alla Amundsen, dove viene tutt'oggi prodotta la maggior parte delle birre.  Anziché dotarsi d'impianti di proprietà, i Cervisiam hanno preferito concentrarsi su marketing e distribuzione e, soprattutto,  sull'apertura del locale Oculus a Oslo, un pub con venti spine la maggior parte delle quali riservate alle proprie birre e una buona selezione di bottiglie provenienti da tutto il mondo. 
IPA, Double IPA e Imperial Stout sono ancora gli stili prediletti da una certa fascia di consumatori e Cervisiam ha scelto di battere il chiodo finche è caldo: le “pastry stout”  (Omnipollo docet) vanno forte sul mercato scandinavo e ad Oslo non stanno con le mani in mano.

La birra.
All’interno del variegato mondo delle “pastry stout” si sta facendo lentamente strada la sub-categoria delle “s’more stout”. Si tratta di birre ispirate da  un dolce tradizionale di Stati Uniti e Canada nonché delizia di ogni campeggiatore: un marshmallow arrostito con uno stecchino su di un falò,  poi tolto e infilato dentro due graham crackers assieme ad un pezzetto di cioccolata.   Ne avevamo già assaggiata l’interpretazione liquida fatta dal birrificio Pipeworks, vediamo ora quella norvegese chiamata S'Morbidly Obese. 
All’aspetto è quasi nera, la schiuma è cremosa e compatta ed ha una (sorprendente) buona persistenza. Ammetto di essere un po’ prevenuto, di non amare alla follia questo tipo di birre e non andrò quindi a cercare in lei particolari finezze: i profumi ricordano un po’ quello di uno dei tanti snack industriali, ricchi di cioccolato al latte, marshmallow, toffee e caramella mou, biscotto. Mi viene in mente la barretta Mars, non fosse per una leggerissima nota affumicata che sconfina però un po’ nella plastica. Indubbiamente goduriosa è la sensazione palatale:  è una birra molto densa e viscosa, con poche bollicine, che avvolge il palato come fosse una tazza di cioccolata calda. Anche il gusto è un po’ artificioso ma  per il genere devo riconoscere d’aver visto ben di peggio. La bevuta è una piccola orgia di caramella mou, cioccolato al latte, biscotto e marshmallow, ma rimane tuttavia in sottofondo una parvenza di birra. L’alcool (10%) riscalda senza eccessi e nel finale c’è quell’amaro necessario (più luppolo che malti tostati) a bilanciare asciugando il dolce e a ripulire il palato. Nel retrogusto un po’ di frutta sotto spirito, cioccolato,  caramello e marshmallow. 
Se vi piace il genere, questa S'Morbidly Obese mi sembra proprio ben fatta e “finta “ quanto basta per divertire chi ha il bicchiere in mano: un giochino, uno scherzetto, una birra dessert, chiamatela come volete.  A tutti gli altri credo basteranno un paio di sorsi prima di dire “basta, grazie”.
Formato 33 cl., alc. 10%, lotto AB074?, scad. 21/08/2018, prezzo indicativo 6.00-7.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 12 giugno 2018

[Le birre rivisitate] De Ranke XX Bitter

Torniamo a parlare di “birre rivisitate”, ovvero di quei classici che a volte mettiamo un po' in disparte perché troppo impegnati a correre dietro alle novità. La birra di oggi è un pezzo di storia del Belgio moderno: parliamo della XX Bitter del birrificio De Ranke, nata nel 1997 e antesignana di  tutte quelle Belgian Ale molto luppolate (qualcuno parla anche di Belgian IPA) che oggi stanno incontrando i favori del pubblico. Ammetto di non berla da un po’ di tempo anche se non da quel 2010 in cui la birra fu presentata sul blog.
Come riporta Berebirra citando una vecchia di Mobi, la XX Bitter fu ispirata dalla Verdraagzaam  (“troppo amaro”), birra del birrificio Steedje che chiuse i battenti nel 1999. Nino Bacelle e Guido Devos vollero portare l’amaro di quella birra all’estremo e per lo scopo utilizzarono coni di luppolo Brewers Gold e Hallertau Hersbrucker. “Quando la lanciammo  alla fine del 1996  - ricorda Nino   -    molti colleghi ci dissero: "è la classica birra che piace ad un birraio, mi piace, ma non penso possiate riuscire a venderla al pubblico". 
Le cose sono però andate in maniera diversa: la XX Bitter ha contribuito in maniera determinante al successo di De Ranke e ha dato seguito a numerosi tentativi d’ispirazione, se non d’imitazione. “E’ la nostra birra più famosa e, anche se non è più la birra belga con il maggior numero di IBU, è ancora quella più amara al gusto. Le altre birre sono delle specie di IPA con maggior contenuto alcolico e una maggior componente zuccherina per bilanciare l’amato del luppolo in pellet”. 
Nel 2013 l’importatore americano Shelton Brothers chiese al birrificio belga di alzare ulteriormente l’asticella a nacque la XXX Bitter: 50% di luppolo in più per elevare gli IBU da 65 a 70 e, soprattutto, darle un profilo aromatico più intenso. 

La birra.
Ritrovo la XX Bitter oggi con una veste grafica leggermente rinnovata, mentre il suo colore è dorato e leggermente velato; la schiuma pannosa. fine e compatta fa una buona persistenza. Sin dall’aroma non ci sono dubbi che questa sia una birra dedicata al luppolo: ci sono intensi profumi speziati e floreali, erbacei, terrosi. La finezza non è la caratteristica principale di questa bottiglia e quello che emerge è una carattere quasi rustico e un po’ scorbutico. La sua scorrevolezza è piuttosto buona anche se onestamente la ricordavo un po’ più leggera dal punto di vista tattile: bollicine vivaci quando basta le donano una bella vitalità. La festa del luppolo continua anche al palato, eccezion fatta per il necessario supporto dei malti (pane e miele): la bevuta s’incammina subito sull’amaro erbaceo e terroso, delicatamente speziato ma anche ruvido. L’intensità dell’amaro tende progressivamente ad opprimere il mio palato:  questa bottiglia manca un po’ di quella componente fruttata che ricordavo esserci, sebbene non in primo piano.  Il risultato è una birra carica di verde, non del tutto sbilanciata ma un po’ troppo monotematica: la bevibilità è giocoforza ridotta anche se l’alcool è ben nascosto e la bottiglia  rimane tuttavia godibile. 
E’ cambiata lei o è cambiato il mio palato? Non la conoscessi direi che avrebbe paradossalmente bisogno di ammodernarsi un po’ per avvicinarsi magari ad alcuei produzioni di quel birrificio De La Senne che indicò la XX Bitter proprio come una delle proprie muse ispiratrici.
Formato 33 cl., alc. 6%, IBU 65, lotto B155T13, imbott. 11/2017, scad. 30/11/2022, prezzo indicativo 3.50-4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 11 giugno 2018

Birrificio dell'Aspide: Belle Saison & Gairloch Scotch Ale


Il birrificio dell’Aspide nasce nel 2011 a Roccadaspide, in provincia di Salerno. Alla guida il birraio Vincenzo “Enzo” Serra: è lui stesso a raccontare come la sua avventura nella birra artigianale sia iniziata nel 2002, quando partecipava come espositore (formaggi) al Salone del Gusto. Vicino al proprio stand c’era quello della Real Ale Society con una bella selezione di Real Ales britanniche: birre completamente differenti da quelle industriali che aveva conosciuto sino ad allora. Da quell’incontro all’homebrewing il passo è breve e Serra inizia a fare la birra in casa al ritmo di venti litri al mese, quantità ben presto insufficiente a soddisfare le richieste provenienti da amici e conoscenti.  L’impianto “casalingo” viene lentamente potenziato, raggiunge la capacità di 300 litri e viene pian piano completato con tutti gli altri strumenti necessari: imbottigliatrice, mulino, frigorifero, fermentatori. C’è ormai tutto quello che serve per passare nel mondo dei professionisti. Manca solo la licenza, che arriva a luglio 2011: nell’attesa Serra si reca a Cracovia a seguire un corso di formazione in un birrificio polacco. 
E' l’animale simbolo di Roccadaspide a dare il nome al birrificio di Serra, ma il suo logo è invece un incrocio tra la vipera e il dragone di Cracovia, città d’origine della moglie del birraio, oltre che della sua formazione brassicola. Nel 2015 l’impianto è stato sostituito con uno da 7 ettolitri ma  il birraio ha voluto dare continuità al proprio metodo di lavoro rinunciando alla classica caldaia a vapore per mantenere la sala di cottura a fuoco vivo e i tini di fermentazione aperti: la produzione è attualmente di circa 400 ettolitri all’anno. La gamma dell’Aspide è composta da una serie di birre prodotte regolarmente (la Golden Ale Blonde, la Scotch Ale Gairloch, la Belgian Strong Ale Nirvana, la IPA Jurmanita e l’American Pale Ale Fenix, la Belle Saison) affiancate da altre etichette occasionali o stagionali.

Le birre.
Partiamo dalla Belle Saison, una farmhouse ale dedicata all’omonimo ceppo di lievito: non è tuttavia l’unico protagonista di una ricetta molto semplice che dovrebbe prevedere  malto pils, luppolo Hallertau Hersbrucker e, inizialmente, un ceppo di lievito autoctono prelevato dalla buccia di mela cotogna che cresce vicino al birrificio. Il lievito Belle Saison viene aggiunto in un secondo momento, dopo un paio di giorni. La birra ha conquistato il secondo posto nella categoria di riferimento all’ultima edizione di Birra dell’Anno 2018.
Nel bicchiere è solare: sul suo manto dorato, leggermente velato, si forma una generosa schiuma pannosa che è però piuttosto rapida nel dissiparsi. C'è un bel naso fresco e pulito, ricco di pepe e coriandolo, fiori bianchi, scorza d'arancia, zucchero candito e biscotto. Le bollicine non devono mai mancare in una saison ma in questo caso ce ne sono davvero troppe: bisogna avere un po' di pazienza per placare la loro aggressività. La bevuta mi sembra un po' meno espressiva rispetto al naso, anche se ne ripropone buona parte degli elementi. Crosta di pane, un tocco di miele, un rapido passaggio di frutta a pasta gialla, un accenno di pera prima di un finale abbastanza secco. C'è una discreta acidità che porta una ventata di fresco e riesce a contrastare un leggero residuo zuccherino che avvolge un po' il palato. Un amaro terroso, discreto e delicato, chiude un percorso che vede un ritorno dolce e maltato nel retrogusto. E' una saison piacevole e gradevole da bere che tuttavia trovo un po' troppo carente in quella che dovrebbe invece essere la sua caratteristica principale: essere ruspante, rustica, bucolica. 

E’ dedicata all’omonima cittadina costiera delle Highlands, la Scotch Ale della casa che si presenta di color ambrato piuttosto carico e velato con belle venature rosso rubino; la schiuma è compatta e cremosa ma non molto persistente. Al naso c’è una bella pulizia che permette d’apprezzare i profumi di ciliegia e prugna, caramello e biscotto, uvetta e mela. E' una Scotch Ale che vuole privilegiare la bevibilità e non ha nessun interesse nel mostrare anche il più piccolo accenno muscolare: la gradazione alcolica (7%) secondo me però necessiterebbe di un po’ di corpo in più. La bevuta prosegue nella stessa direzione dell’aroma e delinea un percorso pulito e abbastanza preciso che chiama in causa gli stessi elementi aggiungendo anche qualche nota di frutta secca a guscio. Il dolce viene bilanciato da una bella attenuazione e non c’è praticamente amaro: l’alcool è appena accennato e favorisce la facilità di bevuta e riscalda forse in maniera un po’ troppo timida.  Gli esteri fruttati sono molto in evidenza e personalmente avrei gradito maggior equilibrio con la componente maltata: è comunque una Scotch Ale ben fatta e piuttosto gradevole da bere, alla quale manca però un po’ di personalità.
Nel dettaglio:
Belle Saison, 75 cl., alc. 6,2%, lotto 2817, scad. 31/12/2018, prezzo indicativo 9.00 Euro (beershop)  Gairloch, 33 cl., alc. 7,0%, lotto 3117, scad. 11/10/2019, prezzo indicativo 4.50 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 10 giugno 2018

Lagunitas DogTown Pale Ale

1993, 2015 e 2017: sono questi gli anni che hanno fatto la storia di Lagunitas Brewing Company, birrificio fondato nel 1993 da Tony Magee nell'omonima cittadina californiana, una settantina di chilometri a nord di San Francisco. Nel 2015 Magee, che aveva sempre pubblicamente criticato le cessioni di birrifici indipendenti alle multinazionali, vendette il 50% delle azioni alla Heineken per una cifra - si vociferava - di 1 miliardo di dollari. A maggio 2017 il colosso olandese ha completato l'acquisizione rilevando il restante 50%. Magee mantiene il suo ruolo di direttore generale della sezione "craft" di tutto il gruppo Heineken; Lagunitas ha concluso il 2017 superando il milione di ettolitri prodotti ed ha anche acquistato il 50%  di due birrifici artigianali. E in programma ci potrebbe anche essere la costruzione di un birrificio in Europa che andrebbe ad affiancare quelli di Petaluma (California) e di Chicago.
Il primo effetto della vendita ad Heineken è stato ovviamente l'ingresso del marchio Lagunitas nei canali della grande distribuzione, sia negli Stati Uniti che in Europa. A fine 2016 passammo in rassegna le prime tre bottiglie arrivate sugli scaffali dei nostri supermercati: di tanto in tanto dalla California arriva qualche altra etichetta, come la DayTime Session IPA e l'ultima arrivata DogTown Pale Ale.

La birra. 
La DogTown Pale Ale è un importante pezzo di storia di Lagunitas, essendo stata la prima birra prodotta nel lontano 1993, quando Magee si era da poco trasferito dalla cucina di casa ai locali commerciali del Richards Grocery Store di Forest Knolls. Quella che potete bere oggi non è però la stessa birra ma, come racconta il birrificio in etichetta, una nuova versione migliorata e "rinata" nel 2008: "la vecchia sapeva di broccoli e kerosene e la carbonazione ti scioglieva lo stomaco nelle budella". Un tempo chiamata "New DogTown Pale Ale", ha oggi definitivamente perso l'aggettivo "nuova". 
La data di scadenza impressa con il laser sul collo della bottiglia mi fa pensare ad un esemplare nato lo scorso gennaio 2018. Nel bicchiere è dorata, limpida e forma una testa di schiuma cremosa e compatta dall'ottima persistenza. L'aroma è pulito ed ha una buona intensità: a quasi sei mesi dalla messa in bottiglia non si può parlare di freschezza ma i profumi sono comunque ancora accettabili e gradevoli: note floreali, aghi di pino, frutta tropicale, pesca e pompelmo si mescolano a quel dank tipico della West Coast. E' una Pale Ale che al palato scorre bene pur mostrando qualche muscolo: se in etichetta ci fosse scritto IPA, in pochi avrebbero qualcosa da obiettare. Il gusto riprende il percorso dell'aroma con un bell'equilibrio e una bella intensità: alle note maltate di pane e miele il compito di sorreggere la generosa luppolatura che si esprime prima con un tocco di frutta tropicale e poi con un bel finale amaro, resinoso e pungente, dank.  E' ancora in buona forma questa bottiglia di DogTown che - parliamo di 8 euro al litro, promozioni escluse - rappresenta un'ottima risorsa sugli scaffali del supermercato. Profumata e pulita, intensa, amara ma bilanciata: la trovo in condizioni ancora accettabili e se non cercate in lei l'espressione massima della freschezza ne ricaverete ben più di una soddisfazione.
Formato 35.5 cl., alc. 6.2%, IBU 62, lotto 2574 1848, scad, 23/01/2019, prezzo indicativo 2.49 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 8 giugno 2018

Pelican Tsunami Stout

Jeff Schons e Mary Jones, marito e moglie, sono cresciuti a Portland (Oregon) e provengono dal settore edile; all’inizio degli anni 90 lasciano la città per spostarsi sulla costa nella minuscola Pacific City, dove vivono un migliaio di persone. Aprono un ristorante (Fishes Seafood & Steaks) che non riscuote però molto successo: “è stata la nostra università nella quale abbiamo imparato tutto quello che non bisogna fare nel campo della ristorazione”, ammetteranno poi. A poche decine di metri dal loro ristorante, proprio sulla spiaggia di Pacific City, c’è un edificio ormai abbandonato da dieci anni ma con un’impagabile vista sull’oceano e sulla suggestiva Haystack Rock; nel 1995 un agente immobiliare li convince ad acquistarlo ma, la mattina dopo, la coppia sta già pensando ad un modo per cancellare il contratto appena firmato. E’ in quel momento di disperazione che Jeff ha una “visione”: trasformarlo in un birrificio sulla spiaggia. Qualche mese dopo lui e Mary visitano la Northwest Brewers Conference di Portland e appendono un annuncio su una bacheca: “birrificio sulla spiaggia a Pacific City cerca birraio”. 
A quella conferenza partecipa anche Darron Welch birraio “esule” in Wisconsin e desideroso di ritornare a casa in Oregon:  lavorava in un’azienda che costruiva organi a canne ed era stato inviato ad Appleton, Wisconsin, ad installarne uno. Darron aveva conosciuto la birra “buona” dopo gli studi universitari, nel periodo passato in Europa tra Germania e Ungheria; rientrato negli Stati Uniti aveva iniziato a farsela in casa per cercare di replicarla.  Mentre si trovava ad Appleton iniziò a lavorare nei weekend come aiuto birraio alla Appleton Brewing Company. Terminata la costruzione dell’organo, gli fu chiesto di restare a tempo pieno al birrificio ma dopo alcuni anni passati nel Wisconsin aveva nostalgia di casa.  Quell’annuncio di lavoro trovato alla Northwest Brewers Conference era esattamente quello che cercava. Nel settembre del 1995 Darron Welch viene nominato birrario (e successivamente anche azionista) del nuovo Pelican Pub and Brewery che apre le porte debuttando con una birra al frumento per competere la Hefeweizen della Widmer Brothers, a quel tempo una delle birre più popolari in Oregon. 
Dopo qualche anno di rodaggio la Pelican inizia a raccogliere i primi riconoscimenti che arrivano sotto forma di medaglie al Great American Beer Festival del 1998: bronzo per la Tsunami Stout e argento per la Brown Ale chiamata Doryman’s Dark, birra premiata poi con l’oro nell’anno seguente. In totale saranno ben 43 le medaglie vinte al GBAF dal 1998 ad oggi, incluse due vittore come miglior  “Small Brewpub of the Year” (2000 e 2005) e “Large Brewpub of the Year” (2006 e 2013). Nel 2003 viene completata una prima espansione del brewpub e nel 2013 viene inaugurata la nuova sede operativa nella vicina città di  Tillamook che consente di quadruplicare la produzione portandola da 4.000 a 18.000 ettolitri (2016). E’ qui dove oggi sono prodotte e imbottigliate la maggior parte delle birre; il brewpub di Pacific City è ancora funzionante e viene utilizzato per piccole produzioni stagionali o occasionali disponibili solamente in fusto. Lo scorso anno è stato inaugurato anche un secondo brewpub a Cannon Beach, 100 chilometri più a nord davanti al quale nell’Oceano Pacifico si trova curiosamente un’altra Haystack Rock.

La birra.
I concorsi hanno sempre una valenza relativa, ma sei medaglie al GABF (oro nel 2000 e 2006, argento nel 2004, bronzo nel 1998, 2010 e 2013) sono comunque un ottimo biglietto da visita: parliamo della Tsunami Export Stout, la cui ricetta prevede malti Pale, Chocolate e Black Patent, orzo tostato, orzo in fiocchi, luppoli Magnum e Willamette. 
Il suo aspetto è inappuntabile: color ebano scurissimo, prossimo al nero, schiuma cremosa e compatta dalla buona persistenza. Pulizia e finezza non mancano in un aroma moderatamente ricco di orzo tostato e caffè, nocciola, frutti di bosco; in secondo piano c’è anche qualche nota di cioccolato fondente. Al palato è leggermente vellutata ma la sua consistenza non è affatto ingombrante e le permettere un’ottima scorrevolezza. La bevuta è molto semplice e pulita: il dolce del caramello supporta l’amaro del caffe, del cioccolato fondente e delle eleganti tostature: nel finale le note terrose del luppolo affiancano l’amaro del torrefatto. L’alcool scalda in maniera delicata e questa Tsunami, al di là del roboante nome, è in realtà una stout molto bilanciata e facile da bere. 
Profumi eleganti, gusto intenso, precisione e definizione, semplicità: ogni cosa al posto giusto. Davvero una gran bella stout questa di Pelican.
Formato 35.5 cl., alc. 7.0%, IBU 45, lotto 08/02/2017, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 7 giugno 2018

Extraomnes Z

La lettera Z in questo caso non è quella di Zorro ma di Zuur, ovvero “acido” in fiammingo. Questo il nome scelto da Extraomnes per una imponente (12.3%) Sour Ale con aggiunta di albicocche; un frutto che si aggiunge a ciliegia, mango e pesca,  già utilizzati dal birrificio di Marnate per produrre rispettivamente Bloed, Guld e Mad Peach.  Il birrificio la descrive come una “gently sour con un finale che ricorda la settima tromba”; nei negozi arriva a febbraio del 2016. 
Secondo l’Apocalisse (8:6-21) “la prima tromba causa grandine e fuoco che distruggono buona parte della vegetazione mondiale,  la seconda e la terza tromba portano una massa simile ad una grande montagna ardente che finisce in mare, nei laghi e nei fiumi, causando la morte di un terzo delle creature viventi marine;  la quarta tromba causa l’oscuramento del sole e della luna, la quinta provoca l’arrivo di cavallette e la sesta chiama un esercito demoniaco che uccide un terzo dell’umanità. La settima tromba chiama i sette angeli con le sette coppe dell’ira di Dio: il primo la versa sulla terra provocando una dolorosa ulcera agli uomini, la seconda coppa causa la morte di ogni creatura marina, la terza trasforma i fiumi in sangue, la quarta viene versata sul sole che inizia a bruciare gli uomini col suo calore, la quinta porta le tenebre, la sesta provoca il prosciugamento dell’Eufrate e il raduno delle truppe dell’Anticristo per la battaglia di Armageddon.  Il settimo angelo versa il contenuto della sua coppa nell’aria, provocando un catastrofico terremoto capace di far scomparire ogni isola e ogni montagna, seguito da una pioggia di enormi chicchi di grandine da 40 chili l’uno. “È fatto” è l’espressione con cui si annuncia il compimento dell’ira di Dio sopra coloro che hanno rifiutato la croce".

La birra.
Nel bicchiere (la settima coppa?) Z si presenta di un color arancio piuttosto carico, con riflessi ambrati; più che di schiuma sarebbe corretto parlare di una serie di bolle grossolane che si formano in superfice e svaniscono rapidamente.  Il frutto disegnato in etichetta è assoluto protagonista in un aroma ancora intenso: albicocca candita e marmellata d’albicocca vengono affiancati da profumi floreali e altre suggestioni fruttate che sembrano richiamare pesca nettarina, forse fragola. Leggo alchechengi tra le note  descrittive del birrificio e lo trovo subito; c’è una velata presenza di solvente che tuttavia viene subito messo in secondo piano dalla frutta.   Al palato è morbida e gradevole, anche se qualche bollicina in più le avrebbe sicuramente donato un po’ più di vitalità. La bevuta è abbastanza monotematica (albicocca) ma non per questo noiosa: è interessante sentir passare in rassegna tutte le diverse sfumature del frutto, dall’asprezza dell’acerbità al dolce del candito, della marmellata e della frutta cotta.  Ma ci sono anche suggestioni di frutti di bosco, alchechengi e vinose. E’ una birra potente ma inizialmente agile, snella e fresca, piacevolmente aspra ma bilanciata da una controparte dolce; nel finale, molto secco e leggermente astringente, c’è un’improvvisa vampata etilica a ricordare il contenuto alcolico impresso in etichetta. L’albicocca, questa volta sotto spirito, è protagonista del caldo e lungo retrogusto. 
Non immune da imprecisioni, che comunque le conferiscono un nonsoché di rustico, la Z di Extraomnes è un’interessante e piacevole divagazione sul tema albicocca: sorprendentemente rinfrescante, se bevuta fresca, rincuorante se lasciata raggiungere la temperatura ambiente. In cantina da due anni, sta ancora benissimo e sembra aver voglia di continuare. 
Formato 33 cl., alc. 12.3%, lotto 007 16, scad. 02/04/2016, prezzo indicativo 5.00-6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 6 giugno 2018

Grafters IPA

Ritorna sul blog il birrificio irlandese Rye River fondato a Celbridge nel 2013 da Phelan e Alan Wolfe, entrambi fuggiti da due multinazionali per dar vita ad un proprio progetto indipendente. In sala cottura ha iniziato Alex Lawes, birraio che alla fine del 2017 se n’è andato per dar vita alla propria beerfirm Whiplash. Lo ha sostituito l’americano Bill Laukitis: nato nel Michigan e formatosi bevendo New Holland e Bell’s, ha poi iniziato con l’homebrewing nel corso di un soggiorno in Nuova Zelanda; la sua formazione professionale si è svolta con un corso a birrificio St. James's Gate (Guinness) di Dublino. Nel 2014 è entrato alla Rye River come assistente birraio ed è stato ora promosso ad Head Brewer. 
Rye River sta facendo un rapido percorso di crescita e alla fine del 2016 ha portato la produzione a superare i due milioni di litri all’anno  al ritmo di 6-8 cotte alla settimana su di un impianto da 2500 litri. La produzione è organizzata in tre gamme/marchi:  McGargles, cognome che dovrebbe essere quello dei primi produttori di birra (1709) nella città di Celbridge; Solas, una serie di birre destinate alla grande distribuzione Tesco; Grafters, tre birre realizzate per essere vendute nei punti vendita irlandesi Dunnes. All’inizio del 2018 è stato anche inaugurato il marchio Rye River, birre prodotte occasionalmente in piccoli lotti e in lattina: il debutto è avvenuto con una Belgian Imperial Stout. 

La birra.
Evidentemente il marchio Grafters (Pale Ale, Koelsch-syle e IPA) non è rimasto confinato a quei negozi Dunnes per i quali era stato inizialmente concepito; per lo meno non al di fuori dei confini italiani.  Le birre sono anche arrivati sugli scaffali della grande distribuzione italiana.  Vediamo allora questa Grafters IPA la cui ricetta dovrebbe prevedere l’utilizzo di luppoli Cascade e Vic Secret. La sfida è sempre quella: è possibile bere bene e spendendo “il giusto” acquistando sugli scaffali del supermercato?  Il mezzo litro di questa bottiglia è proposto a 2,99 Euro.
L'immagine inganna un po' ma il suo colore è quello di una classica West Coast IPA: dorato con venature arancio, testa di schiuma generosa, compatta e cremosa, dall'ottima persistenza. Al naso profumi di aghi di pino, pompelmo e arancia, qualche accenno tropicale: si evoca più la marmellata che la frutta fresca, ma il complesso è ugualmente gradevole con un buon livello du pulizia. La sensazione palatale è morbida, con una buona scorrevolezza e il giusto livello di bollicine. In bocca c'è una corrispondenza pressoché perfetta con l'aroma: una base maltata abbastanza leggera (biscotto e caramello), marmellata d'agrumi, una chiusura amara resinosa di buona intensità e media durata che pungola un po' il palato. L'alcool si sente tanto quanto dichiarato (6.5%)  e la bevuta procede senza intoppi anche se non ad altissima velocità. Le manca senz'altro un po' di "sprint" e di fragranza ma la Grafters IPA è pulita e fa il suo lavoro con buona pulizia ed intensità. Per trovarsi sullo scaffale di un supermercato si difende con dignità ed è una opzione da considerare per bere qualcosa di decente con un buon rapporto qualità prezzo. Stiamo parlando di sei euro al litro: con i tempi che corrono in Italia, non ci si può lamentare.
Formato 50 cl., alc. 6.5%, lotto 18038, scad. 01/02/2019, prezzo 2.99 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.