giovedì 31 luglio 2014

Blaugies Saison d'Épeautre

Ci sono birrifici che sfornano decine (o centinaia!) di nuove birre ogni anno, e ce ne sono altri in attività da decenni che invece non ne producono (fortunatamente) neppure una decina, semplicemente perché non ne hanno bisogno. E' il caso della Brasserie des Blaugies, attiva dal 1988 a Blaugies (Dour), una ventina di chilometri a sud-ovest di Mons ed a meno di un chilometro dal confine con la Francia. Sono due ex-insegnanti di scuola, Pierre-Alex Carlier e la moglie Marie-Robert Pourtois a fondarla, con il semplice intento di "produrre le birre  che a noi piace bere, e se poi piacciono anche alla gente, meglio". Inizialmente aiutati dall'ex mastro birraio della Brasserie Dupont Marc Rosier, da qualche anno i fondatori hanno passato le consegne alla seconda generazione: il figlio Kevin ha sostituito la madre in sala cottura, ed il fratello Cedric gestisce il ristorante annesso chiamato Forquet. Di recente il birrificio si è aperto ad una collaborazione con gli americani di Hill Farmstead ma, a parte questo, nel garage di casa Carlier a Blaugies, dove è installato il birrificio, si continuano a produrre poche birre cercando nel segno del rispetto della tradizione. 
E' il caso di questa Saison d'Épeautre, nominata semplicemente per quello che è: "Saison al farro".  Una birra che forse è il miglior esempio di una classica saison vallona pur rappresentandone al tempo stesso una variazione: tradizionalmente le fattorie producevano infatti la birra con i cereali che avevano a disposizione in quel momento; a Blaugies usano il 33% di farro, malto Pilsner, un ceppo di lievito proprietario estremamente attenuante ed un solo luppolo, Styrian Goldings.
Nel bicchiere è dorata, lievemente pallida e velata, con un generoso cappello di schiuma bianca, un po' saponosa ma molto persistente. L'aroma è forte, fresco e pulito: immaginate di veder apparire nel bicchiere l'immagine di una soleggiata giornata in campagna. Profumi di campo, di fiori e di erbe, di scorza di agrumi (limone), di pera verde e di pepe; ma c'è anche un bel profilo rustico, di paglia e di sughero. Leggera, scorrevole e vivacemente carbonata in bocca, è un po' timida all'inizio, se paragonata all'intensità dell'aroma, ma è sufficiente lasciare che si "riposi" e si riscaldi per qualche minuto per poterla apprezzare in tutto il suo splendore. Malti fragranti, crosta di pane, crackers, un'accenno di miele, seguiti dalla polpa dell'arancio e dall'albicocca; il taglio amaro finale è elegantissimo e abbastanza intenso per lo stile, tra note erbacee di campo e di scorza di mandarino e di limone. C'è una nota di pepe che ben interagisce con le bollicine, ed i due elementi finiscono per enfatizzarsi a vicenda, ma c'è soprattutto un bel profilo rustico, ruspante, quasi impossibile da descrivere ma che, ad occhi chiusi, ti fa pensare ad un fienile, ad una fattoria, a - di nuovo - una soleggiata giornata in campagna. E' pulitissima e secca, rinfresca e disseta grazie ad una leggera acidità, e poi ri-asseta. 
Non ha molto senso pensare alla "saison perfetta", ma se esistesse credo che questa Saison d'Épeautre ci si avvicinerebbe moltissimo. Birra straordinaria nella sua semplicità, facilissima da bere, una delle migliori bottiglie stappate quest'anno, e non solo. Dovrebbe essere un'obbligatoria presenza sugli scaffali di ogni beershop (e di ogni supermercato); cercatela e trovatela, e se il vostro beershop non ce l'ha, chiedetela, provatela e probabilmente la ricorderete per sempre.
Formato: 75 cl., alc. 6%. scad. 12/2016, pagata 5.67 Euro (beershop, Belgio).

mercoledì 30 luglio 2014

Extraomnes Hond.erd Brewer's Gold

Hond.erd nasce nel 2012 come birra celebrativa della centesima  cotta del birrificio Extraomnes di Marnate (Va); quella che doveva (forse) essere una birra one-shot, è poi diventata una presenza quasi fissa in produzione, trasformandosi in una sorta di terreno di gioco sul quale sperimentare diverse luppolature. La prima cotta celebrativa vedeva infatti l’uso di Saaz e Cascade, la replica del 2013 il solo (se non erro) Hallertauer Mittelfrüh;  sono poi arrivate altre due “single hop”, ovvero la versioni americaneggianti con il Chinook e con il Simcoe. L’ultima nata è invece a base di Brewers Gold, luppolo “nato” in Inghilterra all’incirca nel 1919 dagli esperimenti del Professor Salmon del Wye College partendo dall’impollinazione di una pianta di luppolo selvatico chiamato BB1 raccolta a Morden, nella regione canadese di Manitoba. Una tipologia di luppolo sicuramente meno “modiaola” dei vari Citra e Nelson Sauvin (giusto per citarne un paio) che però ho personalmente avuto già modo di apprezzare in un’altra riuscitissima single hop, la Brewers Gold di Crouch Vale.
Hond.erd Brewer's Gold arriva nel bicchiere di color giallo paglierino, leggermente velato; la bianca schiuma che si forma è di dimensioni abbastanza modeste, è cremosa ed ha una discreta persistenza. 
L'aroma è fresco e pulito, con sentori floreali che fanno da complemento alla presenza massiccia di scorza d'agrumi, soprattutto lime e limone; a completamento del bouquet c'è qualche sfumatura erbacea ed il lieve carattere rustico donato dal lievito saison, difficile da definire a parole, dà forse l'impressione di annusare un mucchietto di paglia. In bocca è leggera e molto scorrevole, con il giusto livello di bollicine; la presenza del malto (crackers, qualche accenno di miele?) è davvero leggera e solo a supporto del variegato profilo d'agrumi che passa in rassegna limone e lime, mandarino e pompelmo, polpa d'arancia. Fragrante, pulita e molto attenuata, chiude con un bel taglio amaro spiccatamente "zesty" con sfumature erbacee. Birra perfetta per le alte temperature, dall'elevatissimo potere dissetante e rinfrescante: si beve come un bicchiere d'acqua. Un solo luppolo utilizzato, ma il risultato che regala la combinazione di lievito saison, malto pils (se non erro) e Brewer's Gold è ricco, interessante, sorprendente: una birra semplicissima da bere, ma se riuscite a rallentare il ritmo c'è una bella complessità da scoprire. 
Formato: 33 cl., alc. 4.23%, lotto 108 14, scad. 31/10/2015, pagata 3.80 Euro (foodstore, Italia).

martedì 29 luglio 2014

Bierzauberei Aleysium No. 2

Beer firm che spuntano ovunque, ed anche l'Austria non si sottrae alla tendenza; ecco Bierzauberei (letteralmente "il mago della birra") con sede a Brunn am Gebirge, venti chilometri a sud-ovest di Vienna. Un portfolio di birre già abbastanza ampio, la maggior parte ispirate dalla tradizione anglosassone e non dal "Reinheitsgebot"; lo "stregone", o "il mago" è il tedesco Günther Thömmes, classe 1963, nato a Bitburg. Bitburg fa "Bitburger" e Guenther si diploma mastro birraio proprio lì, facendosi poi le ossa con esperienze in Irlanda (Guinness) ed in Baviera (Klosterbrauerei Mallersdorf). Il lavoro lo porta poi ad occuparsi dell'installazione e dell'avviamento di impianti produttivi in circa quarantacinque paesi sparsi per tutto il mondo. Dopo un'esperienza di cinque anni in terra americana, ritorna in Europa occupandosi non solamente di macchinari per birrifici ma anche per produttori di vino e caseifici. Ma Günther Thömmes è anche uno scrittore: già quattro i libri pubblicati, il più famoso dei quali Der Bierzauberer, è già arrivato alla quinta riedizione. 
Per quel che riguarda la birra, da quanto sono riuscito a capire Thömmes ha inizialmente utilizzato i propri impianti (da homebrewer) dalla capacità molto limitata per realizzare le proprie ricette; il progetto di realizzare un proprio birrificio con impianti più capienti è però al momento sospeso per la mancanza dei necessari finanziamenti; per produrre la quantità necessaria per soddisfare la domanda, Thömmes ha deciso di optare per il metodo "gipsy brewer", andando a produrre la proprie ricette presso altri birrifici (austriaci ?).
L'operazione - devo dire - non brilla di trasparenza; nessuna informazione viene data né sull'etichette delle bottiglie nel sul sito internet riguardo al luogo in cui le birre sono state prodotte; neppure Ratebeer, a quanto pare, è stato in grado di svelare il "mistero". 
Non rimane allora che parlare di birra, ossia della Aleysium No. 2, una India Pale Ale prodotta con Magnum, Cascade, Amarillo e Perle, che si presenta di color ambrato scarico o ramato, leggermene velato; forma una piccola testa di schiuma biancastra, cremosa e dalla buona persistenza. Il benvenuto dell'aroma è purtroppo poco incoraggiante: aroma quasi assente, se si eccettua la presenza di diacetile e di marmellata d'agrumi. Meglio in bocca (ma onestamente era difficile peggiorare) con un ingresso maltato di biscotto e caramello, una presenza quasi impercettibile di agrumi ed un finale amaro, resinoso, di buona intensità. La bevuta è molto poco memorabile, nonostante una presenza in bocca tutto sommato morbida e gradevole, un corpo medio, poche bollicine. Non basta un finale amaro dalla buona pulizia per salvare una birra alquanto poco ben riuscita, quasi priva di profumi e dal gusto alquanto mediocre. 
Formato: 33 cl., alc. 6.1%, lotto 577/L7, scad. 23/01/2015, pagata 2.98 Euro (beershop, Germania).

lunedì 28 luglio 2014

Free Lions/Revelation Cat/Left Hand Lo Straniero

Nella settimana che andava dal 17 al 24 Febrraio 2013, si tenne a Roma la  Colorado Beer Week un’iniziativa che ha coinvolto locali e beershop nei quali  sono stati organizzati eventi e degustazioni con la presenza di Doug Odell, fondatore della Odell Brewing Co.  e di Eric Wallace della Left Hand Brewing Co.; oltre a questi birrifici  era disponibile una vasta selezione di birre provenienti da Oskar Blues, Avery e Steamworks e fatte arrivare in Italia dal Colorado da Impexbeer. Alex Liberati (titolare di Impexbeer e del birrificio Revelation Cat) e Andrea Fralleoni del birrificio Free Lions non si sono certo fatti sfuggire l’occasione di avere a Roma  due birrai americani, ed hanno convinto Eric Wallace di Left Hand a realizzare una birra collaborativa a “tre mani”, prodotta presso gli impianti di Free Lions (Tuscania). 
La birra che nasce dal trio Liberati/Wallace/Fralleoni è una American Strong Ale ultraluppolata ("guidata dall'esperienza e dall'ispirazione del momento") che viene chiamata “Lo Straniero” (no, purtroppo non credo ci sia alcun riferimento al capolavoro di Albert Camus..) e che viene presentata durante l’Italia Beer Festival di Milano 2013. I debutti all’IBF portano evidentemente fortuna (cfr. il  caso Extraomnes Zest all'IBF 2011)  perché Lo Straniero si aggiudica il premio di miglior birra del festival  tra le circa 130 presenti. Il 5 Aprile la birra debutta anche al di fuori dal festival, alle spine (ovviamente) della Brasserie 4:20 di Alex Liberati. Quella che sembrava essere una collaborazione unica, "one shot", ha evidentemente riscosso il favore di pubblico necessario per essere già replicata nel 2014.
Senza nessuna indicazione sulla tipologia di malti/luppoli utilizzati, arriva nel bicchiere di un bel color ambrato velato con intensi riflessi rossastri; la schiuma è molto compatta e fine, cremosa, color ocra, molto persistente. L'aroma rivela freschezza e pulizia, ed un carattere decisamente dolce di mango, melone ed ananas maturo, arancia rossa, pompelmo e caramello. Ma si tratta solo di un "aperitivo" di quanto sta per accadere in bocca: il gusto è davvero molto intenso, con una potenza che forse tralascia un po' l'eleganza, ma che regala la robusta spina dorsale maltata (biscotto e caramello) necessaria al sostegno della generosissima luppolatura che dapprima richiama il dolce tropicale ed il pompelmo, per poi cancellare tutto con una poderosa ondata amara, resinosa e pungente, che riesce comunque a non raschiare il palato. L'alcool (7.7%) c'è ed irrobustisce la bevuta, scaldando il palato e facendosi sentire soprattutto nel lungo ed intenso retrogusto amaro ricco di resina; non è certamente una birra da bevuta seriale, ma la bottiglia si svuota senza che sia necessario troppo impegno. E' pulita e molto muscolosa,  ben riuscita, tutta basata sul delicato equilibrio della freschezza che tiene assieme e fa funzionare tutte le sue componenti, prima che il passaggio dei mesi la possano trasformare in una pericolosa bomba di caramello, marmellata d'agrumi e luppoli stanchi. Cercate quindi di bere il più rapidamente possibile questo pezzo di artiglieria pesante, un "commando" che ha la bellicosa intenzione di assaltare il vostro palato a colpi di luppolo.
Formato: 33 cl., alc. 7.7%, lotto 1410, scad. 08/03/2015, pagata 6.00 Euro (beershop, Italia).

domenica 27 luglio 2014

Hibu Mood

Sono ormai una quindicina le birre che compongono la gamma produttiva del birrificio Hibu di Bernareggio (MB), tra le quali, classificata come birra "di tutti i giorni" è entrata anche una imperial porter chiamata Mood. Etichetta alquanto differente dalle altre Hibu, solitamente abbastanza divertenti e poco "seriose"; il look di questa Mood è invece sobrio, con un ca ratiere tipografico che rimanda agli anni '70. La gradazione alcolica non è comunque eccessiva (7.5%) e ancora lontana dalle "bombe di catrame" tipiche dei paesi scandinavi; le miti temperature di questa estate fanno anche venire voglia di bere qualcos'altro che non sia la solita birra estiva leggera, dissetante e rinfrescante.
Bottiglia di Mood abbastanza "nervosa", con la schiuma che riempie copiosa il bicchiere e obbliga ad una lunga attesa prima di dissiparsi; alla fine è possibile comporre un bicchiere di birra color marrone scurissimo, quasi nera, con il suo cappello color nocciola di schiuma pannosa. Al naso, non particolarmente intenso, ci sono caffè in grani, cioccolato al latte, qualche sentore di mirtillo ma purtroppo anche qualche odore meno gradevole di plastica e di gomma bruciata.  La generosa schiuma si porta dietro la conseguenza di una carbonazione molto alta, eccessiva per una (robust) porter; il corpo è medio, con una consistenza oleosa. In bocca c'è una buona intensità di gusto, ma lo stesso non si può dire per quel che riguarda la pulizia e l'eleganza dei sapori. Il risultato è una sorta di amalgama un po' confuso di caffè, di tostature e di liquirizia, con un qualche lieve nota di gomma bruciata. L'alcool porta un leggero tepore, e questa Mood si riscatta parzialmente a fine corsa, lasciando un retrogusto finalmente pulito e gradevole di caffè, di tostature ed alcool.
Formato: 33 cl., alc. 7.5%, scad. 18/04/2015, pagata 3,90 Euro (food store, Italia).

giovedì 24 luglio 2014

Mikkeller K:rlek Efterår/Vinter 2013

K:rlek (qualcuno ha idea di cosa voglia dire?) è una birra collaborativa tra Mikkeller e l'importatore svedese di birra Brill. Si tratta di un'American Pale Ale che viene definita "concettuale", e la domanda è che cosa ci possa essere di concettuale in una APA. Niente di speciale, si tratta semplicemente di una birra che verrà prodotta due volte l'anno, con una ricetta diversa, seguendo la stagionalità della moda, ovvero: primavera-estate, autunno-inverno. La prima "collezione", se così si può chiamare, viene presentata ad Aprile 2012: malti Pale, CaraHell e Pilsner, fiocchi d'avena, frumento e luppoli Centennial, Citra, Columbus, Nelson Sauvin e Simcoe.  Si replica in autunno, con una ricetta leggermente diversa, e avanti così sino ad arrivare all'ultima nata nella primavera 2014. Io devo invece fare un passo indietro e tirare fuori dal frigo, purtroppo con un po' di ritardo, la collezione autunno-inverno 2013. Il giorni piovosi di questo luglio 2014 non sono però molto diversi da quelli di un ottobre particolarmente caldo. Punto in comune di tutte le K:rlek sono le splendide etichette realizzate dall'artista svedese (classe 1978) Sara Nilsson.
Che dire quindi di quella edizione A/I 2013? Malti Pils, Pale, Cara-pils, segale, frumento, e luppoli Citra, Chinook, Amarillo e Simoce, ananas (no, non è una nuova varietà di luppolo).
Si presenta di color arancio opaco, con riflessi dorati; schiuma fine, compatta, molto cremosa e persistente, biancastra. L'aroma è pulito, anche se probabilmente i diversi mesi di vita ne hanno un po' ridotto l'intensità, che risulta solo modesta: arancio, mandarino e pompelmo, con sfumature di ananas sciroppato (quello in scatola) che sono più evidenti man mano che la birra si scalda. Lo stesso scenario viene riproposto in bocca, con una leggera base maltata (crackers) seguita da una macedonia di agrumi; all'ananas sciroppato il compito di bilanciare con un po' di dolce, prima di un finale zesty pieno della scorza di quasi tutti gli agrumi che vi vengono in mente. La segale le dona una delicata speziatura, quasi pepata, ed il risultato è una birra molto secca e rinfrescante, che fa pensare all'estate più che alla stagione autunno-inverno per la quale è stata concepita. Gradevole e morbida in bocca, con un corpo medio, è pulita e ben fatta, precisa, si gusta pur senza provare grosse emozioni. Rimango con il dubbio sull'utilizzo dell'ananas; a parte l'evidente impossibilità di mangiare ananas decenti in Europa (se ne avete mai mangiato uno nei paesi di origine, sapete cosa voglio dire), che cosa aggiunge a questa birra?
Formato: 33 cl., alc. 5.9%, scad. 29/08/2015.

mercoledì 23 luglio 2014

Lambrate Ghisa

Questa stout di uno dei pionieri del cosiddetto movimento della "birra artigianale" italiana, lo storico Birrificio Lambrate, aperto nel 1996 da Davide e Giampaolo Sangiorgi, e Fabio Brocca, prende il nome da quel simpatico appellativo (el ghisa) "con cui, ancora oggi, i cittadini apostrofano i vigili urbani. Ci sono diverse teorie che cercano di spiegarne le cause: alcuni sostengono che derivi dalla vecchia uniforme nera indossata dai vigili, che ricordava appunto il colore dei getti di ghisa, mentre altri pensano che il nomignolo sia dovuto allo stemma di ghisa che gli stessi portavano sul caschetto. Ad ogni modo, la definizione più probabile pare sia riconducibile al fatto che il cappello a cilindro che i vigili indossavano nel 1860, ricordava appunto i tubi di ghisa di certe stufe o dei tubi di gronda (in dialetto chiamati "canon de stua".  Non è una delle birre "storiche" del Lambrate, che inizio la propria attività producendo Montestella, Porpora e Lambrate, ma è tra quelle che in Italia hanno ottenuto più riconoscimenti: terza classificata in categoria 8 (Birre acide, affumicate o maturate in legno) a Birra dell'Anno 2006, seconda classificata all'Italian Beer Festival 2007 (categoria speciali), prima classificata all'IBF 2010 (Rauch beer) e secondo classificata a Birra dell'anno 2011(categoria birre affumicate). 
Ne è stata realizzata anche una versione Imperial, che negli ultimi anni ha ottenuto altrettanti successi nei concorsi italiani, oscurando un po' la sorella minore, ed una versione "Estiva" poi rinominata Petite Ghisa, dal contenuto alcolico ancora inferiore (3%).
Questa stout affumicata si veste praticamente di nero, con una cremosa schiuma color nocciola, fine e compatta, dalla buona persistenza. La ricerca dell'affumicato parte ovviamente dal naso; il birrificio chiama in causa la scamorza, a me ha ricordato più la pancetta affumicata; l'aroma offre altre sfumature interessanti che ricordano il cuoio, la pelle ed anche la carne (non solo la pancetta). Più tradizionali invece i sentori di caffè, di mirtillo e di cioccolato amaro. In bocca è poco carbonata, morbida e scorrevole, con un corpo a metà strada tra il medio ed il leggero. Ottima l'intensità del gusto (stiamo sempre parlando di una stout dalla gradazione alcolica modesta, 5%) che rispecchia quasi in  toto l'aroma: caffè liquido, molte tostature, liquirizia, pancetta affumicata e di nuovo un qualcosa che mi ricorda il cuoio, la pelle e la carne.  Molto pulita, facile fa bere, finisce amara con una notevole mole di caffè e relativa acidità. Ben fatta, con l'affumicato che non è assolutamente dominante ma che apporta solamente una gradevole sfumatura a quella che sarebbe ugualmente un'appagante stout.
Formato:  33 cl.,  alc. 5%, lotto OLGH010914, scad. 21/05/2015, pagata 4.80 Euro (foodstore, Italia)

lunedì 21 luglio 2014

CREW Republic Drunken Sailor

Secondo appuntamento con i bavaresi di Crew Republic, che  vi ho presentato per la prima volta in questa occasione: "beer from Mūnchen" viene riportato in etichetta, ma le birre sono in realtà prodotte ad un centinaio di chilometri di distanza, presso la Hohenthanner Schlossbrauerei di Hohenthan. Beer firm, dunque, ma ci vuole dimestichezza con il tedesco e colpo d'occhio per notare nel retro-etichetta la parola "Vertrieb" seguita da Crew AleWerkstatt. Il verbo "vertrieben" infatti significa "distribuire", e non produrre; ma se anche foste stati così attenti da accorgervi di questo dettaglio, resta il fatto che non viene indicato da chi la bottiglia è stata prodotta. 
Meglio invece la precisione per quel che riguarda gli ingredienti utilizzati: malti Pilsner, Monaco e Caramello, luppoli Herkules, Citra, Cascade e Simcoe. Il nome scelto, il marinaio ubriaco (Drunken Sailor) fa per l'ennesima volta riferimento alla leggenda che le India Pale Ale furono "inventate" per meglio resistere al viaggio ed al caldo che accompagnava il loro trasporto via mare dall'Inghilterra alle colonie indiane. La storia/leggenda l'avrete senz'altro sentita raccontata più di una volta, ma la verità potrebbe essere un po' diversa.
Drunken Sailor si presenta di color ambrato opaco con qualche sfumatura tendente all'arancio; la schiuma, ocra, è molto fine e compatta, cremosa e molto persistente. Il naso sfortunatamente non è certo un trionfo di freschezza, ma neppure un cadavere sul lettino dell'obitorio: c'è ancora qualche nota di pompelmo e di frutta tropicale (mango e papaya), con una presenza dominante però di marmellata d'agrumi, affiancata da sentori di caramello. Il palato del bevitore "medio" tedesco non è tradizionalmente abituato all'amaro intenso, e al palato questa IPA si muove con parecchia cautela restando nel territorio del dolce, grazie anche all'apporto della freschezza perduta. L'amaro (resina e scorza di pompelmo) non morde particolarmente ma sembra quasi servire a bilanciare un gusto dolce che parte dal biscotto e dal caramello per arrivare poi alla frutta (quasi sciroppata) tropicale e alla marmellata (dolce) di agrumi. Fortunatamente la birra ha una buona secchezza che aiuta a ripulire il palato e a meglio assaporare il finale - un po' timido - di resina e pompelmo. Gli elementi per caratterizzano una buona IPA "fruttata" ci sarebbero (pompelmo e tropicale) ma è difficile dare un'opinione su una birra che, sebbene pulita, gradevole al palato e poco carbonata, risulta troppo poco fresca per essere apprezzata.
Formato: 33 cl., alc. 6.4%, IBU 58, scad. 18/03/2015, pagata 2.03 Euro (beershop, Germania).

domenica 20 luglio 2014

Bi-Du Jugnior

Nuovo appuntamento con il birrificio Bi-Du di Olgiate Comasco; è la volta della Jugnoir, una belgian ale dall'etichetta autoesplicativa, con "piccolo" (junior, appunto) e grande boccale di birra che si tengono per mano. La grafica dell'etichetta è quella a cui il birrificio di Beppe Vento ci ha abituato sin dalla sua nascita; una grafica amatoriale e - lo dichiaro apertamente - secondo me parecchio brutta. Ma, come Vento ha dichiarato, "le etichette sono state disegnate di getto e mai modificate.. Impiego tutte le mie forze nel produrre buona birra e credo che l’importante è che la birra stessa continui ad essere al meglio. L’immagine viene dopo"
Su questo non c'è assolutamente dubbio, il Bi-Du ha costruito il proprio prestigio e successo sul campo, nel corso di un decennio nel quale ha mantenuto un'alto livello di costanza qualitativa delle birre prodotte. Ma mi chiedo quanti altri potrebbero ora "permettersi" di uscire su un mercato sovraffollato da oltre 700 attori con un'immagine visiva di questo livello.
Dimentichiamo quindi le etichette e passiamo alla sostanza; Jugnior è una Belgian Ale, dalla gradazione alcolica (7%) non indifferente.
Si presenta di color arancio opaco, con qualche riflesso ramato; la schiuma biancastra e pannosa è esuberante e riempie subito il bicchiere, obbligando ad una lunga attesa prima di riuscire ad ottenere un "vero" bicchiere di birra.  L'aroma è pulito ma poco intenso; s'avvertono comunque sentori di albicocca e di pesca, arancio e scorza di limone, con una lieve speziatura in sottofondo. Al contrario di quello che l'abbondantissima schiuma poteva far pensare, la carbonazione è media, come il corpo, e la birra risulta gradevole in bocca, con una consistenza oleosa. Ci sono note di pane, qualche lieve sfumatura di biscotto, pera, arancio e pesca; qualche nota di canditi emerge man mano che la birra si scalda. Il gusto inizialmente dolce subisce una violenta sterzata nel finale, con un amaro erbaceo e leggermente zesty (limone, lime, pompelmo) e speziato, molto intenso anche se non troppo elegante. La bevuta (caratteristica di quasi tutte le Bi-Du) è comunque facile e poco impegnativa, con l'alcool sempre molto ben nascosto; e la generosa bottiglia da 75 cl., dal carattere dichiaratamente belga, si svuota in breve tempo. 
Formato: 75 cl., alc. 7%, lotto 418, scad. 30/09/2015, pagata 8.40 Euro (foodstore,  Italia).

giovedì 17 luglio 2014

Nursia Bionda

A Norcia nasce nel 2012 la seconda birra "monastica" italiana, dopo quella prodotta dai monaci di Cascinazza; Birra Nursia, che utilizza la parola latina che anticamente designava la città umbra. Un'idea che sembra aver avuto una gestazione di oltre una decina d'anni, e che si è concretizzata solamente ad Agosto del 2012. I monaci Benedettini (alcuni di loro di origine statunitense) raccontano di essersi recati varie volte negli Stati Uniti alla ricerca di finanziamenti per l'acquisto degli impianti e la ristrutturazione dei locali, riuscendo ad ottenere l'aiuto necessario da quattro famiglie americane. Dopo l'espletamento delle solite fatiche burocratiche italiane, nell'estate 2012 viene finalmente messo in funzione un impianto con una sala cottura abbastanza modesta (250 litri) e cinque fermentatori da mille litri l'uno, il tutto prodotto dalla Lainox di Spoleto. La birra d'abbazia fa inevitabilmente pensare al Belgio, e proprio dal Belgio è invece arrivato l'aiuto per mettere in funzione gli impianti, formare e guidare Don Francesco Davoren, il birraio principale, nato in Texas (Dallas); si tratta del birraio belga Marc Knops, che lo ha seguito nel corso di alcuni stage presso i monasteri belgi di St. Sixtus/Wesvleteren ed Achel. 
Francesco racconta di non aver mai amato particolarmente la birra sino ai tempi del college, quando subì un'infatuazione per la Guinness; ma una sera un fusto di stout "molto sfortunato" lo spinse ad ordinare qualcos'altro. Il suo interesse per la vita monastica, fervente già allora, lo portò ad ordinare dal menù una birra trappista; si trattava di una Chimay Red, e da allora la birra non fu mai più la stessa per Francesco. Pian piano si spinse ad assaggiare tutte quelle che gli capitavano a tiro, iniziando anche  a partecipare (sopratutto come "assaggiatore", ammette) alle operazioni di homebrewing di un gruppo di amici. Arrivato al monastero di Norcia, s'interessa subito al progetto - ancora abbozzato - di produrre la birra; gli viene concesso il permesso di fare dell'homebrewing (o del monastery-brewing, dovremmo forse dire) e di realizzare delle cotte pilota in previsione dell'apertura del birrificio. Nel frattempo, la vita monastica continua a prevedere un bicchiere di vino durante i pasti quotidiani: "ma è quasi una penitenza per me" dice Francesco, "non è di buona qualità". 
Con sette ricette all-grain ed un paio da estratto in tasca, Francesco viene messo al timone di Birra Nursia; le prime tremila bottiglie messe in vendita vengono esaurite nel giro di pochi giorni. Sono ancora solo due, al momento, le etichette disponibili: una Bionda (6%) "allegra e leggera, adatta per un aperitivo o per accompagnare antipasti e primi piatti" ed una Extra (10%) "da bere da sola o insieme a corposi primi piatti, e ricette a base di carne come agnello e cinghiale, tipici della tradizione nursina".
Minimali le etichette, con in bella evidenza un simbolo che raffigura il rosone della basilica di San Benedetto da Norcia; sul retro, il motto “ut laetificet cor", ovvero "che il cuore ne possa essere allietato", si riferisce alla speranza dei monaci di "condividere con gli altri la gioia che nasce dal lavoro delle nostre mani, così da santificare il Signore, Creatore dell’universo in tutte le cose."
Impossibile, almeno per me, affrontare i 10 gradi (ed il generoso formato da 75) della Extra nel pieno dell'estate; meglio orientarsi allora sulla Bionda, il cui nome non brilla certo di originalità ma che, in un contesto di ascetismo monastico, può risultare appropriato.
Bel colore dorato, appena velato, e cappello di schiuma bianca, abbastanza fine, cremosa e dalla buona persistenza. L'aroma risulta di buona intensità ed eleganza: sentori di pera, cereali, crackers, qualche lieve nota di banana ed una delicata speziatura nella quale mi sembra di trovare qualche sfumatura di zenzero, tra le altre. A dispetto di una gradazione alcolica non proprio da session beer (6%), in bocca è leggera, con una carbonazione abbastanza sostenuta; la consistenza acquosa la rende scorrevole ma a tratti questa Bionda dà la sensazione di essere un po' sfuggente. In bocca è un po' meno intensa che al naso, anche se ugualmente pulita; dopo l'ingresso di pane e di crackers, c'è un breve passaggio a vuoto, acquoso, che porta ad un finale zuccherino. A temperatura ambiente vengono fuori delle note di miele e di arancia candita; chiude un po' timida, corta ed abboccata. Birra pulita e priva di off-flavors, è molto facile da bere e risulterà molto gradevole ed "amichevole" per chi ha un palato ancora poco allenato. Gli altri riconosceranno in lei l'animo belga ma ne riscontreranno la mancanza di un po' di personalità e di carattere per poter reggere il confronto con le migliori "Blond" belghe trappiste o "d'abbazia".
La vera nota negativa riguarda il prezzo: 12 euro al litro, al punto vendita del monastero in un angolo della piazza principale di Norcia, non sono pochi; ma per una volta l'esborso è meno doloroso, pensando al fatto che il ricavato aiuta al sostentamento economico del monastero.
Formato: 33 cl., alc. 6%, lotto 55, scad. 12/2015, pagata 4.00 Euro (spaccio birrificio)

mercoledì 16 luglio 2014

Schweinsbräu Maibock

Il primo incontro con il birrificio Schweinsbräu, avvenuto qualche anno fa, non era proprio stato memorabile; Schweinsbräu è il ramo "brassicolo" di Herrmannsdorfer Landwerkstätten, azienda agricola che si trova nei dintorni di Glonn e fondata nel lontano 1897 dall'allora macellaio Karl Schweisfurth. Dalla prima piccola macelleria di Herten (Westfalia), l'azienda è cresciuta sino a diventare, negli anni 80 del secolo scorso, una delle più moderne ed automatizzate macellerie di maiale al ritmo di 20.000 esemplari a settimana.  Ma proprio all'apice del successo, i figli ed i nipoti del fondatore Ludwig iniziarono a mettere in discussione i valori e l'etica di un'azienda che era ormai impegnata solamente ad abbassare i costi di produzione ed a massimizzare il profitto, senza che vi fosse più nessun interesse per l'artigianalità. Si decise allora per un drastico cambiamento: basta con gli allevamenti intensivi, con animali chiusi nelle stalle e carni insapori, basta con le riunioni commerciali. Era il momento di trasformare l'azienda in una più piccola entità agricola, sostenibile, ecologica. Oggi la Herrmannsdorfer, che ha trovato sede a Glonn, in Baviera, coordina una rete di circa settanta agricoltori, allevatori e produttori di pane e latticini rigorosamente biologici. E tra le varie attività c'è anche quella brassicola. 
Dopo un periodo in cui tutte le birre erano prodotte presso la Riedenburger, a Glonn è stato finalmente ultimato un piccolo impianto che, oltre a rifornire l'attiguo ristorante, consente anche la produzione di una Maibock e di una Doppelbock "biologiche" poi distribuite anche in bottiglia, mentre Helles, Dunkles e Weizen continuano ed essere prodotte alla Riedenburger. Il piccolo impianto a vista vi dà il benvenuto al primo piano, proprio all'ingresso del ristorante guidato dallo chef Thomas Thielemann che presenta una rivisitazione in chiave moderna della classica cucina bavarese a prezzi, purtroppo, decisamente più elevati della media.
Ho invece riscontrato un netto miglioramento nella qualità della birra; ecco una Maibock, prodotta con orzo e luppolo da coltivazione biologica e dall'etichetta discutibile: a voi giudicare se di buon o cattivo gusto. Il ritratto del maiale, caratteristica di tutte le birre della Schweinsbräu (Schwein - maiale) è l'animale che vi dà anche il benvenuto quando arrivate al quartier generale di Glonn. In alcuni recinti, diversi suini - per la gioia dei bambini - mangiano e si rotolano tra paglia e fango. 
Questa Maibock si presenta di un bel color ambrato carico, con riflessi ramati. La schiuma è compatta e "croccante", cremosa e dal colore che richiama per l'appunto la crema, molto persistente. Al naso, leggermente zuccherino, a tratti quasi "glassato", ci sono diverse sfumature maltate che vanno dalla crosta di pane alla fetta biscottata, dal biscotto al burro al pane di segale, con qualche lieve nota di caramello. Il gusto è inizialmente un fedele specchio dei profumi (pane e biscotto), per poi virare sul fruttato dell'uvetta e della prugna; completano il quadro delle lievi note di caramello e di tostato. C'è un buon livello di pulizia, un gusto dolce che non è mai stucchevole, e solo qualche lieve imperfezione in un finale americante (mandorla) che presenta qualche leggera nota di cartone bagnato, a voler essere pignoli. Il corpo è medio, le carbonazione è purtroppo quasi assente: la birra risulta morbida e gradevole ma un po' troppo piatta. Rimane da segnalare una lieve presenza, del tutto accettabile, di diacetile, per una maibock intensa, fragrante e pulita, molto godibile e facile da bere.
Formato: 50 cl., alc. 6.8%, scad. 24/10/2014, pagata 1,54 Euro (supermercato, Germania).

martedì 15 luglio 2014

Batzen Bräu Urporter

Secondo appuntamento con il brewpub di Bolzano Batzen Bräu; dopo la atipica Viennarillo assaggiata qualche tempo fa, ecco un'altra produzione alternativa alle classiche birre d'ispirazione tedesca che v'aspettereste di bere in Alto Adige; si tratta di una  Urporter, dove il suffisso "Ur", in tedesco, rimanda a ciò che è "originale", "primordiale", "antico". La ricetta vuole infatti replicare quella della prima Porter prodotta in Alto Adige alla fine del diciannovesimo secolo, ispirata a quelle inglesi. 
Furono i fratelli Jakob ed Ernst Schwarz, proprietari di alcuni birrifici intorno a Bolzano poi concentrati nel 1887 nel solo stabilimento di Vilpiano (Brauerei Gebr. Schwarz Gmbh); in questo interessante articolo, viene segnalato come il birrificio fosse a quei tempi all'avanguardia, essendo dotato di un allacciamento alla corrente elettrica e di telefono. Nel 1924 i figli dei fondatori firmarono la fusione con il birrificio Krätner di Prato Isarco la cui produzione venne però sospesa dopo pochi anni; nello stesso anno l'edificio di Vilpiano fu venduto alla Saplo (Società  Anonima Produzione Lavorazione Orzo) e convertito in malteria (Malterie Atesine), diventando così una delle prime malterie italiane assieme a quella di Avezzano. Di proprietà del gruppo Peroni, lo stabilimento venne definitivamente chiuso nel 1986.
Ecco la Urporter nel bicchiere, prodotta con luppoli inglesi, malto d'orzo, frumento ed avena, e di colore marrone scuro; la schiuma è beige, fine e cremosa, ed ha una buona persistenza. L'aroma è semplice ma pulito e di buona finezza: orzo tostato, caffè in grani e liquido, mirtilli, qualche lieve sfumatura che ricorda la cenere.  Il corpo è tra il medio ed il leggero, con poche bollicine ed una consistenza acquosa che però risulta morbida e gradevole al palato. Equilibrio ed intensità sono protagonisti in bocca, riproponendo tutti gli elementi dell'aroma: caffè ed orzo tostato, qualche nota di liquirizia, con una bella acidità donato dai malti scuri ed un finale amaro intenso di tostature e di caffè, e di nuovo un tocco di cenere. Birra molto pulita, giocata su pochi elementi molto ben dosati e bilanciati tra di loro, all'insegna della facilità di bevuta senza mai far mancare la giusta intensità. Molto appagante, dallo straordinario rapporto qualità prezzo: allo spaccio del brewpub viene venduta in confezione da 6, al prezzo di 10,80 Euro, come per altro tutte le altre birre della linea "classica" di Batzen. Sono 1,80 Euro per una bottiglia da 33 centilitri; è il prezzo che vorrei avesse ogni birra "di qualità" da bere quotidianamente; poi ben vengano tutte le speciali, le barricate, le stagionali e tutto quello che può giustificare un prezzo più elevato. Altro che "l'artigianale del discount", la vera rivelazione per me arriva dall'Alto Adige.  
E la domanda aperta a tutti è questa: se ci riescono a Bolzano, perché in tutto il resto d'Italia non è possibile? 
Formato: 33 cl., alc. 5.5%, scad. 21/07/2014, pagata 1.80 Euro (spaccio birrificio).

sabato 12 luglio 2014

La Birra del Frate - Donna de Paradiso

Sempre più difficile districarsi in Italia nel labirinto fatto di veri birrifici e di beer-firm, ovvero di coloro che la birra la producono presso impianti terzi o la commissionano direttamente a qualche birrificio. Diventa sempre più necessario un attento esame dell'etichetta prima di passare alla cassa e pagare; ammetto di non averlo fatto, in questo caso, essendo stato un po' tratto in errore dal nome: "Birrificio Tuderte" mi ha fatto pensare ad un vero produttore e invece si tratta di una beer-firm. Immagino (spero!) che la scelta di chiamarsi comunque "Birrificio" sia motivata dal fatto che l'azienda ha intenzione, a breve, di mettere in funzione gli impianti propri.
Birrificio Tuderte nasce nell'estate del 2012, quando Leonardo Bicchi decide di andare oltre una decennale passione per l'homebrewing; la sede a Todi ha portato in dote la caratterizzazione con il concittadino più famoso, ovvero Jacopone da Todi. Ecco allora la "Birra del Frate", che al momento è disponibile in due varianti: una Golden (?) Ale ispirata alla tradizione inglese, chiamata Donna de Paradiso, e una "rossa" o ambrata chiamata Rubra Mater. 
Ecco dunque la "birra di Todi", che però attualmente (o almeno la bottiglia nella mie mani) è prodotta nelle Marche, come riporta l'etichetta, a Comunanza (AP) il che significa il Birrificio Le Fate. Ho già espresso la mia opinione nei confronti della disputa birrifici vs. beer-firm; nessun problema, finché c'è trasparenza. Quello che conta, alla fine, è la qualità di quello che si versa nel bicchiere.
Passiamo alla sostanza: "Donna de Paradiso" è la birra del debutto; luppoli e lievito inglesi, orzo coltivato nelle Marche, nome dell'omonima lauda drammatica scritta da Jacopone da Todi. Il colore è dorato, leggermente velato; molto bella la testa  da schiuma che si forma, compatta e cremosa, dalla buona persistenza. Al naso è un dominio di mela golden e di purea di mela; poco spazio per altro, se non per una netta presenza di diacetile. Un po' meglio in bocca, con note maltate di cereali e crosta di pane, miele; il gusto è abbastanza dolce, la bevuta è un po' imburrata e "appiccicosa" con - di nuovo - il diacetile sempre più evidente man mano che la birra si scalda. Il corpo è leggero, la carbonazione contenuta, è la birra sarebbe anche gradevole e morbida in bocca, per quel che riguarda la consistenza. Chiude con un lieve finale amaricante, tra l'erbaceo e la mandorla amara. Da bere a temperatura abbastanza bassa, per mitigare l'effetto "burro", è una "bionda" (uso volutamente il colore come fattore categorizzante) nella quale non ho sinceramente trovato molte tracce d'Inghilterra; un prodotto semplice e facile da bere che, se un po' ripulita e sistemata, potrebbe rappresentare una classica "gateway" beer per chi ha sempre bevuto birra industriale. Per chi è invece appassionato di birra, vale il discorso fatto in questa ed in questa occasione, per altre due birre sostanzialmente simili: manca di personalità.
Formato: 75 cl., alc. 5.5%, IBU 23, lotto 5313, scad. 01/2015, pagata 8.50 Euro (gastronomia, Italia).

giovedì 10 luglio 2014

Duvel Tripel Hop 2014

La "storia" della Duvel, la più famosa se non l'archetipo delle Belgian Strong Ales l'avevo già riassunta in questa occasione; una birra nata negli anni 20 del secolo scorso per far concorrenza alle Scotch Ales inglesi che erano molto richieste dai bevitori belgi. Inizialmente ambrata, la Duvel cambia colore negli anni '70 - di nuovo - per andare incontro al mercato, che vedeva la birre ambrate in forte declino rispetto a quelle dorate, ormai preferite dai consumatori. Non sorprende affatto, negli ultimi anni, la nascita di una "sorella" più luppolata della Duvel, che non la sostituisce ma la affianca, per andare nuovamente incontro al gusto dei consumatori, che si sta lentamente spostando verso birre più amare e luppolate.
La Duvel Tripel Hop nasce come "one-shot" bel 2007: ai due luppoli che vengono utilizzati per la Duvel normale (Saaz e Styrian Goldings) viene aggiunto l'americano Amarillo. Il risultato piace, ma alla Moortgat non intendono replicarlo; pare che ci siano volute una "campagna" su Facebook e 12.000 firme raccolte dagli appassionati belgi di “De Lambikstoempers" per convincere il birrificio a rimetterla in produzione. La Duvel Tripel Hop torna sugli scaffali nel 2012, ma al posto dell'Amarillo c'è il Citra, come terzo (luppolo) "incomodo". La birra trova una sua collocazione ben precisa; sarà prodotta una volta l'anno, ogni anno con un "terzo" luppolo diverso. L'anno scorso è stata la volta del Sorachi Ace, mentre per il 2014 il birraio Hedwig Neven ha scelto l'americano Mosaic. "Figlio" del Simcoe, questa varietà di luppolo è stata rilasciata nel 2012 dalla Hop Breeding Company.
Il suo colore dorato leggermente pallido mi sembra lievemente più velato rispetto a quello della Duvel "normale"; la schiuma è un po' grossolana e saponosa, bianca ed ha una buona persistenza. L'aroma è pulito ed ha buona complessità ed intensità: convivono sentori erbacei, di agrumi (lime e limone, arancio), crosta di pane, una delicata nota di pera e di pepe, crosta di pane e qualche leggera suggestione di mirtilli e di zucchero candito. Il corpo è medio-pieno, la carbonazione è abbastanza elevata in una birra quasi "oleosa" che però scorre abbastanza bene e, soprattutto, nasconde il contenuto alcolico di  tutto rispetto (9.5%) tenendo fede al suo nome, ossia "diabolicamente". In bocca c'è un mix molto ben assemblato di dolce (miele, frutta candita, arancio, albicocca) che viene bilanciato da una seconda parte amara, tra l'erbaceo e la scorza d'agrumi, che ripulisce abbastanza bene il palato, pur non impedendo che una lieve patina zuccherina, mielosa e candita rimanga ai lati della bocca. Chiude con una buona secchezza ed un discreto warming etilico di frutta sciroppata dolce, che viene contrastato dal generoso retrogusto luppolato, erbaceo e pepato, quasi piccante. E' una piacevole sorpresa la Duvel Triple Hop 2014; non ho avuto occasione di assaggiare le versioni precedenti, ma questa è solida e davvero ben fatta, molto pulita, e l'ho trovata molto più convincente di altre Belgian Strong Ale molto luppolate come ad esempio la Urthel Hop-it e la Hopus di Lefebvre. Se la gioca con la Chouffe Houblon.
La potete trovare anche in qualche supermercato, ad un prezzo interessante; ma se volete provarla, fatelo in fretta visto che è una birra generosamente luppolata e quindi non va assolutamente messa in cantina.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, lotto 4061 2157, scad. 07/2016, pagata 2.69 Euro (supermercato, Italia).

mercoledì 9 luglio 2014

Menaresta White Widow

Se siete appassionati birrofili, sarete senz'altro familiari con le Black IPA, o Cascadian Dark Ales che dir si voglia; la moda è già passata da un po', moltissimi sono i birrifici che ne producono una e, ovviamente, c'è già bisogno di inventarsi qualcosa di nuovo. Dal "nero" al suo opposto, il "bianco", il passo è stato abbastanza breve; anche perché white/blanche/wit in ambito brassicolo identifica uno stile ben preciso. Che cosa accade, quindi, se ad una classica blanche o wit belga viene aggiunta una dose massiccia di luppoli americani? Una "White IPA". Il primo esempio pare essere nato alla fine del 2010, quando Larry Sidor, birraio di Deschutes (Oregon) incontra Steven Pauwels della Boulevard (Missouri) per il secondo episodio di Conflux, nome con il quale il birrificio dell'Oregon identifica le proprie collaborazioni. S'incontrano quindi un birrificio (Deschutes) della costa pacifica americana, che ama le abbondanti luppolature, con uno (Boulevard) particolarmente apprezzato per la sua Tank 7 Farmhouse Ale, ispirata alle saison belghe. Steven Pauwels è, oltretutto, di origine belga. Per chi ha qualche problema con l'inglese, segnalo questo articolo di Cronache di Birra sulle White IPA.
Tecnicamente una White IPA dovrebbe quindi utilizzare un ceppo di lievito belga ed una luppolatura americana; "concesso" anche l'utilizzo di spezie, come spesso avviene per le blanche, con coriandolo e scorza d'arancia tra quelle usate più di frequente. Potreste anche chiamarle American Wit o American Blanche, mentre non vanno confuse con le American Wheat, anch'esse birre di "frumento" che però prevedono un lievito americano, nessuna spezia e una luppolatura chiaramente meno intensa di quella che c'è in una IPA.
Diversi sono anche i birrifici italiani che si sono cimentati nel ricreare una White IPA; tra questi c'è Menaresta, che poco  tempo fa  ha presentato la sua "vedova bianca", White Widow; debutta il 10 Maggio al "Gatto e la Volpe" di Carate Brianza. La ricetta, di Marco Valeriani, prevede malti Pils e Carapils, fiocchi di frumento e d'avena ed una generosa luppolatura di Citra, Cascade e Sterling; non sono citate spezie. All'aspetto è di colore oro pallido, quasi paglierino, opaco; la schiuma, bianca, è cremosissima e compatta, molto persistente. L'aroma è un piccolo festival dell'agrume: pulito e fragrante, offre aspri sentori di limone e lime, scorza di mandarino; in sottofondo sfumature di mela verde e, solo quando la birra si scalda, qualche nota più dolce di polpa d'arancio e pompelmo. Al palato sorprende in quanto è molto morbida nonostante l'elevato ammontare di bollicine, e immagino che questo sia in parte dovuto all'utilizzo di avena; il corpo è medio-leggero. Scorrevolissima, disseta il palato con gli stessi agrumi presenti nell'aroma; la base di malto (pane) è quasi impercettibile, la birra è quasi aspra ma proprio per questo risulta estremamente vivace e rinfrescante grazie ad un bel dialogo tra gli agrumi e le bollicine; a bilanciare - come nell'aroma - c'è qualche nota dolce di polpa d'arancio, forse di pesca -  che si fa più evidente quando la birra si scalda. Il finale amaro è ovviamente "zesty", con un grande ammontare di scorza d'agrumi e qualche lieve sfumatura erbacea. Pulita e fragrante, sbarazzina e ruffiana, scorre con la facilità di una "session beer" anche se il contenuto alcolico in percentuale è quasi 6; tutte caratteristiche che la rendono una perfetta compagna dissetante per i giorni più caldi dell'anno, sempre che vi piacciano le spremute d'agrumi.
Formato: 33 cl., alc. 5.9%, IBU 60. lotto 27, imbottigliata 03/2014, scad. 03/2015, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).

lunedì 7 luglio 2014

Mikkeller - Prairie American Style

La polemica birrifici vs. beerfirm (birrai senza impianti) vi coinvolge? Bene, niente di meglio allora di una collaborazione tra due birrai senza impianti, che si fanno produrre le ricette in giro per il mondo. Ecco l'incontro tra lo "zingaro" più famoso al mondo, il danese Mikkeller, e Prairie Artisan Ales, progetto statunitense (Tulsa, Oklahoma) fondato dai fratelli Chase e Colin Healey. Ma mentre Mikkeller continua ad inaugurare bar tra Scandinavia e Stati Uniti, Prairie dopo qualche ritardo è finalmente riuscita ad aprire le porte del proprio birrificio di Tulsa, a dicembre 2013. La maggior parte della produzione continua ad essere "appaltata" presso la Choc Brewery di Krens, mentre i nuovi impianti sono soprattutto destinati ad alimentari i programmi di invecchiamento in botte e la tap room.
A settembre dello scorso anno Mikkeller e Chase Healey si trovano presso gli impianti di De Proef, ormai una seconda casa per il danese, a dare vita ad una collaborazione tra due birrai (a quel tempo) senza impianti.
Il (poco originale) nome scelto è American Style, con un'etichetta che fa il verso alla celebre copertina di Born in the U.S.A. di Bruce Springsteen, una fotografia di Annie Leibovitz; al posto del cappello da lavoratore, nella tasca posteriore dei blue jeans c'è un apribottiglie; gli artefici sono Keith Shore, autore della maggior parte delle etichette di Mikkeller, e di Colin Healey di Prairie. La birra è una India Pale Ale la cui ricetta prevede malti Pilsner, Munich I e Cara-Red, avena e luppoli Citra, Nugget, Saaz, Centennali e Columbus; la fermentazione avviene esclusivamente utilizzando Brettanomiceti ma non si tratta dei ceppi Lambicus o Bruxellensis (responsabili delle tipiche note "funky", rustiche o "puzzolenti") ma di quello Claussenii, dal profilo aromatico molto più "gentile"  di frutti tropicali.
Nel bicchiere si presenta di color oro antico, limpido; la schiuma che si forma è un po' grossolana e biancastra, quasi pannosa ed ha una buona persistenza. Il naso è effettivamente una piccola macedonia di frutta tropicale; non è freschissimo (la bottiglia ha ormai un anno di vita) ma mantiene una buona pulizia ed una certa eleganza: dolci sentori di ananas maturo, mango, papaia, melone ed albicocca, che si ripropongono poi in bocca, su una base maltata di pane e con qualche nota di biscotto. Anche il gusto è pulito ed elegante, ma l'alcool (7.5%) fa sentire la sua presenza più del necessario andando un po' a limitare la facilità di bevuta. Il corpo è medio, le bollicine non sono molte, e la birra rimane morbida e gradevole in bocca. L'amaro (erbaceo ed un po' terroso) non "morde" molto e piuttosto che caratterizzare la bevuta va a bilanciare il dolce della frutta tropicale. Il risultato è una birra abbastanza piaciona e ruffiana, pulita e ben fatta che però sembra quasi specchiarsi in sé stessa senza regalare molte emozioni a chi (seppur con gusto) la beve.
Formato: 75 cl., alc. 7.5%, IBU 50, scad. 28/11/2016, pagata 12,00 Euro (beershop, Italia).

venerdì 4 luglio 2014

Brewfist Bionic Celebration IPA

Per celebrare il primo milione di litri prodotti, il birrificio Brewfist di Codogno (Lodi) realizza la Bionic Celebration IPA. Nessuna ricetta speciale o particolare, quindi, ma "soltanto" una nuova American IPA che viene presentata al Terminal 1, la "tap room" del Birrificio il 22 Febbraio scorso. La Bionic - non so se si tratti di una birra "one shot" o se sarà ripetuta in futuro - va così ad affiancare le altre IPA già prodotte: Burocracy, Spaceman e Space Frontier (in collaborazione con To Øl). 
Pale, Crystal, Monaco, Pale Chocolate e Melanoidinico sono i malti utilizzati, mentre i luppoli sono Simcoe e 366, quest'ultimo se non erro da poco rinominato Equinox ed incontrato nel bicchiere giusto qualche giorno fa nella Hop Art del Birrificio Rurale. 
Si presenta di colore ambrato scarico, con riflessi ramati; la schiuma ha una buona persistenza, e di colore ocra, cremosa e compatta. Non è indicata la data d'imbottigliamento, ma essendo stata presenta a fine Febbraio si tratta di una bottiglia con circa quattro mesi di vita alle spalle; l'aroma è pulito ed abbastanza intenso, con sentori di pompelmo e frutti tropicali (melone e ananas) in primo piano, accompagnati da qualche nota di aghi di pino e di cipolla. Quest'ultima è abbastanza evidente a birra appena versata, andando poi piano piano quasi a scomparire con il tempo.  
Al palato si rivela scorrevole e morbida al tempo stesso, con un corpo medio ed una presenza di bollicine abbastanza scarsa. S'inizia con note di biscotto e, lievi, di caramello, per passare poi al pompelmo e alla frutta tropicale; l'introduzione è dolce ma breve, perché arriva piuttosto in fretta un'ondata amara molto intensa, resinosa, vegetale, pungente, che morde dapprima ai lati della lingua per impossessarsi poi di tutto il palato. La chiusura è abbastanza secca, quasi una breve pausa necessaria per poter poi assaporare un lunghissimo retrogusto amaro, quasi balsamico, davvero molto intenso. Non è indubbiamente una birra da bevuta seriale, con il suo elevato livello di amaro, ma è comunque molto godibile, grazie alla sua relativamente giovane età che rende le note vegetali e resinose ancora pungenti. Il rischio di diventare una "mappazza" con l'inevitabile trascorrere dei mesi è secondo me davvero concreto, quindi il consiglio è di berla il più in fretta possibile, consiglio che ovviamente vale per la maggior parte delle birre. E' una IPA molto poco ruffiana che picchia duro pestando forte sul pedale dell'amaro senza nessun ammiccamento a chi beve; pulita, ben fatta, ma personalmente non sento la necessità di riempire subito la pinta dopo averla svuotata.
Formato: 33 cl., alc. 6%, lotto 4132, scad. 30/03/2015, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

giovedì 3 luglio 2014

Maxlrainer Aiblinger Schwarzbier

Bad Aibling è una piccola città (18.000 abitanti) della Baviera meridionale che si trova ad una quarantina di chilometri da Monaco; deve la sua notorietà alle terme che ospita; fu il medico Desiderius Beck  ad  iniziare a praticare nel 1845 dei trattamenti con i fanghi locali. Cinquant’anni dopo, nel 1895, Aibling fu rinominata in Bad (= terme) Aibling. Perché dovrebbe interessare questa località tedesca ad un appassionato di birra? Beh, ci potreste pianificare una vacanza termale di qualche giorno approfittando del fatto che a soli cinque chilometri di distanza c’è il castello di Maxlrain, con il suo birrificio - e ristorante -  annesso, del quale vi ho parlato in questa occasione. E proprio a Bad Aibling  la Schlossbrauerei Maxlrain dedica la propria Schwarzbier, chiamandola appunto Aiblinger (ovvero “di Aibling”); in etichetta un dettaglio dal dipinto "La coppia improbabiledel pittore tedesco Wilhelm (Maria Hubertus) Leibl.
Magnifica nel bicchiere, di un intenso color marrone che regala delle bellissime e limpide sfumature ambrate e rosso rubino; la testa di schiuma è solida e  “croccante”, quasi pannosa, molto persistente.  L’aroma è pulito ed elegante, e per restare in Germania i primi profumi che vengono subito in mente sono quelli del pumpernickel, del pane nero, ma ci sono anche frutti di bosco, prugna e qualche lieve nota di cioccolato. 
Molto bene in bocca; è una Schwarzbier poco carbonata, dal corpo medio-leggero, che abbina un'ottima scorrevolezza ad una morbidezza palatale molto gradevole. Ritroviamo il pane nero e la prugna, con note di biscotto, caramello e liquirizia. Il grande equilibrio della tradizione tedesca si traduce in un bel dialogo tra il dolce  della frutta (più evidente quando la birra si scalda) e l'amaro delle tostature e del (lieve) terroso. Il retrogusto è abboccato, con caramello, prugna e qualche lieve tostatura. Molto pulita, facilissima da bere, sorprende per l'intensità abbinata ad una gradazione alcolica modesta (5%); solo apparentemente semplice, svela una bella complessità fatta di tante piccole ma interessanti sfumature. Un'ottima Schwarzbier, che in Germania si trova ad un rapporto qualità prezzo commuovente che per la birra italiana è un lontanissimo miraggio. Ma anche limitando il confronto alla Germania, molto meglio questa Maxlrainer che le "nuove" IPA/APA e Craft Bier varie tedesche che viaggiano a 2-3 euro per soli trentatré centilitri. Per adesso, mi sembra che la tradizione continui ad essere molto superiore all'innovazione.
Formato: 50 cl., alcol 5%, lotto 11:38, scad. 23/12/2014, pagata 0,94 Euro (supermercato, Germania).

mercoledì 2 luglio 2014

Kill Me in The Morning

Il 21 Aprile 2012 viene inaugurato a Reggio Emilia il Wild Hops Beershop;  non è a dire il vero il primo negozio dove si può comprare birra a Reggio, e per par condicio quindi devo citare anche tale “Il Birraio -  Da Carletto birraio maledetto”. Il 10 Novembre 2013 Wild Hops raddoppia con l’inaugurazione di un secondo punto vendita a Rubiera, cittadina ancora in provincia di Reggio Emilia ma ad appena una decina di chilometri dal centro di Modena, città attualmente priva di un vero e proprio beershop, dopo che lo “storico” Maltomania  si è da qualche tempo trasformato in un locale dove bere principalmente birre alla spina, abbandonando le vesti di un classico beershop. Informazioni che interessano principalmente chi abita in quelle zone, mentre per tutti gli altri non resta che parlare di birra. 
A Marzo 2014, infatti il Wild Hops realizza una birra per celebrare il suo secondo compleanno presso il Birrificio Oldo di Cadelbosco (Reggio Emilia); alla creazione lavorano Francesco Racaniello (birraio di Oldo), l’homebrewer Raffaele Ferrarini e Giovanni Iotti, proprietario del Wild Hops. Putroppo l’etichetta della birra si è rovinata staccandola, e mi riesce difficile riportare gli ingredienti utilizzati; si tratta comunque di un “ibrido” che vede l’utilizzo di malti tedeschi ed inglesi (Pils e Maris Otter), orzo, luppoli americani, tedeschi ed inglesi (Chinook, Perle, EK Goldings), lievito belga. La birra, chiamata Kill Me in The Morning, viene presentata il 19 Aprile 2014 nel punto vendita di Reggio Emilia, ed il sabato successivo, il 26, in quello di Rubiera. Molto divertente l’etichetta, che narra la storia di un omicidio avvenuto proprio all’interno del beershop: sul pavimento, la sagoma del cadavere di una donna che ancora regge in mano una bottiglia di birra. Dalla surreale conversazione (in dialetto) riportata in etichetta tra gli investigatori ed il proprietario del beershop si apprende che la ragazza è stata vittima di una birra “pericolosa”; nonostante gli avvertimenti ricevuti, la ragazza si trangugiata una bottiglia dopo l’altra di una irresistibile “bionda” fino a restarne uccisa. 
All’aspetto è di color arancio opaco, e forma una enorme ed esuberante testa di schiuma bianca e pannosa, che obbliga ad un lunga attesa prima di riuscire a completare il “servizio” nel bicchiere. Il naso è abbastanza pulito ed ha una discreta intensità che richiama effettivamente il Belgio: banana acerba e pera, una lievissima pepatura, sentori di arancio e di limone. In bocca c’è una base di pane e di crackers che lascia presto il posto agli agrumi (pompelmo, mandarino, lime). C'è alternanza  tra le note dolci della polpa e quelle più amare della scorza, fino ad un finale secco con una bella progressione amara tra note erbacee e di scorza d’agrumi. E’ leggera e vivacemente carbonata, abbastanza pulita, gradevole e scorrevole, con un aroma volutamente poco modaiolo e lontano da esotismi tropicaleggianti che però - nell'intensità - risulta un po’ sottotono. Il risultato di questo ibrido è in sostanza una Belgian Ale moderna e molto luppolata, facilissima da bere e dal buon potere dissetante e rinfrescante, nonostante risulti un pelino “slegata” in bocca quando la temperatura si alza. 
Un debutto riuscito, una birra molto gradevole che ha già un seguito: qualche mese fa è infatti stata realizzata la Kill Me in The Morning II, sempre presso il Birrificio Oldo, che verrà presentata per la prima volta proprio in questi giorni in occasione della manifestazione Birreggio.
Formato 33 cl., alc. 5.3%, lotto AD014, scad. 31/12/2014, omaggio del beershop.

martedì 1 luglio 2014

Birrificio Rurale Hop Art 03

La Hop Art del Birrificio Rurale nasce a settembre del 2011; si tratta di una birra “pensata per i mesi più caldi dell’anno”  che viene però stranamente presentata quasi ad inizio ottobre (!) in contemporanea presso 5 locali del nord Italia: Bar in Piazza (Carimate -CO), History Pub (Binasco -MI), Il Bardo (Carate Brianza -MB), Locanda del monaco felice (Suisio -BG) e Sherwood Pub (Nicorvo -PV).L’idea è quella di realizzare una birra estiva “dedicata di anno in anno al miglior luppolo trovato durante le selezioni dei nuovi raccolti che fatte presso i produttori”;  non è riferita ad uno stile fisso ma varia in funzione del luppolo scelto, il suo profilo rimane sempre quella di una birra rinfrescante e beverina, mai eccessiva e caratterizzata dalla parte più nobile del luppolo scelto". 
Se non erro la prima versione del 2011 era un Golden Ale luppolata con Ahtanum e Sorachi Ace. Quest’anno la Hop Art è arrivata invece con il giusto tempismo, debuttando a metà maggio nel corso dell’evento “Ipa Afternoon”  organizzato proprio presso la sede del birrificio; per la prima volta la Hop Art viene anche distribuita in bottiglia, anziché solo in fusto. I luppoli selezionati per questa "Session IPA" edizione 2014 sono  Mosaic ed  Equinox. Si  tratta di due varietà di luppolo sviluppate dalla Hop Breeding Company (Yakima Valley): il Mosaic è un luppolo d’aroma sviluppato “dall’incrocio” di Simcoe e Nugget, e commercializzato nel 2012.  L’Equinox è invece in giro già da qualche tempo con il nome (ancora sperimentale) di HBC 366, e solo da quest’anno, se non erro, è stato ufficialmente (ri)nominato. 
Si presenta di color oro, un po’ pallido e velato, con un bel cappello di schiuma bianca, fine e cremosa, dalla buona persistenza. La birra ancora fresca (presentata il 17 Maggio) regala un gran bell’aroma, fresco e molto pulito, pungente: sembra quasi d’immaginare una mano che strizza alcuni agrumi direttamente nel bicchiere. Ecco pompelmo, limone e lime, assoluti protagonisti del palcoscenico; è solo quando la birra si scalda che riescono ad emergere sentori meno aspri e più dolci come la polpa dell’arancia, l’ananas, il lampone. In bocca è leggera ma non sfuggente, non molto carbonata:  lievissima la base maltata (crackers) e gusto che fa -  se possibile - ancora meno concessioni dell’aroma al dolce.  C’è tanto pompelmo e lime, con un grande effetto dissetante e rinfrescante, e bisogna di nuovo attendere il caldo per avvertire qualche lieve sfumatura tropicale di ananas e di pesca); la birra è abbastanza ruffiana, molto pulita e piuttosto intensa, se consideriamo che la gradazione alcolica (4.4%) rimane entro la soglia delle “session beers”. Sfacciatamente estiva, profumatissima, chiude secca con l’ovvio carico “zesty” di scorza di pompelmo, lime e limone.  Si beve senz’altro molto velocemente, ma questa sua caratterizzazione molto spinta ed agrumata rischia di diventare un po’ un limite alla sua  “sessionabilità” :  la prima pinta evapora benissimo, ci si sente pienamente dissetati e soddisfatti, ma a bicchiere vuoto io inizio ad avverte la necessità di passare a qualcos’altro che non sia un succo di agrumi. Detto questo, mettetela senz’altro sulla lista degli acquisti da fare per l’estate 2014 perché Hop Art rinfrescherà in modo definitivo i vostri momenti più caldi.
Formato: 33 cl., alc. 4.4%, lotto 102, scad. 05/02/2015, pagata 3,80 Euro (foodstore, Italia)