lunedì 25 maggio 2020

Firestone Walker 21 (XXI Anniversary Ale)


Nel 2017 il birrificio californiano Firestone Walker festeggiava il proprio ventunesimo compleanno: sul blog lo abbiamo incontrato già molte volte. Lo fondarono nel 1996 Adam Firestone e David Walker a Paso Robles, Contea di Santa Barbara, all’interno dell’azienda vinicola Firestone Vineyard LLC di proprietà di Anthony Brooks Firestone, padre di Adam nonché ex politico californiano. Nel 2001 Firestone acquistava gli edifici della SLO Brewing Company di Paso Robles e vi trasferiva il proprio impianto: alla SLO lavorava il birraio Matt Brynildson che fu confermato in organico con una piccola quota di partecipazione societaria. Brynildson aveva lavorato per cinque anni alla Goose Island di Chicago e le sue conoscenze sul metodo di produzione della Bourbon County Brand Stout furono determinanti per il successo che Firestonepoi ottenne grazie alle sue birre barricate.  Nel 2015 i belgi della Duvel Moortgat rilevarono per una cifra mai rivelata la maggioranza di Firestone e diedero il via ad un ambizioso piano d’espansione culminato con la costruzione di una seconda location a Buellton dedicata alle birre acide e di un brewpub a Venice Beach (Los Angeles). 
Nell’autunno del 2006 il birrificio celebrava il suo decimo anniversario mettendo in vendita un’American Strong Ale chiamata semplicemente “X”, un blend di alcune birre invecchiate in botte. Queste “Blending Sessions”  sono ancora oggi un evento ricorrente ogni anno nel corso del quale a Paso Robles vengono invitati produttori di vino californiani ed altri esperti di blending. I partecipanti sono suddivisi in squadre che hanno il compito di assemblare il proprio blend utilizzando le centinaia di botti presenti nelle cantine; i blend vengono poi votati da tutti i partecipanti ed il vincitore  diventa la birra dell’anniversario di Firestone Walker. 


La birra.
Il 22 agosto del 2017 furono convocati ventisette produttori di vino col compito di dare forma alla ventunesima Anniversary Ale; la competizione fu vinta dalla squadra formata da Jordan Fiorentini e Kyle Gingras della Epoch Estate Wines di Templeton e da Anthony Yount della Denner Vineyards di Adelaide, poco distante da Paso Robles. Per il loro blend utilizzarono il 42% di Velvet Merkin, una stout all’avena (8.5%) invecchiata in botti di bourbon, il 18% di Parabola, (13.1%), imperial stout invecchiata in botti di bourbon e in botti di rovere nuove, il 17% di Stickee Monkey, una quadrupel (12.5%) invecchiata in  botti di bourbon e di brandy, il 17% di Bravo, imperial brown ale (13.5%) invecchiata in botti di bourbon e il 9% di Helldorado, blonde barley wine (13.5%) invecchiato in botti di rum. 
La Firestone Walker XXI segnò anche il debutto del nuovo formato da 35,5 centilitri che sostituiva quello da 65:  una scelta motivata dalla necessità di distribuirla a più persone e di permettere alla gente di consumare una birra dall’elevato contenuto alcolico in solitudine, senza doverla necessariamente condividere con qualcuno. 
Il suo colore ricorda la tonaca del frate, la schiuma è di dimensioni abbastanza modeste ed ha scarsa ritenzione, benché risulti cremosa e compatta. Al naso domina la frutta sotto spirito, bourbon nello specifico: uvetta, prugna e frutti di bosco. Ma ci sono anche suggestioni di porto, cocco e qualche lieve accenno meno piacevole di cartone bagnato. La bevuta è coerente con l’aroma e non divaga altrove: frutta sotto spirito e bourbon disegnano un percorso lineare arricchito da suggestioni di porto e, proprio a fine corsa, di cioccolato. Mi sembra ci sia anche un po’ di melassa di zucchero di canna, ma potrebbe essere una mia forzatura sapendo che nel blend c’è anche una percentuale di birra invecchiata in botti di rum. Spesso la mente trova anche quello che non c’è, soprattutto se lo cerca in una birra piuttosto dolce che viene però ben asciugata da bourbon e legno. Da manuale il lungo retrogusto morbido di bourbon. Quello che c’è nel bicchiere si sorseggia con grande soddisfazione in tutta calma nel corso di una serata: come altre produzioni passate in botte recenti di Firestone anche questa XXI non riesce a raggiungere profondità abissali, ma avercene a disposizione di birre come questa!
Formato 35,5 cl., alc. 11,8%, imbott. 10/2017, prezzo indicativo 12-18 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 20 maggio 2020

DALLA CANTINA: Toccalmatto Vecchio Bruno 2015


One-shot, collaborazioni, special editions: fino a qualche anno fa questo era il pane quotidiano del birrificio Toccalmatto, sempre pronto ad incalzare i bevitori con qualcosa di nuovo da provare. Nel 2017 il birrificio di Fidenza (PR) guidato da Bruno Carilli ha stretto una importante partnership con la beerfirm belga Caulier e da allora la propria strategia commerciale è cambiata . Fu lo stesso Carilli ad ammetterlo in un’intervista a Fermento Birra di quel periodo: “non puoi continuare ad inseguire un mercato schizofrenico, modaiolo, publican volubili. Vedo qualche birrificio seguire trend produttivi effimeri, fare birre modaiole, ma è una politica cieca che non paga, tutt’altro. Te lo dice uno che ha lanciato mode, che ha fatto molte one-shot, ma poi le birre che vendi sono altre, devi creare degli standard e puoi farlo anche con birre molto caratterizzate, solo che devi venderle”.  
Va bene divertirsi, va bene far parlare di sé ma alla fine del mese bisogna fatturare e l’impianto deve funzionare, soprattutto se di grosse dimensioni.  Meno varietà e più quantità, sembrerebbe essere questo l’unico modo per sopravvivere: “rimanere in una fascia intermedia a livello dimensionale è pericolosissimo. Il mercato è cambiato e sta cambiando. Noi ci siamo salvati perché abbiamo investito in maniera assennata e graduale. Arrivi però ad un certo punto che devi cambiare il mercato, la distribuzione, e da solo non puoi farcela. Secondo me chi produce tra i 1000 e i 7000hl annui rischia molto”. 
Tutti questi fattori hanno determinato il rinvio di quel Progetto Cantina che Toccalmatto aveva annunciato nel 2015 quando aveva appena inaugurato il nuovo impianto e voleva trasformare i locali adiacenti allo spaccio, che ospitavano l’impianto vecchio, in una “barricaia dove poter iniziare a fare delle birre acide con una forte impronta personale e italiana. Lo stabile sarà diviso in due aree (entrambe a temperatura controllata), una destinata alle Farmhouse Ales e l’altra a birre acide ispirate ai Lambic”.


La birra.

Proprio in quell’anno, esattamente a giugno 2015, veniva messa in vendita la Vecchio Bruno, che veniva presentata così:  “abbiamo pazientemente aspettato qualche anno, e finalmente è pronta. Ispirati alle Flemish Red e all’Aceto Balsamico Tradizionale, siamo partiti dalla Saba, il tradizionale mosto cotto emiliano, e l’abbiamo lasciata in botte a sviluppare la sua spiccata acidità acetica. Vogliamo pensare sia la capostipite dello stile Sour Emilian Red Ale”.  La bella etichetta è stata realizzata dal grafico Antonio Bravo: a lui il compito di raffigurare il Vecchio Bruno (traduzione storpiata di Oud Bruin) mentre si aggira furtivo tra le strade del centro storico di Parma. Un esperimento che credo non fu mai più ripetuto da allora e il sogno delle Sour Emilian Red Ale è stato riposto nel cassetto; andiamo comunque ad assaggiare una di quelle bottiglie che ho conservato per un lustro in cantina.

Alla vista predomina il color rubino con qualche nervatura ambrata: la schiuma è cremosa ma piuttosto rapida a scomparire. Anche il naso si tinge di tonalità rossastre: ciliegia, marasca, amarena cotta, aceto balsamico e frutti di bosco sono accompagnati da note legnose e ricordi di una umida e polverosa cantina. A cinque anni dalla messa in bottiglia la carbonazione è piuttosto vivace e la bevuta è ancora giovane e scattante:  il dolce di zucchero bruciato, mora e mirtillo, ciliegia sciroppata sono contrastati dall’asprezza dell’amarena e di altri frutti rossi, da sbuffi acetici (balsamici) che anticipano un finale vinoso, piuttosto secco, chiuso dall’amaro dei tannini del legno. E’ solo qui che questa birra rinfrescante presenta il conto della propria gradazione alcolica (7.5%): gran bella bevuta, complessa ma di facile fruizione, un’altalena tra dolce e aspro/acetico. A voler essere pignoli qualche passaggio è un po’ troppo brusco ma mi piace considerarlo un richiamo a quel carattere rustico e ruspante che in una Flanders Red autentica (e non addomesticata dal “progresso”  à la Rodenbach) ci dovrebbe sempre essere. La Vecchio Bruno è invecchiata benissimo e sono convinto che lo avrebbe potuto fare ancora per quale anno: peccato che Toccalmatto sia ora impegnato su altri fronti e abbia un po’ lasciato da parte le birre di nicchia come queste.

Formato 75 cl., alc. 7.5%, lotto 11079, scad. 31/12/2025, prezzo indicativo 16,00 euro (birrificio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 18 maggio 2020

Lervig / Evil Twin Big Ass Money Stout 2


Qualche anno fa la birra artigianale era caratterizzata dalla moda dello  “strano”: si trattava di produrre birra aggiungendo gli ingredienti più improbabili e inusuali. Trovare burro d’arachidi, marshmallow, cocco o sciroppo d’acero in un birra non era più una notizia e ovviamente quando tutti “lo fanno strano” è necessario alzare l’asticella per farsi notare ed urlare più forte degli altri. Nelle birre iniziarono a finirci spaghetti, hot dog e hamburger, pancetta, aragoste, testicoli e cervelli di animali: ingredienti che hanno chiaramente esaurito in fretta il loro effetto sorpresa, forse neppure il tempo di una one-shot, e che oggi sono stati sostituiti dai più rassicuranti frutta e dolci (Milkshake IPA, Pastry Stout). 
Nel 2015 eravamo in pieno delirio dello strano e Lervig ed Evil Twin diedero il loro contributo alla causa: si trattava curiosamente di un birrificio norvegese guidato da un americano, Mike Murphy, e da una beerfirm americana fondata da un danese, Jeppe Jarnit-Bjergsø.  Murphy ricorda: “Jeppe è pazzo e l’idea era di fare qualcosa di stupido assieme. Mi chiese quale fosse la specialità gastronomica norvegese e io gli dissi che la gente mangiava moltissima pizza surgelata della Grandiosa. Cinque milioni di norvegesi mangiano circa 40 milioni di pizze surgelate all’anno. Lui mi chiese ‘ma che cos’altro hanno in abbondanza?’ e io gli dissi ‘i norvegesi hanno un sacco di soldi!’. La pizza surgelata non è terribile, ma se io avessi tutti quei soldi li spenderei in altre cose”. 
Pizza e soldi furono dunque per essere gli ingredienti scelti per fare un po’ di clamore attorno ad una delle tante potenti imperial stout (17.5%) che verrà prodotta in Norvegia sugli impianti di Lervig. La pizza nella birra a dire il vero non è una novità: nel 2006 ci aveva pensato Tom Seefurth della Pizza Beer Company a “inventare” la Mamma Mia! Pizza Beer; non ho invece trovato notizie sull’utilizzo dei soldi. Alla fine di ottobre 2014 in Norvegia si mise in produzione la Big Ass Money Stout: “ho utilizzato una Corona Norvegese per ogni litro, in totale 6.000 corone, circa 600 euro. Poi ho aggiunto un paio di pizze surgelate della Grandiosa al prosciutto e peperoni. L’obiettivo non era tanto quello di far sentire il gusto pizza ma di scherzare un po’ sulla cultura; anche se qualcuno si è sentito offeso credo di aver portato alla luce il “problema” della pizza surgelata che hanno i norvegesi. I luppoli si usano in  dry-hopping per ottenere profumi di luppolo fresco; ci chiedevamo se fosse accaduto lo stesso anche con i soldi e se si sarebbe sentito il loro odore”.

La birra.
La Big Ass Money Stout è stata poi replicata nel 2017 in Norvegia e poi nel 2018 negli Stati Uniti sugli impianti della Westbrook, birrificio al quale Evil Twin appalta quasi tutte le birre scure. La gradazione alcolica è variata leggermente di volta in volta: questa Big Ass Money Stout 2 del 2017 è  arrivata al 16%.

Nel bicchiere è completamente nera e la sua viscosità è evidente alla vista, non bisogna nemmeno assaggiarla; si forma poca schiuma che scompare quasi subito. Per fortuna non c’è traccia di pizza o soldi, i profumi sono quelli di una imperial stout massiccia  che ovviamente sacrifica un po’ la finezza: uvetta, prugna, dark fruits, note terrose, di tabacco e di cenere, melassa e liquirizia, più di un richiamo ai vini fortificati. Al palato è masticabile; corpo pieno, poche bollicine, densa e viscosa, morbida, altro non consente che il lento sorseggiare. La bevuta è tutt’altro che impervia: la gradazione alcolica è difficile da celare ma in questo caso è tenuta al guinzaglio con successo. C’è tanta frutta sotto spirito, melassa, liquirizia, fruit cake e un finale in crescendo nel quale ricordi di porto sono accompagnati da lievi accenni di cioccolato fondente, caffè e tostato. Non sono certo eleganza, precisione e finezza le doti da chiedere ad un pachiderma: la Big Ass Money Stout è una birra ingombrante ma soddisfacente, intensa, calda e suadente. Dietro alla fuffa del marketing c'è una sostanza piuttosto classica: imperial stout molto alcolica, tanta frutta sotto spirito, tostature e caffè che gioco forza rimangono confinate molto nello retrovie. Pensate alle grandi stout che produce Bruery o alla World Wide Stout di Dogfish: non le berreste tutti giorni ma occasionalmente ci si passa volentieri una serata assieme.
Formato 33 cl., alc. 16%, imbott. 04/04/2017, scad. 04/04/2027, prezzo indicartivo 8 euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 14 maggio 2020

Alder Beer Co.: Gretna, Green Lobster # 2 & Death On 2 Legs


Prima homebrewer, poi collaboratore occasionale di un birrificio, birraio ed infine imprenditore: questo il percorso fatto in una decina d’anno da Marco Valeriani, nome che tra gli appassionati non ha certo bisogno di presentazioni. Per i profani cerco di riassumere in breve:  nel 2008 Valeriani partecipava al “Concorso per Homebrewers XMAS” organizzato da Unionbirrai presso il Birrificio Italiano, la sua Double IPA si posizionava agli ultimi posti della classifica della giuria ma ai primi di quella popolare. L’anno successivo l’homebrewer iniziava una collaborazione saltuaria con il Birrificio Menaresta: nascevano La West Coast Double IPA La Verguenza  (a burlarsi proprio della “vergogna” dell’ultimo posto di quel concorso), le sue varianti Summer e XMAS, la Black IPA Due di Picche e la Hoppy Koelsch GIB, chiamata con il suo stesso soprannome. 
Valeriani non impiegò molto tempo a scalare le classifiche di gradimento nazionali quando si parla di luppolo: arrivarono le prime medaglie nei concorsi di Unionbirrai ed ADB e a partire dal 2012 il birraio entrò in pianta stabile nell’organico di Menaresta per restarvi sino alla fine del 2014 quando si trasferì a pilotare l’ammiraglia del nuovissimo birrificio Hammer, un progetto ambizioso con un impianto importante (20 hl) che debuttava a maggio 2015. Per Valeriani era la definitiva consacrazione che lo porterà, caso unico sino ad ora, a vincere per due volte il titolo di Birraio dell’Anno (2016 e 2018): ma in quel 20 gennaio 2019 in cui alzava al cielo il secondo trofeo iniziavano a circolare le voci, confermate a stretto giro di posta, del suo congedo da Hammer per mettersi finalmente in proprio e aprire un brewpub in Brianza.  E’  la sfida più difficile, quella in cui non basta essere un ottimo birraio ma bisogna anche essere un buon imprenditore, e soprattutto “la realizzazione di un sogno che ho da quando ho iniziato a fare birra anni fa. Ci ho pensato sempre in questi anni, ma fino a oggi non mi ero mai sentito pronto, sentivo di non possedere la necessaria esperienza. Ho preferito farmi le ossa, imparare, viaggiare molto, conoscere tanti birrai e visitare tanti birrifici nel mondo e scambiare idee ed opinioni”. 
Tutto era pronto da luglio ma la burocrazia ha fatto slittare l’inaugurazione della Alder Beer Co. al 12 ottobre: siamo a Seregno, una ventina di chilometri a nord di Milano. Valeriani dispone dello stesso impianto EasyBrau Impiantinox che utilizzava da Hammer, ma dalla capacità dimezzata (10 ettolitri) e con le dovute personalizzazioni, affiancato da sei maturatori da 2500 litri e due più piccoli da 1000. Valeriani è socio assieme al padre ed al fratello: “Alder è una parola inglese che significa ontano, un albero che qui in Brianza è molto diffuso… ma se devo dirla tutta la scelta è stata quasi casuale. Volevamo chiamarlo Valeriani ma, anche dopo diverse prove grafiche, non ci ha convinto fino in fondo. Dopo due mesi di ricerca è spuntata questa parola, ed è stato un caso che avesse anche un significato legato al territorio. Ma mi piace la pronuncia, è una parola inglese, ma sembra un po’ tedesca, e rispecchia le due filosofie produttive del birrificio: Lager e IPA, mondo tedesco e mondo anglofono. Poi il nome è semplice, facile da pronunciare e da scrivere, ed è corto”. 
La taproom con nove spine e una quarantina di posti a sedere tra banconi e sgabelli è il cuore di un brewpub ancora senza cucina:  la sala produzione è a vista e per sfamarsi si può ricorrere al delivery o ai take away nei dintorni.  Alder punta a vendere il più possibile tramite la taproom e distribuire personalmente i fusti, mentre le lattine sono disponibili solo per l’acquisto in loco: “vorremmo dare unicità al posto, se qualcuno vuole la lattina se la viene a prendere in birrificio. L’idea, quantomeno iniziale, è di non avere distribuzione, ma di vendere tutto direttamente, considerando anche i volumi esigui che produrremo. Voglio andare solo dai clienti che rispettano il prodotto e che sanno come trattarlo.  Per questo all’inizio farò anche il commerciale, perché conosco bene il mercato, i clienti. Voglio sapere dove va la mia birra, chi la vende e come”.   Non più birraio,  quindi ma responsabile di produzione a supervisionare un assistente nell’attesa che il  giro d’affari consenta di assumere un birraio esperto:  per Marco Valeriani è davvero una sfida che lo coinvolge a 360 gradi.

Le birre.
L’emergenza Covid-19 ha costretto Alder a rivedere i propri piani per sopravvivere: chiusa la taproom a tempo indeterminato, chiusi pub e locali a cui vendere i fusti, le lattine al momento sono l’unica opzione per restare a galla e il birrificio ha iniziato a consegnarle a domicilio nei dintorni e a spedirle in tutta Italia. 
Gretna (5.3%) è una delle quattro birre disponibili sin dal giorno di debutto di Alder: un’American Pale Ale prodotta con Citra e Simcoe, malti Golden Promise, Pils e Monaco e lievito inglese.  Gli appassionati di Stephen King riconosceranno il nome della città immaginaria del Maine in cui fu ambientato il racconto La Vendetta di Culo di Lardo Hogan. Dorata, leggermente velata: al naso arrivano profumi di cedro, pompelmo, arancia, mango e pesca, qualche accenno floreale e resinoso/dank. Pulita ed elegante, scorre bene ma è forse dal punto di vista tattile un po’ più pesante del previsto: pane e cereali, un fruttato elegante che ammicca al tropicale, cedro, pompelmo e un finale abbastanza secco che si snoda su note resinose e vegetali. Semplice ma non per questo banale, la Gretna di Alder ha un bel carattere e una gran bella intensità: pochi fronzoli, moderna ma non modaiola. E’ una di quelle birre che potresti bere tutta la sera senza mai stancarti. 

Non so se ci sia di nuovo qualche legame con il Maine nel nome Green Lobster scelto da Alder per la propria serie di IPA sperimentali con la quale “testare luppoli sperimentali o miscele mai utilizzate”: il Maine è la patria delle aragoste ma anche parte di quel New England che negli ultimi anni ha stravolto il concetto di American IPA. Lo scorso febbraio aveva debuttato la Green Lobster #1  (malti Golden Promise, Pilsner e Cara, luppoli HBC522 e Mosaic) e ad aprile è arrivata la numero 2 (6.4%):  stesso parterre di malti ma diverso mix di luppoli: Nelson Sauvin, Simcoe e Mosaic. I maligni diranno “l’ennesima IPA”? Vero, ma si sa che oggi il mercato ha costantemente bisogno di novità da dare ai clienti.  Il suo look si mantiene però a debita distanza dalla moda e c’è sempre un pezzo di California West Coast ad ispirare la mano di Valeriani. Chi fa l’equazione New England = torbidi succhi di frutta sbaglia o non hai mai assaggiato The Alchemist, ad esempio. E la Green Lobster è infatti dorata e velata. L’aroma è pulito ma non molto intenso e ci mette un po’ ad aprirsi: in primo piano agrumi, pompelmo, mango e pesca ma il Nelson Sauvin le dona anche i suoi tipici richiami all’uva bianca e al vegetale. A bollire nella pentola c’è finita anche dell’avena ed il mouthfeel ne trae vantaggio: IPA molto morbida, leggermente cremosa. Pane e cereali, miele, frutta a pasta gialla, accenni di uva e un bel finale amaro resinoso-vegetale caratterizzano una bevuta intensa, pulita e ben bilanciata che ho dovuto però far scaldare un po’ più del dovuto per apprezzarla a pieno. 

Chiudiamo in crescendo con la Double IPA della casa che ha debuttato lo scorso novembre. Valeriani scherza col suo recente passato chiamando di nuovo in causa la musica dei Queen nel cimentarsi nello stile che lo ha reso famoso in Italia: dopo la Killer Queen (8%)  fatta da Hammer ecco la Death on 2 Legs (8.2%), brano contenuto nell’album A Night at the Opera.  Se Simcoe, Chinook, Centennial, Columbus, Citra ed Amarillo erano i protagonisti della Killer, la nuova Double IPA di Alder mette in campo “solo” Simcoe, Citra e l’ormai irrinunciabile Mosaic. Il suo color oro leggermente anticato è quasi limpido, mentre il naso è un po’ incerto e sottotono. Mango, passion fruit, dank, un po’ di cereale: un bouquet gradevole ma poco ampio e soprattutto privo di quella esplosività che vorresti trovare in una DIPA. Anche in bocca mi sembra una birra che viaggia con il freno a mano un po’ tirato: miele, pane, un leggero tropicale e un amaro resinoso di buona intensità e durata. Rispetto ai miei ricordi della Killer Queen l’amaro è più predominante, la chiusura è ben attenuata, l’alcool è sotto controllo e anche qui il riferimento è ovviamente la West e non la East Coast statunitense.  C’è il tipico equilibrio della scuola Valeriani ma nel complesso trovo questa Death on 2 Legs un po’ timida e con poco carattere, nonostante sia gradevole e abbia solo un mese di vita:  forse un lotto o una lattina non al massimo della forma? 
Le aspettative su Alder sono alte, e non potrebbe essere altrimenti, soprattutto quando si parla di luppolo: equilibrio e pulizia sono le caratteristiche che accomunano queste tre birre (e che ogni birra al mondo dovrebbe possedere).  A poco più di sei mesi dall’inaugurazione il livello è indubbiamente alto ma c’è spazio per migliorare, e sarebbe strano il contrario.
Nel dettaglio
Gretna, 40 cl., alc. 5,3%,  lotto  14/04/2020 L072B, scad.  14/08/2020, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)
Green Lobster # 2, 40 cl., alc. 6.4%, lotto 09/04/2020 L052B, scad. 09/08/2020, prezzo indicativo 7.00 euro (beershop)
Death On 2 Legs, 40 cl., alc. 8.2%, lotto 02/04/2020 L050B, scad.  02/08/2020, prezzo indicativo 7.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 11 maggio 2020

Dark Horse Scotty Karate Scotch Ale - Bourbon Barrel Aged 2016


Il birrificio del Michigan Dark Horse è transitato sul blog più di una volta: la distanza geografica non mi permette ovviamente di berlo con regolarità ma tutte le volte che sono riuscito a farlo non sono mai  rimasto deluso, soprattutto per quel che riguarda le birre “scure”. Nel 1997 Bob Morse ed il figlio Aaron avevano riconvertito una vecchia stazione di rifornimento in disuso prima in un brewppub dallo scarso successo e dopo tre anni in un microbirrificio: spente le cucine, il birraio Brian Wiggs affiancava l’ex-homebrewer Aaron e per Dark Horse era l’inizio del successo e delle difficoltà di non poter soddisfare la richiesta dei clienti.  Nel terreno di proprietà adiacente alla taproom la famiglia Morse aggiunse un piccolo capanno/negozio dove comprare il merchandising del birrificio, uno studio di tatuaggi ed un negozio di skateboard, tutti distrutti in un incendio (doloso, pare) nel 2010. Vennero ricostruiti in un paio di mesi e furono affiancati da un General Store dove acquistare caffè, gelati e biscotti e da un’officina per riparare le motociclette.  La famiglia Aaron aveva creato una specie di mini centro commerciale, piuttosto rustico, dove la gente poteva trascorrere un’intera giornata sorseggiando le birre ai tavoli del beer-garden ed assistere anche a qualche concerto. La taproom diventò una piccola comunità frequentata da bikers che avevano la propria tazza personale appesa al soffitto e nel 2014 il canale History Channel aveva persino messo in onda la prima puntata di un reality show ambientato all’interno del birrificio, chiamato Dark Horse Nation
Fin qui tutto bene: ma il mercato della birra artigianale negli Stati Uniti è estremamente dinamico e tutti i birrifici storici sono andati, chi più chi meno, in difficoltà. Alla Dark Horse non hanno mai voluto seguire le mode e hanno continuato a fare le solite birre che hanno evidentemente perso attrattiva verso i clienti: anche le prime lattine sono arrivate con molto ritardo. Questi fattori, oltre ad evidenti errori nel management, portarono all’impressionante crollo dei volumi (-59%) con il quale si concluse il 2018. Aaron disse che importanti lavori di ristrutturazione e di ampliamento avevano portato a frequenti interruzioni della produzione, ma tra i forum degli appassionati iniziarono a circolare le prime voci che parlavano di problemi finanziari e conseguenti difficoltà nel pagare i fornitori delle materie prime come causa principale dei bassi volumi prodotti. Le conferme arrivarono nel settembre del 2019 quando i documenti di una causa legale della Chemical Bank rivelarono che Dark Horse doveva 12.000 dollari di tasse alla contea di Marshall e, soprattutto, era in arretrato di 1,5 milioni di dollari nei pagamenti delle rate del mutuo firmato nel 2007. 
Agli Aaron non restava che fallire o trovare le necessarie risorse finanziarie che arrivarono dal birrificio Roak Brewing fondato nel 2015 da John Leone; le dichiarazioni ufficiali parlarono di una “fusione” tra i due birrifici ma ovviamente ad Aaron Morse fu concesso solo di avere una percentuale di minoranza di quella nuova società nata lo scorso  febbraio 2020 e chiamata Michigan Brewers Union. Per rilanciare il marchio Dark Horse John Leone ha recentemente reclutato Adam Lambert, uomo con esperienza ventennale nel Sales & Marketing di Virtue Cider, New Holland, Dogfish Head, Rogue Ales e SLO Brew; negli ultimi diciotto mesi aveva lavorato come Chief Revenue Officer per la BrewDog USA. Dark Horse e Roak avrebbero una capacità complessiva  di circa 50.000 ettolitri all’anno ciascuno ma la sfruttano per un quarto: “il primo obiettivo – dice Lambert – è di arrivare cumulativamente a circa 14.000 ettolitri l’anno e pian piano avvicinarci a quota 23.000. Abbiamo molta capacità produttiva che non sfruttiamo ma io non sono un mago; non è più come in passato, oggi non è facile crescere rapidamente. Dark Horse era un birrificio molto innovativo ma si è poi fermato, la priorità dev’essere quella di ricostruire l’immagine del marchio”.  Il primo passo sarà probabilmente l’abbandono delle storiche etichette fatte in casa dagli Aaron ed il completo restyling affidato allo studio Ebbing Branding & Design. Attualmente la taproom/ristorante è l’unica cosa rimasta  aperta del piccolo complesso commerciale che gli Aaron avevano creato a Marshall: bottega, tatuaggi e officina motociclette sono già stati chiusi.


La birra.
Scotty Karate è la potente (9.75%) Wee Heavy che Dark Horse ha dedicato al musicista e concittadino Scotty Karate, un “one man band” nato a Marshall: la ricetta di questa birra prevede una piccola percentuale di malto affumicato su legno di ciliegio. Nel 2016 per celebrarne il decimo compleanno veniva messa in vendita la sua versione Bourbon Barrel Aged: il suo debutto avvenne sabato 12 marzo alla taproom, 576 casse prodotte e un prezzo di vendita in loco di 16,99 dollari per il 4 pack o 100 dollari per la cassa da  24 bottiglie. 
Il suo splendido color ambrato è acceso da intensi riflessi rossasti; la schiuma è cremosa ma di dimensioni piuttosto modeste, così come la ritenzione. C’è un bel naso ricco e caldo di bourbon, uvetta e prugna disidratata, note di vaniglia e vino fortificato, melassa, caramello bruciato, ciliegia. Il mouthfeel conferma le impressioni positive: birra dal corpo pieno, morbida, avvolge tutto il palato in modo perfetto. La bevuta prosegue nella stessa direzione con  caramello, melassa e frutta sotto spirito, accenni biscottati, di vaniglia e vino fortificato: è una Wee Heavy dal contenuto alcolico ragguardevole (quasi 10%) ma si beve con una facilità impressionante. Alcool e bourbon sono dosati con grande maestria e si fanno sentire quasi solo alla fine del percorso. Gran bell’uso della botte che in questo caso non è protagonista ma va solo ad impreziosire quella che di per sé era già un’ottima base: gli anni in cantina l’hanno ammorbidita al punto giusto. 
Birra sensuale e suadente, pulita, elegante e pericolosa: il futuro del birrificio e del marchio Dark Horse è abbastanza incerto e bisognerà vedere quale direzione la nuova proprietà vorrà prendere. Sarebbe in ogni caso un peccato se ottime birre come questa e l'Imperial Stout Plead The 5th scomparissero per sempre.
Formato 35,5 cl., alc. 9,75%, IBU 26, lotto 03/2016, prezzo indicativo 7,00-8,00 euro (beershop)

mercoledì 6 maggio 2020

Ritual LAB / Voodoo Papa Nero


Il 2020 del birrificio laziale Ritual Lab è iniziato col botto, in particolare quello del concorso di Unionbirrai che lo scorso febbraio a Rimini lo ha incoronato Birrificio dell’Anno. Primo posto nelle rispettive categorie per la Modern Pale Ale Head Space, la Oatmeal Stout Black Belt e l’Imperial Stout Papa Nero, menzione d’onore per la Double IPA Too Nerdy e la Session IPA Nerd Choice. Un meritatissimo riconoscimento a coronamento di un percorso iniziato nel 2014: Ritual Lab è oggi un punto di riferimento nella scena italiana quando di parla di birre luppolate ma non solo, come mostrano i risultati del concorso. 
La vetrina del festival internazionale Eurhop di Roma è come sempre una ghiotta occasione per realizzare qualche birra collaborativa con i birrifici che vi prendono parte: i frutti del lavoro collegati all’edizione 2019 sono stati raccolti dopo qualche settimana  con la Gose al melograno concepita con gli svedesi di  Wizard Brewing e poi con Freya, ottima Double IPA realizzata con Stigbergets e O/O Brewing. 
Ma i beergeeks e i semplici appassionati italiani sono rimasti soprattutto colpiti dalle immagini pubblicate sui social media di Ritual nella giornata dell’8 ottobre: In sala cottura a Fornello erano infatti presenti emissari del birrificio della Pennsylvania Voodoo, anch’essi ospiti di Eurhop,  per quella che veniva definita una “esperienza unica di birrificazione estrema”. Di Voodoo Brewing, fondato nel 2007 da Matt Allyn e ceduto nel 2016 ai propri dipendenti vi avevo parlato in questa occasione: le imperial stout barricate Black Magic e Grande Negro hanno portato hype mettendolo sulla lista dei desideri dei beergeeks americani e di tutto il mondo.  In Italia lo stile imperial stout è ancora ristretto ad una piccola cerchia di aficionados: la loro produzione impegna l’impianto per più tempo, i birrai le fanno occasionalmente, forse non amano troppo berle e anche per questo il livello qualitativo non ha mai raggiunto l’eccellenza. Nell’ultimo anno si sono comunque visti grandi miglioramenti da parte di qualche birrificio. 
Ritual Lab non aveva mai prodotto un’imperial stout e cimentarsi per la prima volta con l’affiancamento dei “maestri” di Voodoo è stata un’esperienza da ricordare, come racconta il birraio Giovanni Faenza al sito Mybeerpassion: “ci hanno passato un metodo totalmente nuovo di lavorare! Momenti davvero stimolanti per un birraio. La ricetta è massiccia, 1900 kg di malto per 2000 litri di mosto! 32.5 gradi plato di partenza che regalano dopo una fermentazione vigorosa 13,5% gradi alcolici, lasciando però un importante contenuto di zuccheri non fermentescibili che le donano la tanto ricercata masticabilità che la caratterizza! In aggiunta un 3% di maltodestrine ad amplificare ulteriormente  il mouthfeel”. 
La birra è stata messa in vendita subito dopo il weekend della premiazione di Birraio dell’Anno, ovvero a partire dallo scorso 20 gennaio. Inevitabile pensarla anche in qualche versione Barrel Aged: a quanto mi dicono botti ex-bourbon ed ex-cognac sono già state riempite, ci vorrà ancora un po’ di pazienza.

La birra.
Papa Nero: questo il nome scelto per la prima imperial stout di Ritual Lab che fa sfoggio della solita splendida etichetta. (Nota per il birrificio: a quando una bella linea di merchandising e magliette?). Il suo arrivo ha creato anche nella nostra comunità di birrofili un po’ di hype, per quanto sia imprudente pronunciare questa parola riferendosi alla scena italiana. 
  Il suo vestito è assolutamente nero ma il suo aspetto non è inappuntabile: la schiuma è piuttosto modesta ed ha una persistenza solo discreta. L’aroma non è esplosivo ma è comunque degno di nota: fondi di caffè, tabacco, liquirizia, caramello bruciato, tostature, accenni di cioccolato fondente. Il corpo è davvero pieno (forse il primo caso in Italia?) e densissimo ma le bollicine, benché contenute, sono inizialmente un po’ troppo pungenti e ne deteriorano un po’ la morbidezza. E’ comunque sufficiente lasciare un po’ la birra nel bicchiere (cosa peraltro inevitabile, considerata la gradazione alcolica) per sistemare le cose.  E’ un Papa Nero ma dolce, con un percorso di bevuta ricco di caramello, frutta sotto spirito e liquirizia: tostature e caffè, molto contenute, arrivano solo nel finale assieme a qualche suggestione di cioccolato fondente e fruit cake. L’alcool è molto ben controllato: anche se è una birra che fa serata, riuscirete a finire di sorseggiarla prima del previsto. 
Quando si  collabora con un nome importante internazionale che nello stile raggiunge l’eccellenza si creano inevitabilmente delle aspettative piuttosto elevate, soprattutto quando il prezzo del biglietto è molto salato. Parliamo di circa 30 euro al litro per un’imperial stout ceralaccata e laboriosa da fare che non ha però subìto nessun passaggio in botte: con più di qualche euro in meno si riescono a reperire imperial stout americane di livello eccezionale. Nella valutazione a 360 gradi di un prodotto anche questo è un fattore che va considerato.  
Papa Nero è intensa e ricca ma migliorabile per quel che riguarda eleganza, profondità e lunghezza: per il mio gusto personale un maggior carattere torreffato/tostato le gioverebbe molto, ad esempio come quello che possiede la Big Black Voodoo Daddy. Il Papa Nero è tra le migliori imperial  stout italiane, è quella che s’avvicina maggiormente alla scuola americana ma vi sono ancora delle imperfezioni da limare. Ci dev’essere obiettività anche nel patriottismo.
Formato 33 cl., alc. 13.5%, lotto L69, scad. 11/2022, prezzo indicativo 10-12 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 5 maggio 2020

DALLA CANTINA: CREW Republic X 2.1 & X 2.2 Barley Wine


Sono passati già otto anni da quel 2012 in cui la beerfirm CREW Republic cercava di portare una ventata di novità lanciando virtualmente una granata luppolata su Monaco di Baviera, città dominata dalla tradizione e dai sei marchi industriali che si spartiscono ogni anno il ricco parterre dell’Oktoberfest. Ve ne avevo parlato per la prima volta nel 2014 e le birre di Crew non ci hanno poi messo molto ad arrivare anche in Italia e negli altri paesi europei. 
I due homebrewer, ma soprattutto giovani imprenditori Mario Hanel e Timm Schnigula si erano affidati per un po’ al birraio americano Richard Hodges per realizzare le proprie idee sugli impianti del birrificio Hohenthanner Schlossbrauerei ma sono stati rapidi a capire che lo status di beer-firm non sarebbe stato sostenibile per molto: poca birra disponibile ad elevati costi di produzione. Il colosso del luppolo Barth-Haas Group entrò in società con una quota minoritaria portando le risorse economiche necessarie per inaugurare nel 2015 il sito produttivo nel sobborgo di Unterschleissheim, una trentina di chilometri a nord dal centro di Monaco; nel 2017 è stata anche aperta la taproom, un po’ fuori mano per chi si trova in città ma raggiungibile da Marienplatz con una mezz’oretta di S1 seguita da una camminata a piedi di un chilometro e mezzo.  In un paio d’anni la produzione è raddoppiata arrivando a 10.000 ettolitri l’anno anche e soprattutto grazie ad un accordo distributivo con la Global Drinks Partnership (San Miguel, Estrella): le Crew arrivarono in molti bar e anche sugli scaffali della grande distribuzione tedesca (Rewe, Edeka). 
Ma Hanel e Schnigula hanno probabilmente coronato il loro sogno imprenditoriale nell’agosto del 2019 annunciando di aver ceduto una non specificata quota di minoranza (10%? 30%? 49%?) alla ZX Ventures di proprietà della multinazionale AB InBev; per il colosso belga, che già domina il mercato con i marchi Beck’s (nord) e Spaten/Franziskaner/Löwenbräu (Baviera), si trattava della prima acquisizione di un birrificio artigianale tedesco.  La “partnership”, come si dice sempre in questa prima fase, è divenuta operativa ad ottobre e Crew ha già iniziato un programma di espansione volto ad aumentare la capacità produttiva da 12.000 a 25.000 ettolitri. 
Crew Republic è stato indubbiamente un nome importante nella scena craft tedesca ed ha ispirato molti altri homebrewer/birrai/imprenditori: Drunken Sailor e Escalation 7:45 sono state tra le prime IPA e Double IPA tedesche a circolate a Monaco di Baviera. Quello che gli appassionati tedeschi rimproverano ad Hanel e Schnigula è di essersi ad un certo punto fermati pensando più a trovare dei partner commerciali che alla birra: del resto loro non sono mai stati birrai per professione. Nessuna NEIPA (per fortuna, qualcuno potrebbe dire), nessuna voglia di provare ad esempio a mettere in botte l’imperial stout della casa Roundhouse Kick. Pur dotato di un impianto proprio Crew non ha più voluto sperimentare e/o seguire le tendenze del mercato, cercando invece la sostenibilità dei volumi: come dargli torto?

La birra.
In verità esiste una linea sperimentale nella gamma di Crew Republic, ed è quella contrassegnata dalla lettera “X” che identifica birre prodotte stagionalmente o occasionalmente.  Ad inaugurarla nel 2013 fu il Barley Wine X 2.0 seguito dalla X 3.0 Sour Black (8.9%), dalla X 4.0 Witbier (4.4%) e dalla X 1.1 Wet Hop (5.8%): l’ultima arrivata (2020) è la  X 10.4 Dry Hopped Lager. Il Barley Wine è stato prodotto quasi ogni anno per poi entrare in produzione abituale con il nome Rest In Peace (10.1%). In cantina avevo ancora qualche bottiglia della versione X 2.1 e della X 2.2: entrambe sono state prodotte sugli impianti della Hohenthanner Schlossbrauerei. Da quanto ne so la ricetta non è mai cambiata: malti Pilsner e Crystal, luppoli Herkules, Fuggles ed East Kent Golding. Vediamo come hanno retto alla prova del tempo in una mini verticale. 
Il Barley Wine  X 2.1 (novembre 2014) è di un bel color ambrato, velato ma ancora luminoso: la schiuma è invece modesta e grossolana. Caramello, melassa, ciliegia, uvetta e datteri: un aroma piuttosto dolce al quale l’ossidazione aggiunge piacevoli note marsalate ma anche di cartone bagnato. Il mouthfeel non mostra invece segni di cedimento: è un barley wine ancora carbonato e ben presente in bocca. La bevuta ripropone la dolcezza del caramello, dell’uvetta e dei datteri; ci sono note biscottate, di vino marsalato e, anche qui, qualche segno meno gradevole lasciato dal tempo. Dolce ma mai stucchevole, chiude un percorso bilanciato grazie al tenore alcolico e ad un tocco amaricante vegetale-terroso, con qualche timido accenno di tostato.  Non c’è molta complessità o profondità in  quello che credo fosse in origine un barley wine molto luppolato, ma è comunque una bevuta piacevole che ha tuttavia superato il suo picco migliore.

La versione X 2.2 è arrivata pressappoco un anno dopo (dicembre 2015) ma ha curiosamente una data di scadenza (2017) inferiore a quella della sorella maggiore (2019). Evidentemente alla Crew non si fidavano della tenuta nel tempo di una birra che si è invece rivelata essere una bella sorpresa. 
Il suo colore ambrato è un po’ bruttino, piuttosto torbido e sporcato da piccole particelle di lievito in sospensione: la schiuma è invece compatta, cremosa e ha buona ritenzione. L'enorme differenza nel colore tra le due foto non inganni, è l'effetto della luce naturale e quella artificiale. L’aroma è ricco e marcatamente vinoso, con netti richiami ai passiti: albicocca disidratata, mela al forno, marmellata d’arancia, uvetta, ciliegia. Pulito, espressivo, intenso: un inizio col botto. Per accorgersi di qualche “frammento” di cartone bagnato bisogna davvero prestare molta attenzione. In bocca è sorprendentemente piena e morbida, oleosa, ancora potente nonostante i cinque anni passati dalla messa in bottiglia. Il gusto segue l’aroma ma non riesce a trasmettere le stesse emozioni e sensazioni positive, complice una minor ampiezza e profondità: caramello, uvetta, prugna, marmellata, vino passito. Nel finale l’amaro vegetale/terroso morde ancora un po’, l’alcool richiede attenzione ma non impegna più di tanto chi ha il bicchiere in mano. Bella sorpresa: un barley wine ancora potente e armonico, dal gran bel corpo e dal gran bel naso, se mi passate la comparazione anatomica. Una birra che in questo caso la cantina ha sicuramente valorizzato.

Nel dettaglio (i prezzi si riferiscono al momento dell'acquisto):
X 2.1 Barley Wine, formato 33 cl., alc. 9.8%, IBU 60, scad. 29/10/2019, pagata 2,58 €  (beershop)
X 2.2 Barley Wine, formato 33 cl., alc. 10,5%, IBU 65, scad. 16/12/2017, pagati 3,17 € (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.