martedì 29 settembre 2020

Witch's Hat Night Fury

Nel 2010 Ryan Cottongim e la moglie Erin si trovarono improvvisamente senza lavoro e con un figlio appena nato: lei faceva la segretaria per una ditta di forniture idrauliche,  Ryan installava tubazioni del gas sottoterra e nel tempo libero si dilettava con l’homebrewing.  Ci raccontano che una sera, una delle tante in cui discutevano su come tirare avanti, un pipistrello entrò dalla finestra del loro salotto: lo considerarono un buon presagio e quell’evento fu la molla che fece  scattare in loro la decisione di rischiare e mettersi in proprio. Racimolarono tutti i loro risparmi e ottennero un prestito per aprire un brewpub nella città dove sono nati, South Lyon, Michigan, sessanta chilometri ad est di Detroit.
Witch's Hat Brewing Company prende il suo nome da un bizzarro edificio dalla forma conica che ricorda appunto il lungo cappello di una strega: il Witch's Hat Depot fu costruito nel 1909 per sostituire la vecchia stazione ferroviaria, distrutta in un incendio, ed operò sino al 1955. Sia l’edificio che il pipistrello trovano posto nel logo del birrificio che viene inaugurato il giorno di Natale del 2011 all’interno di un piccolo complesso commerciale, dove una volta vi era un coffee shop: impianto da tre ettolitri, 160 metri quadri ed una taproom priva di cucina con una quarantina di posti a sedere. 
Nel 2014 avviene il trasloco nella vicina Lafayette Street, a pochi isolati di distanza dal Witch's Hat Depot: nei mille metri quadri a disposizione trova posto il nuovo impianto da 15 barili, una taproom con cento posti a sedere, una ventina di spine e una cucina informale che sforna hamburger, sandwich, fish & chips e tacos. La taproom diventa rapidamente il punto di forza di Witch's Hat, assorbendo l’80% della produzione soprattutto grazie agli operai che lavorano nei dintorni e che a fine turno vanno a bere un paio di pinte. La maggior parte di loro fa parte del Mug Club e i loro bicchieri, oggi 1700, sono appesi alle pareti della taproom. 
Per molti anni l’unica birra di Witch's Hat ad essere distribuita in bottiglia è stata la IPA Train Hopper, oggi affiancata dalle lattine della Three Kord Kolsch, della Defloured NEIPA, della Edward’s Portly American Brown Ale e dell’hard seltzer Bumble. La maggior parte delle altre etichette sono produzioni stagionali o occasionali.  Ma la birra che ha portato un po’ di notorietà è stata Night Fury, un’imperial stout usata come base di numerose varianti barricate. Sono loro le protagoniste dell’evento Fury for a Feast  che si tiene ogni anno in agosto: musica dal vivo,  stand gastronomici, raccolte fondi per beneficenza e una trentina di spine, la maggior parte delle quali dedicate a varianti della Night Fury. La vendita delle bottiglie è solitamente riservata ai membri del Mug Club.

La birra.

Come detto le varianti della Night Fury sono le birre più premiate dal beer-rating. In cima alla classifica ci sono la O.G. Bourbon Barrel Night Fury, la TraXXX Night Fury (invecchiata in botti di Bourbon con burro d’arachidi, fave di cacao, cocco e vaniglia), la S’mores Night Fury (Bourbon Barrel, marshmallow e vaniglia) e la Double Barrel Night Fury (Apple Brandy e Bourbon). Ne cito solo alcune, perché le varianti sono potenzialmente infinite. 
La Night Fury “base” (10.2%) viene prodotta con melassa e lattosio: nel bicchiere è quasi nera, la schiuma non è molto generosa e la sua persistenza è solo discreta. Orzo tostato, fruit cake, cioccolato al latte, caffè, accenni di tabacco e cenere: il suo aroma è  una piacevole introduzione ad una bevuta bilanciata e intensa, pulita e ben definita. Caramello, melassa, liquirizia, prugna disidratata, uvetta e cioccolato al latte danno il via ad un percorso dolce che viene progressivamente equilibrato da tostature che culminano in un finale piuttosto amaro nel quale i fondi di caffè incontrano note di tabacco e di cenere. Il mouthfeel è leggermente oleoso, il lattosio le dona un po’ di densità ma – fedele al suo nome -  non è una birra che indulge in carezze palatali.  L’alcool si fa sentire quel che basta per rendere la bevuta potente e per riscaldare chi decide di berla nei mesi più freddi dell’anno. La Night Fury di Witch's Hat è una Imperial Stout ben fatta che si sorseggia con grande piacere: l’interpretazione dello stile è nelle mie corde, senza inutili orpelli e con un uso molto razionale dei cosiddetti adjuncts. Non la vedo affatto sfigurare al confronto con le altre grandi Imperial Stout che vengono prodotte nello stato del Michigan. 
Formato 35.5 cl., alc. 10.2%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 28 settembre 2020

Braumanufaktur Hertl Mutti's Sonnenschein

Pensi alla Franconia e pensi subito alla tradizione: piccoli paesi dove il tempo sembra essersi fermato e dove i cambiamenti sono lenti o rari. Ciò è vero anche per quel che riguarda la birra, ma ci sono sempre le dovute eccezioni e una di queste è rappresentata dalla Braumanufaktur Hertl.
Quando aprì le porte nel 2012 a Schlüsselfeld, trenta chilometri a sud-ovest di Bamberga, Hertl si vantava di essere il più piccolo birrificio di tutta la Franconia e il ventiquattrenne David il più giovane birraio tedesco in attività. Lui ricorda di aver iniziato a produrre birra  quando aveva 15 anni nella cucina dei propri genitori: la birra neppure gli piaceva, del resto in famiglia erano dei viticultori. La sua prima cotta lasciò qualche segno indelebile sui mobili della cucina ma il solco era ormai stato tracciato: dopo cinque anni d’esperimenti con le pentole David decide che è il momento di fare sul serio. Fa pratica presso sette birrifici, tra i quali anche il brewpub Thirsty Bear a San Francisco, e ventidue anni è già diplomato birraio e in parallelo ottiene il titolo di Beer Sommelier: il porcile adiacente alla casa di famiglia (80 metri quadri) viene ristrutturato e riconvertito in uno spazio adatto ad ospitare l’impianto di produzione da…  40 litri! La prima espansione arriva con un impianto da cinque ettolitri sul quale lavorano due apprendisti e il padre Bernd – rubato ai vigneti - mentre la madre Vroni disegna ed incolla a mano le etichette sulle bottiglie. Un aiuto necessario perché David non conosce soste, tiene seminari, promuove il birrificio partecipando e fiere ed eventi, studia per diventare Sommelier (vino) e nel tempo libero gestisce anche la filiale di Bamberga del beershop Bierothek. 
Che Braumanufaktur Hertl non sia il tipico birrificio francone è evidente sin dalle prime produzioni, spesso one-shot che non vengono ripetute: IPA, Black IPA e Double IPA, la Whiskeydoppelbock, invecchiata sei mesi in whiskey scozzese, la imperial porter Motoröl e una Gose al cetriolo che viene prodotta in Repubblica Ceca in quanto l’Editto di Purezza bavarese non consente l’utilizzo dell’ortaggio coltivato e raccolto nei dintorni del birrificio.  Hertl procede al ritmo di quasi 40 birre nuove all’anno, collabora con altri colleghi e sperimenta l’uso di diverse botti, con inevitabili alti e bassi:  la maggior parte non viene neppure censita sui siti di beer-rating.  E gli amanti della tradizione? Devono cancellare il nome Hertl dal loro taccuino? A far cambiare loro idea ci provano tre birre dedicate ai membri della famiglia: la Kellerbier Opa's Liebling  (“la preferita del nonno”, 2017), la Helles Mutti's Sonnenschein (2018) e l’ultima arrivata (2019) Papa's Weissheit, una weissbier per papà Bernd.

La birra.

La “luce del sole” che splende in birrificio: mamma Vroni è l’autrice delle etichette e a lei David dedica una Helles (non filtrata) chiamata Mutti's Sonnenschein. Il suo colore leggermente velato è effettivamente solare, la schiuma è candida, cremosa, compatta ed ha ottima ritenzione. Mollica di pane, miele, accenni floreali ed erbacei, una delicata speziatura: un aroma pulito e piuttosto definito che trasporta idealmente in un assolato campo estivo. Al palato è sorprendentemente morbida,  piena e strutturata, per lo stile:  siamo lontani anni luce dalle scialbe Helles bavaresi che vengono servite più a sud, nei pressi di Monaco. La bevuta è meno definita dell’aroma ma si ha ugualmente l’impressione di avere in mano un bicchiere di pane liquido, arricchito di richiami a cereali, miele e con un finale che non t’aspetti,  una chiusura erbacea generosamente luppolata (parliamo di una Helles!).  Una birra che rinfresca e “nutre”, piacevolmente rustica al palato anche se ciò va un po’ a discapito della pulizia e della precisione: un piccolo sacrificio necessario nel determinare la vittoria del sentimento sulla ragione. 
Formato 50 cl., alc. 4.9%, lotto 21:11:5, scad. 19/05/2021, prezzo indicativo 3,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 23 settembre 2020

Yonder Fiona

Raramente mi è capitato di trovare così poche notizie/interviste in internet su di un birrificio che è invece piuttosto attivo sui propri social network. Parliamo di Yonder Brewing & Blending, operativo dal 2018 nella campagna del Somerset inglese e  nelle vicinanze di Mendip Hills, area di eccezionale bellezza naturale nonché di interesse archeologico. Ad una ventina di chilometri di distanza c’è la Cheddar Gorge e la misteriosa Glastonbury Tor. I fondatori Stuart Winstone e Jasper Tupman si sono conosciuti mentre lavoravano per un altro birrificio che si trova in zona, Wild Beer Co.:  qui hanno imparato ad amare le birre acide prodotte con diversi ceppi di lievito, selvaggi e non,  con ingredienti (anche troppo, aggiungo io) inusuali.  
Negli ultimi anni Wild Beer ha però ridotto la produzione di birre acide e sperimentali per concentrarsi maggiormente su quelle “normali” che assicurano un maggior successo commerciale.  Winstone e Tupman, insoddisfatti, decisero di lasciare il birrificio per fondare quella che definiscono una “Modern Farmhouse Brewery ispirata dal paesaggio circostante, dalla sua storia e dalle persone che ci vivono”.
Senza nessun investitore esterno e senza ricorrere al crowfunding Winstone e Tupman  fanno tutto con le risorse economiche che hanno a disposizione: le conoscenze fatte nel corso degli anni passati a lavorare alla Wild si rivelano fondamentali nel reperire sul mercato vari componenti di seconda mano che vengono poi da loro stessi assemblati in un impianto da sette ettolitri. Il conto della  spesa? 75.000 sterline. Disegnano le grafiche e imbottigliano a mano da soli: alla fine del 2019 sono già cinquanta le etichette prodotte. E’ solo nel 2020 che arrivano ad aiutarli il birraio Dave Williams, proveniente dalla Dawkins Ales di Bristol e ed il commerciale Lee Calnan. 
La produzione Yonder si concentra su quello che  Winstone e Tupman non potevano più fare alla Wild Beer: Farmhouse Ales prodotte a fermentazione mista, anche maturate in botte, con utilizzo di lieviti selvaggi, batteri e ingredienti che – per quanto possibile -  vengono raccolti nella campagna circostante. Le birre del debutto sono la Bees & Things & Flowers (Wild Witbier con miele e fiori di campo) e la Dunstans Exile (Belgian Pale Ale con erbe di campo) affiancate dalla Yonder Pils, una birra “defaticante” con aggiunta di fieno di prato. In rapida successione arrivano la Fermhouse, una Table Beer prodotta con lievito proprietario della casa e lievito kveik, la Vat Beets (imperial stout con cioccolato, vaniglia e brownies alla barbabietola). Dallo scorso gennaio Yonder ha anche iniziato ad inlattinare: a debuttare sono state le Raspberry Gose e la Rosehip, una saison alla rosa canina.
Per chi non ama “bere strano”  Yonder ha in serbo la  Subculture (Pale Ale a fermentazione mista), la Gander (Kveik IPA), la Coolbox (Session Helles, sic!), la Boogie (una bitter dalla luppolatura moderna) e la Acapella, una “heavyweight Pilsner” (5,5%) prodotta con luppoli inglesi che credo abbia sostituito la pilsner dell’esordio.

La birra.

Ammetto di aver avuto un rapporto abbastanza tormentato con le birre di Wild Ales: poca continuità e troppi alti e bassi nel loro vastissimo portfolio di etichette. Il fatto che in qualche modo Yonder voglia continuare quel percorso non mi rende molto tranquillo e quindi tento la sorte con una birra relativamente semplice: Fiona, farmhouse ale realizzata con il lievito proprietario della casa, luppoli e malti inglesi ed aggiunta di Matricaria Discoide, alias Camomilla Falsa. E' stata una produzione occasionale  nell’agosto del 2019. 
Nel bicchiere si presenta di color oro antico, leggermente velato: la schiuma è tanto copiosa quanto evanescente. Il naso è fresco, solare  e piuttosto ricco: ananas, pepe, coriandolo, camomilla e altri fiori, limone e lime, mela verde. Al palato è generosamente carbonata e scorre con facilità e vivacità. La bevuta è molto fruttata, ricca di ananas, limone e mela, con qualche vago ricordo di camomilla: oltre a questo non c’è invero una grande profondità e manca soprattutto quel carattere rustico che una farmhouse ale dovrebbe sempre avere. Nel finale appare qualche nota lattica e la bevuta si chiude con l’amaro corto e delicato della scorza  del limone. Il suo dovere lo fa comunque con successo: disseta e rinfresca grazie alla sua secchezza e alla sua acidità, con l’alcool (6.6%) che si fa timidamente sentire solo a fine corsa. 
Non è l’olimpo del sour, se mi passate la semplificazione, è più ruffiana che ruspante ma Fiona di Yonder è una birra che si lascia bere con piacere e che trovo particolarmente adatta ai  mesi più caldi dell’anno. Rapporto qualità prezzo appropriato, visto i tempi che corrono.
Formato 37,5 cl., alc. 6.6%, scad. 17/07/2021,  pagata 6,20 sterline (beershop)

lunedì 21 settembre 2020

Barbaforte Quadro

Folgaria è una località turistica del Trentino Alto-Adige ben nota agli amanti dello sci e del trekking estivo: è qui, a 1168 metri di altitudine ai piedi del monte Cornetto, che il folgaretano Matteo Mincone ha aperto le porte del birrificio Barbaforte. Il suo percorso è quello che hanno fatto tanti homebrewers poi divenuti professionisti: dall’amore per la bevanda all’hobby di farla tra le mura domestiche, in questo caso iniziato nel 2006.  Nel 2013 Barbaforte iniziava la propria avventura come beerfirm appoggiandosi per un brevissimo periodo agli impianti di Valcavallina e successivamente a quelli di Manerba, dove nella formazione di Mincone fu di grande aiuto l’esperienza del birraio Alfredo Riva.  Lo status di beerfirm sarebbe dovuto essere solo temporaneo ma a causa di varie vicissitudini la messa in funzione dell’impianto proprio, un automatico della Socis da 10 ettolitri, slittò sino al 23 giugno 2018,  data in cui si tenne l’inaugurazione in uno scenario che offre una splendida vista sui monti Finonchio e Stivo che dominano la Vallagarina.
Barbaforte deve il suo nome alla piante del rafano, la cui radice è molto usata nella gastronomico del Nord Europa: le birre del debutto sono la Golden Ale San Lorenzo (patrono di Folgaria e intestatario della piazza in centro al paese dove la famiglia di Mincone gestisce un bar), la IPA Obice, la ESB Abete e la Saison Quadro, seguite dalla American Pale Ale Mosaico e la stout Trifoglio, tutte prodotte con l’acqua proveniente dalla vicina sorgente del Chior. A queste si aggiungono altre etichette stagionali come l’Amber Ale Aura, la IGA  Intrigata, la Strong Ale Fiocco per l’inverno e Trirum, versione barricata in botti di rum della stout Trifoglio. 
Barbaforte ha un’identità visiva molto chiara, basata su rigorose forme geometriche e uso esclusivo dei colori bianco e nero, gli stessi che caratterizzano anche la zona d’ingresso del birrificio dove vi è un piccolo spazio per la vendita e gli assaggi.

La birra.


Quadro è la saison della casa: l’etichetta raffigura quattro quadrati uno nell’altro (ah.. bei ricordi di Gestaltpsychologie, nda) che potrebbero rappresentare la quattro stagioni (saison). Il suo colore è un bel doratol leggermente velato, la generosa schiuma è pannosa e molto compatta, secondo i dettami dello stile. L’aroma è pulito e intenso: zucchero a velo, scorza d’arancia, fiori, banana, profumi di erbe aromatiche , coriandolo e pepe bianco. Non è tutto merito del lievito: l’etichetta indica l’utilizzo d’imprecisate spezie. L’aroma è fresco e  il mouthfeel è vivace e generosamente carbonato: tutto bene in una saison la cui bevuta offre malti (pane miele), frutta candita (arancia) spezie e un finale caratterizzato da un amaro nel quale convivono note terrose, di radici ed erbe aromatiche. L’alcool (6.4%) è ben nascosto, la bevuta è ben equilibrata e di buona intensità, pur non riuscendo a replicare l’ampiezza dell’aroma. Una saison secca, dissetante, rinfrescante e versatile per potenziali abbinamenti gastronomici. Tutto bene o quasi: avrebbe solo bisogno di essere un po’ più rustica e ruspante, caratteristica che ogni saison dovrebbe possedere e che per alcuni è una mancanza imperdonabile. In questo caso direi che il contenuto del bicchiere riesce a far chiudere un occhio volentieri. 
Formato 33 cl., alc. 6.4%, lotto 200307, scad. 28/10/2021, prezzo indicativo 4.50-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

venerdì 18 settembre 2020

Odd Side Ales Deleterious

Di Odd Side Ales, birrificio “affacciato” sul lago Michigan, vi avevo già parlato qui. Grand Haven è una popolare destinazione turistica per molti abitanti che abitano nelle aree più interne dello stato americano; il suo porto turistico e la sua grande spiaggia sabbiosa fanno si che il numero di abitanti (10.000 circa) aumenti esponenzialmente nei mesi estivi per godere di un lago che per dimensioni (e onde!) assomiglia ad un mare.   E’ in questa località che nel 2010 Chris Michner, assieme alla moglie Alyson e al socio Kyle Miller hanno aperto il birrificio Odd Side Ales.  Michner e Miller si dilettavano con l’homebrewing nel proprio appartamento ai tempi della Michigan State University:  terminati gli studi Michner iniziò a lavorare nel campo delle revisioni contabili ma dopo due anni si trovò disoccupato a causa della crisi finanziaria del 2008.  
Non contento del precedente lavoro decise  d’investire 40.000 dollari che era riuscito a mettere da parte, ne chiese altri 40.000 in prestito, e ristrutturò un vecchio edificio in centro a Grand Haven, dove sino al 1984 venivano prodotti dei pianoforti: la cittadina  del Michigan era ancora sprovvista di brewpub. Sistemato l’impiantino da 75 litri (!) e, con l’aiuto di alcuni familiari, anche gli arredamenti della taproom, il 17 marzo 2010 Odd Side Ales serve le prime pinte ai propri clienti: nel locale non viene installato nessun televisore e non si serve cibo  in quanto il focus è volutamente orientato sulla birra. 
In poco tempo la capacità dell’impianto viene raddoppiata ma gli spazi del brewpub di Grand Haven – che ancora oggi vi accoglie con 50 (!) spine, hard seltzers, cocktails, vino, sidri e finalmente una cucina -  non consentono grandi manovre; nel 2012 un nuovo impianto da 17 ettolitri trova spazio in un fabbricato a sei chilometri di distanza. Nel 2015 è tempo di un nuovo trasloco in un capannone da 4000 metri quadri poco più a sud al 1811 di Hayes Street, in prossimità del Grand Haven Memorial Airport.  Qui è operativo il nuovo impianto da 500 ettolitri con il quale, tenendo fede al suo nome, Odd Side produce birre utilizzando sovente frutta, spezie e altri ingredienti bizzarri; ed è proprio questo il principale “problema” di Odd Side Ales, la cui produzione annovera oltre 400 etichette. Farlo strano non significa sempre farlo bene e se devo essere onesto la maggior parte delle loro birre che ho bevuto non mi ha mai entusiasmato.

La birra.
Quanto appena detto riguarda anche le imperial stout barricate: sono al terzo tentativo con Odd Side Ales e, pur avendo evitato le varianti più bizzarre, non ho ricordi particolarmente positivi della Big Kahuna  (botti di bourbon con aggiunta di cocco tostato) e della The Nightman Leaveth (imperial milk stout invecchiata in barili ex-Rye whiskey con aggiunta di vaniglia), quest’ultima un vero dolcione molto difficile da ingurgitare.  
Ritento la sorte con una bottiglia di Deleterious, una ”semplice” imperial stout invecchiata in botti di bourbon senza nessun altro ingrediente.  Si presenta con un’oscura e minacciosa etichetta raffigurante un teschio. Sorvolando sul cliché, nel bicchiere è quasi nera e, come già accaduto per altre imperial stout di Odd Side, la schiuma è molto modesta ed evanescente. Le mie iniziali perplessità vengono spazzate via da un naso caldo e “dolce”, ricco di vaniglia, fudge, cioccolato al latte, fruit cake, liquirizia, melassa, bourbon e legno. Nel complesso l’aroma non è molto fine e risulta un po’ grossolano ma è comunque un buon biglietto da visita. Al palato è piena, oleosa e abbastanza viscosa: le sottili bollicine sono però un  po’ fastidiose.  Melassa, fruit cake, fudge e vaniglia sono protagonisti anche della bevuta, arricchita da accenni di cioccolato e frutta sotto spirito: ci pensano il bourbon e delicate tostature a scongiurare il pericolo del troppo dolce. Il distillato è molto più evidente rispetto all’aroma e regala un finale lungo e molto caldo nel quale si rivela tutta la gradazione alcolica di questa imperial stout ben fatta e piuttosto gradevole. Sicuramente la miglior Odd Side che mi sia capitato di bere. Mi rimane solo qualche dubbio sulla componente vaniglia, davvero molto in evidenza: sicuro sia tutto merito della botte e non ci sia stato qualche aiutino? 
Formato 35,5 cl., alc. 13%, imbott. 04/09/2018, prezzo indicativo 9,00 euro (beershop)  

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 16 settembre 2020

Berg Jubel Bier

Berg è un tranquillo sobborgo di circa 4.000 abitanti nel land del Baden-Württemberg, a sette chilometri da Ehingen e ad una quarantina dalla più nota Ulm. Ad Ehingen i più antichi documenti scritti sulla produzione di birra risalgono al 1384 e quelli relativi al birrificio Berg (“montagna”, ma in questo caso siamo a soli 500 metri sul livello del mare) al 1466:  in quell’anno l’arciduca Sigismondo d’Austria menzionò infatti in una lettera la “Wirtshaus auf dem Berg”, osteria dove potersi rifocillare con carne di ottima qualità. Nel 1890 operavano ad Ehingen una ventina di birrifici, incluso Berg che dal 1757 è di proprietà della famiglia Zimmermann: Dopo nove generazioni, è Ulirich ad avere ora il timone tra le mani : la produzione annuale si attesta sui 30.000 ettolitri.

Al solito non si trovano molte notizie storiche e non vi è molto da raccontare sui birrifici tedeschi che hanno alle spalle una storia secolare dominata dal rispetto per la tradizione. La Berg Brauerei Ulrich Zimmermann non fa eccezione ed è meglio quindi concentrarsi sul presente: il birrificio vi attende in centro a Berg con la propria BrauereiWirtschaft, ristorante che oltre ai classici della cucina sveva come i ravioli Maultaschen propone anche un interessante Gulash alla birra e una cotoletta Schnitzel impanata alla birra. In Germania i camerieri vi guardano sovente con compassione quando chiedete una birra dalle dimensioni inferiori al mezzo litro: alla Berg non è un problema, visto che propongono anche il formato assaggio da 10 centilitri e la possibilità di ordinare un moderno “beerflight” di quattro birre. 
A fianco del ristorante, aperto tutti i giorni, troverete il BrauereiLädele, negozio di merchandising e nel seminterrato la Bierkeller dove poter acquistare birra da asporto; oltre alle bottiglie sono disponibili fustini di diverse dimensioni in acciaio e in legno.  E nella stagione estiva dal venerdì alla domenica è operativo l’immancabile Biergarten nel quale – come vuole la tradizione – c’è musica dal vivo.   Ma non è tutto: alla Berg si organizzano visite guidate, corsi di panificazione e di birrificazione su di un impiantino pilota da 20 litri, corsi di degustazione tenuti da beersommelier.

La birra.

Come il nome indica, la birra Jubel è stata prodotta nell’occasione della Ulrichsfest che nel luglio del 2016 si è svolta a Berg per celebrare “550 Jahre auf dem Berg”, ovvero quei 150anni  passati trascorsi dalla data di fondazione del birrificio: stand gastronomici, mercatini, un accampamento medievale nel castello, visite alle cantine del birrificio, cicloraduni, musica  dal vivo e diretta su grande schermo degli europei di calcio. 
Il birrificio la definisce una classica Zwickel/Kellerbier non filtrata e quindi naturalmente torbida; per la produzione è stato utilizzato malto d’orzo locale, luppoli Hallertauer Magnum e Tettnanger Perle nel corso della bollitura e Tettnanger a freddo, durante la maturazione. Il suo  aspetto è inappuntabile: dorata, piuttosto velata, schiuma candida, a trama fine, compatta e cremosa. Fiori, cereali, mollica di pane, accenni erbacei e di miele, una delicata speziatura; l’aroma è una piacevole ventata di semplicità e freschezza e la bevuta non è altro che la sua ideale prosecuzione. Jubel è una zwickel/keller facilissima da bere ma caratterizzata da un’ottima pulizia e da una buona intensità: i malti sono fragranti, nel finale c’è un accenno erbaceo/terroso che  dura un battito di ciglia. Un bel bicchiere di pane liquido, non privo di una gradevole componente rustica: così piacevole dal farmi desistere subito in approfondimenti che possano smentire o confermare un accenno di diacetile. Jubel di Brauerei Berg: bottiglia acquistata alla cieca senza saperne nulla, si è rivelate essere  un giubileo di nome e di fatto. 
Formato 50 cl., alc, 5.3%, lotto 15133, scad. 02/01/2021, prezzo indicativo 3,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 15 settembre 2020

Alder Beer Co.: Summer Job & Hoppeland

Le presenze sul blog del birrificio Alder di Seregno sono sempre più frequenti ma ammetto che era tanta la curiosità di vedere Marco Valeriani cimentarsi per la prima volta con un birrificio tutto suo, dopo le esperienze di successo maturate lavorando come birraio presso Menaresta ed Hammer. Trovate tutta la storia qui.  A maggio vi avevo parlato di tre birre luppolate di stampo americano, a metà luglio siamo invece andati virtualmente in Germania ed in Inghilterra ad assaggiare tre birre dove i protagonisti erano i malti.  IPA e Double IPA americane continuano a dominare la gamma Alder ma pian piano il portfolio di Valeriani si sta espandendo andando a colmare lacune importanti: ad esempio il Belgio o l’Inghilterra luppolata.
Lo scorso giugno è nata Summer Job, interpretazione moderna di una English Pale Ale "in ricordo delle pinte bevute in un pub di Swanage, contea di Dorset, UK”.  Valeriani non ha nominato esplicitamente né il nome delle due birre né quello del pub e tocca indovinare. Se per il nome del locale diventa abbastanza difficile fare delle ipotesi, visto che la cittadina affacciata sulla costa della Manica ne ospita parecchi,  il nome della birra presenta due indizi utili.  Il primo mi fa pensare alla  Summer Lightninginventata alla fine degli anni ’80 da John Gilbert, birraio alla Hopback Brewery e considerato il “padre” di di tutte le Golden/Summer Ales inglesi: birre chiare, secche, generosamente luppolate e dalla grande bevibilità. La Summer Lightning  è una birra straordinaria che purtroppo non sono quasi mai riuscito a bere in condizioni decenti nel nostro paese.  Il secondo indizio mi fa pensare alla Proper Job, una della birre che hanno decretato il successo di St. Austell e commercializzata nel corso del tempo sotto le vesti di Golden Ale, American Pale Ale o India Pale Ale per adeguarsi alle richieste del mercato.  

La Summer Lightning è prodotta con solo luppolo inglese East Kent Golding, la Proper Job utilizza invece Cascade e Chinook.   E la Summer Job di Alder?  Willamette (il più inglese dei luppoli americani), Cascade e Chinook: avrò indovinato le due pinte pinte bevute in un pub di Swanage?
I
l suo colore è dorato e velato, la schiuma compatta ma un po’ grossolana. L’aroma è pulito ed elegante: emergono profumi di pane, accenni biscottati e di miele, floreali ed erbacei, frutta a pasta gialla, lemongrass. Delicatamente carbonata (la flemma inglese!) scorre molto bene ma dal punto di vista tattile mi sembra un pochino più pesante rispetto a quello che ricordo essere le sue due probabili muse ispiratrici. Il bouquet aromatico viene riproposto con buona precisione anche se al palato il fruttato ha perso freschezza e vira un po’ troppo verso la marmellata. Bevuta secca, dalla buona intensità e dal grande poter rinfrescante e dissetante, chiude il suo percorso con un amaro tipicamente british: note terrose, erbacee e un tocco di lemongrass. Ottima birra estiva che a tre mesi dalla nascita sta solo invecchiando un po’ troppo precocemente, anche se conservata sempre in frigorifero: di quelle che non dovrebbero mancare in ogni pub, soprattutto in estate.

Ad inizio luglio ha invece fatto il suo debutto Hoppeland, Belgian Ale con un nome che parla chiaro: la “terra del luppolo” belga è la cittadina di Poperinge e da qui proviene il luppolo Nugget usato in una ricetta ridotta ai minimi termini che prevede 100% malto pils. Perché dopotutto quando si parla di Belgio il vero protagonista non può che essere il lievito.  Anche qui è doveroso citare due birre che hanno aperto una strada poi imboccata da tanti altri: quella del Belgio “moderno” (luppolato): la XX Bitter di De Ranke e soprattutto la spesso sottovalutata Poperings Hommelbier di Van Eecke,  quest’ultima commissionata in origine proprio in occasione dell’annuale festa del luppolo della cittadina belga. 

Il suo vestito oscilla tra il dorato ed il giallo paglierino, la schiuma è perfettamente belga: generosa, compatta, molto persistente. Al naso emergono note erbacee e zesty, crackers  mentre il lievito regala accenni di spezie, e quel mix di banana e rustico che a volte trovo stappando la Saison Dupont. DNA belga rispettato in pieno al palato: bollicine copiose, corpo medio, ottima scorrevolezza. Pane, crackers, un tocco di frutta a pasta gialla, agrumi canditi sono l’ago della bilancia di una birra dal un finale generosamente luppolato e secco, ricco di note erbacee, zesty e terrose. E’ il Belgio moderno che ammalia e seduce, quello che piace a me, quello da bere ad oltranza in estate e non solo.  Le manca un po’ di spavalderia, il suo abito è ancora un po’ ingessato e potrebbe essere ad esempio un po’ più ruffiana al naso. Ma l’esordio di Alder in territorio belga è degno di nota e la Hoppeland entra subito tra le migliori interpretazioni italiche. 
Nel dettaglio: 
Summer Job, 40 cl., alc. 5,0%, lotto 27/05/2020, scad.  27/09/2020, prezzo indicativo 5-6 euro (beershop)
Hoppeland, 40 cl., alc. 5,5%, lotto 10/07/2020, scad. 10/01/2021, prezzo indicativo 5-6 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

venerdì 11 settembre 2020

Bierol The Padawan

Del birrificio austriaco Bierol vi avevo già parlato in questa occasioneBierol, ovvero Bier and Tyrol, birra e tirolo; la regione dell’Austria non è certamente una destinazione ricercata dagli appassionati di birra artigianale, ma anche qui qualcosa sta lentamente cambiando. Ad Innsbruck i due locali del Tribaun rappresentano una bella oasi nel deserto e a Schwoich, settanta chilometri più a nord, vicino ai monti del Kaiser, è attivo dal 2014 il microbirrificio Bierol fondato da Christoph Bichler e Maximilian Karner. In realtà il padre di Bichler possedeva dal 2004 un impianto da 10 ettolitri nella stesso edificio rurale con annessa una piccola locanda-ristorante, lo Stöfflbräu: produceva le classiche helles  e weizen che la gente si aspettava di trovare. La morte improvvisa del suo birraio e un sostituto non all’altezza provocarono la chiusura del business. Il figlio Christoph non era molto interessato a proseguire l’attività del padre e si era dedicato a studiare legge; nel corso di una vacanza negli Stati Uniti assaggia però alcune IPA che cambiano completamente la sua concezione di birra.
Al ritorno trasmette il suo entusiasmo all’amico Maximilian Karner convincendolo ad andare a Monaco di Baviera ad un festival di birra artigianale per fargli assaggiare qualcosa di simile a quello che aveva bevuto in America. Dopo quell’esperienza i due amici si trovano d'accordo: perché non provare a rimettere in funzione l’impianto da 10 ettolitri del padre di Christoph che giace inutilizzato da nove anni? Nessuno dei due ha mai fatto la birra ma c’è il vecchio Bichler ad aiutarli a muovere i primi passi, ci sono i libri e c’è internet. Nel 2014 nasce Bierol alla quale si unisce  Marko Nikolic, commerciale e beer sommelier: la prima birra prodotta è una Lager ambrata con dry-hopping di Cascade chiamata Number One seguita dalla Mountain (Double) Pale Ale che risulterà essere la birra più votata dal pubblico del primo Craft Bier Festival di Vienna.  Da allora Bierol in quasi sei anni d’attività ha già realizzato 166 diverse etichette.  Potete assaggiarle direttamente alla fonte presso la Taproom & Restaurant che si trova adiacente agli impianti ed è gestita da Caroline Bichler, sorella di Christoph; otto spine affiancate dalla cucina dello chef Thomas Moser, coerente con le birre moderne che Bierol produce: non aspettatevi di mangiare Schnitzel, Gröstl e Kaiserschmarrn.  Qualche mese fa Maximilian Karner ha abbandonato il birrificio. 

La birra.
Gli appassionati di Star Wars avranno già rizzato le orecchie ma alla Bierol giurano che il nome scelto per questa loro  American Pale Ale non è assolutamente ispirato alla famosa saga.  Padawan non è colui che ha iniziato un addestramento sotto la guida di un Maestro Jedi ma semplicemente una “Pale Ale Doing Alright Without A Name”, ovvero una Pale Ale che sta bene anche senza nome. Il curioso acronimo fu scelto nel 2014 nel corso di un sondaggio online col quale il birrificio chiedeva suggerimenti per una Pale Ale ancora priva di nome.  La sua ricetta prevede malti Pilsner, Carahell, frumento, fiocchi d’avena e luppoli Mosaic e Citra a guidare le danze.  
Il suo colore ricorda quello  di un succo di frutta: la schiuma risente un po’ di questo voler essere contemporaneo e non è molto compatta. Sorvolando sull’estetica, c’è un bell’aroma, fresco e pulito, ricco di litchi, mango, ananas, arancio e pompelmo; in secondo piano profumi floreali e leggermente vegetali/resinosi. Un ottimo biglietto da visita.  L’avena le dona una bella morbidezza al palato che è tuttavia un po’ disturbata da un eccesso di bollicine, in questa bottiglia. Bierol la definisce “una birra per l’estate” e non posso che confermare: molto fruttata ma priva di inutili esagerazioni, prosegue il suo percorso tra agrumi e frutta tropicale in maniera un po’ meno definita rispetto all’aroma, caratteristica alla quale queste birre sottoposte a generosi DDH (Double Dry Hopping) ci hanno ormai abituato. La bevuta non è affatto deludente, tutt’altro: bella intensità, ottima secchezza, un finale amaro piuttosto delicato e corto che si sviluppa tra vegetale e resina senza mai grattare in gola. Ci vuole più tempo a descriverla che a berla. Dopo El Patron, un’altra ottima birra da Bierol: Padawan è una Pale Ale moderna e alla moda ma realizzata raziocinio e intelligenza. Ottima bevibilità, livello alto: siete in Tirolo e vi siete stancati di bere helles e weizen? Bierol è la risposta alla vostra domanda. 
Formato 33 cl., alc. 5.6%, IBU 45, lotto 706707, scad, 21/01/2021, prezzo indicativo 4,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 10 settembre 2020

Founders KBS Espresso

La KBS  - Kentucky Breakfast Stout  del birrificio Founders è una birra che ogni appassionato dovrebbe conoscere e che ha fatto un pezzo di storia della Craft Beer Revolution americana: ve l’avevo già raccontata qui. Nata nel 2002, è partita un po’ in sordina complice un mercato ancora poco ricettivo per queste birre “estreme” ma è riuscita poi a diventare un oggetto di culto. E’ stata una  delle prime birre per le quali le gente si accampava fuori dal birrificio per riuscire ad accaparrarsi qualche bottiglia. Founders ne ha aumentato anno dopo anno la produzione a  scapito della qualità, dicono quelli che l’avevano assaggiata quando era accessibile solo a pochi. Il birrificio di Grand Rapids ha poi ceduto nel 2014 il 30%  agli spagnoli della Mahou e nella propria “cantina”,  una ex-cava di gesso profonda 25 metri, si sono accumulati sempre più barili usati di bourbon. 
L’hype non va mai d ‘accordo con la quantità e di conseguenza quello per la KBS è andato pian piano scemando. L’interesse degli appassionati si è spostato verso altre Barrel Aged Imperial Stout e per riuscire a venderle tutte le bottiglie prodotte Founders ha iniziato a guardare anche oltre i confini della propria nazione. Nel 2015 la KBS arrivava per la prima volta in Europa e In Italia: da allora anche per noi è relativamente facile acquistarne ogni anno qualche bottiglia. Non sarà più la birra che era dieci anni fa, ma la KBS rappresenta tutt’ora una delle Barrel Aged Imperial Stout dal miglior rapporto qualità prezzo.
In un mercato costantemente alla ricerca di novità è invece abbastanza curioso che Founders non abbia mai sfruttato il marchio e il successo della KBS realizzandone molteplici varianti.  D’accordo, si tratta di una imperial stout già “ricca e golosa” in quanto prodotta con fave di cacao e caffè, ma ci sarebbe voluto davvero poco andando aggiungendo di volta in volta vaniglia, cocco, peperoncino o qualche altra spezia, prendendo come fanno la maggior parte dei birrifici americani. Di fatto esiste solamente la CBS - Canadian Breakfast Stoutriesumata nel 2018 dopo sette anni di assenza, che però ha un nome leggermente diverso.
Nel 2019 gli spagnoli di Mahou San Miguel hanno deciso di far valere l’opzione che consentiva loro, dopo cinque anni, di rilevare la maggioranza di Founders: la loro percentuale è salita al 90% lasciando a Mike Stevens e Dave Engbers, fondatori di Founders, solamente il 5% a testa.  E nello stesso anno il birrificio del Michigan ha rivoluzionato la propria Barrel Aged Series: la KBS viene resa disponibile tutto l’anno e non solamente a marzo, la CBS non viene più prodotta. 
Nel settembre dello scorso anno Founders annunciava l’arrivo della prima vera variante della KBS, chiamata Espresso e disponibile a partire da febbraio 2020. La sua messa in commercio è stata poi anticipata di qualche mese: vernissage al birrificio il 15 novembre e distribuzione in tutti gli Stati Uniti a partire da dicembre.  Racconta il birraio Jeremy Kosmicki: “ci siamo divertiti nell’invecchiare la KBS in diverse botti con grande successo, come quelle che avevano contenuto sciroppo d’acero; in altri casi, come con la salsa piccante, le cose non sono andate ugualmente bene.  Per la nostra prima variante ufficiale abbiamo deciso di potenziare un elemento che costituisce già il cuore di questa birra, il caffè. E non un caffè qualsiasi, ma quello torrefatto di nostri vicini di casa della Ferris Coffee & Nut di Grand Rapids. La KBS viene già prodotta con del caffè, ma questa variante dopo aver terminato l’invecchiamento nelle botti di bourbon viene fatta maturare con aggiunta di ulteriori chicchi di caffè espresso”.
Evidentemente alla Mahou San Miguel hanno deciso di rilanciare il marchio KBS seguendo, con colpevole ritardo, quello che stanno facendo tutti i birrifici americani.  Lo scorso giugno Founders ha infatti annunciato l’arrivo di una seconda variante di KBS, prevista per novembre e chiamata Maple Mackinac Fudge: sarà prodotta con sciroppo d’acero e fudge al caffè dell’isola di Mackinac, un vero e proprio paradiso nel Michigan per gli amanti del fudge, dei cavalli e delle biciclette.

La birra.

La KBS Espresso è arrivata anche in Europa con un lotto realizzato in un secondo momento ed imbottigliato lo scorso aprile. Vestita di nero, porta un sontuoso cappello di schiuma cremosa e compatta dall’ottima persistenza. Nessuna sorpresa al naso, dove domina effettivamente il caffè espresso, in forma liquida: l’accompagnano profumi di cioccolato fondente e vaniglia, orzo tostato, bourbon, legno e frutta sotto spirito. L’aroma è pulito e ancora molto intenso. Tutto procede per il meglio anche al palato: corpo quasi pieno ammorbidito da una sensazione tattile cremosa, quasi setosa: sorseggiarla non è affatto difficile. Il gusto non ripropone la precisione dell’aroma e non raggiunge profondità abissali, ma è comunque un gran bel bere. Caffè e bourbon sono protagonisti di una bevuta che parte dolce, arricchita da vaniglia, fudge e frutta sotto spirito per poi essere bilanciata dall’acidità proveniente dal caffè, abbastanza pronunciata: ed è forse questa la caratteristica che la differenzia maggiormente dalla KBS standard. C’è il cioccolato mentre  tostature e torrefatto sono meno evidenti del previsto ed il finale procede nella sua lunga scia avvolgente ed etilica di bourbon e caffè.   
Nel bicchiere non ci sono grandi emozioni ma a una imperial stout barricata dall’ottimo rapporto qualità prezzo: su questo niente da eccepire. Espresso è variante della KBS che amplifica ovviamente l’elemento caffè:  piccolo avvertimento per chi non ne ama l’acidità, che in questa birra si fa sentire abbastanza: orientatevi sulla KBS normale. 
Formato 35,5 cl., alc. 12%, IBU 70, lotto 23/04/2020, prezzo indicativo 8--10 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 7 settembre 2020

Finix Brewing: Lumberjack Lager & Grind NEIPA

Alto Adige e birra: per andare oltre la naturale l’associazione con la tradizione tedesca basta recarsi a Perca, nella splendida Val Pusteria.  E’ qui, in una stradina secondaria che porta ai campi sportivi di tennis e calcio, che l’americano Zacharias “Zeke” Maamouri-Cortez ha aperto nel 2015 il Riverside Gastropub. Zeke è nato nel Maine ed è arrivato in Alto Adige nel 2006, portato dall’amore per le montagne e per lo sci: si dilettava con l’homebrewing dai tempi del college ma in Südtirol mancavano spazi e materie prime per continuare. Si “consola” completando la scuola alberghiera a Bressanone per poi andare a farsi le ossa cucinando nelle cucine di diversi ristoranti tedeschi e italiani come lo stellato Schote di Nelson Müller ad Essen e il tri-stellato Rosa Alpina di Norbert Niederkofler in Val Badia.  Esperienze che si riveleranno fondamentali nel momento di inaugurare con la compagna Petra Töchterle il Riverside Gastropub e portare un pezzo degli Stati Uniti (BBQ ed Hamburger, per semplificare) in Südtirol: “volevo smarcarmi dall’offerta tradizionale di questo territorio.  Nel mio ristorante uno ci deve venire apposta, non ci si passa per caso. Se avessi servito canederli e cucina sudtirolese, la cosa non avrebbe funzionato. Ci sono tanti posti eccellenti in cui fermarsi prima di arrivare qui, e comunque non è quello che volevo fare. Neanche questa struttura, così moderna, si addice alla cucina tradizionale di questo territorio. Ci voleva qualcosa di nuovo per cui i clienti avrebbero scelto di recarsi precisamente qui, alla fine della strada, sulle rive del Rienzo e in questo locale dallo stile molto moderno. Ho proposto quello che io sono, la mia cultura e la cucina della mia tradizione”. 
Ma per completare il puzzle manca ancora un pezzo: la birra, quella autoprodotta.  Dal 2006 ad oggi le cose sono cambiate anche in Alto Adige, dove molti birrifici si sono uniti alla piccola rivoluzione della birra artigianale italiana.  Con il supporto di altri microproduttori, Zeke ha accesso alle materie prime e torna a produrre birra tra le mura domestiche.  Nel 2019 un garage adiacente al Gastropub viene ristrutturato e Zeke adatta ed assembla con le proprie mani i pezzi di un impianto da 3,5 ettolitri proveniente dal Nebraska: nasce Finix Brewing.  L’American Blond Ale Pamela e la berliner ai lamponi Circle Like A Square sono le birre del debutto affiancate da alcune versioni sperimentali di New England IPA destinate poi ad evolvere nella Grind, la NEIPA della casa, alla quale s’affiancano la Wildcatter Milk Stout e la Pilsner Lumberjack.
E negli Stati Uniti viene catapultato anche chi capita per caso sul loro sito ufficiale e non ha il tempo di buttare l’occhio sull’indirizzo: il sito è tutto in inglese, le birre sono offerte in lattina, hanno grafiche moderne, il webshop dispone già di merchandising come magliette e bicchieri. Siamo in Italia? 
La Craft Beer Revolution USA ha decretato il successo delle lattine sulle bottiglie e Finix si è già dotato di “mobile canning”, un sistema di inlattinamento itineranante che può quindi essere usato anche da altri birrifici.  Qualche settimana fa Finix ha infine inaugurato la propria Taproom nella zona pedonale di Brunico: dieci spine e tre frigoriferi che ospitano anche altri birrifici, con un posto di riguardo agli amici di Birra Del Bosco.

Le birre.

Finix vuole portale in Sudtirolo la Craft Beer americana ma paradossalmente gli Stati Uniti hanno (ri)scoperto da un po’ di tempo la tradizione tedesca: numerosi birrifici hanno infatti inserito tra le loro spine lager e pilsner.  Non è quindi una sorpresa che lo scorso maggio Finix abbia fatto debuttare Lumberjack (5%), una pilsner classica (luppoli Tettnanger e Hallertauer Mittelfruh) che promette però di avere un “american touch”. Il suo colore è dorato e leggermente velato, la schiuma è impeccabilmente candida, cremosa e compatta. I profumi di crosta di pane, miele, floreali, erbacei ed una delicata speziatura danno forma ad un aroma pulito ed abbastanza elegante: un bel biglietto da visita per un percorso che continua al palato senza divagazioni ma con qualche leggero calo d’intensità (acquoso) che poteva essere evitato. Discreta secchezza, buona pulizia ed un finale erbaceo che pulisce bene il palato: ma per avvertire l’american touch mi devo lasciar suggestionare da qualche impercettibile accenno agrumato. Una buona pils, piacevole e molto scorrevole, una birra entry level che potrebbe essere strategica nell’avvicinare molti bevitori locali avvezzi alla scuola tedesca. Si poteva però osare qualcosa in più.

La NEIPA Grind (7.5%) parla invece un linguaggio assolutamente contemporaneo, a partire dal suo color torbido che ricorda visivamente un succo di frutta. Al naso ci sono freschi ed intensi profumi tropicaleggianti, soprattutto di mango e di ananas, note resinose e dank ma anche qualche accenno al vegetale e al cipollotto che rovinano un po’ la festa. L’intensità e degna di nota mentre per quel che riguarda la pulizia ci sono ancora margini di miglioramento. Il mouthfeel è piuttosto gradevole, leggermente chewy come vuole la scuola del New England ma comunque scorrevole. La bevuta è ricca ed intensa, con frutta tropicale e pesca a definire una NEIPA intensa e ben bilanciata: c’è qualche spigolo nel percorso d’uscita, in quell’amaro vegetale e resinoso che gratta un po’ il palato e obbliga a dilungare un po’ il tempo d’attesa tra un sorso e l’altro.  L’alcool si fa sentire solo a fine corsa in questa NEIPA che non ha paura di essere amara mostrando determinazione ed un carattere un po’ scorbutico che avrebbe bisogno di qualche limatina.
Nel dettaglio: 
Lumberjack, 44 cl., alc. 5%, lotto 203515, scad. 05/2021, prezzo indicativo 5,00 euro (birrificio) 
Grind, 44 cl., alc. 7.5%, lotto 204424, scad.  02/2021, prezzo indicativo 5,00 euro (birrificio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 3 settembre 2020

BrewDog Indie Pale Ale

Quando si parla di un birrificio si dovrebbe parlare solo di birra ma nel caso di BrewDog le cose sono state sempre diverse. All’inizio c’erano le birre, ma gli scozzesi hanno rapidamente iniziato a far parlare di sé per le loro provocazioni, per le irriverenti operazioni di marketing e per altre iniziative nelle quali la birra era stata relegata in secondo piano. Una strategia che era forse necessaria in un primo periodo per rompere l’establishment della birra industriale inglese e che ha indubbiamente portato successo: BrewDog si dichiara ancora paladino dell’indipendenza e della Craft Beer nonostante abbia ormai raggiunto dimensioni ragguardevoli: un beer-hotel in Ohio (USA), una linea aerea, altri due piccoli hotel in Scozia, una cinquantina di BrewDog bar sparsi in tutto il mondo e cinque siti produttivi sparsi in Scozia (due ad Ellon), Germania (l’ex Stone Berlin), USA (Columbus, Ohio) e Australia.  
Ho incontrato per la prima volta BrewDog nel 2010 ed allora il mio palato era indubbiamente diverso: la mia esposizione alla birra artigianale era ancora limitata e le birre BrewDog mi sembravano estreme, potenti, aggressive. Esattamente quello che ti aspetti da un birrificio che proclama il punk e la rivoluzione. Mi sembravano o lo erano davvero?  Poi la rivoluzione di BrewDog si è espansa: per far girare gli impianti sempre più grandi è necessario vendere tanta birra e per farlo è necessario andare a pescare sempre più nel territorio dominato dalle anonime birre industriali. Portare i consumatori verso la più costosa Craft Beer non è semplice: bisogna conquistare il loro palato senza spaventarlo con prodotti estremi o troppo diversi da quelli che sono abituati a consumare. Le birre di BrewDog sono progressivamente divenute sempre più docili, le ricette sono state modificate e ammorbidite per avvicinarsi con più facilità ai consumatori. La loro birra più  iconica, la Punk IPA, è l’esempio perfetto. 
Le BrewDog degli ultimi anni mi sono sembrate sempre più anonime e un lontano ricordo di quello che erano.  Personalmente ho perso interesse verso il birrificio scozzese e probabilmente lo hanno fatto tanti altri appassionati della vecchia guardia. Un piccolo prezzo da pagare per poter continuare a crescere a e diventare una grande porta d’accesso per passare dal mondo industriale a quello artigianale? Certo, anche se per i vecchi nostalgici trovare una spina BrewDog in mezzo a tante industriali può ancora essere un’ancora di salvezza, in attesa di tempi migliori.

La birra.
E’ esattamente in quest’ottica che venne annunciata a gennaio del 2018 la nascita della nuova Indie Pale Ale. Non India, ma Indie: independent. Una “pale ale per il ventunesimo secolo, la nostra interpretazione della perfetta gateway beer: studiata per essere facile da comprare e da bere in ogni occasione. Una birra Ideale per chi voglia espandere i propri orizzonti: la utilizzeremo come trampolino di lancio carico di luppolo nel mondo della birra artigianale. La Indie Pale Ale è al tempo stesso un campanello d’allarme e uno squillo di tromba. La birra artigianale continuerà ad avanzare nel mercato solo se sarà accessibile a tutti: questa birra è la nuova arma per combattere le birre industriale insapori. Perché crediamo che una volta si sia attraversato il cancello non si posso più tornare indietro”. 
Per fare questo BrewDog progetta una nuova Pale Ale (4.2%) con malti biscotto e caramello, luppoli Columbus, Cascade e Simcoe.  Nel giorno del suo debutto, 11 gennaio, chiunque avesse taggato BrewDog con l’hashtag #DrinkIndie avrebbe avuto due mezze pinte di birra offerte nei vari BrewDog bar.  
Nel bicchiere si presenta di color dorato, leggermente velato, mentre la schiuma è  cremosa, compatta ed ha una buona persistenza. Pane, miele e cereali; l’aroma è tutt’altro che luppolato. Un po’ di mela verde completa un quadro poco entusiasmante e le molte poche bollicine non aiutano a riportare un po’ di entusiasmo a chi beve il primo sorso. La bevuta è figlia dell’aroma è quindi sono protagonisti i malti, dovrei dire: in realtà l’intensità è davvero ai minimi termini e quindi parlare di protagonismo è fuori luogo.  Un po’ d’amaro, nella forma di frutta secca a guscio, arriva alla fine di un percorso anonimo e deludente.  Ma è una chiusura poco secca e quindi poco dissetante, con una leggera patina dolciastra che rimane avvolta al palato.  
Ben vengano birre entry level per portare i bevitori di birra industriale dall’altra parte della barricata, ma questa lattina di Indie Pale Ale è equiparabile proprio ad un banale e insapore prodotto industriale, noioso e privo di carattere. Meglio allora risparmiare qualche centesimo e restare tra la braccia dell’industria. Siamo nel 2020 e si deve pretendere di più anche da una semplice gateway beer. Non so se la birra sia stata maltratta dalla distribuzione, ma l’impressione è che sia una delle tante anonime e deludenti birre alle quali ormai BrewDog ci ha purtroppo abituato.
Formato 33 cl., alc. 4.2%, lotto 03029 50,  scad. 11/09/2021, prezzo indicativo 2.00 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio